UNIVERSITÀ CA' FOSCARI DI VENEZIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA DAL MEDIOEVO
ALL'ETÀ CONTEMPORANEA
TESI DI LAUREA
STORIA E CINEMA
LA RAPPRESENTAZIONE STORICA
NEL CINEMA DI ERMANNO OLMI
Relatore Ch. Prof. Claudio Povolo
Laureando Loris Frasson matricola 808710
Anno Accademico
Indice Introduzione 3 1 Cinema e Storia 5 1.1 Marc Ferro 8 1.2 Pierre Sorlin 13 1.3 Paul Veyne e gli intrecci della storia 17 1.4 Paul Ricœur e il tempo storico 22 1.5 Gérard Genette e i livelli del racconto 24 1.6 Antoine de Baecque, il regista come uno storico 30 1.7 Robert Rosenstone e la scuola americana 32 1.8 Storia della Storia 38 1.9 Come si guarda un film, concetto di verosimile 43 1.10 Il film storico 51 2 Il cinema di Ermanno Olmi 54 2.1 Biografia 54 2.2 Filmografia interessata 64 3 Casi di studio 65 3.1 L’albero degli zoccoli (1978) 65 3.1.1 Linearità della storia, uso del montaggio 67 3.1.2 L’albero degli zoccoli è un film storico? 71 3.1.3 Il doppiaggio come metodo di comunicazione 78 3.2 Il mito di Giovanni delle Bande Nere e Il mestiere delle armi (2001) 80 3.2.1 Circolarità della storia, utilizzo del montaggio 93 3.2.2 Base storica della narrazione 97 3.2.3 La via crucis dell’uomo 98 3.2.4 Il film storico 98 3.2.5 La narrazione di guerra combattuta 103 3.2.6 La lettura umana 108 3.3 torneranno i prati (2014) 112 3.3.1 La ricorrenza del film 114 3.3.2 La narrazione e la rappresentazione 116
Conclusioni 119 Appendice 122 1. Il doppiaggio de L’albero degli zoccoli 122 2. Così morì Giovanni delle Bande Nere 125 3. Giovanni dalle Bande Nere – 1910 127 4. I condottieri – 1937 128 5. Giovanni dalle Bande Nere – 1956 129 6. L’albero degli zoccoli ‐ 1978 130 7. Il mestiere delle armi ‐ 2001 132 8. torneranno i prati ‐ 2014 135 9. Lettera di Pietro Aretino a Francesco degli Albizzi 136 Bibliografia 142
Introduzione
L’interesse per il tema trattato nel presente studio è iniziato dopo aver seguito il corso di Storia del Mediterraneo, tenuto dal professor Povolo. In quel corso si è discusso anche del film storico e di come era stato trattato questo genere cinematografico dagli storici di professione e dagli studiosi di cinema. Lo scopo più specifico di questa tesi è di analizzare come il rapporto cinema‐storia sia stato affrontato e sviluppato dal regista italiano Ermanno Olmi nella sua opera, andando ad approfondire in particolare alcuni significativi lungometraggi. Il primo capitolo tratterà le linee teoriche relative alla discussione intrapresa dai più importanti storici sul tema Cinema/Storia. Come ormai è riconosciuto da tutta la letteratura sul tema, gli studiosi più autorevoli sono stati Ferro, Sorlin, Genette, fino ai contemporanei Guynn e Rosenstone e de Baecque. Personalmente sono stato affascinato dalla teoria di Veyne sugli intrecci della storia e da quella di Genette sui piani narrativi. Ho ritrovato in queste alcune strutture studiate durante la mia formazione scientifica e ho quindi trovato molto interessante e creativo il riconoscimento durante la creazione di una narrazione storica.
Il secondo capitolo sarà dedicato interamente alla biografia e alla lunga carriera del regista Ermanno Olmi, e dunque ci si soffermerà sulle opere relative al tema trattato. Nell’ultimo capitolo saranno analizzati tre lungometraggi scritti da Ermanno Olmi in periodi abbastanza distanti tra loro e ritenuti significativi per l’argomento, per come dunque è stata rappresentata la storia anche in relazione alle teorie elaborate dagli autori sopra citati.
In appendice sono riportati vari documenti ritenuti interessanti. Oltre alle schede dei film discussi, un interessante scambio epistolare intercorso tra Olmi e due dirigenti riguardo la realizzazione del doppiaggio del film L’albero degli
zoccoli. Inoltre è riportato, a titolo di curiosità, un articolo sui recenti studi
Medici e per finire la lettera di Pietro Aretino che costituisce la base della sceneggiatura di Olmi.
1 Cinema e Storia
Da sempre gli storici si sono divisi sulla possibilità di rappresentare la storia. Molti di essi non hanno dimostrato un grande interesse per il cinema, anche quale testimone involontario del passato, come se condividessero una certa arrendevolezza intellettuale verso la cinematografia in generale. Secondo loro, i film commerciali in particolare non potrebbero riflettere il significato del periodo in cui sono stati prodotti, in quanto per natura sono destinati all’intrattenimento e quindi hanno lo scopo di permettere agli spettatori di evadere, attraverso le rappresentazioni immaginarie, dalle preoccupazioni della loro epoca. Per gli storici più scettici, tutti i film storici sono prodotti di fiction; non vi sarebbe alcuna reale distinzione tra film che sfruttano materiali storici nell’interesse dell’intrattenimento e quelli che hanno intenzioni più serie. Tale scetticismo potrebbe essere certamente giustificato in quanto questo filone trasversale nacque all’interno dello Star System americano.
Ma a che cosa era realmente dovuto questo scetticismo? Non era certo solo una questione di pregiudizio oppure di una certa qual difficoltà a stare al passo con i tempi. Esso scaturiva anche da problemi di fondo e di metodo nella comprensione di questo particolare medium. Le fonti storicamente riconducibili al cinema sono in effetti fonti non facili, di incerta configurazione e molto spesso ingannevoli1.
Un primo motivo di diffidenza è rappresentato dalla natura non solamente verbale della fonte. Se da un lato molte delle informazioni fornite da un film vanno ricavate dall’immagine, il cui significato appare più sfuggente rispetto a quello delle immagini pittoriche, dall’altro ciò mette lo storico innanzi a due problemi : l’interpretazione, la lettura delle immagini stesse, e come inserire in un testo scritto le informazioni ricavate dall’immagine, cioè come tradurre dal linguaggio cinematografico al linguaggio verbale, operazione che spesso rischia
di sopprimere proprio gli aspetti più ambigui, ma anche più ricchi di informazione originale, dell’immagine.
Un secondo motivo di scetticismo sta nell’incerto, e spesso inquietante, senso di verità che offre questo tipo di fonte. Il cinema, in quanto mezzo di riproduzione meccanica, si presenta sempre al senso comune come preservazione e rappresentazione insieme di qualcosa che è effettivamente avvenuto, anche se è frutto di messe in scena davanti alla macchina da presa. Esso, agli occhi dello storico, appare come una fonte di verità molto manipolabile attraverso i suoi metodi, il montaggio, la messa in scena, i trucchi tecnici, e quindi questa verità, costituita da apparenza ed esteriorità, risulta assai superficiale dinnanzi ad una storiografia molto cambiata. Diceva Marc Ferro2: “Sono passati cinquant’anni. La storia si è trasformata, il film rimane sempre fuori dal laboratorio.”3 Dunque il dilemma sorto da questa osservazione diventava se salvare e depurare la verità del cinema, liberandola dalle possibili manipolazioni, oppure al contrario rinunciarvi decisamente, cercando allora nel film non le rilevanze storiche, i fatti documentati, ma al contrario i sogni, le fantasticherie, lo spettacolo. Una terza ragione di perplessità riguarda l’autore del film e le intenzioni che gli si devono attribuire. E’ acclarato che per ogni tipo di fonte si pone il problema di ciò che l’autore della stessa si prefiggeva. Per quanto riguarda il cinema questo aspetto è particolarmente complesso, in quanto, citando Orson Welles: “il poeta ha bisogno di una penna, il pittore di un pennello, chi fa cinema ha bisogno di un esercito”. La produzione dell’immagine cinematografica è parte di un processo esteso, che vede la cooperazione di una pluralità di persone, ciascuna delle quali portatrice di una propria professionalità, e, non da meno, di un proprio modo di vedere.
2 Marc Ferro, (1924), storico francese, specialista della Russia, dell'URSS e della storia del cinema. E' direttore del dipartimento di Studi in Scienze Sociali all'École des hautes études en sciences sociales. E' co‐direttore della rivista Annales e co‐editore del Journal of Contemporary History.
E’ dunque chiaro che è una convenzione, un luogo comune, l’asserzione per cui un film ha uno e un solo autore, il regista. Lo studioso che intenda trattare il film come testimone del suo tempo può invece attribuire la produzione filmica di un’epoca a degli “autori collettivi”, come ad esempio Hollywood, lo Star System, uno stato autoritario o una società nel suo insieme. Così facendo si rafforza la differenza tra l’approccio propriamente storico e quello critico‐estetico ai testi cinematografici. Quest’ultimo tende a considerare il film, in linea con la tradizione della critica letteraria, l’espressione di un singolo autore, il regista, con un proprio stile e una propria tematica personali, non contando il carattere sociale della produzione, e riducendo le altre professionalità coinvolte nella creazione del film a puro supporto tecnico al servizio del regista.
Al contrario, l’approccio storico si riduce spesso all’ignorare il contributo dei singoli autori, facendo del film la proiezione o lo specchio di un soggetto impersonale e sfuggente e inoltre tendendo a collegare tra loro i film prodotti in un unico arco di tempo, anche appartenenti a filoni artistici assai differenti.
Quindi si può dire che ciò che rende il film una fonte storica non immediata e sfuggente è proprio ciò che per altri versi lo rende attraente, non solamente per il pubblico, ma anche per lo studioso: la sua irriducibile ambiguità, fra reale e fantastico, fra produzione individuale e collettiva, fra racconto e riproduzione, fra «arte» e «industria». Finora, comunque, quasi tutti gli studiosi intervenuti nel dibattito sul film come fonte storica si sono dati come compito prioritario quello di sciogliere l’ambiguità riportando il film a statuti epistemologici, sociali o culturali relativamente univoci.
Solamente a partire dagli anni ‘60 la questione del rapporto tra Storia e Cinema ha iniziato ad essere definita con una certa precisione e decisione.
Questo è avvenuto grazie ai lavori di alcuni storici francesi degli Annales quali Marc Ferro, Jacques Le Goff4 e Pierre Sorlin5 che per primi iniziarono a considerare il film come documento storico. A questo proposito Ferro scrisse che “la svolta istituzionale riguardante l’introduzione dei film nella ricerca risale al 1967; data della loro legittimazione. In quel periodo avevo co‐diretto il film
L’année 17, meno riuscito di Guerre de 14 ma interessante perché rivelava
numerosi documenti inediti.”6 Questo film, infatti, suscitò l’entusiasmo di E. Labrousse, che fece votare all’assemblea dell’Associazione dei professori di storia
moderna e contemporanea una mozione per felicitarsi con Ferro per il suo
apporto alla conoscenza storica. Non mancò, inoltre, l’autorevole l’avallo di altre due grandi figure del mondo intellettuale francese come Roland Barthes7 e Fernand Braudel8.
1.1 Marc Ferro
Nel 1968, nelle Annales, quando Fernand Braudel ne era segretario e co‐ direttore, uscì un articolo di Marc Ferro in cui questi dichiarava la necessità di studiare i rapporti tra il cinema e la storia contemporanea. Egli con tale intervento propone una ricerca e, facendolo da quel pulpito, si assicurava l’attenzione dovuta.
4 Jacques Le Goff, (1924‐2014). Storico francese. Tra i massimi studiosi della società occidentale del Medioevo, per cinque anni è stato direttore della sesta sezione dell'École pratique des hautes études, divenuta nel 1975 École des hautes études en sciences sociales. Dalla fine degli anni Sessanta è stato condirettore della rivista Annales. Économies. Sociétés. Civilisations. 5 Pierre Sorlin, (1933). Storico e critico cinematografico francese, ha focalizzato i propri interessi sul rapporto tra cinema e storiografia, teorizzando e praticando l'uso del documento audiovisivo come strumento di indagine sulla storia del Novecento. 6 F. Garçon, P. Sorlin, Marc Ferro, de Braudel à Histoire parallèle, in Cinéma et histoire. Autore Marc Ferro, éd. F. Garçon, numero monografico di CinémAction, n.65, 1992, p. 53. 7 Roland Barthes (1915–1980). Saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista.
8 Fernand Paul Achille Braudel, (1902–1985). Storico francese. È stato uno dei principali esponenti della École des Annales, che studia le civiltà e i cambiamenti a lungo termine, in opposizione alla storia degli avvenimenti. È ritenuto uno dei massimi storici del XX secolo. È stato direttore della VI sezione dell'École Pratique des Hautes Études (divenuta poi École des Hautes Études en Sciences Sociales) di Parigi.
Ho scritto queste righe per lanciare un grido di allarme: sicuramente il cinema non è tutta la Storia. Ma senza di lui non si avrebbe la conoscenza dei nostri tempi9.
Sarà proprio lui che comincerà a lavorare sul film come fonte storica, allargando lo studio ai film narrativi. Ferro farà uscire nel 1977 una raccolta di scritti, Cinema et Histoire10, in cui verrà posta la questione del ruolo del cinema quale agente della Storia e ne solleciterà una lettura che punti a sciogliere le molte implicazioni che ciò comporta. Egli riteneva che il cinema avesse un’influenza molto forte sulla società. Il caso più evidente è quello della propaganda: quando attraverso i film si trasmette, si impone una certa visione del mondo. Ma al di là della propaganda, che in definitiva è solo la punta dell’iceberg, il cinema è agente perché contribuisce anche in maniera «involontaria» alla costruzione dell’immaginario di un’epoca ‐ che poi in questo ruolo esso sia stato ormai abbondantemente superato dalla televisione, è un altro discorso11.
Un film secondo lui può aprire delle crepe nel sistema dell’informazione tradizionale e inoltre deve essere analizzato nell’ambito della sua cultura. La storia è sempre stata al servizio del potere, che sia un Principe, lo stato, una classe sociale, la nazione, e dunque la storia è sempre stata un argomento politico. Ciò che è disturbante per i politici riguardo ad una trattazione per immagini è che non “corrisponde alle affermazioni dei dirigenti, agli schemi dei teorici, all’analisi degli oppositori” in quanto le immagini non hanno la trasparenza della lingua scritta, non sono strumenti al servizio del potere e non hanno imparato ad analizzarle, a controllarle, a recuperarle nel loro discorso12.
I regimi autoritari del XX secolo, fascismo, nazismo e comunismo, sono stati i primi ad accorgersi delle potenzialità del Cinema per la propaganda, mezzo privilegiato per la conferma del consenso. Nel 1922 Mussolini affermava che la 9 M. Ferro, Société du XXème siècle et histoire cinématographique, Annales ESC, n°3, maggio‐ giugno 1968, p. 581‐585. 10 Edizione italiana: Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980. 11 Ibid., p. 9. 12 M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980, p.100.
cinematografia è l’arma più forte avendo subito intuito quanto fosse un potente strumento di persuasione, non si dimentichi che Cinecittà fu fondata dal regime nello stesso anno. Lo stesso fece Joseph Goebbels, Ministro della propaganda del III Reich, in Germania, dove lo stesso Adolf Hitler chiese alla giovane regista Leni Riefenstahl13 di girare alcuni film per glorificare la nascente dittatura. Da ricordare La vittoria della fede (1933) e Il trionfo della volontà (1935). Ferro, esperto del regime sovietico, riguardo al fatto che anche in Unione Sovietica i leader politici si appoggiarono al cinema come strumento di propaganda, cita le parole che Lev Trockij disse nel 1923: Il fatto che, fino ad ora, non abbiamo messo le mani sul cinema, prova fino a che punto siamo inetti, incolti, per non dire stupidi. Il cinema è uno strumento che si impone da sé, il miglior strumento di propaganda14. C’è da dire però che i film sovietici furono poi ritenuti di grande contenuto culturale, basti pensare ai film di Sergej Èjzenstejn come La Corazzata Potemkin (1925), Ottobre (1928) e Ivan il Terribile (1944), mentre in quelli nazisti fu riconosciuto il prevalente carattere propagandistico, come ad esempio, oltre ai citati film di Leni Riefensthal, Süss l’ebreo (1940) di Veit Harlan15. Secondo Ferro i nazisti furono i soli dirigenti del ‘900 il cui immaginario attingeva essenzialmente al mondo del Cinema.
Riguardo alla relazione che intercorre tra gli storici e il Cinema, Ferro dunque riteneva che quest’ultimo fosse snobbato e non annoverato tra le fonti come
13 Leni Riefensthal (1902‐2003). Regista, attrice e produttrice tedesca. Già ballerina e interprete di cupe favole nordiche e di film di montagna di grande successo popolare, divenne la più celebre regista tedesca degli anni Trenta, visionaria profetessa dell'agghiacciante e funebre razionalità del nazismo e dell'olimpica bellezza dell'uomo. Nel 1938 il suo Olympia, lungo documentario sulle Olimpiadi di Berlino, vinse la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia. 14 Ibid., p. 26. 15 Veit Harlan, (1899‐1964). Sceneggiatore, regista e attore teatrale e cinematografico tedesco. Avvalendosi di una solida formazione teatrale e di un lungo apprendistato nel cinema come attore, Harlan divenne, come regista, una delle figure chiave della cinematografia tedesca del Terzo Reich: sue sono alcune tra le più importanti opere di sostegno al nazismo, come Jud Süss (1940; Süss l'ebreo), Der grosse König (1942; Il grande re), per cui vinse la Coppa Mussolini per il miglior film straniero alla Mostra del cinema di Venezia, e il colossale Kolberg (1945; La cittadella degli eroi). Dopo la Seconda guerra mondiale, processato e assolto dalle accuse di collaborazione con il regime, riprese l'attività con opere che, pur senza significative novità, conservano un certo gusto narrativo e fotografico.
d’altronde accadeva per tutte quelle non scritte a causa di una sorta di inconscio rifiuto:
Quindi, per i giuristi, per la gente istruita, per la società dirigente, per lo Stato, quello che non è scritto, l’immagine, non ha identità: come potrebbero gli storici farvi riferimento o citarla?
Senza fede né legge, orfana che si prostituisce al popolo, l’immagine non potrà essere compagna dei grandi personaggi che compongono la società dello storico: articoli di legge, trattati commerciali, dichiarazioni ministeriali, ordini operativi, discorsi. Inoltre, come fidarsi dei film d’attualità quando tutti sanno che anche queste immagini: queste pseudo rappresentazioni della realtà sono selezionate e trasformabili poiché vengono assemblate con un montaggio non controllabile, un trucco, una falsificazione.
Lo storico non sarebbe in grado di utilizzare documenti di questo tipo. Si sa che lavora in una gabbia di vetro, “ecco i miei riferimenti, ecco le mie prove”. Non arriverà a dirsi che la scelta dei documenti, il loro assemblaggio, l’ordine delle argomentazioni è ugualmente un montaggio, un trucco, una falsificazione.
Con la possibilità di consultare le stesse fonti, i diversi storici hanno forse scritto la stessa storia della Rivoluzione francese?16
Questo abbandono da parte degli storici ha a che fare con una certa incomprensione, con il ritenere il film, composto di immagini che loro ritenevano senza identità, qualcosa di irrazionale, che va ben oltre un testo scritto. Quindi, dal momento in cui le strade della Storia e del Cinema si incontrano, nel cinema entra quello che non ha avuto luogo nella storia, perché non documentato, e quindi si apre la strada della rappresentazione.
Secondo Ferro lo scetticismo degli storici nei riguardi dell’immagine, che per sua natura ha vari significati, potrebbe essere agevolmente ribaltato considerando che le stesse fonti non generano necessariamente delle interpretazioni univoche. Secondo lui bisogna partire dalle immagini non per trovare conferme della tradizione scritta ma per richiamare altre forme di conoscenza poiché l’ipotesi è che il film, sia esso immagine della realtà o finzione è Storia, o meglio, Storia attualizzata. Si parte quindi dal fatto che anche ciò che non ha avuto luogo, ad esempio l’immaginario dell’uomo, sia anch’esso Storia tanto quanto la Storia stessa. 16 Ibid., p.97.
Per raggiungere questo obiettivo però si deve integrare l’ambiente circostante del film, ciò che lo circonda e con cui è in relazione. Si può dunque guardare un film storico per verificare se la ricostruzione è esatta e veritiera, nei dialoghi, nelle scenografie, nei costumi. Lo si può guardare da un punto di vista ideologico o ancora se abbia utilizzato non una semplice trascrizione da documenti d’archivio ma una narrazione che maggiormente consenta al regista di rivelare la propria visione del mondo. Ferro sostiene pertanto che anche il film, così come ogni prodotto culturale, ogni azione politica e ogni apparato industriale ha una storia che è Storia con la maiuscola, anche se poi ogni pubblico così come ogni società, coglie ciò che gli scorre davanti in funzione del proprio background culturale. Per fare un esempio di ciò basti pensare all’accoglienza che ebbe il film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli (1978), osannato ad esempio in Francia mentre in Italia fu avversato da gran parte della critica. La cinepresa, in altri termini, è in grado di rovesciare la visione della società. E quindi per Ferro non esiste una scrittura filmica della storia, anche se ammette che ci sono pochi registi, lui cita Tarkovskij17, Visconti e Syberberg18, che, non condizionati dalle forze ideologiche e tradizionali dei loro paesi, riescono a creare interpretazioni indipendenti della storia. Essi dunque, realizzando dei film che si possono considerare le prime espressioni di un’opera storica totalmente cinematografica, hanno portato un contributo originale alla comprensione dei fenomeni del passato e della loro relazione con il presente.
Ferro riteneva quindi che il film potesse essere definito un documento storico né più né meno di un testo, di un diario, di una pittura e che in quanto tale fosse
17 Andrej Arsen'evic Tarkovskij (1932–1986). Regista, sceneggiatore, montatore, scrittore e critico cinematografico sovietico. Il suo cinema è caratterizzato da lunghe sequenze, struttura drammatica non convenzionale, distinto uso della fotografia cinematografica e tematiche di tipo spirituale e metafisico. I suoi film più famosi come Stalker (1979), Solaris (1972) e Lo specchio (1974), sono considerati universalmente tra i più grandi della storia del cinema.
18 Hans‐Jürgen Syberberg (1935). Regista teatrale, regista cinematografico e sceneggiatore tedesco. Dopo aver realizzato diversi documentari e inchieste televisive, si mise in luce con una trilogia di eccezionale durata (Ludwig II ‐ Requiem für einen jungfräulichen König, 1972; Karl May, 1974; Hitler ‐ Ein Film aus Deutschland, 1977), con la quale, adattando e rincorrendo il mito wagneriano dell'opera totale, processava e rappresentava con esiti originali la storia e la cultura tedesca da Wagner a Hitler.
il frutto dell’incrocio della strada del Cinema con quella della Storia. Se questa si incontra nello svolgimento della storia si ha il documentario, mentre se la Storia è ancora da ricostruire si ha il film di fiction.
Perciò è necessario riferirsi sia ai documentari che ai film storici per comprendere appieno come il cinema dialoghi con il passato e per coglierne le informazioni latenti, celate dalle iniziali intenzioni narrative, per godere quindi della restituzione di una memoria cancellata dai testi ufficiali. 1.2 Pierre Sorlin Se Ferro è stato il precursore per quanto riguarda la trattazione teorica del binomio Cinema‐Storia, chi invece proseguirà nello sviluppo delle sue teorie sarà lo storico Pierre Sorlin che iniziò con un articolo apparso nella rivista Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine nel 1974.
Già dal titolo dell’articolo, Clio à l’écran, ou l’historien dans le noir (Clio sullo schermo, o lo storico al buio), viene espressa la diffidenza degli storici di fronte all’oggetto film storico. Sorlin dice che:
… le proiezioni cinematografiche hanno sempre luogo al buio, e il “nero” al quale alludo non è quello delle sale cinematografiche. Esso evoca, simbolicamente, l’irritazione paurosa manifestata dallo storico quando scopre, su uno schermo, i personaggi, i problemi, l’epoca ai quali lui dedica il suo tempo.
Dalle sue origini, il cinema è ritornato indietro nel tempo ...19
Sviluppando le posizioni di Ferro, che si definiva del tutto favorevole all’utilizzo dei materiali filmati come fonte di documentazione storica, Sorlin è stato uno dei primi studiosi a portare all’attenzione della ricerca storiografica internazionale il problema dello studio della Storia mediante le fonti audiovisive e della loro validità documentaria, considerando le pellicole cinematografiche in
19 P. Sorlin, Clio à l'écran, ou l'historien dans le noir, in Revue d’Histoire Moderne & Contemporaine, n. 21‐2, 1974, p.252.
particolare come strumenti di cui dispone una società per autorappresentarsi e costruire narrazioni sulla propria identità.
Egli conclude il suo primo articolo con delle affermazioni chiare, riguardo al film storico, il quale:
a ‐ “mette al presente” eventi passati e grazie a ciò acquisisce una connotazione politica molto forte;
b ‐ utilizza sistematicamente stereotipi ed immagini codificate imponendo agli spettatori una forte partecipazione;
c ‐ presenta fatti coerenti ma dà adito, dietro ai dati percepibili, ad un’incertezza che suppone la possibilità di spiegazioni esterne; d ‐ se non comporta spiegazioni propone una visione generale sugli aspetti e sulle caratteristiche dominanti di un’epoca o di una situazione; e ‐ si piega, infine, imperfettamente ad un modello attanziale.20 Di conseguenza secondo lui gli audiovisivi sono dei documenti che aiutano a trasmettere meglio la conoscenza di una società testimoniando gli eventi come le feste e tutte le altre occasioni in cui si ricorre alla ripresa cinematografica. Egli ammette anche che queste fonti non sono neutre, non sono nemmeno polarizzate tra vere o false, e che dunque bisogna prestare sempre molta attenzione prima di concedere loro una fiducia non ponderata. Oltre a ciò le suddette fonti, per come sono create, offrono informazioni sulla realtà che vanno ben oltre la realtà stessa potendo essere soggette a manipolazioni o a deviazioni più o meno volute.
Nonostante questo, le immagini possono efficacemente essere utilizzate come documento storico, alla pari di quello scritto, in quanto permettono un ritorno al passato, una conoscenza più esatta dell’intero ambito di cui si tratta, sia nel tempo che nello spazio.
Quindi, secondo Sorlin, i film forniscono nella loro interezza una testimonianza indiretta dei fatti, anch’essa però degna di essere studiata e dibattuta e dunque il problema focale è che il racconto filmico, poiché mette in
20 Ibid., p.277.
scena eventi non accaduti è non vero, come invece al contrario lo può essere un’intervista filmata.
Della stessa opinione è lo storico François de la Bretèque21, quando dice che: la relazione tra le rappresentazioni filmiche e la realtà del passato non è mai diretta in quanto la pellicola distorce sempre la verità e le prime sono fortemente mediate dalla formazione discorsiva, mentale, ideologica del gruppo sociale al quale appartengono i vari autori di un film.22
Secondo lui un film storico fa un’operazione di imitazione cercando di rappresentare l’epoca che vuole descrivere. Lo spettatore quindi, dopo che un oggetto viene filmato, vede solamente una rappresentazione mentre l’oggetto ha già perso la sua realtà. In più, dopo che il regista ha operato sul filmato, con montaggio ed elaborazione, si attua una sostituzione, dalla realtà del passato storico a quella della produzione del film e quindi si ha un anacronismo.
Il film storico dunque opera con una sorta di riempimento dei buchi della storia per permettere allo spettatore di vedere il discorso voluto dal regista in una continuità narrativa.
Egli afferma che, anche quando il soggetto è ripreso da un fatto realmente accaduto, la dislocazione temporale, il montaggio, le stesse angolazioni dell’inquadratura, la recitazione degli attori, trasformano il dato originario in finzione.
Ma l’obiettivo della Storia non è quello di reperire fatti esatti poiché il mestiere dello storico non è quello del cronista bensì si basa su documenti atti a creare interrogativi da studiare. Al fine di fornire delle risposte, lo storico formula delle ipotesi ed essendo il Cinema, per sua natura, un notevole serbatoio di ipotesi, ne consegue che esso è in grado di offrire le medesime possibilità. Le immagini infatti elaborano l’evoluzione storica, fanno la Storia allo stesso modo di quella scritta dagli storici, fondata sui documenti. 21 François de la Bretèque. Storico francese, professore emerito di studi cinematografici. Autore di Storia del cinema mondiale. 22 François de la Bretèque, Le film en costumes: un bon objet?, in CinémAction n°65, p.113.
Secondo Sorlin la diffidenza degli storici verso l’immagine cinematografica sta sull’indisponibilità, sui costi del materiale audiovisivo e sul fatto che il testo è un linguaggio visivo. Ed è soprattutto quest’ultima la ragione principale di tale difficoltà ad accettarlo poiché ciò che lo storico legge in un testo visivo è la soggettività di una scelta. Bisogna distinguere poi tra materiali filmati grezzi, non montati, e film di informazione o lungometraggi di fiction che si caratterizzano, appunto, in ragione dei requisiti della narrazione e del montaggio.
Sorlin sostiene che, al di là di tutte le necessarie cautele espresse, essendo ormai le immagini a definire gli eventi, così come prima lo erano perlopiù i documenti cartacei, è necessario studiare il ‘900 senza prescindere dalle fonti audiovisive. Parallelamente a quanto aveva già affermato Ferro egli sostiene che il film è un universo chiuso e quindi una fonte più originale mentre il documentario offre un’osservazione ripetitiva di un fatto e quindi offre un interesse limitato. Sorlin si spinge fino a considerare di un livello ancora peggiore la natura delle fonti dei cinegiornali. Lungi infatti dall’essere la testimonianza più immediata di avvenimenti storicamente incontrovertibili essi si limitano ad occuparsi preminentemente di sport, di storie di feste regionali, di cerimonie ufficiali, di cronache politiche circoscritte a fatti riconosciuti come elezioni, inaugurazioni, visite di dignitari stranieri. Il film invece è un medium che può passare da una storia narrata ad una storia vissuta, da una storia vissuta a una studiata, da una narrazione ad una ricostruzione. Dunque, se è vero che i film rivelano le posizioni politiche e le opinioni dei loro autori, ciò vale anche per i cinegiornali che rappresentano anch’essi il mondo non in quanto tale ma secondo la personale visione dei loro realizzatori. Si è pertanto costretti a considerare i cinegiornali come immagini deformate o piuttosto guidate della società dandone una visione altamente selettiva. La loro fruibilità in quanto documenti richiede una preventiva attività di disvelamento delle norme nascoste che regolano tale selettività. È opportuno dunque limitare l’uso dei cinegiornali al campo ristretto a cui si riferiscono e guardare altrove cioè ai lungometraggi come strumento di ricerca.
1.3 Paul Veyne e gli intrecci della storia
Riguardo alla discretezza della rappresentazione scritta, del racconto storico, in contrasto alla continuità della rappresentazione filmica, alla sua modalità analogica, è utile aprire una parentesi per citare il lavoro dello storico francese Paul Veyne23.
Nel suo saggio Come si scrive la storia, egli parte dall’assunto che “la Storia, con l’iniziale maiuscola, non esiste”. Essa non è una scienza e non ha granché da attenersi alle scienze. Non spiega e non ha metodo. Essa non è altro che un romanzo vero, con attori e avvenimenti raccontati dagli storici24. La storia è quindi racconto di avvenimenti, avvenimenti veri che hanno l’uomo come attore. Essendo sin dall’inizio racconto, essa non fa rivivere nulla, non più di quanto faccia il romanzo. Il vissuto, così come esce dalle mani dello storico, non è quello stesso degli attori. E’ una narrazione così come lo è, in altra forma, quella che offre un film storico. Come il romanzo, la storia trasceglie, semplifica, organizza, racchiude un secolo in una pagina25. E questa sintesi propria del racconto non è meno spontanea di quella prodotta dalla nostra memoria quando rievochiamo gli ultimi dieci anni della nostra vita. Infatti un racconto, il vissuto della ricostruzione, vede da una certa distanza temporale e porta a desumere che, ad esempio, la battaglia del Solstizio non fu la stessa cosa per il fante italiano e per il maggiore Francesco Baracca o che la si può leggere dalla fine, dall’inizio o in altri modi. Sulla scorta delle possibilità di lettura di un racconto, Veyne afferma che in nessun caso ciò che gli storici chiamano un avvenimento viene colto direttamente e per intero. Esso viene colto sempre indirettamente e in modo incompleto, per 23 Paul‐Marie Veyne, (1930). Archeologo e storico francese, specialista della Roma antica. Già allievo dell'École normale supérieure e membro dell'École française di Roma dal 1955 al 1957, è stato professore al Collège de France a Parigi, dove ha insegnato dal 1975 al 1998 e di cui, dal 1999, è professore onorario. 24 Paul Veyne, Come si scrive la storia, Roma, Laterza, 1973, p.4. 25 Ibid., p.11.
via di documenti o testimonianze; diciamo per via di tracce26. E dunque, sia il suddetto fante che l’aviatore Baracca sull’avvenimento che in seguito gli storici hanno identificato come la battaglia del Solstizio avranno una personale e particolare visione e prospettiva, e quindi potranno lasciare ai posteri solamente la loro testimonianza, una traccia appunto. Tutte queste tracce quindi sono delle interpretazioni dell’avvenimento e la narrazione storica avviene partendo non dai documenti, dagli avvenimenti, ma dalle loro interpretazioni, dalle tracce.
La storia allora è un racconto basato su avvenimenti veri, e non verosimili come nel romanzo, che sono unici per il semplice fatto che sono accaduti. E di questi avvenimenti a noi sono giunte le interpretazioni, le tracce, che necessariamente rendono una visione, un racconto parziale del tutto successo in quei momenti, e che lo storico ha usato per il suo racconto. Da qui ne deriva che la storia è una conoscenza mutilata, parziale. Uno storico quindi non è che possa dire che cosa è stato l’impero bizantino o l’invasione dell’Iraq del 1991 ma quello che ad ora ne possiamo sapere.
Le tracce degli avvenimenti potrebbero essere viste come dei nodi di una trama di un tessuto, un tappeto per esempio. Questi nodi sono collegati tra loro dal lavoro dello storico, che rende leggibili le tracce in un discorso narrativo storico, al fine di impedire che tutto ciò si riduca ad un’accozzaglia di fatti singoli. Dunque, per dirla con Veyne, i fatti posseggono un’organizzazione naturale, che lo storico trova già impostata e che è immodificabile. Lo sforzo dello storico consiste per l’appunto nel ritrovare tale organizzazione.
Questo tessuto della storia costituisce ciò che noi chiamiamo un intreccio, un plot27, una mescolanza molto umana e poco scientifica di cause materiali, di fini e di casi; in altro modo una tranche de vie che lo storico ritaglia a suo piacimento e in cui i fatti posseggono i propri collegamenti oggettivi e la propria importanza relativa28. Tale intreccio non si delinea necessariamente secondo un ordine cronologico, come un dramma interiore esso può passare da un piano all’altro, 26 Ibid., p.11. 27 La traduzione italiana utilizzata del termine è intreccio. Nel suo testo Veyne insiste sul termine letterario di plot, a lungo evitato dagli storici, che invece preferiscono parlare di "ricostruzione". 28 Ibid., p.60.
tagliando così trasversalmente vari ritmi temporali e quindi il lavoro dello storico, o del regista, come ammesso da Ferro, sta nel ritagliare da questo intreccio globale la parte che lui ritiene necessaria per confezionare il proprio racconto storico o la propria narrazione filmica. Si potrebbe spiegare questa operazione con le parole dello storico Edward Carr29:
I fatti storici non si possono minimamente paragonare a pesci allineati sul banco del pescivendolo. Piuttosto li potremmo paragonare a pesci che nuotano in un oceano immenso e talvolta inaccessibile: e la preda dello storico dipende in parte dal caso, ma soprattutto dalla zona dell’oceano in cui egli ha deciso di pescare e dagli arnesi che adopera: va da sé che questi due elementi dipendono a loro volta dal genere di pesci che si intendono acchiappare. In complesso lo storico si impadronisce del tipo di fatti che ha deciso di cercare. La storia è essenzialmente interpretazione30.
Quindi nella confezione di un racconto, che sia filmico o che sia storico, l’autore avrà l’onere di assicurarsi che la lettura sia possibile a seconda della quantità di nodi, di fatti storici, di cui egli disponga.
Se per una certa narrazione egli disporrà, o avrà scelto un intreccio con parecchi nodi, il prodotto sarà un racconto o un film storico nel quale lo spettatore a conoscenza della storia sarà a suo agio nel riconoscere la narrazione, come ad esempio avviene nel film di Olmi, analizzato oltre, Il mestiere delle armi. Di contro, la scelta di destoricizzare la narrazione, utilizzando quindi un intreccio povero di fatti, ma comunque ricco e lineare nella narrazione, per giungere a valori quasi assoluti, porta ad un’altra opera di Olmi anch’essa studiata, L’albero degli zoccoli.
Tornando a Veyne dunque, l’intreccio formato dai nodi e dalle connessioni, per essere compiuto, deve essere reso lineare, omogeneo, riempiendo le mancanze che le tracce necessariamente non possono offrire e che rendono la
29 Edward Hallett Carr (1892–1982), storico, giornalista e diplomatico britannico. Noto per il suo testo Che cos'è la Storia?, raccolta delle conferenze "G.M. Trevelyan lectures", tenute nel 1961 presso l'Università di Cambridge, in cui egli delinea i principi del suo metodo storiografico, contrastando molti dei metodi e dei principi tradizionali della storiografia.
storia una conoscenza mutilata31, nel senso che uno storico può dirci non chi era in realtà Giovanni dalle Bande Nere ma ciò che è ancora possibile saperne, ad esempio dalle lettere di Pietro Aretino. Allo stesso modo sulla vita di una comunità di campagna sarà conoscere solo nella misura di ciò che ci è pervenuto e non leggendo un libro intitolato, ad esempio, La vita quotidiana di una comunità del bergamasco di fine ‘800. Questo concetto è espresso anche dallo storico francese Marrou32: Nella realtà della storia vi sono sempre più cose di quante non ne possa comprendere l’ipotesi più ingegnosa: questa infatti è soltanto un artifizio della esposizione che, al fine di agevolare la memoria, sottolinea con un tratto di matita rossa queste o quelle linee di un complicato sviluppo.
Si tratta appunto di una prospettiva: nessuna ipotesi potrebbe pretendere di ridurre la molteplicità osservata a qualche principio generale, che di volta in volta spiegherebbe il reale in maniera vera e completa. [da una parte c’è bisogno della teoria; dall’altra la teoria è sempre insufficiente (arbitraria)]33 Veyne inoltre ribadisce che i titoli dei libri danno solamente l’illusione di aver ricostruito gli avvenimenti, in quanto i documenti che forniscono le risposte sono anche quelli che pongono le domande e quindi lasciano il lettore nell’ignoranza di ciò che dalle fonti non viene detto, in quanto non è certo facile immaginare ciò che non viene detto. Quindi per mutuare una terminologia informatica, la conoscenza storica, un racconto analogico, è data solamente da documenti, le istanze digitali, che offrono informazioni campionate su ciò che è successo, mediante una ricostruzione, l’interpolazione, che offre un’illusione di completezza.
Inoltre il disagio offerto da questa incompletezza viene colto con qualche sforzo, non ci viene automaticamente. Come viene percepito? Dalla consapevolezza che comunque non possiamo rifiutare lo studio di un periodo
31 P. Vayne, cit., p.26.
32 Henri‐Irénée Marrou (1904‐1977), storico francese, specialista del cristianesimo antico e della filosofia della storia.
solo perché gli spazi vuoti sono ritenuti troppi, e, di contro, dal fatto che non si può pretendere di avere una completa chiarezza dal passato. La storia non ha un limite inferiore di accettazione o superiore di completezza. Accettiamo un testo di storia su qualche impero orientale del quale ci è giunto solamente qualche dato cronologico. E certamente non pensiamo di conoscere tutto su qualche evento contemporaneo solo perché moltissime fonti ci hanno fornito informazioni che ci hanno fatto quasi dimenticare quel senso di mutilazione. Conclude Veyne dicendo che quindi la storia non è una scienza, ma per questo non manca di un suo rigore, posto però al livello della critica. Lo storico quindi non si può limitare ad elencare i nodi dell’intreccio che ha selezionato, i fatti, gli episodi che egli determina siano essenziali per il racconto, bensì egli deve cogliere attorno a tali episodi i contorni, le strutturazioni possibili, che le necessità della confezione del racconto storico possono richiedere. Ad esempio un testo che tratti dell’espansione coloniale italiana in Africa, e solo quella, sarà necessario che racconti dei bombardamenti con l’iprite, mentre una trattazione sull’intero colonialismo europeo sarà affrontata da un punto di vista globale. Ancora, il tipo di taglio che lo storico decide di dare all’intreccio completo, gli permette di descrivere il soggetto storico da lui scelto da varie prospettive. La guerra italiana in Africa potrà essere descritta in molti modi diversi, che vanno da una cronaca degli avvenimenti diplomatici, militari o da quelli vissuti dalla popolazione civile, così come potrebbe essere vista sotto l’aspetto economico, sociale e magari in uno di questi aspetti i suddetti bombardamenti potrebbero non trovare posto affatto.
1.4 Paul Ricœur e il tempo storico
Come sopra anticipato quindi esiste un tempo della storia che sta alla base del racconto che lo storico confeziona. Secondo quanto scritto da Paul Ricœur34 si può parlare di un tempo cosmico, relativo alla nascita delle stelle che continuerà dopo che noi non ci saremo più, e di un tempo individuale, associato alla presenza di un individuo sulla terra, dunque di un tempo vissuto. Tra questi tempi lo storico considera un terzo tempo, il tempo del calendario, come una sorta di collegamento, di intermediazione tra il tempo cosmico e quello individuale.
Questo terzo tempo, che lui chiama tempo storico, ha un carattere misto, preso da entrambi. In quanto tempo del calendario esso offre un sistema di misura alla rappresentazione storica, mentre d’altra parte esso conserva un carattere del tempo vissuto dall’uomo e di conseguenza esso porta con sé i vuoti e i pieni del fluire delle azioni umane. Il tempo storico35 inoltre crea l’asse temporale, con un prima e un dopo, su cui viene costruita la ricerca storica o la narrazione storica e dunque lo storico su di esso posiziona le tracce sopra menzionate per confezionare l’intreccio della narrazione.
Nell’ambito cinematografico, un film, anche nel caso fosse chiaramente infedele o indifferente sotto il profilo dell’informazione storica e quindi non in grado di costituire un riferimento autentico del tempo storico, potrebbe essere guardato dallo storico nel suo aspetto di tempo vissuto e non di tempo storico. Questo sicuramente fornirebbe informazioni utili su come una determinata epoca, antecedente alla pellicola, possa essere considerata al momento delle
34 Paul Ricœur, (1913–2005). Filosofo francese. Tra i maggiori testimoni e protagonisti della coscienza filosofica del Novecento.
riprese. Questa convinzione è stata fatta propria anche da Gian Piero Brunetta36 che disse:
I film che ricostruiscono la storia passata […] sono interessanti soprattutto perché, in trasparenza, parlano della realtà contemporanea, respirano dibattiti politici e ideologici ancora in atto […]. Sono come orologi che esibiscono una doppia temporalità: una temporalità apparente, un movimento antiorario e un movimento reale sintonizzato sul presente, sulla evoluzione della ricerca storiografica e, al tempo stesso, sulla modificazione dei comportamenti intellettuali in rapporto alle trasformazioni sociali […].
Per fare un esempio esplicativo si considerino i due film di Luchino Visconti, Senso (1954) e Il Gattopardo (1962). Entrambi sono ambientati nel Risorgimento e dunque per loro il tempo storico è lo stesso. Però tra i loro tempi di produzione, tra i loro tempi vissuti, intercorrono otto anni e quindi in questo intervallo temporale il pensiero si è evoluto e così la concezione della storia vista da Visconti e dunque gli intrecci, i plot, sono diversi.
Come afferma William Guynn37, un’altra caratteristica del tempo storico è che, nascendo dallo storico o dal regista a seguito della domanda che sta all’inizio della loro ricerca, ed essendo inoltre posizionato su un asse temporale, esso implica un inizio e una fine tra loro collegati da un processo di causa ed effetto.
Quando lo storico o il regista identificano l’oggetto del loro studio o opera con la propria domanda, essi staccano, dall’insieme senza limite dei fatti, dal totale delle tracce, una fetta originale di quell’insieme. Questa fetta è dunque definita, come una cornice cronologica della narrazione che, oltre a posizionarsi sull’asse temporale, mette anche in moto la ricerca di una catena di causalità che trasforma il questo‐e‐quindi‐quello in questo‐a‐causa‐di‐quello.38 36 Gian Piero Brunetta (1942). Critico cinematografico, storico del cinema e docente italiano. Ordinario di Storia e critica del cinema presso l'Università degli Studi di Padova, è conosciuto per essere l'autore di un'importante opera in quattro volumi dedicata alla storia del cinema italiano (Storia del cinema italiano, Editori Riuniti). Dalla seconda metà degli anni settanta il suo lavoro assume una dimensione storica.
37 William Guynn, (1941), professore emerito di teoria e storia del Cinema all’università di Sonoma, California. Ha studiato a Parigi con Christian Metz.
Dunque, il posizionamento delle tracce deve sottostare allo scopo della narrazione storica o filmica, che è quello di trasformare la logica temporale, questo è successo prima di quello, in una logica di comprensione della storia, strutturata in relazione ad una causa e ad un effetto, questo è successo a causa di quello avvenuto prima, quindi in relazione alla causalità storica. Questo principio è definito da Henri‐Irénée Marrou: La storia diventa comprensibile solo nella misura in cui si dimostra che è in grado di stabilire, di individuare le relazioni che legano ogni fase dello sviluppo umano ai suoi antecedenti e alle sue conseguenze: così come, in modo statico, una situazione storica, presa all’istante t, si mostra sempre ad essere più o meno strutturata, allo stesso modo lo svolgersi di momenti [storici] non è come una linea discontinua di atomi del reale, isolati come grani di un rosario che la volontà imperscrutabile di Dio conta arbitrariamente (come alla teologia Islamica piace immaginarla): l’esperienza della storia, che il ricercatore coscienzioso acquisisce dal contatto con i documenti, ci fa scoprire che ci sono relazioni intelligibili tra momenti di tempo successivi. Certamente, non tutto è legato insieme: ci sono iati nello sviluppo di tempo in quanto vi sono dei limiti nelle strutture statiche; ma il compito dello storico è quello di scoprire queste connessioni ove esse possono esistere.39 1.5 Gérard Genette e i livelli del racconto Al concetto di tempo storico, dove lo storico o il regista posizionano il proprio intreccio, la propria narrazione, si potrebbe affiancare la teoria dei livelli narrativi o diegetici studiata da Gérard Genette40, teorico della letteratura contemporanea, secondo il quale all’interno di un racconto esistono diversi livelli
39 Henri‐Irénée Marrou, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 1988, p.159.
40 Gérard Genette, (1930), critico letterario e saggista francese. Allievo di Roland Barthes, è stato esponente di spicco della cosiddetta “nouvelle critique”, privilegiando lo studio della struttura linguistica dei testi per rivelarne quei meccanismi nascosti che ne costituiscono l'intrinseca “letterarietà”.
narrativi disposti a gradi crescenti a partire dal livello cosiddetto primo dove si colloca la storia principale. Nel caso dei film si potrebbe in prima battuta definire il livello primo o diegetico quello che si vede raccontato con l’inizio del film.41
Dai livelli diegetici Genette passa a trattare poi del metaracconto. Intuitivamente, il metaracconto può essere definito come un racconto che ha per narratore il personaggio di un altro racconto: quindi, un racconto di secondo livello rispetto al racconto principale di primo livello che lo ingloba o, appunto, un racconto nel racconto.
La pratica del cinema ha mutuato e rielaborato le forme del discorso letterario. La forma del racconto orale, ad esempio nell’Odissea, è spesso associata nel cinema a immagini che visualizzano il racconto stesso, e coincide di frequente con la rievocazione, da parte di un personaggio, di eventi che gli sono accaduti in un momento della storia antecedente a quello in cui si situa l’atto narrativo, la diegesi, e che lo spettatore o il lettore ancora non conosce. Un esempio abbastanza noto si trova nel film di Woody Allen Stardust memories (1980) nel quale il protagonista, Allen stesso, rivive momenti del suo passato.
Può trattarsi anche della esplicita rievocazione di un sogno, ma il sogno può costituire un racconto nel racconto senza che vi sia la mediazione del ricordo, oppure senza che il passaggio dalla “realtà” della diegesi alla dimensione onirica della metadiegesi sia segnalato in quanto tale.
Il metaracconto può assumere infine la forma di opera nell’opera: può esistere, cioè, come narrazione di fiction autonoma prodotta all’interno della narrazione principale, come ad esempio in L’ultimo metrò (1980) di François Truffaut. Naturalmente, il metaracconto inteso come opera indipendente può assumere anche la forma del film nel film, per restare a Truffaut si pensi a Effetto notte (1973). Una volta individuato il meccanismo, rimangono da analizzare le relazioni che il racconto di secondo livello instaura con il racconto primario, per individuare il ruolo che il metaracconto assume all’interno della narrazione più ampia che lo ingloba. 41 Cfr. Valentina Re, Violare i limiti: la metalessi. www.academia.eu.
Il metaracconto può per esempio esercitare una funzione esplicativa, illustrando gli eventi che hanno portato alla situazione in cui l’atto narrativo diegetico si colloca oppure il metaracconto può avere una funzione persuasiva, nel senso che può proporsi come esempio in grado di incidere sui comportamenti dei personaggi del racconto primo.
Molte volte accade che, soprattutto nel campo cinematografico, i rapporti di analogia e/o contrasto tra la dimensione narrativa e quella metanarrativa possano creare delle complesse configurazioni che conducono questo gioco di rimandi nel terreno, più circoscritto ma articolato, delle strategie di ciò che viene definita mise en abyme42. Un esempio recente si trova nel film Inception (2010) di Christopher Nolan43. Negli esempi fin qui citati, il “racconto nel racconto” nella forma dell’opera autonoma realizzata all’interno del mondo diegetico si presenta come film di fiction all’interno del film o un frammento nel film. Si è finora trattato del metaracconto in termini di racconto secondario, o di secondo livello, una subordinazione ben definita da Genette quando specifica che “ogni avvenimento raccontato da un racconto si trova a un livello diegetico immediatamente superiore a quello dove si trova l’atto narrativo produttore di tale racconto”.44
In altri termini, nel lavoro di Genette il mondo costruito attraverso il racconto primo, o attraverso altre forme di rappresentazione, corrisponde al livello diegetico, sul quale possono annidarsi delle metanarrazioni che vanno a costituire un livello metadiegetico superiore, e così via. Di questa articolazione in livelli è importante precisare da subito almeno tre aspetti.
In primo luogo, la distinzione tra livelli narrativi è data solo dalla logica delle relazioni creata dall’autore e non da proprietà “ontologiche” insite nei livelli stessi. In particolare, l’articolazione in livelli di per sé non implica uno stato di realtà e finzione, e non riguarda direttamente il rapporto tra realtà e
42 Un esempio di mise en abyme si ha quando, in un film, un personaggio si sveglia da un sogno ma si accorge di stare ancora sognando.
43 Christopher Edward Nolan (1970), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico inglese. Noto soprattutto per la trilogia del cavaliere oscuro, ha diretto capolavori della fantascienza come Inception (2010) e Interstellar (2014), e storici come Dunkirk (2017).
rappresentazione. Ciò nonostante, è chiaro che ci sono molti casi in cui il primo livello viene assodato come reale e il secondo come finzionale. Tuttavia, in un film storico queste aspettazioni non ci saranno.
In secondo luogo, occorre tenere presente che al livello diegetico e metadiegetico si aggiunge un terzo livello, il primo gradino di questa breve scala narrativa. Il livello diegetico non poggia dunque su un ipotetico livello zero, che coinciderebbe con la realtà, basata sul tempo vissuto, secondo la terminologia di Ricœur; piuttosto, il livello diegetico presuppone logicamente un’istanza narrativa che ne è responsabile, e che non coincide in alcun modo con l’istanza di scrittura, con l’autore o il regista. Ci si serve dunque del prefisso extra per identificare la posizione logicamente superiore, esterna solo in questo senso rispetto alla diegesi, alla narrazione principale.
Chi esiste nella realtà è ovviamente l’autore, o il regista, che interessa in questa discussione in quanto narratore, per definizione extradiegetico. Un discorso analogo vale, naturalmente, anche per il narratario extradiegetico, che nel caso cinematografico coincide con lo spettatore reale.
A questo punto, occorre affrontare la questione del passaggio. Come si passa, da un livello all’altro? Secondo Genette, il passaggio si effettua solo attraverso alcuni atti convenzionalmente ritenuti legittimi ad esempio quando qualcuno comincia a raccontare o a leggere un racconto oppure quando uno spettatore siede in una sala e guarda un film.
Però può non esserci alcuna effettiva comunicazione tra un mondo raccontato e il mondo in cui si racconta, tra un mondo rappresentato e il mondo in cui si rappresenta. Detto in altri termini, i confini che separano la narrazione principale dalla metanarrazione, quella di secondo livello, quella annidata, sono mobili ma inviolabili, nel senso che non consentono alcun incrocio che non sia gestito da un atto lecito del tipo di quelli appena ricordati. Ed è proprio qui che entra in gioco il fenomeno della metalessi, dal momento che la letteratura, così come il cinema, è piena di storie in cui i livelli diegetici vengono, di fatto, violati, nel senso che si verificano passaggi non consentiti, o illegittimi.
Nel cinema e nella letteratura compaiono moltissime storie in cui qualcuno ha la facoltà, che ha un sapore di magia e di fantastico, di oltrepassare il confine tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Ad esempio può accadere che si entri in un quadro, oppure dentro lo schermo, oppure è il narratore di un racconto che entra nel racconto che lui stesso sta raccontando. Oppure, ancora, i personaggi di un racconto entrano nel mondo di chi sta raccontando. Si pensi alla scena del film La rosa purpurea del Cairo (1985), quando la spettatrice del film Cecilia, interpretata da Mia Farrow, vede uscire materialmente dallo schermo e rivolgersi a lei Tom Baxter, interpretato da Jeff Daniels.
Genette chiama questo fenomeno di trasgressione dei livelli narrativi, di infrazione del confine che separa due livelli diegetici contigui, metalessi.
Personaggi fuggiti da un quadro, da un libro, da un ritaglio di stampa, da una fotografia, da un sogno, da un ricordo, da un’illusione, ecc., tutti questi giochi manifestano con l’intensità dei loro effetti l’importanza del limite che essi si ingegnano di superare a scapito della verosimiglianza, coincidente proprio con la narrazione (o la rappresentazione) stessa: frontiera mobile ma sacra fra due mondi: quello dove si racconta, quello che si racconta.
Ne deriva l’inquietudine segnalata così giustamente da Borges: “Simili invenzioni suggeriscono che se i personaggi di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere dei personaggi fittizi”. La metalessi più sconvolgente si trova proprio in questa ipotesi inaccettabile e insistente.45
A questo punto, più che la valenza tecnica della metalessi, interessa analizzare gli effetti che è in grado di produrre. Al fenomeno della metalessi sembrano riconducibili due grandi effetti, che peraltro non si escludono l’un l’altro, e anzi si trovano spesso combinati in misure diverse. Da una parte, la rottura o lo svelamento del patto di finzione, suspension of disbelief in inglese, che molte volte ha carattere ironico o ludico come il citato esempio del film di Woody Allen oppure come i celebri sguardi in camera di Oliver 45 G. Genette, Figure III, p.284.
Hardy. In questi casi alla sospensione dell’incredulità si va a sostituire una specie di consapevole complicità.
Molte metalessi in cui il narratore pretende a vario titolo di intervenire in quella storia che può solamente raccontare, funzionano in questo modo, come si vede ad esempio nell’ambiguità delle voci narranti, che vorrebbero mantenere una valenza extranarrativa anche quando sono interne all’immagine, in C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola.
Il carattere di trasgressione della scena del film La rosa purpurea del Cairo, per rimanere all’esempio già citato, consta nel fatto che Tom, il protagonista metadiegetico del film che Cecilia sta guardando, dalla sua posizione, non può che rivolgersi a istanze collocate al suo stesso livello. Qualunque pretesa di rivolgersi ad altri personaggi, in questo caso al narratario diegetico, come se tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione potesse esserci una “reale” comunicazione, è illegittima, e produce una violazione, in questo caso di natura comica, del patto finzionale.
D’altro canto, per le stesse ragioni per cui un narratore extradiegetico non può rivolgersi ai personaggi diegetici, un personaggio diegetico non può rivolgersi direttamente al narratario extradiegetico, allo spettatore. È evidentemente il caso, al cinema, dello sguardo in macchina, che produce un’immediata manomissione del patto finzionale e può inoltre assumere valenze ulteriori, come si vedrà in seguito per Il mestiere delle armi di Olmi.