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Il crimen calumniae nella Magna Glossa accursiana con qualche nota sulla prima Età moderna

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Tiziana Ferreri

Il crimem calumniae nella Magna Glossa accursiana

con qualche nota sulla prima età moderna

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Calunnia ‘evidente’ e calunnia ‘presunta’ – 3. Profili di diritto processuale – 4. Il regime sanzionatorio del reato.

ABSTRACT: The research is addressed to the history of criminal law and process. Specifically, it analyzes the crimen calumniae regulation in the Corpus Juris Civilis and in the work considered as the maximum synthesis of the thought of the ‘Scuola della Glossa’ masters: the ‘Magna Glossa accursiana’. The study is compelling for the kind of subject in action in the crime, the accusator, for the context where it comes out, the process, and for the particular penalty applied, the similitudo

supplicii. The results of investigation show that the theories processed by the Glossators between the

XII and XIII centuries are the keystones of the legal thought and legislation of the following centuries.

KEYWORDS: Medieval Process – Slander – Accursio

1. Premessa

Nell’intento di svolgere una compiuta indagine sulla genesi e l’evoluzione di un

qualsivoglia istituto giuridico alla luce delle fonti e della dottrina medievale, non ci si

può non soffermare sull’opera tradizionalmente considerata la massima sintesi e la più

alta espressione della scientia legalis tra XII e XIII secolo: la Magna Glossa accursiana

1

. Il

pensiero espresso da Accursio nel suo grande apparatus rappresenta, infatti, l’esito del

percorso interpretativo svolto dai maestri della ‘Scuola della glossa’ che si accostarono

ai testi della compilazione giustinianea nell’intento di comprenderne appieno il dettato

e di comporre le antinomie che di volta in volta si presentavano

2

.

1 Per notizie e indicazioni bibliografiche su Accursio e la sua opera cfr. P. Fiorelli, Accorso, in Dizionario

Biografico degli italiani, I, Roma 1960, pp. 116-121; nonché, da ultimo, G. Morelli, Accursio (Accorso), in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani (XII-XX secolo) (d’ora in poi DBGI), I, Bologna 2013, pp. 6-9;

Ead.,Accursio, in G. Murano (cur.), Autographa. I.1. Giuristi, giudici e notai (sec. XII-XVI med.), Bologna

2012, pp. 15-19; N. Sarti, Accursio, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Il contributo italiano alla

storia del pensiero. Diritto, Roma 2012, pp. 47-50; a cui si aggiunga P. Weimar,Accursius, in M. Stolleis

(hrsg.), Juristen. Ein biographisches Lexikon. Von der Antike bis zum 20. Jahrhundert, München 2001, pp. 18-19. Sulla complessa questione riguardante la genesi e l’ordine di realizzazione dei vari apparati alle diverse parti del Corpus iuris civilis cfr. anche F. Mancuso,Per la datazione e l’ordine di realizzazione degli apparati accursiani. Due testimonianze, in “Studi Senesi”, CXII (2000), pp. 350-360. Per uno studio sulla

qualità e l’originalità dell’apparato accursiano al Digestum Vetus, anche rispetto al precedente apparatus

Iohannis et Azonis, si veda H.H. Jakobs, Magna Glossa: Textstufen der legistischen glossa ordinaria, Paderborn

2006. Una valutazione del lavoro di Jakobs e ulteriori riflessioni sulla formazione della Glossa accursiana in V. Colli, Considerazioni su Hermann Kantorowicz filologo, 87 anni fa, le sue Textstufen e Accursio al

tempo d’oggi, in “Rechtsgeschichte”, XIII (2008), pp. 47-59, con indicazioni bibliografiche.

2 Sulla scuola giuridica detta ‘della glossa’ o ‘dei glossatori’ (dal genere letterario di cui questi studiosi si servivano), si vedano, da ultimo, G. Chiodi, Lo ius civile: glossatori e commentatori, in Enciclopedia italiana cit., pp. 7-14, ivi bibliografia; M. Caravale, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Torino 2013, pp. 37-57, con ampia nota bibliografica. Sulla glossa e sugli altri generi letterari utilizzati dai maestri

(3)

In merito all’illecito oggetto d’interesse, già autorevole storiografia lo definiva come

“uno dei concetti più complessi che si trovino nel diritto romano, che si presenta sotto

aspetti diversi, preso in considerazione sia da leges, sia dall’editto pretorio, sia da

senatusconsulta, sia da costituzioni imperiali”

3

. Nell’antico ius romanorum, quindi, si

rivelavano molto numerosi i comportamenti e le ipotesi riconducibili alla più generale

fattispecie della calumnia che, sempre il Brasiello, suddivideva in tre tipologie: la

calumnia intesa quale resistenza volutamente vessatoria all’azione o azione giudiziaria

proposta a scopo vessatorio, nell’ambito del processo privato; la calumnia consistente

nell’operato di colui che riceveva denaro “ut calumniae causa negotium faceret, vel

non faceret”

4

; nonché, infine, la calunnia che indicava l’accusa fraudolenta attuata nel

processo criminale

5

.

È soltanto a quest’ultimo tipo di calunnia, vista più specificatamente quale

Anklägervergehen

6

, che si rivolge la presente ricerca, senza, peraltro, avere la pretesa di

esaurire appieno l’argomento, che ben si presterebbe ad ulteriori approfondimenti.

L’esegesi accursiana, in ogni caso, completa il quadro scientifico delineato dai giuristi

della Scuola della Glossa e pone sostanziali premesse all’elaborazione giurisprudenziale

e normativa dei secoli successivi

7

.

2. Calunnia ‘evidente’ e calunnia ‘presunta’

L’ormai ‘riscoperto’ Corpus iuris civilis consegnava ai iuris interpretes del XII secolo

una disciplina piuttosto variegata della calumnia criminale

8

. Con la persecuzione degli

bolognesi sempre fondamentale il saggio di A. Errera, Forme letterarie e metodologie didattiche nella scuola

bolognese dei glossatori civilisti: tra evoluzione ed innovazione, in F. Liotta (cur.), Studi di storia del diritto medioevale e moderno, Bologna 1999, pp. 33-106.

3 U. Brasiello, Calunnia (diritto romano), in Enciclopedia del diritto, V, Milano 1959, pp. 814-816, in particolare p. 814.

4 Cfr. Dig. 3.6 (De calumniatoribus). 5 U. Brasiello, Calunnia, cit., p. 814.

6 Cfr. E. Levy, Von der römischen Anklägervergehen, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte”, r.A., LIII (1933), pp. 151-233, rist. in Gesammelte Schriften, II, Köln-Graz 1963, pp. 379-461.

7 Per la regolamentazione del crimen calumniae nel Corpus iuris civilis e nell’elaborazione dottrinale dei maestri della Scuola della glossa sia civilistica, sino ad Azzone, che canonistica, sino ad Uguccione da Pisa, cfr. T. Ferreri, Ricerche sul crimen calumniae nella dottrina dei glossatori. Da Irnerio ad Azzone e da

Graziano a Uguccione da Pisa, Noceto (PR) 2010.

8 La disciplina del crimen calumniae, come quella dei connessi reati di praevaricatio e tergiversatio, ha subito in epoca romana una sostanziale evoluzione (o piuttosto una ‘involuzione’ dal punto di vista giuridico, come sottolinea la storiografia romanistica). In epoca repubblicana l’illecito di calunnia indicava la falsa accusa proposta con dolo. Tale significato si mantenne inalterato nel corso del principato ampliandosi in senso obiettivo nel tardo antico: dalla metà del III secolo d.C. in poi, perciò, venne a qualificarsi come calunniosa qualsiasi accusa desitutita di prova, a prescindere dal fatto che fosse dolosa o colposa. In proposito cfr. M. Lauria, Calumnia, in E. Albertario (cur.), Studi in memoria di U.

Ratti, Milano 1934, pp. 110-126 (= Studii e ricordi, Napoli 1983, pp. 255-268); U. Brasiello, Calunnia, cit.,

pp. 814-816; S. Pietrini, Sull’iniziativa del processo criminale romano (IV-V secolo), Milano 1996, pp. 91-96; D.A. Centola, Il crimen calumniae. Contributo allo studio del processo criminale romano, Napoli 1999, pp. 107-110 e, in generale, il cap. 3; Id., In tema di responsabilità penale nella legislazione tardoimperiale, in “Studia et documenta historiae iuris”, LXVIII (2002), pp. 567-570; A.M. Giomaro, Per lo studio della calumnia.

(4)

illeciti compiuti dall’accusatore in sede processuale, infatti, si voleva ovviare alle

disfunzioni generate da un procedimento giudiziario a prevalente carattere accusatorio

in cui l’esercizio del magistero penale risultava affidato alla libera iniziativa dei

cittadini, che avevano anche l’onere di produrre in giudizio le prove sufficienti a

suffragare l’accusa (onus probandi)

9

.

I punti salienti della normativa, sia sostanziale che processuale, riguardante il crimen

calumniae si rinvengono nel titolo 9.46 del Codice (De calumniatoribus) e nella prima

parte della rubrica 48.16 del Digesto, dedicata ai contenuti del senatusconsultum

Turpillianum (Ad senatus consultum Turpillianum et de abolitionibus criminum). Fu, infatti,

proprio con questo provvedimento che, durante l’età del principato, si intervenne per

regolamentare alcuni aspetti del processo e per reprimere quei comportamenti che ne

impedivano il regolare svolgimento: si punì la desistenza dall’accusa, si estesero le

sanzioni previste per la calumnia e si perseguirono una serie di ulteriori comportamenti

considerati calunniosi

10

.

Nel paragrafo iniziale di Dig. 48.16 è tramandato un lungo passo del liber singularis

ad senatusconsultum Turpillianum, compilato dal giureconsulto Marciano, dove si trovano

sinteticamente enunciati quelli che la scientia iuris medievale considererà i capisaldi

giuridici della materia. La fonte si apre con la definizione degli illeciti ritenuti

manifestazione della temeritas degli accusatori in sede criminale: la calumnia,

letteralmente la falsa accusa di un reato (calumniari est falsa crimina intendere), la

praevaricatio, che designa l’accordo, concluso tra accusator e reus, caratterizzato dalla

formulazione di un’accusa fatta allo scopo di prevenirne un’altra più grave (praevaricari

vera crimina abscondere), e la tergiversatio, che indica l’ingiustificato abbandono dell’accusa

promossa (tergiversari in universum ab accusatione desistere)

11

. In Dig. 48.16.1.2 si richiama la

legge che sanziona il reato di calunnia (la lex Remmia)

12

, mentre nel passo

immediatamente successivo si trovano descritte le circostanze in base alle quali la falsa

accusatio può essere considerata e punita quale crimen calumniae. In Dig. 48.16.1.3-5 si

precisa, infatti, che la semplice accusa non provata in giudizio non può far subito

(protinus) ritenere che sia stata commessa una calunnia, perché il giudice, una volta

Aspetti di deontologia processuale in Roma antica, Torino 2003, pp. 166-168, 194-196.

9 Sul processo penale d’epoca romana si veda B. Santalucia, Processo penale (diritto romano), in Enciclopedia

del diritto, XXXVI, Milano 1987, pp. 318-359.

10 Sul senatoconsulto Turpilliano, emanato nel 61 d.C., cfr. D.A. Centola, Il crimen calumniae, cit., pp. 71-72, nonché p. 69 n. 16 per indicazioni bibliografiche. Sull’origine di questo provvedimento anche G. Purpura, Il papiro BGU.611 e la genesi del sc. Turpilliano, in “Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo”, XXXVI (1976), pp. 219-251.

11 Cfr. Dig. 48.16.1pr. e 1: “Accusatorum temeritas tribus modis detegitur et tribus poenis subicitur: aut enim calumniantur aut praevaricantur aut tergiversantur. Calumniari est falsa crimina intendere, praevaricari vera crimina abscondere, tergiversari in universum ab accusatione desistere”.

12 Cfr. Dig. 48.16.1.2 : “Calumniatoribus poena lege Remmia irrogatur”. L’antica lex Remmia de

calumniatoribus, risalente intorno all’80 a.c., costituirebbe la principale norma sul crimen calumniae in età

repubblicana. Su tutto quanto riguarda questa legge e soprattutto sulle questioni ancora dibattute in dottrina (ad esempio la sua datazione o la sua identificabilità con una lex Memmia), si veda J.G. Camiñas, La lex Remmia de calumniatoribus, Santiago de Compostela 1984; Id., Le crimen calumniae dans la

lex Remmia de calumniatoribus, in “Revue internationale des Droits de l’antiquité”, 37 (1990), pp.

117-133, che fa il punto sulle conclusioni raggiunte dalla storiografia; più di recente, D.A. Centola, Il crimen

(5)

‘assolto’ il reus postulatus (reo absoluto), deve accertare le ragioni che hanno indotto

l’accusatore a formulare l’accusa infondata (de accusatoris incipit consilio quaerere, qua mente

ductus ad accusationem processit) e soprattutto che non abbia commesso alcun errore

scusabile (iustus). In quest’ultimo caso il falso accusator non potrà essere condannato

quale calumniator (si quidem iustum eius errorem reppererit, absolvit eum); cosa che accadrà,

invece, qualora venga riscontrata la commissione di una calumnia ‘evidente’ (si vero in

evidenti calumnia eum deprehenderit, legitimam poenam ei inrogat)

13

.

Il testo si conclude con l’indicazione delle formule che devono essere pronunciate

dal magistrato all’esito del iudicium de calumnia. Per la condanna l’espressione:

“calumniatus es”; mentre per l’assoluzione le parole: “non probasti” o anche “temere

accusasse videtur”. Al pari dell’accusa viziata da errore, infatti, anche quella presentata

per temerarietà, nel senso di avventatezza e irresponsabilità, o ancora in un insensato

moto di rabbia, non viene valutata né sanzionata quale calunnia. Secondo Marciano,

che si rifà in questo caso a Papiniano, il comportamento colposo dell’accusatore che

agisce senza aver adeguatamente valutato le prove necessarie a suffragare l’accusa non

deve essere considerato alla stregua di una vera e propria calunnia, perché manca lo

specifico intento di causare un danno all’accusato (Et Papinianus temeritatem facilitatis

veniam continere et inconsultum calorem calumniae vitio carere et ob id hunc nullam poenam subire

oportere)

14

. La temeritas, espressione di negligenza o sconsideratezza

15

, come anche

l’irragionevole impeto d’ira, escludono, quindi, il vitium calumniae e di conseguenza

l’esistenza stessa dell’illecito, per il verificarsi del quale è chiaro, a questo punto,

occorra la deliberata intenzione vessatoria.

Specificare che la semplice mancata prova dell’accusa non deve subito (protinus) far

pensare alla commissione di una calumnia, perché il giudice deve preliminarmente

accertare il consilium dell’accusatore, equivale ad escludere che il reato possa essere

perseguito a titolo di responsabilità oggettiva. In altri termini, secondo questa

impostazione, la pronuncia assolutoria del reus postulatus non conduce l’accusatore ad

13 Cfr. Dig. 48.16.1.3: “Sed non utique qui non probat quod intendit protinus calumniari videtur: nam eius rei inquisitio arbitrio cognoscentis committitur, qui reo absoluto de accusatoris incipit consilio quaerere, qua mente ductus ad accusationem processit, et si quidem iustum eius errorem reppererit, absolvit eum, si vero in evidenti calumnia eum deprehenderit, legitimam poenam ei irrogat”.

14 Cfr. Dig. 48.16.1.4-5: “Quorum alterutrum ipsis verbis pronuntiationis manifestatur. Nam si quidem ita pronuntiaverit ‘non probasti’, pepercit ei: sin autem pronuntiavit ‘calumniatus es’, condemnavit eum. Et quamvis nihil de poena subiecerit, tamen legis potestas adversus eum exercebitur: nam, ut Papinianus respondit, facti quidem quaestio in arbitrio est iudicantis, poenae vero persecutio non eius voluntati mandatur, sed legis auctoritati reservatur. Quaeri possit, si ita fuerit interlocutus: ‘Lucius Titius temere accusasse videtur’, an calumniatorem pronuntiasse videatur. Et Papinianus temeritatem facilitatis veniam continere et inconsultum calorem calumniae vitio carere et ob id hunc nullam poenam subire oportere”. Per ulteriori considerazioni su questo testo si rimanda a T. Ferreri, Ricerche

sul crimen calumniae, cit., pp. 13-17.

15 Si noti che nel testo di Dig. 48.16.1.1 Marciano si serve del termine temeritas per qualificare il comportamento illecito dell’accusator, mentre in quello di Dig. 48.16.1.5 per indicare una circostanza idonea ad escluderlo. Per gli storiografi tale imprecisione terminologica è dovuta al diverso concetto di

temeritas usato dal giurista nei due casi: in senso generale e poco tecnico nel primo, più specifico nel

secondo, proprio ad indicare la superficialità e, quindi, la mancanza di intenzionalità nel comportamento del falso accusatore (cfr. J.C. Camiñas, La lex Remmia, cit., pp. 34-36; D.A. Centola, Il

crimen calumniae, cit., pp. 113-115; A.M. Giomaro, Per lo studio della calumnia, cit., pp. 18-27; M. Lauria, Calumnia, cit., in Studi, cit., p. 115 [= Studii e ricordi, cit., p. 259]).

(6)

essere dichiarato e condannato ipso iure quale calunniatore: questo potrà avvenire solo

previo accertamento da parte del giudice delle circostanze che hanno concorso alla

realizzazione dell’illecito e soprattutto di quelle legate alla coscienza dell’agente.

Conforme al dettato di questa fonte si rivela anche il contenuto di un rescritto

dell’imperatore Alessandro Severo tramandato nel terzo passo del titolo 9.46 del

Codice. In Cod. 9.46.3 si legge, infatti, che l’accusatore non deve ritenersi calunniatore

per il solo fatto che l’accusato è stato assolto (Non enim, si reus absolutus est, ex eo solo

etiam accusator), perché potrebbe aver avuto una buona ragione per intraprendere

l’azione penale e non necessariamente un intento vessatorio (qui potest iustam habuisse

veniendi ad crimen rationem, calumniator credendus est)

16

. Anche in questo caso l’assoluzione

dell’accusato non viene ritenuta sufficiente per giudicare come calunniatore il falso

accusator, che qui sfugge alla condanna ex calumnia per aver intrapreso l’azione penale

per una iusta ratio, considerata di per sé incompatibile con la consapevole volontà di

calunniare

17

.

L’orientamento espresso nei due testi di Dig. 48.16.1.1-5 e Cod. 9.46.3, che

attribuisce al dolo un ruolo determinante in relazione alla configurazione e sanzione

del crimen calumniae, viene pienamente recepito dagli esegeti della Scuola della glossa

che, già a partire dall’epoca di Irnerio

18

, non ebbero alcun dubbio a ritenere necessario

per la consumazione dell’illecito accanto all’aspetto materiale dell’accusa falsa o non

provata, anche quello soggettivo della mala fede. Si reputò, quindi, crimen calumniae la

sola falsa accusa perpetrata con dolo e per rendere maggiormente esplicita la natura

intenzionale del reato, da considerare sottintesa alla sua nozione sostanziale, la scelta

interpretativa dei glossatori fu quella di arricchire stabilmente la definizione marcianea

di calummnia quale falsa crimina intendere con l’avverbio scienter

19

.

Di questa pacifica opinione è testimone la Magna Glossa accursiana. E così nella

chiosa che introduce i contenuti del titolo 9.46 del Codice si legge che il calumniator è

colui “qui falsa crimina scienter intendit”

20

, mentre ad annotare il testo di Dig.

48.16.1.1 si legge:

[Dig. 48.16.1.1] ad v. intendere: Accusatorum. Calumniari, crimina intendere: scilicet scienter,

16 Cfr. Cod. 9.46.3: “Qui non probasse crimen quod intendit pronuntiatur, si calumniae non damnetur, detrimentum existimationis non patitur. Non enim, si reus absolutus est, ex eo solo etiam accusator, qui potest iustam habuisse veniendi ad crimen rationem, calumniator credendus est”. Su questo testo più ampiamente T. Ferreri, Ricerche sul crimen calumniae, cit., pp. 18-19, nonché ad indicem.

17 Sul punto anche S. Pietrini, Sull’iniziativa del processo criminale, cit., p. 92 nt. 125.

18 Notizie e indicazioni bibliografiche su Irnerio, la sua opera e soprattutto sul suo ruolo di ‘iniziatore’ nel XII secolo della Scuola giuridica detta ‘della Glossa’, si veda, da ultimo, E. Cortese, Irnerio, in DBGI, I, pp. 1109-1113; nonché E. Spagnesi, Irnerio,in Enciclopedia italiana, cit., pp. 43-46; Id., Libros

legum renovavit. Irnerio lucerna e propagatore del diritto, Pisa 2013.

19 In proposito si veda T. Ferreri, Ricerche sul crimen calumniae, cit., principalmente il cap. I, nonché pp. 98-99 per le conclusioni.

20 Cfr. Accursio, Glossa in Codicem ed. Venetiis 1488 (rist. anast. in Corpus Glossatorum Juris Civilis, X, Augustae Taurinorum 1968), f. 287va: [Cod. 9.46 ‘De calumniatoribus’] ad vv. De calumniatoribus: “Calumniator est qui falsa crimina scienter intendit, ut ff. ad Turpil‹lianum› l.i (Dig. 48.16.1) et de qua si criminaliter agitur in talione est pena, ut supra de act‹usationibus› l. fi. (Cod. 9.2.17), si ciuiliter pecuniaria, ut supra de epis‹copis› et cle‹ricis› Si qua per calum‹niam› in prin. (Cod. 1.3.22)”.

(7)

ad quod supra de infa‹mia› l. Athletas § calumniator (Dig. 3.2.4.4)21.

Superata la precisazione riguardante la natura del reato, Accursio rimanda a quanto

affermato a corredo della fonte di Dig. 3.2.4.4. Nella parte iniziale di questo

frammento del Digestum Vetus, infatti, si specifica che è calunniatore solo chi viene

effettivamente condannato come tale, non essendo sufficiente a ciò il semplice fatto di

aver ‘calunniato’, nel senso di aver presentato in giudizio un’accusa infondata

(Calumniator ita demum notatur, si fuerit calumniae causa damnatus: neque enim sufficit

calumniatum)

22

. Ed è proprio nell’apparatus che accompagna il testo di Dig. 3.2.4.4 che,

dopo una piccola glossa, non particolarmente significativa, allegata al lemma

‘Calumniator’

23

, il giurista si sofferma a lungo sulla calumnia criminale. La glossa,

peraltro, appare inserita in una sedes piuttosto insolita per l’argomento, visto che si

legge di seguito al commento elaborato dal giurista a quella parte del testo di Dig.

3.2.4.4 in cui si tratta della praevaricatio, l’altro illecito che può essere compiuto in sede

processuale dall’accusator.

Per la parte che qui interessa, comunque, la suddetta chiosa così corre:

[Dig. 3.2.4.4] ad vv. ex utraque: …Item nota quod calumniator est qui falsa crimina scienter intendit, ut infra ad Turpil‹lianum› l. i in principio (Dig. 48.16.1.1), et dicitur quis calumniari eo ipso quod non probat quod intendit, ut C. de aduo‹catis› di‹uersorum› iu‹diciorum› l. i (Cod. 2.7.1) et de pena iudi‹cis› in auct. nouo iure (Auth. post Cod. 7.49.1) et infra de testi‹bus› l. iii § idem diuus (Dig. 22.5.3.3), nisi officii necessitas eum excuset, ut C. qui ac‹cusare› non pos‹sunt› l. ii (Cod. 9.1.2) et infra de hiis quibus ut indig‹nis› l. Tutorem (Dig. 34.9.22), uel personarum nimia proximitas, ut C. de calum‹niatoribus› l. Mater et l. Calumnie (Cod. 9.46.2-4), uel auctoritas eius cui successit, ut C. de calum‹niatoribus› l. Mater § si extraneus (Cod. 9.46.2.1) et infra de bo‹nis› li‹bertorum› Qui cum maior § fi. (Dig. 38.2.14.11), uel damnum rei familiaris, ut predicta l. Qui cum maior § si patris (Dig. 38.2.14.7), uel intimus dolor admissi criminis, ut in marito et eius cognato de adulterio accusantibus, ut C. de adul‹teriis› l. Quamuis adulter (Cod. 9.9.29[30]), uel delicti enormitas ut facilius quis ad accusationem eius prosiliat, ut C. de fal‹sa› mo‹neta› l. i ibi et cum accusatoribus et caetera (Cod. 9.24.1.1) et in auten. de non ali‹enandis› § fi. collatione secunda (Coll. II.1=Nov. 7ep.), et in hiis predictis casibus et similibus potest exaudiri quod dicitur infra ad Turpil‹lianum› l. i § i (Dig. 48.16.1.1): non enim utique qui non probat et caetera, ut C. de calum‹niatoribus› l. Qui non probasse (Cod. 9.46.3), uel ita intellige sed non utique qui non probat et caetera q.d. non est necessarium argumentum, non probat ergo calumniator, potest etiam esse contra licet sit probabile argumentum, bene dico non esse necessarium, iudex enim reo absoluto incipit querere de consilio accusatoris, an animo calumniandi accusauit et si inuenit eum fuisse in iusto errore absoluet eum, si uero in calumnia euidenti condemnet eum in

21 Accursio, Glossa in Digestum Novum, ed. Venetiis 1487 (rist. anast. in Corpus Glossatorum Juris Civilis, IX, Augustae Taurinorum 1968), f. 237rb. Edizione visibile in formato digitale sul sito della Bayerische StaatsBibliothek di Monaco (http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0007/bsb00072657/image_1 et cet.).

22 Si veda per esteso il testo di Dig. 3.2.4.4: “Calumniator ita demum notatur, si fuerit calumniae causa damnatus: neque enim sufficit calumniatum. Praevaricator autem est quasi varicator, qui diversam partem adiuvat prodita causa sua: quod nomen Labeo a varia certatione tractum ait, nam qui praevaricatur, ex utraque parte constitit, quin immo ex adversa”. Sull’illecito di praevaricatio cfr. T. Ferreri, Ricerche sul crimen calumniae, cit., passim e, in particolare, il capitolo IV.

23 Accursio, Glossa in Digestum Vetus, ed. Venetiis 1488 (rist. anast. in Corpus Glossatorum Juris Civilis, VII, Augustae Taurinorum 1969), f. 50vb: [Dig. 3.2.4.4] ad v. Calumniator: “damnatus si enim iudex dixit: calumniatus es, notauit eum, si sic: non probasti, pepercit ei, ut infra ad turpil. l. i § i (Dig. 48.16.1.1) et facit infra eodem l. non alia”.

(8)

similitudine supplicii … Sed alii dicunt neminem presumi calumniatorem nisi demum probetur contra quos sunt predicta argumenta … Accursius florentinus24.

Il passo ricorda chiaramente i contenuti della Summa Codicis azzoniana, pur non

ricalcandone pedissequamente il testo

25

. L’autore muove dalla preliminare – quanto

24 Accursio, Glossa in Digestum Vetus, ed. cit., ff. 50vb-51ra.

25 Al fine di consentire un raffronto immediato tra i testi delle due opere si riporta il corrispondente passo della Summa Codicis di Azzone: [in rubr. tit. ‘De calumniatoribus’ (Cod. 9.46)]: “Uidendum ergo quid sit calumniari et quando debeat quis de calumnia puniri et que sit calumniatoris pena et qualiter imponatur. Calumniari est falsa crimina intendere subaudi scienter, ut ff. ad Turpillianum l. i § Calumniari (Dig. 48.16.1.1). Punitur quis de calumnia quando non probauit crimen. Nam hoc ipso uidetur calumniatus, ut supra de aduoca‹tis› di‹uersorum› iudi‹ciorum› l. i (Cod. 2.7.1) et ff. de testi‹bus› l. iii § Item diuus (Dig. 22.5.3.3) et supra de famosis libellis l. i in fi. (Cod. 9.36.2[1].3) et supra ad l‹egem› Iul‹iam› de vi publica l. Si quis fundum (Cod. 9.12.7) et de fruc‹tibus› et lit‹is› expen‹sis› l. Non ignorat (Cod. 7.51.4) et de pena iudi‹cis› qui male iudi‹cavit› auten. nouo iure (Auth. post Cod. 7.49.1). Nam aliud presumere suadeat mihi officii necessitas, ut supra qui accu‹sare› non pos‹sunt› l. ii (Cod. 9.1.2) et ff. de his quibus ut indignis l. Tutorem (Dig. 34.9.22). Personarum nimia proximitas, ut infra eodem Mater et l. Calumnie (Cod. 9.46.2 e 4). Eius cui successit auctoritas, ut infra eodem Mater § Sed extraneus (Cod. 9.46.2.1) et ff. de bonis lib‹ertorum›, Qui cum maior § ult. (Dig. 38.2.14.11). Damnum rei familiaris, ut ff. de bonis liber‹torum›, Qui cum maior § Si patris (Dig. 38.2.14.7). Intimus dolor admissi criminis, ut in marito et eius cognato de adulterio accusantibus, ut supra ad l‹egem› Iul‹iam› de adul‹teriis› l. Quamuis adulterii (Cod. 9.9.29[30]). Et quandoque enormitas delicti ut quis facilius ad eius accusationem prosiliat, ut supra de falsa mone‹ta› l. i ibi Accusatoribus etiam (Cod. 9.24.1.1). Et in his casibus et similibus potest exaudiri quod dicitur ff. ad Turpil‹lianum› l. i § Calumniatoribus (Dig. 48.16.1.2): sed nec enim utique qui non probat statim calumniari videtur, quod dicitur infra eodem Qui non probasse (Cod. 9.46.3), vel ita intellige sed non utique qui non probat quasi deberet non est necessarium argumentum, non probat ergo calumniator, potest enim esse contrarium licet sit probabile arg‹umentum›. Iudex enim reo absoluto incipit querere de consilio accusatoris qua mente ductus ad accusationem processit et si quidem iustum errorem eius reperit absoluit eum. Si vero in euidenti calumnia deprehenderit eum legitimam penam ei irrogat, ut in predicta l. i ad Turpil‹lianum› continetur (Dig. 48.16.1.3)” (Azzone, Summa Codicis, ed. Papie 1506 [rist. anast. in Corpus Glossatorum

Juris Civilis, II, Augustae Taurinorum 1966], p. 343a). Su Azzone, ritenuto uno dei massimi esponenti

della Scuola della glossa civilistica, e la sua Summa Codicis cfr., da ultimo, E. Conte – L. Loschiavo,

Azzone, in DBGI, I, pp. 137-139, ivi bibliografia.

Sempre in merito alle fonti utilizzate da Accursio nella redazione del suo apparatus magnus, si osservi, inoltre, che della stessa lunga glossa accursiana non è stata riscontrata la presenza, almeno per i codici esaminati, né nell’apparato di glosse al Digestum Vetus di Azzone, né in quello di Ugolino de’ Presbiteri. Per l’apparatus azzoniano sono stati esaminati i seguenti manoscritti: - B. 680 della Kungliga Biblioteket di Stoccolma (su questo codice e sulla presenza dell’apparato azzoniano nel terzo strato cfr. G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, Frankfurt am Main 1972, II, ad

vocem); - Jur. 11 della Staatsbibliothek di Bamberg (su questo codice e sulla presenza dell’apparato

azzoniano nel primo strato cfr. G. Dolezalek, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, Frankfurt am Main 1972, I, ad vocem); - Vat. lat. 1408 della Biblioteca Apostolica Vaticana (su questo codice e sulla presenza dell’apparato azzoniano nel secondo strato cfr. G. Dolezalek, Verzeichnis, cit., II, ad vocem; ulteriori indicazioni bibliografiche su questo codice in T. Ferreri, Ricerche sul crimen

calumniae, cit., p. 210 n. 219); - Clm 3887 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (su questo codice

e sulla presenza dell’apparato azzoniano nel primo strato cfr. G. Dolezalek, Verzeichnis, cit., II, ad

vocem); - Clm 14028 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (su questo codice e sulla presenza

dell’apparato azzoniano cfr. G. Dolezalek, Verzeichnis, cit., II, ad vocem). Per l’apparato di Ugolino de’ Presbiteri è stato consultato il ms. lat. 4461 della Bibliothèque Nationale di Parigi (sulla presenza in questo codice dell’apparato di Ugolino de’ Presbiteri al Digestum Vetus cfr. G. Dolezalek, Hugolinus,

Apparatus ad Digestum Vetus, in Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, Frankfurt am

(9)

essenziale – definizione del reato (calumniator est qui falsa crimina scienter intendit), per

passare subito dopo a teorizzare un principio che appare in parte diverso dal concetto

di illecito appena formulato, soprattutto in merito alla scienza e malizia quali suoi

elementi costitutivi, ovvero: “et dicitur quis calumniari eo ipso quod non probat quod

intendit”. Con queste preliminari affermazioni (Item nota quod calumniator est qui falsa

crimina scienter intendit ... et dicitur quis calumniari eo ipso quod non probat quod intendit),

Accursio sembra voler rispondere ai due quesiti che già Azzone aveva anteposto alla

trattazione della quaestio, ovvero: “quid sit calumniari et quando debeat quis de

calumnia puniri”

26

.

Premessa la nozione sostanziale del crimen, infatti, perfettamente valida in linea

teorica, occorre stabilire quali siano in concreto le circostanze in base alle quali la falsa

accusatio può essere sanzionata come calunnia, soprattutto perché non sempre facile

può risultare in giudizio accertare l’esistenza dell’intento doloso dell’accusatore. Questa

problematica si poneva agli interpreti, anche per la necessità di conciliare con la natura

intenzionale del reato tramandata nei testi di Dig. 48.16.1.3 e Cod. 9.46.3, la lettera di

una serie di ulteriori disposizioni giustinianee nelle quali la calunnia veniva sanzionata

in forza di una responsabilità di tipo oggettivo

27

. In effetti, nel testo di Cod. 2.7.1

28

, in

relazione alla mancata prova dell’accusa di praevaricatio, in quello di Dig. 22.5.3.3

29

e

nell’Authentica post Cod. 7.49.1

30

, si perseguiva come calunnia l’accusa che non

conduceva alla diretta condanna del reus postulatus, a prescindere dalla valutazione circa

l’aspetto intenzionale.

Non solo. Non si poteva non prendere atto, inoltre, che sempre nel Corpus iuris

DBGI, II, pp. 1194-1197, ivi bibliografia.

26 Così Azzone introduce il titolo della sua Summa Codicis dedicato ai calunniatori e riportato per esteso nella nota immediatamante precedente.

27 Le stesse norme sono testimoni dell’evoluzione in senso oggettivo dell’illecito di calunnia nel tardo antico. Sul punto si rimanda alle indicazioni bibliografiche fornite supra n. 8.

28 Cod. 2.7.1: “Si patronum causae praevaricatum putas et impleveris accusationem, non deerit

adversus eum pro temeritate commissi sententia, atque ita de principali causa denuo quaeretur. Quod si non docueris praevaricatum, et calumnia notaberis et rebus iudicatis, a quibus non est provocatum, stabitur”.

29 Dig. 22.5.3.3: “Idem Divus Hadrianus Iunio Rufino proconsuli Macedoniae rescripsit testibus se, non testimoniis crediturum. Verba epistulae ad hanc partem pertinentia haec sunt: ‘Quod crimina obiecerit apud me Alexander Apro et quia non probabat nec testes producebat, sed testimoniis uti volebat, quibus apud me locus non est (nam ipsos interrogare soleo), quem remisi ad provinciae praesidem, ut is de fide testium quaereret et nisi implesset quod intenderat, relegaretur’”.

30 Auth. post Cod. 7.49.1 (Coll. IX.5 = Nov. 124.2): “Nouo iure, qui dicit se dedisse alicui uel promisisse, et personam declarauerit, et hoc probauerit: ueniam meretur, sed qui accepit uel promissionem suscepit, si causa pecuniaria sit: dati triplum, promisi duplum a comite priuatarum rerum exigatur, dignitate seu cinculo amisso. Si uero criminalis causa fuerit confiscatis omnibus bonis, in exilium mittatur. Sed si datum uel promissum probare litigator nequiuerit: persona, quae dicitur suscepisse, iuret, quod neque per se, neque per aliam personam accepit, aui promissionem habuit: et sic libera sit. Sed litigator, qui ostendere non potuit, in causa pecuniaria aestimationem litis a comite rerum priuatarum exigatur, lite sustinente proprium euentum in criminali bonis omnibus confiscatis causis apud conpetentem iudicem legitime terminandis. Sed si persona a litigatore manifestata praedictum iusiurandum refutauerit: memoratis subiacet poenis. Sed si quis litigantium iurauerit se non dedisse uel promisisse: si intra decem mensem post sententiam memoratam ostendatur dedisse uel promisisse, memoratis poenis dantes et accipientes subiacebunt”.

(10)

civilis si trovava tutta una serie di norme nelle quali l’accusatore che presentava in

giudizio una falsa accusatio era scusato dalla sussistenza di particolari circostanze

subiettive o dalle condizioni personali in cui veniva a trovarsi all’atto di presentare

l’accusa. È questa una particolare categoria di personae cui la legge giustinianea

consentiva di esercitare il diritto d’accusa sine metu calumniae, ovvero senza incorrere nel

rischio di subire una condanna per calumnia qualora l’accusa si fosse rivelata

infondata

31

, Tra questi soggetti vi sono coloro che promuovono l’accusa in esecuzione

dei doveri inerenti al loro ufficio (...nisi officii necessitas eum excuset...), come i tutori e i

curatori, responsabili della cura e tutela dei beni e della persona dell’incapace

32

.

Seguono le ipotesi rappresentate dalla madre e dal figlio che agiscono in giudizio per

perseguire i presunti colpevoli della morte dei loro congiunti (…uel personarum nimia

proximitas…)

33

, e le accuse esercitate in esecuzione degli obblighi derivanti dai rapporti

successori: sono questi i casi dell’heres extraneus (...uel auctoritas eius cui successit...) che,

raccogliendo il sospetto indicatogli da colui che sta per morire, accusa il presunto

omicida del suo dante causa

34

, e del damnum rei familiaris

35

. Viene anche giustificato chi

accusa accecato da un forte dolore, perdendo in quel momento la lucidità necessaria a

valutare le conseguenze delle proprie affermazioni, come, ad esempio, il marito che

accusa la moglie presumibilmente adultera (…uel intimus dolor admissi criminis...)

36

, e, da

31 Su questa categoria di persone, qualificabili come exceptae, in diritto romano, si veda la bibliografia citata in T. Ferreri, Ricerche sul crimen calumniae, cit., p. 47 e n. 94.

32 Sui tutori e sui curatori cfr. Cod. 9.1.2: “Si cautiones, quibus Secundinus solutam Ingenuo pecuniam probare se dicit, tutores vel curatores tui suspectas ut falsas habent, proprio nomine, cum non liceat alieno, non prohibentur in crimine falsi subscribere. Nec enim facile tutores vel curatores, qui officio periculo suo res pupillorum vel adulescentium administrant, sententia notantur, nisi evidens eorum calumnia iudicanti apparebit” e Dig. 34.9.22: “Tutorem, qui pupilli sui nomine falsum vel inofficiosum testamentum dixit, non perdere sua legata, si non optinuerit, optima ratione defenditur et, si libertum patris pupilli sui nomine capitis accusaverit, non repelli a bonorum possessione contra tabulas, quia officii necessitas et tutoris fides excusata esse debet. Nec quisquam iudicium calumnia notabit tutorem, qui non suis simultatibus accusationem sub nomine pupilli instituit, sed cogente forte matre pupilli vel libertis patris instantibus. Et si tutor reum aliquem postulaverit pupilli nomine et ideo non sit exsecutus, quod interim ad pubertatem pupillus pervenerit, non oportet dici in Turpillianum eum senatus consultum incidisse. Discreta sunt enim iura, quamvis plura in eandem personam devenerint, aliud tutoris, aliud legatarii: et cum non suae personae iure, sed pupilli accusaverit, propriam poenam mereri non debet. Denique pupillo relicta in eo testamento, nisi a principe conservata sint, pereunt: adeo ille est accusator, is defensor et quasi patronus. Idem et Sabinus libris ad Vitellium scripsit”. 33 Cfr. Cod. 9.46.2pr.: “Mater inter eas personas est, quae sine calumniae timore necem filii sui vindicare possunt: idque beneficium senatus consulti et in aliis publicis iudiciis servatum est”; Cod. 9.46.4: “Calumniae poena in paternae mortis accusatione cessat”.

34 Cfr. Cod. 9.46.2.1: “Sed et extraneus heres, qui suspicionem, quam de morte sua habuisse defunctus cavit, exsequitur, hoc nomine a calumnia excusatus est, cum inter voluntariam accusationem et officii necessitatem heredis multum intersit”. Viene anche richiamata la vicenda riguardante le accuse lanciate dal liberto al figlio del patrono, cfr. Dig. 38.2.14.11: “Sed et si accusaverit libertum et probaverit crimen patroni filius posteaque hic libertus sit restitutus, non erit repellendus: crimen enim quod intendit etiam perfecit”.

35 Cfr. Dig. 38.2.14.7: “Si patris mortem defendere necesse habuerit, an dicendum sit hic quoque ei succurrendum, si libertum paternum propter hoc accusavit, medicum forte patris aut cubicularium aut quem alium, qui circa patrem fuerat? Et puto succurrendum, si affectione et periculo paternae substantiae ducente necesse habuit accusationem vel calumniosam instituere”.

(11)

ultimo, chi presenta l’accusa di un illecito di particolare gravità (...uel delicti enormitas...)

37

,

essendo di tutta preminenza per l’ordinamento non dissuadere la denuncia di tal

genere di reati per la paura di incorrere in una condanna per calunnia.

È evidente la ratio sottesa a queste esenzioni, in cui si valutano tutta una serie di

situazioni in cui l’accusatore non si trova ad esercitare il suo diritto all’accusa nel pieno

delle sue facoltà e libertà e che parimenti concorrono a far ritenere che difficilmente

sia stato mosso all’accusa con deliberata volontà vessatoria. Nel particolare caso della

madre che accusa l’omicida del figlio o del figlio che persegue la morte del padre,

l’esclusione dalla responsabilità per calunnia si basa più che altro sul personale

interesse dell’accusatore, imparentato con la vittima del reato. Lo stesso si dica per

l’accusa di adulterio presentata dal padre o dal marito nei confronti della moglie a cui,

in quest’ultimo caso, si aggiunge anche la prescrizione segnalata da Marciano in Dig.

48.16.1.5 secondo la quale: “inconsultum calorem calumniae vitio carere”. L’heres

extraneus, invece, come anche i tutori e curatori, sono dispensati perchè non

presentano l’accusa volontariamente, ma adempiendo all’obbligazione derivante dal

loro officium.

Dalla glossa che Accursio allega alla fonte di Cod. 2.7.1 si apprende che è al civilista

a Giovanni Bassiano

38

che può essere fatta risalire la teorizzazione del precetto che

vuole ‘il calunniare’ immediatamente presunto a carico dell’accusatore, qualora l’accusa

si riveli priva di riscontro (quod eo ipso quod quis non probat calumniari uidetur)

39

.

omnibus sine aliqua legis interpretatione conceditur, tamen ne volentibus temere liceat foedare conubia, proximis necessarisque personis solummodo placet deferri copiam accusandi, hoc est patri fratri nec non patruo et avunculo, quos verus dolor ad accusationem impellit. Sed et his personis legem imponimus, ut crimen abolitione, si voluerint, compescant. In primis maritum genialis tori vindicem esse oportet, cui quidem ex suspicione ream coniugem facere licet, vel eam, si tantum suspicatur, penes se detinere non prohibetur: nec inscriptionis vinculo contineri, cum iure mariti accusaret, veteres retro princeps adnuerunt. Extraneos autem procul arceri ab accusatione censemus: nam etsi omne genus accusationis necessitas inscriptionis adstringat, nonnulli tamen proterve id faciunt et falsis contumeliis matrimonia deformant. Sacrilegos autem nuptiarum gladio puniri oportet”. 37 Cfr. Cod. 9.24.1.1: “Accusatoribus etiam eorum immunitatem permittimus, cuius modus, quoniam dispar patrimonium est, a nobis per singulos statuetur”; nonché Coll. II.1=Nov. 7ep.: “Haec nobis super ecclesiasticarum aut omnino ptochicarum rerum alienatione posita sit lex, Leonis quidem piae memoriae sequens constitutionem, et non aliud quidem curans, aliud autem incuratum relinquens, sed in omni terra, quam Romanorum continet lex et catholicae ecclesiae sanctio, haec extendatur et determinet quae sua sunt, et valeat perpetua et custodita et a sanctissimis patriarchis uniuscuiusque diocesis et a deo amabilibus metropolitis et ab aliis episcopis et clericis et oeconomis et abbatibus et xenodochis et nosocomis et brephotrophis et orphanotrophis et gerontocomis et omnibus simpliciter rectoribus aliquorum sanctorum collegiorum, omnibus imponens proprium robur et licentiam praebens volenti denuntiare, quae delinquuntur. Laudabilis enim huiusmodi est et calumniatoris fugiet nomen, qui causam contra legem factam redarguit, auctor pietatis et utilitatis sacris domibus factus…”.

38 Sul civilista Giovanni Bassiano e su alcune questioni riguardanti la sua biografia (tra cui la presunta data di morte), come anche sull’identificabilità con il canonista Baziano, cfr., da ultimo, E. Cortese,

Bassiano (Bosiano, Boxiano), Giovanni, in DBGI, I, pp. 191-193, con indicazioni bibliografiche.

39 In proposito si veda la glossa accursiana al testo Cod. 2.7.1, ad v. docueris: “idest non probaueris et est argu‹mentum› pro I. quod eo ipso quod quis non probat calumniari uidetur et de calumnia puniendus est sic in auten. de sanct‹issimis› episco‹pis› § si quis autem ordi‹nationem› col. ix (Coll. IX.15=Nov. 123.2) et ff. de testi‹bus› l. iii § idem diuus (Dig. 22.5.3.3), sed arg. contra ff. ad Turp‹illianum› l. i § i (Dig. 48.16.1.1) et l. Mulier (Dig. 48.16.4) et infra de calum‹niatoribus› Qui non probat (Cod. 9.46.3) et l.

(12)

L’impostazione bassianea è seguita da Azzone, come anche da Ugolino de’ Presbiteri

40

e, infine, da Accursio, che, però, ritengono di doverne temperare la portata alla luce

delle norme giustinianee che prevedono la natura soggettiva dell’illecito (Dig. 48.16.1.3

e Cod. 9.46.3) e i casi di esonero dalla responsabilità.

Al fine di definire con maggior precisione un quadro che per alcuni versi poteva

sembrare poco coerente, Accursio spiega che è proprio al verificarsi di queste

particolari eventualità che andrebbero riferiti i testi di Dig. 48.16.1.3 e Cod. 9.46.3,

laddove prevedono che colui che non prova l’accusa formulata non deve per ciò solo

essere considerato calunniatore, occorrendo valutare l’intento e le circostanze in base

alle quali si è prodotta l’accusatio (et in hiis predictis casibus et similibus potest exaudiri quod

dicitur infra ad Turpil‹lianum› l. i § i [Dig. 48.16.1.1]: non enim utique qui non probat et caetera,

ut C. de calum‹niatoribus› l. Qui non probasse [Cod. 9.46.3]). Di fatto, quindi, il processo per

calunnia sarà principalmente finalizzato ad accertare il consilium o animus dell’accusatore

e a riscontrare la presenza di una di quelle particolari situazioni che ne escludono la

mala fede e, di conseguenza, l’imputabilità.

A questo punto il giurista si trova a dover risolvere un fondamentale nodo

interpretativo riguardante proprio la dimostrazione processuale dell’intento vessatorio

dell’accusatore. Occorre stabilire, in sostanza, se questo debba essere sempre oggetto

di apposita e specifica prova o se possa essere presupposto nella condotta dell’agente a

partire dall’assoluzione dell’accusato. È quest’ultima la soluzione privilegiata da

Accursio, che, tuttavia, tiene presenti anche i contenuti del testo di Dig. 48.16.1.3, in

cui si consentiva all’accusatore incriminato per calunnia di dimostrare di essere incorso

in errore giustificabile (iustus error). In tal senso, l’assunto iniziale, secondo il quale chi

non prova l’accusa intentata ‘sembra’ per ciò solo calunniare, non viene ritenuto un

argumentum necessarium (non probat ergo calumniator), ma probabile: la mancata prova

dell’accusa, pertanto, genererà solo una presunzione di dolo, ovvero di colpevolezza,

per calunnia a carico dell’accusatore; una presunzione, però, che potrà essere vinta

dalla prova di un errore giustificabile, ovvero da prova contraria (uel ita intellige sed non

utique qui non probat et caetera q.d. non est necessarium argumentum, non probat ergo calumniator,

ii (Cod. 9.46.2) et ad l. Iul‹iam› de adul‹teriis› l. Quamuis (Cod. 9.9.29[30]), sed illa in specialibus casibus” (Accursio, Glossa in Codicem, ed. cit., f. 44vb). La sigla “I.” usata da Accursio in questa sedes può essere sciolta con il legista Giovanni Bassiano anche alla luce di quanto si legge nelle glossa riportata nella nota immediatamente successiva.

40 In tal senso si veda anche Accursio, Glossa in Digestum Novum, ed. cit., f. 237va: [Dig. 48.16.1.3] ad vv.

non probat: “idest pronunciatur non probasse si non uidetur enim iudex remisisse penam calum‹niae› ut

apparet ex sequentibus et sic intellige C. de calum‹niatoribus› l. Qui non probasse (Cod. 9.46.3) secundum H. uel secundum Io. loquitur in illis casibus in quibus est speciale: ut in marito: matre et filibus quod plene nota supra de infa‹mia› l. Athletas § pe. (Dig. 3.2.4.4) alioquin uidetur contra Io. qui dixit eo ipso quod non et caetera ut C. de aduo‹catis› diuer‹sorum› iud‹iciorum› l. i (Cod. 2.7.1) ac si dicat non est uera illa regula semper immo fallit in predictis casibus et sic perdit officium suum, ut infra de reg‹ulis› iu‹ris› l. i (Dig. 50.17.1). ac”. Per il riconoscimento delle sigle “Io.”, “Io.b.” e “Iob.”, come identificative del legista Giovanni Bassiano, si veda la bibliografia indicata A. Errera, Arbor

actionum. Genere letterario e forma di classificazione delle azioni nella dottrina dei glossatori, Bologna 1995, p. 123

n. 4; nonché H. Lange, Romisches Recht im Mittelalter, I: Die glossatoren, München 1997, p. 216. Sullo scioglimento della sigla “H.” con Ugolino de’ Presbiteri cfr. F.C. Von Savigny, Storia del diritto romano

nel Medioevo, trad. it. a cura di E. Bollati, II, Torino 1857, p. 263; nonché H. Lange, Römisches Recth, cit.,

I, pp. 271-278; F. Betancourt, Hugolino, in R. Domingo (ed.), Juristas universales, I: Juristas antiguos,

(13)

potest etiam esse contra licet sit probabile argumentum, bene dico non esse necessarium, iudex enim reo

absoluto incipit querere de consilio accusatoris, an animo calumniandi accusauit et si inuenit eum

fuisse in iusto errore absoluet eum, si uero in calumnia euidenti condemnet eum)

41

. Prova che,

peraltro, dovrà fornire lo stesso accusatore ormai indagato per calunnia, sul quale

ricade a questo punto l’onus probandi.

Di regola, quindi, varrà il principio in base al quale dovrà presumersi l’intento di

calunniare a carico dell’accusatore per il solo fatto che l’accusa intentata non è stata

provata (regulariter enim qui non probat calumniari uidetur)

42

. Questo precetto è destinato ad

‘arretrare’ non solo di fronte alla prova di un errore giustificabile

43

, ma anche di fronte

41 Sull’istituto della presunzione, come mezzo di prova che poteva concorrere alla formazione del giudizio, come anche sulla distinzione tra presunzioni legali assolute (o praesumtiones iuris et de iure), che non ammettono prova contraria, e presunzioni legali relative (o praesumtiones iuris tantum), contro cui è ammessa la prova contraria, si veda la voce enciclopedica Presunzione (diritto romano), di R. Reggi, e

Presunzione (diritto intermedio), di A. Campitelli, in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano 1986, pp.

255-265. Sulla presunzione generale di dolo “estranea alle fonti romane ed elaborata nel Medioevo dai

magistri in divina pagina” che “fu per la prima volta ricollegata, e non senza sforzo, dai glossatori civilisti

o doctores in scientia legali, a taluni spunti, oltremodo labili, che esse offrivano”, cfr. A. Biscardi,

L’imputabilità dell’atto delittuoso in diritto romano, in Atti del colloquio romanistico-canonistico (febbraio 1978),

Roma 1979, pp. 418-419. Sulla nascita di una teoria delle presunzioni all’interno della scuola della glossa si veda A. Gouron, Aux racines de la théorie des présomptions, in “Rivista internazionale di Diritto comune”, I (1990), pp. 99-109, rist. con addenda et corrigenda in Droit et coutume en France aux XIIe et XIIIe

siècles, Aldershot-Brookfield 1993, sub VII, con indicazioni bibliografiche.

42 Questa impostazione si coglie ancor meglio nell’esegesi accursiana al testo di Cod. 9.46.2pr. (cfr.

supra, n. 33), in cui si trattava dell’esenzione di cui poteva beneficiare la madre che agiva in giudizio per

perseguire il presunto colpevole dell’omicidio del figlio: [Cod. 9.46.2] ad vv. Mater possunt: “regulariter enim qui non probat calumniari uidetur, ut nota supra de aduoca‹tis› diuer‹sorum› iu‹diciorum› l. i (Cod. 2.7.1), sed hoc fallit cum mater mortem filii accusat ut hic, uel pater, ff. de pu‹blicis› iu‹diciis› l. fi. (Dig. 48.1.14), uel econtra filius patris, ut infra e. l. Calumnie (Cod. 9.46.4), uel etiam extraneus heres si modo a defuncto suspitionem habebat ut hic subiicit item in tu‹tore›, ut supra qui accu‹sare› non pos‹sunt› l. ii (Cod. 9.1.2), item in uiro, ut supra de adul‹teriis› l. i et l. Quamuis (Cod. 9.9.1 e 29[30]), et his casibus loquitur regula non eo ipso quod non probat et caetera, ut infra eo‹dem› l. Qui non probasse (Cod. 9.46.3) et ff. ad Turpil‹lianum› l. i § i (Dig. 48.16.1.1)” (Accursio, Glossa in Codicem, ed. cit., f. 287vb). Alle ipotesi rappresentate dalla madre e dai figli che accusano i presunti uccisori rispettivamente del figlio e del padre, Accursio aggiunge in questa sedes anche quella del padre che accusa per la morte della figlia (cfr. Dig. 48.1.14: “Generi servis a socero veneficii accusatis praeses provinciae patrem calumniam intulisse pronuntiaverat. Inter infames patrem defunctae non habendum respondi, quoniam et si publicum iudicium inter liberos de morte filiae constitisset, citra periculum pater vindicaretur”). Nella stessa direzione anche il commento alla richiamata fonte di Cod. 9.1.2 (cfr.

supra, n. 32), attinente all’esclusione di cui possono beneficiare i tutori e i curatori, in cui si trova poi

affermato: [Cod. 9.1.2] ad v. apparebit: “regulariter secundum nos qui non probat dicitur calumniari, ut supra de adv‹ocatis› di‹versorum› iu‹diciorum› l. i (Cod. 2.7.1), sed fallit in casibus, quorum unus est hic et alius infra de calum‹niatoribus› l. Mater (Cod. 9.46.2), ubi plene dices omnes et facit supra de admi‹nistratione› tu‹torum› l. Non est (Cod. 5.37.6)” (Accursio, Glossa in Codicem, ed. cit., f. 271ra). Si confronti il testo di Cod. 5.37.6: “Non est ignotum tutores vel curatores, si nomine pupillo rum vel adulto rum scientes calumniosas instituunt actiones, eo nomine condemnari oportere, ne sub pretextu nominis eorum propter suas simultates secure lites suas exercere posse existiment”.

43 In proposito si veda anche la glossa che accompagna il testo di Cod. 9.1.15 (Criminis accusationem

instituere cum periculo calumniae, si tibi existimatio integra est, minime prohiberis), ad v. calumniae: “Criminis

calumniae que presumitur eo ipso quod non probat quod intendit, ut dixi supra e. l. ii (Cod. 9.1.2), non quod de calumnia semper debeat condemnari, sed potest, nisi aliqua iusta causa impulerit eum ad accusandum, ut infra de calum‹niatoribus› Qui non probasse (Cod. 9.46.3) et ff. ad Tur‹pillianum› l. i § ii (Dig. 48.16.1.2)” (Accursio, Glossa in Codicem, ed. cit., f. 271va).

(14)

a quei casi, espressamente indicati dalla legge, in cui si esclude la responsabilità per

calunnia: casi in cui, alla luce della particolare condizione in cui si trova ad agire

l’accusator, si presume a suo favore la buona fede. Ciò non esclude, tuttavia, che anche

questi soggetti possano essere condannati per calunnia, qualora davvero la

commettano, ma, non operando nei loro confronti la presunzione di mala fede, per la

dimostrazione del reato sarà necessaria una prova certa e inequivocabile, che sarà

compito del giudice individuare. Come fa notare Accursio, in questo caso si genera più

che altro il ‘sospetto’ che sia stata commessa una calunnia e non certo la

‘presunzione’

44

.

A conclusione del discorso, il civilista specifica che tutte le argomentazioni addotte

a sostegno della propria tesi, sono parimenti opponibili a quanti volessero obiettare

che la calunnia non debba mai essere punita in forza di una presunzione, quand’anche

superabile, ma solo perché provata in tutti i suoi elementi costitutivi, sia oggettivi che

soggettivi. Il fatto che il giurista - come il predecessore Azzone

45

- abbia ritenuto di

dover fare questa precisazione, potrebbe far supporre che all’interno della scuola non

vi fosse uniformità di vedute su questo specifico aspetto; la stessa uniformità che,

invece, è stata registrata in merito alla definizione del reato

46

.

All’esito di questa ricostruzione sembra potersi delineare una duplice

configurazione del crimen calumniae. Data per acquisita e ampiamente condivisa la

natura soggettiva del reato, l’accusa che non conduce alla condanna del reus postulatus

verrà sanzionata quale calumnia sostanzialmente in due eventualità: o quando si è

palesata al giudice nell’evidenza di tutti i suoi elementi costitutivi, sia oggettivi ma

soprattutto soggettivi, oppure in forza della presunzione. In quest’ultima ipotesi

l’accusatore che non riesce a provare l’accusa intentata, non riesce parimenti a

dimostrare di essere incorso in errore giustificabile e non si trova neppure in una di

quelle circostanze che ne escludono ope legis la mala fede.

Nel primo caso si avrà la calunnia ‘evidente’ di cui al testo di Dig. 48.16.1.3, la

calunnia ‘vera e propria’, quella perfettamente rispondente alla nozione del reato

tramandata dai testi legali e condivisa dalla Glossa. Nel secondo, invece, si avrà la

calunnia punita per mezzo del meccanismo presuntivo, quella che la dottrina

successiva qualificherà espressamente come ‘presunta’

47

. Il pensiero giuridico

44 Cfr. Accursio, Glossa in Digestum Novum, ed. cit., f. 237va: [Dig. 48.16.1.3]: ad v. errorem: “accusantis sine metu calumniae idest suspicione non ergo de presumpta: sed de euidenti ut supra de adul‹teriis› l. Is cuius § fi. (Dig. 48.5.15[14].3) et ibi nota et facit supra de iniur‹iis› Item § adiicitur (Dig. 47.10.15.38) et supra de fal‹sis› l. antepe. (Dig. 48.10.31)”.

45 Si veda nuovamente quanto affermava Azzone nella sua Summa Codicis: [in rubr. tit. ‘De calumniatoribus’ (Cod. 9.46)]: “Quidam tamen dicunt nullum videri calumniari hoc ipso quod non probat quibus aperte obuiant omnia argumentum que diximus” (ed. cit., p. 343a).

46 Sul punto cfr. supra.

47 Giulio Claro, ad esempio, nella Practica criminalis affermava: “… quod duplex est calumnia, vera scilicet et praesumpta. Vita (sic!) calumnia dicitur, quando quis sciens, aut scire debens aliquem esse innocentem, proponit contra eum accusationem, aut querelam. Praesumpta autem calumnia est, quando accusator non probet delictum, vel quando post coeptum iudicium ab accusatione desistit: nam his casibus praesumitur calumniari” (Liber quintus sive Practica Criminalis, ed. Venetiis: ex typographia Baretiana, 1640, rist. anast. Goldbach: Keip, 1996, quaest. LXII § 5). Nello stesso senso anche la Praxis et theoricae criminalis di Prospero Farinacci in cui si legge: “Hanc regulam procedere nedum in eo accusatore, qui per malitiam et scienter falsa crimina intendit, quem verum calumniatorem esse tradunt … Verum etiam et in praesumpto, eo scilicet qui vel accusationem non

(15)

medievale, infatti, rimase fedele al concetto intenzionale del reato emerso dalle fonti

romanistiche e sintetizzato dai glossatori nella formula: falsa crimina scienter intendere, ma

affiancò a questa figura di reato anche quella rappresentata dalla calunnia ‘presunta’.

Era questa la calunnia che si verificava tutte le volte in cui l’accusa intentata non

veniva provata e allo stesso tempo non risultava chiara nell’accusatore la coscienza

della sua falsità. Così come argomentato in primis dai glossatori, si continuò, però, a

ritenere che tale presunzione potesse essere vinta da prova contraria, ovvero dalla

prova di un errore giustificabile, come anche che vi fossero tutta una serie di

circostanze nelle quali l’accusatore andava sottratto alla responsabilità penale per

calunnia

48

.

La distinzione tra i concetti di calunnia ‘evidente’ e calunnia ‘presunta’ si

riproponeva anche nella legislazione statutaria e principesca. Più severa la disciplina

degli statuti che, per la gran parte, sanzionavano la calunnia sempre in forza di

presunzione, senza alcun interesse per l’intenzione di chi l’aveva presentata

49

. Nella

legislazione principesca, invece, questa impostazione cominciò ad essere abbandonata

a partire dal XVI secolo con la Carolina

50

, anche se in precedenza un’importante

probauit, vel ab ea destitit: tale enim praesumptum calumniatorem, qui in probationibus deficit, posse de calumnia condemnari…” (Praxis et theoricae criminalis. Pars prima, ed. Venetiis: apud haeredes Iohannis Varisci, 1595, quaest. XVI §§ 10-11, pp. 147-148). Su Giulio Claro e Prospero Farinacci e le loro opere, si vedano, da ultimo, le voci di G.P. Massetto – S. Parini, Claro, Giulio, e A. Mazzacane,

Farinacci, Prospero, entrambe in DBGI, rispettivamente alle pp. 552-555 e pp. 822-825, con indicazioni

bibliografiche; nonché, più in sintesi, A. Dani, Il Cinquecento e il Seicento, in A. Dani – M.R. Di Simone – G. Diurni – M. Fioravanti – M. Semeraro, Profilo di storia del diritto penale dal Medioevo alla Restaurazione, Lezioni raccolte da M.R. Di Simone, Torino 2012, pp. 39-40 e p. 42. Su Prospero Farinacci anche A. Mazzacane, Prospero Farinacci, in Enciclopedia italiana, cit., pp. 153-156.

48 Cfr. V. Masucci, Calunnia, in Enciclopedia giuridica italiana, III, Milano 1898, pp. 523-524; A. Marongiu,

Calunnia (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, V, Milano 1959, pp. 816-817.

49 Nella normativa penalistica statutaria d’epoca medievale, infatti, non risultava ancora netta la distinzione tra i concetti di dolo e colpa (cfr. G. Diurni, Il medioevo, in Profilo di storia del diritto penale, cit., pp. 18-19). Sulla disciplina del crimen calumniae nella legislazione statutaria e principesca cfr. A. Pertile,

Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla Codificazione, V: Storia del diritto penale, Torino

1892, p. 626; V. Masucci, Calunnia, cit., pp. 522-523; P. Barsanti, Calunnia, in Digesto Italiano, VI, Torino 1888, p. 87 §§ VIII-IX.

50 Ciò in conformità con il più generale intento dell’opera di superare un’impostazione meramente oggettiva del diritto penale a favore di una maggiore rilevanza da attribuire all’elemento soggettivo. Sulla Constitutio criminalis emanata dall’imperatore Carlo V nel 1532, anche conosciuta come Carolina, si veda, a titolo indicativo, A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna 2007, pp. 319-320. Per una recente ristampa di tre edizioni antiche di quest’opera cfr.

Carolina-Kommentare des 16. Jahrhunderts, von Justin Gobler, Georgius Remus und Nicolaus Vigelius,

Goldbach: Keip 2000. La calunnia, concepita come reato contro la fama e assimilata alla denuncia calunniosa, viene disciplinata nell’ambito della diffamazione al capo dei libelli famosi all’art. CX: “Celui qui par des Ecrits injurieux ou Libelles diffamatoires répandus sans signature juridique, charge quelqu’un injustement de quelque crime et forfait, puor lequel il pourroit être puni en son corps, en sa vie ou en son honneur; lorsque la vérité du délit sera découverte: le diffameteur subira la meme punition, à laquelle il a cherché à exposer l’innocent par sa malice et ses Ecrits calomnieux; et quand bien même le fait attribué ainsi injurieusement, se trouveroit veritable, le diffamateur ne laissera pas d’être puni en vertu des Loix, et suivant la prudence du Juge” (Code criminel de l’Empereur Charles V

vulgairement appelle La Caroline, Nouvelle Edition Revue, a Bienne dans la Libraire Heilmann, 1767, p.

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