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Verità e diritto

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Academic year: 2021

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(1)

Chiunque voglia sinceramente la verità è sempre spaventosamente forte.

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INDICE

INTRODUZIONE: VERITÁ E DIRITTO ... 1

CAPITOLO I: ESORDIO ALLA VERITÁ ... 7

1. Introduzione: Il percorso della verità ... 7

2. Teorie della verità: un inquadramento generale ... 8

2.1 Portatori di verità ... 9

2.2 Molteplicità delle teorie ... 10

2.2.a Teorie robuste ... 10

2.2.b Teorie non robuste ... 16

2.3 Osservazioni conclusive ... 22

3. Il relativismo della verità ... 24

3.1 Relativismo concettuale ... 26

CAPITOLO II: VERITÁ E POLITICA ... 29

1. Introduzione: può la verità assumere un ruolo politico? ... 29

2. Verità, politica e universo comune: HANNAH ARENDT ... 31

2.1 Verità razionale e verità di fatto, agire politico e opinione 31 2.2 Il conflitto tra verità e politica ... 34

2.3 Osservazioni conclusive ... 39

3. L’inutilità della verità: RICHARD RORTY ... 41

3.1 Verità e giustificazione ... 41

3.2 La critica alla verità come corrispondenza ... 43

3.3 Giustificazione ed uso cautelativo della verità ... 46

3.4 Osservazioni conclusive ... 49

4. Democrazia tra verità e segreto: NORBERTO BOBBIO... 51

4.1 Potere e segreto ... 51

4.2 Nesso tra opinione pubblica e pubblicità del potere ... 55

4.3 Potere onniveggente e invisibile ... 57

4.4 Ideale democratico e realtà ... 58

5. La verità: valore sociale? ... 61

CAPITOLO III: VERITÁ E LEGALITÁ ... 64

1. Introduzione diritto vero ... 64

(3)

3. La seconda dimensione del diritto e la sua verità sostanziale:

nascita della Costituzione ... 72

3.1 Distinzione tra diritti e legge: primo tentativo di recupero della verità nel diritto ... 74

3.2 I giudici costituzionali quali depositari della nuova verità . 76 4. La nuova verità del diritto: ricomparsa del diritto naturale? .... 77

CAPITOLO IV: VERITÁ E CERTEZZA ... 81

1. Introduzione: Diritto Certo ... 81

2. Verità e certezza: un breve exursus storico ... 82

3. La certezza giuridica ... 85

3.1 La certezza giuridica nel formalismo kelseniano ... 87

3.1.a La certezza come illusione nella dottrina pura del 1934 ... 87

3.1.b La certezza giuridica nella Dottrina pura del 1960 ... 89

3.1.c L’approssimativa realizzabilità della certezza ... 93

3.2 Lopez de Oñate e la certezza del diritto... 94

3.2.a Crisi del diritto ... 94

3.2.b I rischi per la certezza del diritto: minacce di fatto e minacce teoriche ... 96

3.2.c La norma trascendente la società e il diritto quale strumento di tutela dell’individuo ... 98

3.2.d L’eliminazione dell’arbitrio e il conseguimento della pace nella società ... 99

3.2.e L’ eticità del diritto: la certezza ... 102

3.3 La certezza giuridica come prevedibilità-sicurezza nell’antiformalismo di Corsale ... 105

3.3.a Il “come” della certezza giuridica: valutazione negativa della certezza legale ... 107

3.3.b L’ideologia sociale quale matrice della sicurezza giuridica ... 109

3.3.c Evoluzione della certezza nella storia del diritto ... 112

3.3.d Come è possibile giungere alla certezza? ... 114

3.4 Bruno Leoni e la certezza del diritto... 116

3.4.a Certezza a lungo termine e certezza a breve termine: distinzione ... 117

(4)

3.4.b Principali manifestazioni di ordinamenti a lungo

termine ... 118

4. Verità e certezza nella decisione giudiziale ... 121

CAPITOLO V: VERITÁ E PROCESSO ... 124

1. La verità processuale come verità approssimativa ... 124

2. L’ottica socio- costruttivista: realtà, mente, cultura e linguaggio ... 131

3. Narrazioni processuali e narrazioni letterarie: analogie e differenze ... 134

4. Narrazioni processuali e narrazioni storiche: analogie e differenze ... 137

5. Le narrazioni processuali come categoria a sé stante ... 142

6. I soggetti della narrazione: avvocati, testimoni e giudici ... 142

7. Prova e verità ... 150

7.1 La dimensione epistemica del processo ... 150

7.2 I soggetti dell’attività epistemica ... 152

7.2.a Le parti ... 153

7.2.b Il giudice e i suoi poteri istruttori ... 154

7.2.c La valutazione delle prove ... 156

7.3 Introduzione al ragionamento probatorio ... 159

7.3 a Dinamiche del ragionamento probatorio ... 159

7.3.b Due modelli di ragionamento probatorio: il modello dell’inferenza alla migliore spiegazione e il modello epistemologico dialettico-retorico ... 161

3.3.c Senso comune e massime di esperienza... 164

7.3.d Il ricorso alla scienza ed il ruolo della prova scientifica ... 169

7.3.e Osservazioni conclusive... 173

8. Il contraddittorio ed il suo ruolo nel perseguimento della verità ... 174

9. Verità e concezioni del processo: confronto con la giustizia americana ... 176

CAPITOLO VI: VERITÀ E GIUDIZIO ... 180

1. Introduzione: verità pratica e giudizio giurisdizionale ... 180

(5)

3. Il giudizio giuridico: cenni generali ... 184

3.1 Il giudizio giurisdizionale ... 186

4. Il ragionamento giurisdizionale: verità, interpretazione e ragionevolezza ... 189

4.1 L’interpretazione come strumento di verità ... 190

4.1.a L’interpretazione giuridica... 191

4.2 La ragionevolezza ... 196

5. La motivazione giurisdizionale come discorso di verità ... 198

5.1 Può l’imparzialità del giudice assicurare la verità? ... 201

6. Osservazioni conclusive: la verità giudiziale tra universalità e contingenza ... 203

CONCLUSIONI ... 205

(6)

1

INTRODUZIONE: VERITÁ E DIRITTO

La crisi della modernità ha determinato il diffondersi, sempre più pervasivo, di uno scetticismo radicale circa la possibilità di trovare fondamenti durevoli alla condizione umana e alle sue modalità di conoscenza del reale, specie dopo il tramonto dello scientismo e del “pensiero forte”1 di matrice cartesiana.

Il vocabolario attuale è caratterizzato da sempre più numerosi richiami alla “crisi”: “crisi dell’individuo”, “crisi della politica”, “crisi dello Stato e del diritto”, “crisi economica”, e si potrebbe continuare quasi indefinitivamente.

Se teniamo ben presente, però, quel fondamentale strumento di attribuzione di senso costituito dall’etimologia, scopriamo che la parola greca krisis sta a significare “scelta”.

In questa prospettiva, si potrebbe sostenere come la realtà degli uomini viva sempre momenti di crisi dal momento che le scelte, assunte in ogni ambito, costituiscono l’essenza delle nostre vite: scelte morali, scelte politiche, scelte giuridiche e via di seguito. Dunque, non è possibile non prendere in considerazione la presenza di processi decisionali nella quotidianità dell’individuo, in particolar modo nei contesti in cui le opzioni si presentano come estremamente complesse. Si pensi a quelle di tipo bioetico, determinate dallo sviluppo medico e tecnico, in relazione alle quali non è possibile ravvisare l’esistenza di una morale che fornisca criteri e risposte alla tragicità delle scelte umane.

Il dubitare, il contraddirsi, l’andare in contro a conseguenze inaspettate costituiscono elementi essenziali non solo delle nostre esperienze di vita ma, stante l’imprescindibile dimensione intersoggettiva che le caratterizza, si configurano anche come alcuni aspetti ineliminabili della reciprocità sociale.

In relazione alle difficoltà morali della prassi umana, gli atteggiamenti si traducono, di solito, in una presa di posizione attiva, che comporta l’individuazione di precetti di diverso tipo (religiosi, naturali, ideologici) cui conformare l’azione oppure, come accennato, in una condotta passiva caratterizzata dalla convinzione del venir meno di ogni senso e di ogni “condivisione” di senso.

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2 Da una parte, dunque, la presenza di una Verità dalla indiscutibile esistenza, dall’altra, la sconfessione di ogni concezione di verità, la moderna scomparsa di ogni presupposto.

Tuttavia, i mutamenti della storia, la pluralità delle relazioni umane, la problematicità di individuare un riferimento ultimo, non possono impedire i processi del conoscere e del valutare, né d’altro canto devono necessariamente tradursi nell’impossibilità di non rispondere all’esigenza di verità e di giustificazione.

Premesso ciò a livello generale, il presente lavoro muove dalla seguente considerazione: l’assunzione nella dimensione pubblico-giuridica di parametri di riferimento valoriali si presenta come un’esigenza essenziale ma, al contempo, altamente rischiosa.

Essenziale, dal momento che sarebbe inconcepibile un diritto che si configurasse esclusivamente come un complesso di norme assolutamente apatico rispetto ai contenuti. Verrebbe meno non soltanto la necessaria relazione con la realtà sociale ma soprattutto la sua fondamentale caratteristica di “doverosità”. In assenza di valori di riferimento, in relazione a quali coordinate orientare le condotte? Tuttavia, l’implicazione del diritto con i valori potrebbe determinare esiti, in una certa prospettiva, quanto meno temibili.

Il rischio risiederebbe nel naturale conflitto tra i valori ultimi; qualora uno di essi dovesse essere ritenuto assoluto avrebbe modo di “ledere” gli altri e in ultima istanza di minacciare la democrazia. In ogni caso, la relazione tra diritto e valori costituisce una realtà impossibile da ignorare.

Nella trattazione che seguirà si è scelto di concentrarsi sulla possibile correlazione del diritto con ciò che, probabilmente, può essere ritenuto il valore fondativo per antonomasia: quello della Verità. Non è possibile infatti prescindere da un’evidenza: la verità e il diritto sembrano spesso riferirsi l’uno all’altro; pertanto, da sempre, movimenti di pensiero filosofici e orientamenti giuridici, si sono interrogati sulla sussistenza di un loro eventuale legame.

Colui il quale, forse, maggiormente ha insistito su tale nesso, è stato Nietzche. In particolare, il filosofo tedesco mette in luce quelli che egli ritiene essere gli aspetti di similitudine tra verità e diritto.

(8)

3 Sotto questo specifico angolo visuale, entrambi ricoprirebbero la medesima funzione.

La verità sarebbe volta ad una sistematizzazione e ad una categorizzazione della realtà intesa nella sua dimensione generale. Il diritto, analogamente, avrebbe tra i suoi fini precipui l’organizzazione degli assetti della realtà sociale.

In aggiunta, la verità, così come la norma di diritto, determinerebbe l’insorgere di un obbligo: essa avrebbe un potere coattivo sulle convinzioni e i comportamenti degli individui.

Infine, la verità, allo stesso modo che il diritto, opererebbe una distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il consentito e il non consentito. Di qui, l’individuazione della sussistenza in ambedue di imperatività e normatività2.

D’altro canto, diversi altri pensatori e giuristi, per ragioni differenti, hanno evidenziato la sussistenza di un collegamento tra verità e diritto.

Accanto ad essi, o per meglio dire in contrapposizione, ve ne sono molti, forse anche più numerosi che, specie nell’ambito delle correnti positivistiche, si oppongono al riconoscimento di tale legame.

Innanzitutto, non si può non riportare quanto scritto da Kelsen: «Non si può parlare di una “verità” del diritto. Infatti il diritto (anche il diritto giusto) è norma e come tale non può essere né vero né falso».3 Ne discende che di una norma di diritto si possa ritenere solo che essa sia in vigore o valida, certamente né vera né falsa.

A riguardo, pare opportuno ricordare la nota affermazione di Uberto Scarpelli: «non la verità, ma l’autorità fa il diritto»4.

Più di recente, Luigi Ferrajoli sostiene che riferirsi alla norma in termini di verità o falsità sia un «nonsenso»5.

2 F. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extra morale e altri scritti,

Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011.

3 H. KELSEN, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino 1985, p.281. 4

U. SCARPELLI, Auctoritas non veritas facit legem, Rivista di filosofia 1984, 75, 1, pp.29-43.

5 L. FERRAJOLI, La semantica della teoria del diritto. In Uberto Scarpelli, La teoria generale del diritto: Problemi e tendenze attuali, Edizioni di Comunità,

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4 Si nega, cioè, che abbia un senso poter discutere di verità o falsità delle regole di diritto per l’evidente ragione che queste ultime non possiedono lo status richiesto per riferirvi tali proprietà.

La “consistenza” del diritto non può essere di verità o di falsità, sono solo le proposizioni attraverso cui si esprime ad essere suscettibili di un predicato di verità o di falsità.

Sarebbe praticamente irrazionale concepire una verità del diritto, sostenuta da evidenze indiscutibili e accettate come tali dagli individui, dal momento che questi ultimi saranno in eterno contrasto sui valori di orientamento delle proprie condotte6.

In altri termini, dal diritto non potrà scaturire una verità oggetto di una comune accettazione essendo l’esperienza giuridica il riflesso della condizione umana e del sui insanabili contrasti valoriali.

In ogni caso, anche qualora si ritenesse che il diritto possa configurarsi, in qualche misura, come vero si correrebbe il preoccupante rischio di non poterlo sottoporre a giudizio e a discussione.

Sulla base di queste considerazioni e assumendo, come specifico angolo visuale dal quale condurre la trattazione, l’analisi di un possibile nesso tra verità e diritto, il presente lavoro si strutturerà come segue:

• Il primo capitolo, in quanto inquadramento generale, si occuperà di effettuare, in via preliminare, alcune chiarificazioni in merito al “significato” del termine verità per poi presentare, di seguito, i caratteri fondamentali delle principali teorie contemporanee della verità;

• Il secondo capitolo, focalizzerà l’attenzione sui nessi ipotizzabili tra verità e politica. Se come ha sostenuto Hannah Arendt: «Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra»7, si tenterà di riflettere sulla possibilità che possa configurarsi come politicamente accettabile e con quali benefici e a prezzo di quali costi, un valore in sé della verità. Si è ripercorso in merito il pensiero della citata Hannah Arendt, di Richard Rorty e di Norberto Bobbio;

6 Sul punto anche, N. IRTI, Diritto senza verità, Laterza, Roma-Bari 2011.

7 H. ARENDT, Verità e politica seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p.29.

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5 • Il terzo capitolo, adotterà come contesto di analisi il più specifico ambito dell’esperienza giuridica. Una delle più radicate interpretazioni del diritto è quella secondo la quale esso rappresenti un necessario strumento di strutturazione e organizzazione, ordinata e coerente, della realtà sociale. Da parte di alcune correnti filosofico-giuridiche si è ritenuto di poter realizzare tale obiettivo mediante il ricorso alla “forma”; in particolare, la sola forma in grado di rendere intellegibile le relazioni giuridiche sarebbe quella della legge. Tuttavia non si può non considerare come, sempre al fine di realizzare un coordinamento della dimensione sociale, il diritto assuma come altro tra i suoi compiti specifici, quello di qualificare normativamente fatti e condotte umane; ne risulta che esso non potrà esimersi dal confrontarsi con la realtà dei rapporti sociali e dal recepirne quella che potrebbe essere definita la loro “verità materiale”. Alla luce di tali considerazioni, oggetto di tale capitolo sarà, dunque, il tentativo di stabilire una connessione tra la verità e la categoria normativa della legalità.

• Il quarto capitolo affronterà un altro aspetto da sempre connesso alla tematica della verità, vale a dire il rapporto che, dagli albori della filosofia, è stato individuato come sussistente tra verità e certezza. A tal fine nella parte iniziale, si ripercorreranno a grandi linee le concezioni fondamentali dell’evolversi di tale rapporto nel tempo; successivamente, la trattazione verterà su alcune delle diverse sfaccettature che possono essere assunte dalla categoria della certezza nell’ambito del diritto. Si è scelto di analizzare, in proposito, il pensiero di alcuni autori quali Hans Kelsen, Lopez de Oñate, Massimo Corsale e Bruno Leoni. Nella parte conclusiva si opereranno alcune considerazioni sul ruolo svolto dalla certezza in relazione al contesto specifico della decisione giudiziale.

• Il quinto capitolo, restringendo maggiormente la prospettiva di valutazione, tenterà di dare una risposta all’interrogativo relativo all’eventuale conseguimento della verità nel contesto processuale. Sulla base della consapevolezza che il giudice è chiamato a ricostruire un passato che è stato reale, ogni processo deve essere finalizzato all’accertamento di tale passato e pertanto, dovrà “impegnarsi” a conseguire un raggiungimento quanto più accurato e pertinente della sua

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6 “verità fattuale”. Va, tuttavia, sottolineato, come l’acquisizione della verità nel processo non possa realizzarsi in maniera assoluta, essendo il percorso per giungervi contrassegnato dalle restrizioni imposte dagli strumenti conoscitivi, dai vincoli connessi alla presenza di regole giuridiche, dai limiti temporali imposti dall’obbligo di decidere. Nonostante ciò, tale capitolo sarà volto a mostrare come una necessaria “tensione veritativa” dovrà permeare lo svolgimento del processo nelle sue dinamiche fondamentali; • Il sesto capitolo, quale ideale continuazione del precedente,

concluderà l’analisi nel tentativo di evidenziare il ruolo che dovrebbe essere assunto dalla verità con specifica attinenza al concetto e all’attività di giudizio. Nel dettaglio, ci si concentrerà sulla verità quale elemento imprescindibile della razionalità e della giustizia della decisione giudiziaria e di conseguenza quale aspetto intimamente connesso alla sfera della giustificazione e della legittimazione dell’attività giurisdizionale.

(12)

7

CAPITOLO I: ESORDIO ALLA VERITÁ

1.INTRODUZIONE:IL PERCORSO DELLA VERITÀ

«La verità non esiste» rappresenta una delle argomentazioni più note e controverse nella storia della filosofia.

Ne trattano Platone e Aristotele, gli stoici e gli scettici, la discutono sant’Agostino e san Tommaso, la esaminano a lungo i medievali, costituisce un “caso” logico importante nell’età moderna. Attualmente, il concetto di verità è divenuto uno dei più frequentati nella letteratura filosofica contemporanea.

Negli ultimi decenni del Novecento sono apparse almeno due nuove famiglie di teorie della verità: il deflazionismo e la teoria dei

truthmakers, mentre le teorie tradizionali (corrispondentismo,

coerentismo, pragmatismo) sono state ripresentate in molti modi differenti.

«Il secolo stesso, d’altra parte, si è aperto all’insegna della tesi fondamentale di Nietzsche, più volte citata: “ciò che vi è di nuovo nella nostra odierna posizione riguardo alla filosofia è una convinzione che finora nessuna epoca ha avuto. Noi non possediamo

la verità»8.

Riproposta dalla Nietzsche-Reinassance degli anni sessanta, la tesi ha esercitato, specie in Europa, un ascendente determinante sugli ambienti culturali e filosofici del secondo Novecento e molti autori tutt’oggi non esitano, in qualche misura, ad avvalorarla.

Uno degli aspetti forse più controversi delle riflessioni sulla tematica della verità consiste nella presa di coscienza che “la verità non esiste”, o “nessun enunciato è vero” (ma anche “non possiamo conoscere la verità”, oppure “la verità è una proprietà inesistente”) siano asserzioni che confutano se stesse: se è vero che la verità non esiste, almeno una verità esiste. Se, d’altra parte, “la verità non esiste” non è vero allora la verità esiste. Come si è potuto notare, a normali condizioni logiche, non è possibile negare la verità9.

8

F. D’AGOSTINI, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p.11.

9 Sul punto: F. D’AGOSTINI, Disavventure della verità, Einaudi, Torino 2002, p.

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8 La diffidenza nei confronti della verità, oggi come all’epoca delle disquisizioni passate, è probabilmente dovuta alle modalità di funzionamento della vita associata e alla circostanza che tali modalità siano normalmente legate a determinate e contingenti necessità della conoscenza, della filosofia, della scienza, in una parola, dell’ambiente epistemico in cui tutti, semplici cittadini, scienziati, filosofi e politici si trovano ad operare.

Tuttavia, nonostante le trascorse e recenti perplessità relative al vero e al falso, tanto nel dibattito filosofico-scientifico quanto nell’uso comune, è intuitivo che esista una inevitabile ricaduta pratica del concetto di verità: come sarebbe possibile orientarsi nella vita se non postulassimo che i discorsi nostri e altrui non si riferissero a qualcosa di almeno simile al vero?

Di qui, il tentativo di cimentarsi, senza alcuna pretesa di esaustività, ad una riflessione su tale spinosa tematica.

2.TEORIE DELLA VERITÀ: UN INQUADRAMENTO GENERALE

Nella parte preliminare del lavoro, ci si occuperà di ripercorrere, a grandi linee, le principali teorie della verità.

Una teoria della verità si occupa, in linea di principio, di definire la nozione di verità, identificare i criteri in base ai quali distinguere il vero dal falso, specificare a che cosa serva il concetto di verità, come lo usiamo e come dovremmo usarlo. Tali aspetti sono evidentemente collegati anche se, solitamente, una teoria della verità finisce per privilegiarne, quasi esclusivamente, uno solo di essi.

Iniziamo dal problema della definizione, ponendo, innanzitutto, la domanda: che cosa intendiamo quando diciamo “questo è vero”, “questo non è vero”? Si tratta, in altre parole, di esplorare il significato e l’uso del predicato “vero”, solitamente espresso con V. Franca D’Agostini, a riguardo, specifica quanto segue.

«Un predicato indica una proprietà, ossia un modo di essere (e di stare, di agire ecc.) di un oggetto: “verde” e “corre” sono predicati, e gli oggetti a cui si riferiscono possono essere “questo tavolo” o “Socrate”, per cui diciamo “questo tavolo è verde”, “Socrate corre”. Non tutti i predicati si applicano a tutti gli oggetti: “verde”, per

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9 esempio, non si applica a emozioni, ma a oggetti fisici, non si dice normalmente “la tristezza di Maria è verde”»10.

Ne discende, che per definire il predicato V dovremmo, anzitutto, individuare a quali generi di cose lo si applica, dunque, rispondere alla domanda: “quali tipi di oggetti sono da noi detti veri o falsi?”. Successivamente, si dovrebbe procedere con lo specificare quando applicarlo o meno, rispondendo alla domanda: “come devono essere fatti questi oggetti per essere detti veri?”. La prima è la questione di quelli che sono stati definiti «portatori di verità», la seconda è la questione dei significati di “vero” e attiene, in maniera specifica, alle teorie della verità.

2.1PORTATORI DI VERITÀ

La questione dei portatori di V è stata a lungo oggetto di discussione. Può però fissarsi un’intuizione di fondo. Le cose adatte ad essere dette vere hanno una caratteristica comune: intendono riferirsi a qualcosa che possiamo dire reale-effettivo (anche se si tratta di realtà ideale o congetturale, mondi possibili, mondi di finzione…).

Il riferimento alla realtà è un requisito formale degli enunciati dichiarativi, vale a dire che essi sono fatti in modo tale che nel pronunciarli-comprenderli, in qualche modo, si fa riferimento ad una realtà, comunque essa sia caratterizzata.

In termini più specifici, un enunciato dichiarativo è una “porzione” del linguaggio che implica un riferimento a come è fatto il mondo, ed è proprio questo aspetto che lo rende tipicamente oggetto di un’assegnazione di verità o di falsità.

Si pone, però, a questo punto, un problema: ossia se l’enunciato, inteso come espressione verbale, sia davvero portatore di verità. D’Agostini ricorda come Gottlob Frege distinguesse tra enunciato e proposizione ritenendo che il pensiero oggettivo sul quale vi è condivisione e che, pertanto, rappresenta l’effettivo portatore di verità, si identifica con la proposizione. Per “enunciato” Frege intendeva l’espressione linguistica del pensiero che muta a seconda delle lingue e delle modalità espressive; tuttavia, il pensiero che esso veicola resta invariato, ed è tale pensiero che si identifica con la proposizione, a potersi definire propriamente come vero o falso.

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10 «Il cavallo avanzò rapidamente” è vero esattamente come “il destriero progredì fulmineo”, che è un enunciato del tutto diverso. Dunque “veri” non sono propriamente gli enunciati, intesi come espressioni linguistiche, ma i loro contenuti, che volendo si possono chiamare “proposizioni”»11.

2.2MOLTEPLICITÀ DELLE TEORIE

Esistono diverse teorie sulla verità. Una prima basilare distinzione riguarda quella tra teorie robuste e teorie non robuste; le prime tendono ad una definizione del concetto di “vero”, le seconde negano l’esistenza di requisiti dell’essere vero. Un’ulteriore distinzione è quella intercorrente tra teorie metafisiche e teorie epistemiche. Le teorie metafisiche concepiscono il predicato “vero” come riferito a qualcosa che esiste in se stesso; le teorie epistemiche lo considerano in relazione a noi esseri umani.

2.2.A TEORIE ROBUSTE

Le teorie robuste rappresentano quelle più tradizionali; le principali di esse sono rappresentate dalla teoria della corrispondenza, dalla teoria della coerenza e dalla teoria pragmatica.

Corrispondentismo, coerentismo e pragmatismo sono in realtà prospettive complesse, aventi molte versioni differenti.

Le strutture di base sono, tuttavia, le seguenti:

1. p è V se e solo se corrisponde alla realtà, a fatti, a stati di cose, ecc.;

2. p è V se e solo se è coerente con altre proposizioni o è accettabile razionalmente;

3. p è V se e solo se è utile, efficace ritenere che p. La teoria della corrispondenza.

La teoria della verità-corrispondenza si basa sulla seguente definizione:

una proposizione (o credenza) p è vera se e solo se p corrisponde ad un fatto o ad uno stato di cose.

Si tratta della teoria più antica. Ne troviamo la prima traccia in Platone ed Aristoltele. Nel Cratilo (385b) Platone scrive: «vero è il

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11 discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono».

Aristotele nella Metafisica (IV, IoIIb 7) afferma: «negare quel che è e affermare quel che non è, è il falso, negare quel che non è e affermare quel che è, è il vero».

È interessante notare come non vi sia traccia alcuna della parola corrispondenza o di suoi equivalenti. Platone e Aristotele si limitano a dire che la parola verità ha un legame specifico con la parola “essere” e con il “discorso”, e connettendo l’uno all’altro.

Sarà San Tommaso a specificare, poi, in cosa consista la relazione tra essere e discorso sostenendo che la verità è adeguazione di cosa e intelletto: veritas adaequatio [est] intellectus et rei (Contra Gentiles, I, 59).

La teoria inizia con l’essere messa in discussione alla fine del Settecento, per entrare fortemente in crisi al termine dell’Ottocento, nel momento in cui emergono non solo le teorie rivali (il coerentismo ed il pragmatismo) ma anche la prospettiva che assolutamente nega l’esistenza stessa del concetto di verità, il nichilismo.

Nel primo decennio del Novecento viene invece espressamente difesa da George E. Moore e Bertrand Russel. Tuttavia, per la prima volta in Moore e Russel si fa esplicito riferimento alla corrispondenza a fatti o stati di cose, ossia ad unità ontologiche determinate. In passato ci si riferiva esclusivamente all’essere, alla realtà, o alle “cose” in senso generico.

In particolare, Russel fissa alcune acquisizioni di fondo, che ritroviamo oggi come caratteristiche di una teoria realistica della verità. Scrive nella Filosofia dell’atomismo logico: «è un dato ridicolmente ovvio […] che il mondo contiene fatti, e che questi sono ciò che sono indipendentemente da ciò che scegliamo di pensare riguardo ad essi, e che ci sono anche credenze, che si riferiscono a fatti e che a causa di tale riferimento sono vere e false12».

Sono qui espressi in sintesi tutti gli aspetti della posizione realista: • la concezione che “vero” e “falso” si applichino a credenze o

proposizioni e non a fatti, o cose;

12 B. RUSSEL, La filosofia dell’atomismo logico, a cura di Michele Di Francesco,

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12 • la convinzione che i fatti nella loro esistenza ed effettività

rendano vere/false le credenze;

• la visione secondo cui i fatti siano indipendenti dalla nostra conoscenza (sussistano, cioè, a prescindere dal fatto che li si conosca o meno).

Un’altra ripresa della teoria della corrispondenza si deve a John L. Austin. Nella Verità13, Austin dice che un’affermazione può essere detta vera quando corrisponde ai fatti. Ciò tuttavia, secondo il filosofo, non può che comportare alcune difficoltà.

La prima riguarda l’uso di “fatti”. A volte finiamo per pensare che “fatto” sia equivalente ad “affermazione vera”, però, spiega Austin «quando un’affermazione è vera, c’è senza dubbio uno stato di cose che la rende vera e che è todo mundo distinto dall’affermazione vera, ma è altrettanto indubbio che possiamo descrivere questo stato di cose solo a parole»14.

Dunque, un fatto o uno stato di cose rende vera un’affermazione anche se è da essa distinto; tuttavia, quando dobbiamo riferirci a questo fatto non possiamo che riprodurre di nuovo le parole in cui l’affermazione consiste.

La seconda difficoltà risiede nell’espressione “corrisponde”. Austin a riguardo specifica che la correlazione tra parole e fatti è puramente convenzionale: «siamo liberi di destinare qualsiasi simbolo a descrivere qualsiasi tipo di situazione»15. La verità però dipende a questo punto «dal fatto che le parole usate siano quelle convenzionalmente designate per situazioni del tipo cui quella cui ci si riferisce appartiene»16.

Tuttavia, nonostante la sua apparente fondatezza, la teoria della verità come corrispondenza è stata oggetto di note critiche, di cui si tenta di ripercorrerne, a grandi linee, il repertorio.

La prima difficoltà è il regresso della verità. L’argomento del regresso consiste sostanzialmente nel notare che, per stabilire la verità di p, dovrò fare accertamenti, i quali dovranno essere a loro volta veritieri/corrispondenti; ne consegue che anche per stabilire la verità degli enunciati con cui si decide la verità

13 J. L. AUSTIN, La Verità in Austin 1961. 14 IVI, p. 118.

15 IVI, p.119. 16 IVI, p. 120.

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13 di p si dovranno operare accertamenti, e accertamenti su accertamenti, e così via. In altri termini, l’obiezione del regresso della verità mostra che non potendo risalire a tutte le verifiche necessarie per stabilire la verità di una determinata proposizione, la verità non può essere accertata.

Una seconda difficoltà è il circolo della verità. L’accusa di circolarità può presentarsi in vario modo; una variante che è utile ricordare è la seguente. Ad esempio, si stabilisce: p è V se e solo se p corrisponde allo stato di cose s, e s è reale-sussistente. Ma cosa significa “sussistente-reale”? Non sembra esserci altro modo che rispondere se non dicendo che un fatto è sussistente-reale in quanto corrisponde alla relativa proposizione vera. Ci serve dunque la realtà per definire la verità e ci serve la verità per definire la realtà.

Una più fondamentale difficoltà riguarda l’eterogeneità tra fatti e proposizioni. Se due realtà sono eterogenee, in che cosa mai può consistere il loro rapporto? Frege scrive: «Far combaciare una cosa con una rappresentazione sarebbe possibile solo se la cosa fosse anch’essa una rappresentazione»17.

La quarta difficoltà consiste nello stabilire cosa debba

intendersi per “corrispondenza”. La maggioranza dei

sostenitori del corrispondentismo, ritiene che la corrispondenza possa essere identificata con la

raffigurazione. Merita segnalare la prima critica esplicita a

tale concezione che è stata quella sollevata da Francis Bradley. Costui ha sottolineato come l’idea di corrispondenza risiedesse nel presupporre che la verità consistesse nel copiare la realtà e che la conoscenza rispecchiasse quanto collocato all’esterno. Di qui nascerebbero tutti i problemi, sostiene Bradley, perché a questo punto «la verità si presenta come distinta dalla conoscenza, e la conoscenza distinta dalla realtà. Dal momento che i termini sono considerati come irreparabilmente separati, non si vede come possano essere forzati ad accordarsi»18.

17 G. FREGE, Una ricerca logica, in Id., Ricerche logiche, a cura di Michele Di

Francesco, Guerrini & Associati, Milano 1988, p. 45-46.

(19)

14 • La quinta difficoltà va sotto il nome di olismo. La teoria della verità come corrispondenza postula che ci sia una proposizione isolata «p» che abbia un certo rapporto con il fatto isolato p. Tuttavia, p è vera in quanto sono vere molte altre proposizioni insieme a p. Dunque, nessuna proposizione si presenta come singolarmente “corrispondente” a un singolo fatto o stato di cose, ma “corrisponde” sempre insieme ad altre proposizioni19.

• Il sesto ed ultimo problema è in realtà il più importante ed è quello che si riferisce all’esistenza e alla natura dei fatti. In particolare, ci si chiede se sia realmente possibile distinguerli dalle proposizioni-credenze. Anzitutto la domanda è: esistono fatti condizionali, universali o negativi, così come esistono enunciati condizionali, universali o negativi? Tra il fatto e la proposizione il legame è così stretto che sembra difficile distinguere l’uno dall’altro. Può allora essere sostenuto che il concetto di “fatto” o “stato di cose” sia legato da una corrispondenza biunivoca alla proposizione: se non ci fosse la seconda forse non si potrebbe neppure identificare il primo20. • La teoria coerentista.

La definizione coerentista della verità, in una formulazione di base, è la seguente:

la proposizione p è vera se e solo se p è coerente con altre proposizioni già riconosciute come vere, o con l’insieme delle nostre credenze.

Ad esempio, sappiamo che la proposizione “la terra è rotonda è vero” non perché la confronto con un eventuale stato di cose che vedrei di fronte a me, ma perché metto in rapporto questa verità con altre verità a me note, riguardanti la scoperta dell’America oppure il ricordo di una fotografia della Terra vista dallo spazio.

È necessario però distinguere due tipi principali di coerentismo. Il primo è il coerentismo idealista, il secondo il coerentismo a base

empirica. Il tratto comune risiede nell’impossibilità di collocarsi al di

fuori di un sistema di proposizioni, per valutare la verità di tali credenze-preposizioni. Il coerentismo idealista si richiama all’olismo,

19 Sul punto, F. D’AGOSTINI, Introduzione alla verità, cit., p. 53. 20 IVI, p. 54.

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15 per cui nessuna credenza è vera in se stessa ma sempre come parte di un sistema di credenze. Viceversa, nel coerentismo empirista il problema da risolvere riguarda l’eterogeneità tra fatti e proposizioni. La soluzione fornita è semplice: le cose che si confrontano nella V sono dello stesso genere, si tratta di raffrontare proposizioni con proposizioni e credenze con altre credenze.

Al di là della differenziazione tra le due correnti, il problema principale della teoria della coerenza consiste nella definizione della nozione stessa di coerenza. Tutte le possibili soluzioni avanzate costringono in ogni caso il coerentista ad accettare le seguenti conclusioni: la prima è quella secondo la quale quel che intendiamo normalmente con “vero” è diverso da quel che intendiamo con “coerente”, dunque il coerentismo non fornisce una definizione di V ma se mai un criterio per distinguere ciò che reputiamo vero o falso. La seconda è che la coerenza è certamente un criterio determinante per l’“accettabilità razionale” di una proposizione, ma non è l’unico. Oggi il coerentismo è sostenuto per lo più in forma combinata con altre teorie. Per esempio, l’ipotesi di alcuni è che la V coerenza sia adatta ai giudizi morali, mentre la V corrispondenza sia da applicarsi ai giudizi sulla realtà fisica. Oppure è sostenuto come una teoria della conferma, o della giustificazione, e non della verità. A tal riguardo, precisa D’Agostini: «In questa versione, la coerenza non è tanto non-contraddittorietà, ma piuttosto accordo intersoggettivo o intrasoggettivo (tra le nostre o le mie credenze). L’idea di accordo-consenso può risolvere il problema relativo alla questione del regresso: si ammette perciò che il regresso ha un termine nell’accordo intersoggettivo; nel momento in cui tu ed io siamo d’accordo su una certa p, io non ho più bisogno di giustificazione»21.

La teoria del pragmatismo.

La teoria pragmatica della verità consiste nel sostenere che i concetti di utilità, successo, efficacia spiegano meglio la verità dei concetti di corrispondenza e coerenza. La definizione proposta è la seguente: una proposizione p è vera se e solo se l’assunzione di p è coronata da successo, o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici.

Per esempio, “Dio esiste” può non essere vero ma presupporne una verità che può essere utile per la mia vita. La caratteristica della

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16 prospettiva pragmatica consiste precisamente nel pensare alla verità in termini di azione e di orientamento per l’azione. La determinazione della verità riguarda il futuro: quando si pone un problema di verità solo un certo risultato pratico ci permetterà di stabilire se quell’ipotesi risulta essere stata vera o falsa. In altri termini, detta ipotesi sarà considerata vera in quanto si è rivelata essere utile.

Ancora, la verifica diretta mediante il raffronto con la realtà non solo non è possibile che in determinati casi ma non è neppure necessaria, perché di fatto viviamo a “credito”: la maggior parte delle nostre credenze le crediamo vere esclusivamente perché ci fidiamo delle nostre fonti di informazione.

Infine, per i pragmatisti persino le verità eterne sono anch’esse tali in virtù dell’utilità che presentano. In altri termini, anche tutte le verità eterne sono costruite linguisticamente, per ragioni di opportunità e di utilità pratica.

Tuttavia, anche il concetto di vero come utile presenta non poche difficoltà.

In particolare, «il concetto di “utile” è un concetto vuoto e formale: può adattarsi a tutti (utile per me è diverso da utile per te) […] Per di più, “utile” è comunque un predicato diverso da “vero” semplicemente perché può essere vero qualcosa di profondamente inutile anzi controproducente, mentre può essere utile credere in qualcosa che è totalmente falso»22.

Si tratta di un’osservazione importante che rimette in gioco la questione del significato di “vero” e “utile” dal momento che presuppone non la coincidenza ma una differenza essenziale tra i due.

2.2.bTEORIE NON ROBUSTE

Le teorie non robuste della verità non si impegnano a fornire direttamente una definizione del predicato “vero”. La maggior parte delle teorie non robuste è unificabile sotto l’etichetta generica di

deflazionismo. Deflazionismo deriva da to deflete, “sgonfiare”, e in

effetti, si tratta di teorie che in qualche modo e per diverse ragioni riducono o ridimensionano il concetto di verità.

22 IVI, p: 65.

(22)

17 • La teoria semantica.

La teoria della verità presentata da Tarsky in Sul concetto di verità

nei linguaggi formalizzati23 e in altri scritti è particolarmente importante non soltanto perché fornisce l’argomento base del deflazionismo ma anche perché è stata enormemente influente, anche per teorici di altri orientamenti.

Tarsky specifica anzitutto ciò che egli chiama il «criterio di adeguatezza materiale» per la verità:

l’ enunciato «p» è vero se e solo se p.

Questo è il celebre bicondizionale tarskiano detto anche «tesi di equivalenza o convenzione T». Lo schema T, ci dice effettivamente che cosa capita quando usiamo V. Che cosa intendo dire quando dico “è vero che piove”? Semplicemente: che piove. Dunque il predicato di verità è dispensabile o anzi, in un certo senso, ridondante. D’altra parte, che cosa intendo dire quando dico “piove”? Verosimilmente intendo dire che è vero che piove. Ne discende che il predicato V è ubiquo, ovvero ovunque presupposto, e implicito in qualsiasi cosa io dica con pretese assertive. Lo schema T esprime perfettamente questo andare e venire del predicato V nel nostro linguaggio.

Per Tarsky la formula è un “criterio” o una “condizione” fondamentale per qualsivoglia definizione di verità, nel senso che qualunque definizione proposta dovrà in ogni caso tenere in considerazione che il predicato vero si comporta in tal modo. Qualora una definizione non soddisfi questo criterio, non potrà configurarsi come una definizione di verità. In aggiunta, la condizione che si formalizza mediante lo schema risulta essere un principio di “adeguatezza”, dal momento che nella formula è possibile sostituire a p qualsiasi enunciato, e ottenere allo stesso modo espressioni adeguate24.

Non bisogna scordare, tuttavia, che V risulta essere un predicato problematico dal momento che possono generarsi antinomie.

Prendiamo in considerazione il classico enunciato del mentitore, ben noto alla storia della logica, il quale dice:

p non è vero.

23 A. TARSKY, Sul concetto di verità nei linguaggi formalizzati, Società Editrice

Vita e Pensiero, Milano 1963.

(23)

18 Applicando la regola tarskiana risulta:

p è vero se e solo se p non è vero.

La contraddizione è palese. È questo secondo Tarsky il problema principale che una rigorosa definizione del predicato V deve affrontare: il fatto che per soddisfare le condizioni di adeguatezza previste dallo schema si possa essere costretti a contraddirsi.

Per l’autore un linguaggio che possa rispettare le condizioni di adeguatezza previste per V, senza produrre antinomie, deve essere «aperto» e cioè: non deve includere il proprio predicato di verità, e deve esserci una distinzione esatta tra il “metalinguaggio” quello che usiamo per dire che gli enunciati del linguaggio sono veri o falsi, e il “linguaggio oggetto” ossia il linguaggio con cui sono formulati gli enunciati di cui giudichiamo la verità.

Tarsky, dunque, suggerisce una sorta di stratificazione del linguaggio.

A questo punto, si tratterebbe di procedere alla formulazione di una definizione rigorosa di V nel linguaggio stratificato che distingua tra metalinguaggio e linguaggio oggetto.

La definizione suggerita da Tarsky è basata sulla nozione di “soddisfabilità”: una proposizione p è vera se e solo se soddisfa tutti gli oggetti.

Ma cosa significa “soddisfa tutti gli oggetti”? La nozione di soddisfabilità va inquadrata nel quadro di un linguaggio il cui dominio di riferimento sia esattamente definito. Per esempio, dato un gruppo di gatti neri, alcuni dei quali hanno una macchia bianca, consideriamo i seguenti enunciati:

tutti i gatti sono neri

qualche gatto ha una macchia bianca il gatto g ha una macchia bianca.

Se i tre enunciati sono veri, ciò implicherà che qualunque oggetto del dominio si prenda in considerazione soddisferà ciascuno dei tre25.

(24)

19 • Il deflazionismo.

La tesi generale del deflazionismo riguarda la circostanza che la parola “vero” possa essere eliminata da molti degli enunciati in cui compare, senza alterare ciò che è possibile esprimere per mezzo di essi.

La concezione di base del deflazionismo può essere sviluppata in diverse forme.

Alcune più estreme, portano a negare l’esistenza stessa della verità. Tuttavia, va precisato come ciò non significhi negare l’esistenza di proposizioni vere, ma solo rifiutare l’idea che esista una proprietà, la verità, che le proposizioni vere possiedano in comune.

Oppure il deflazionismo può declinarsi in forme più moderate, che ritengono che la verità sia una proprietà sui generis, priva di una natura “profonda” che sia possibile portare fare emergere attraverso l’indagine filosofica26.

Le origini della teoria sono sparse in diversi testi classici della tradizione analitica. Scrive, ad esempio, Frege: «tra “sento un profumo di violette” e “è vero che sento un profumo di violette” non c’è niente di diverso»27.

È questo un primo accenno di ciò che si chiamò più tardi «teoria della ridondanza», secondo la quale il predicato di verità sarebbe appunto ridondante, inutile.

Ramsey è stato l’iniziatore di tale teoria. Egli sostiene a riguardo: «non esiste un problema separato della verità, c’è solo una confusione linguistica»; «” è vero che Cesare è stato assassinato” non significa niente di più di “Cesare è stato assassinato”»; «l’espressione “è vero che” è come “un fatto che”: è una di quelle frasi che usiamo semplicemente per dare enfasi al discorso»28.

Versioni più moderate della teoria sono state variamente sostenute in seguito.

Tra le tante, merita di essere citato il «decitazionismo», posizione sostenuta da Quine. Osserva l’autore che in una proposizione come:

26

Sul punto è stato consultato: G. VOLPE, La verità, Carrocci Editore, Roma 2012, p. 98.

27 G. FREGE, Una ricerca logica, cit., p. 48.

28 F. P. RAMSEY, On Facts and Propositions, in Blackburn e Simmons 1999, p.

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20 «L’enunciato “la neve è bianca” è vero

Il predicato “vero” riporta lo sguardo sul mondo, comportandosi come un dispositivo che cancella l’effetto delle virgolette. Queste ultime, infatti, «segnano la differenza tra il parlare di parole e il parlare di neve. L’apposizione di virgolette produce il nome di un enunciato»29.

Ora conviene ribadire come, questo ampio materiale di riflessione degli ultimi due decenni del secolo scorso sia andato convergendo in un’unica base teorica, a cui appunto può essere conferito il nome di deflazionismo.

Le ragioni che vi stanno alla base sono sostanzialmente due:

• Se vale la tesi di equivalenza, allora il predicato V non aggiunge nulla di davvero rilevante ad un enunciato che non sia l’asserzione di quell’enunciato;

• Non c’è propriamente una definizione di V perché non c’è niente che abbiano in comune enunciati presuntivamente veri come “il cane è nel giardino”, “Cesare fu assassinato” ecc., che non sia il fatto che tutti soddisfano il bicondizionale tarskiano.

Da ciò si inferisce che la verità non è una proprietà sostanziale, ovvero non indica un modo di essere particolare di enunciati o proposizioni, come “verde” o “giallo” indicano proprietà delle cose verdi o gialle.

La versione di deflazionismo oggi maggiormente nota è il minimalismo di Paul Horwich.

Secondo costui possono individuarsi due ipotesi in cui V è effettivamente utile.

La prima viene definita riferimento indiretto; quando per esempio un soggetto fa un lungo discorso, e si vuole affermare che quel che ha detto è vero, non avrebbe senso ripetere tutti gli enunciati che ha pronunciato, sarebbe invece utile usare il predicato V, e dire “quel che dice costui è vero”.

La seconda è quella delle generalizzazioni schematiche. Per esempio quando si vuole sostenere “tutto quel che dice il Papa è vero” non si

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21 possono elencare tutte le proposizioni proferite o proferibili dal pontefice; è necessario, dunque, ricorrere a V. Dunque V si usa plausibilmente nei casi indiretti e nelle generalizzazioni30.

Truthmakers.

Una famiglia di teorie più recente che si può definire non robusta è la teoria dei Truthmakers: i “fattori di verità”31.

Il principio base di tale teoria, esplicita il nesso verità-realtà nei seguenti termini:

se p è vera, esiste qualcosa (qualche fatto, circostanza, evento, situazione, stato di cose, entità) che la rende tale.

È da notare come il principio non specifichi che cosa sia la realtà, né se sia effettivamente in sé conoscibile. Si limita ad affermare che quando l’enunciato p è vero c’è qualcosa al di fuori delle nostre parole che rende vero p.

Forse, l’aspetto nuovo ed interessante di tale teoria è che in un certo modo essa sposta la direzione dello sguardo. Non consideriamo più la realtà a partire dalle proposizioni che la descrivono, ma osserviamo le proposizioni dal punto di vista della realtà che le rende vere (o false). In questo senso, la teoria si limita a sottolineare che la parola verità mette in gioco l’esistenza di una realtà extralinguistica, ed è questa realtà che fa sì che una proposizione sia vera.

Il realismo aletico.

Nell’ultimo decennio dello scorso secolo è emersa una prospettiva che da alcuni è stata ritenuta un punto d’arrivo nella teoria analitica della V. Si tratta del cosidetto realismo aletico.

L’idea di base di tale teoria è che “è V” significhi qualcosa come: “così stanno le cose”.

Il realismo aletico ha avuto diverse formulazioni, più o meno legate all’intuizione corrispondentista.

D’Agostini individua una possibile versione della teoria identificabile in base a due tesi:

30 Sul punto, F. D’AGOSTINI, Introduzione alla verità, cit., pp. 78-79. 31 IVI, pp.85 e ss.

(27)

22 • Lo schema T è un adeguato rendiconto dell’uso del

predicato di verità;

• È plausibile un’interpretazione dello schema T in senso realistico: quando si afferma che p è vera si intende sostenere che le cose stanno come p dice.

In altri termini, se p è vera c’è qualcosa o stato di cose nel mondo che rende vera la proposizione p.

In definitiva, l’essere-realtà è condizione preliminare necessaria: senza l’essere realtà (cose che stanno in un certo modo) non c’è verità.

Inoltre, la nozione realistica di V in questa versione non è molto diversa dalla V-corrispondenza. Nel “così come” si intende una relazione che si può caratterizzare variamente come adeguatezza, conformità, corrispondenza.

In sostanza, il realismo aletico riporta la nozione di verità al suo significato classico, neutralizzando le complicazioni e le difficoltà che le aveva opposto la filosofia del Novecento32.

2.3OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La prima circostanza di cui occorre tener conto, quando si riflette sul significato e sull’uso della parola verità è che si tratta di una parola “speciale”, con particolari implicazioni e particolari rapporti con le altre parole.

Molte delle difficoltà che incontriamo nel trattare di verità, derivano dal non ricordare che si tratti di una di quelle parole che il Medioevo chiamò trascendentali e che classificò variamente: Unum (o Esse),

verum, bonum è la lista più breve.

Ma cosa c’è di peculiare nel concetto di verità?

Tale peculiarità consiste principalmente nell’essere la verità un concetto dispensabile, ubiquo e trasversale.

Per quanto riguarda il requisito della dispensabilità, ci si riferisce al fatto che alcune espressioni potremmo anche non usarle. Si può infatti dire: “è vero che le balene sono mammiferi”, ma si potrebbe dire più rapidamente “le balene sono mammiferi”; “vero” dunque può essere omesso senza cambiamenti sostanziali. Tale circostanza è

(28)

23 alla base delle molte teorie che, come abbiamo visto, dicono che il predicato V sia ridondante o trasparente o così non tanto indispensabile, in molte occorrenze del linguaggio e del pensiero. Il secondo requisito è quello dell’ubiquità della verità. In effetti, il predicato V è tanto dispensabile, quanto ubiquo, universalmente presupposto. Quando si dice “Dio esiste”, si intende dire “è vero che Dio esiste”. Emerge con evidenza che la verità scompare dai nostri enunciati, e dunque quando si afferma “è vero che p” si potrebbe più rapidamente dire “p”. Tuttavia, non si può fare a meno di notare come la verità ricompaia ovunque, sia ovunque presupposta nelle nostre asserzioni; pertanto, quando si dice “p” si vuol dire “è vero che p”.

Dunque, la verità può facilmente scomparire ma altrettanto facilmente e inevitabilmente ritorna.

Un risvolto essenziale di tale circostanza è che in questo modo si chiarisce il funzionamento di quelle prove di indispensabilità o di innegabilità, note alla tradizione filosofica, che a volte identificate con la dicitura di prove enecletiche (per confutazione).

Le prove di tal genere sono proprie dei superconcetti. Sostanzialmente, dimostrano che questi concetti-condizione sono anelenctici, ossia refrattari alla confutazione.

Infatti, se si dice “la verità non esiste”, allora le possibilità sono due: è vero che la verità non esiste, ma allora qualche verità esiste; oppure non è vero, ma allora comunque qualche verità esiste.

Arriviamo con ciò al terzo requisito, il più semplice ed immediato, che è quello della trasversalità. C’è una determinata relazione di conformità, di adeguatezza tra le parole e la realtà. Il predicato V dunque indica la proprietà dei nostri enunciati di riflettere fedelmente (o essere corrispondenti a) come stanno le cose. Dunque, la proprietà V si colloca trasversalmente tra linguaggio e mondo33.

33 IVI, pp.333 e ss.

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24 3.IL RELATIVISMO DELLA VERITÀ

In questi ultimi anni, il dibattito pubblico si è sempre più di frequente occupato dei rapporti tra verità e relativismo: da parte di alcuni, si è sostenuto che solo il relativismo possa evitare l’intolleranza e mettere un freno alle pretese oppressive del fondamentalismo, da parte di altri è stato rivendicato un diritto alla verità come unico rimedio contro la deriva nichilista propria del relativismo stesso.

In realtà, il discorso circa il relativismo in connessione alla tematica della verità affonda le sue radici nel passato.

Di tale relazione si tenterà di fornire, per quanto possibile, una breve delineazione.

Preliminarmente, però, va evidenziato come il relativismo in merito alla verità sia stato in genere considerato come la più generale e la più radicale delle posizioni relativistiche, dal momento che tutte le altre forme di relativismo sarebbero riconducibili ad esso.

Ovviamente sul punto la letteratura è vastissima. Non essendo questa la sede per affrontare tutte le concezioni che si sono susseguite in relazione a tale tematica, nella presente trattazione si è deciso di riportare una particolare prospettiva in merito. La scelta è ricaduta sul testo di Diego Marconi intitolato: Per la verità34.

Secondo tale autore, la tesi relativistica sulla verità sostiene che non ci siano asserzioni o credenze semplicemente vere: ogni asserzione o credenza è vera per X, e spesso non per Y. X e Y possono essere identificate con singole persone ma anche con epoche storiche (e allora parleremo di relativismo storicistico) o comunità umane (e allora parleremo di relativismo culturale). Infine, X e Y possono anche essere concezioni del mondo o teorie, ma in questo caso si dice forse più correttamente che un’asserzione è vera in X ma non in Y. A questo punto occorrerebbero, sempre secondo Marconi, delle precisazioni.

Dire che un’asserzione è vera per X e non per Y è diverso da dire che è creduta vera da X, ma non da Y. Che individui diversi credano spesso cose diverse, che ci siano asserzioni non condivise è un’evidenza così come lo è sostenere la tesi secondo cui in epoche

(30)

25 diverse si sono credute cose diverse o che presso società differenti possano essere diffuse credenze diverse.

Ovviamente che A sia creduta vera da X e non da Y non implica nulla quanto alla verità di A: sia X che Y possono sbagliare.

Se ne potrebbe dedurre che, sostenere che un’asserzione possa essere creduta vera da alcuni piuttosto che da altri, non rappresenti una forma di relativismo sulla verità.

Più profonda sarebbe la tesi secondo la quale i criteri di verità, vale a dire i principi in base ai quali qualcosa viene ritenuto vero, possano essere o siano di fatto diversi tra X e Y.

Ecco la formulazione che ne dà Michel Foucault: «Ogni società ha il suo regime di verità, la sua “politica generale” della verità: i tipi di discorsi cioè che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri»35.

Secondo Marconi, di per sé questa tesi non è una tesi relativistica. Innanzitutto, che i criteri di verità differiscano da X a Y, per esempio, come Foucault sostiene, da una società all’altra, non esclude che alcuni di essi siano buoni criteri, altri meno.

Dunque, il relativismo vero comparirebbe nel momento in cui alla consapevolezza della varietà dei criteri si aggiungerebbe quella secondo cui non ci sono, né possono esserci metacriteri, cioè criteri per giudicare della superiorità o inferiorità dei criteri basici di verità. I sostenitori di tale posizione vengono spesso definiti relativisti epistemici. Per il relativista epistemico, quelle che chiamiamo conoscenze dipendono da criteri di accettabilità che non sono, a loro volta, né giustificati, né giustificabili.

Le nostre spiegazioni presupporrebbero, direttamente o indirettamente, i criteri di cui dovrebbero giustificare la superiorità. In altri termini, ciò che il relativista vuol dire è che non esistono metodi di giustificare un criterio di verità che possano prescindere dal criterio stesso che pretendono di giustificare.

Ne discende che ogni giustificazione del sistema di giustificazione sia destinata ad essere circolare e perciò inaccettabile. In definitiva,

35 M. FOUCAULT, Intervista a Michel Foucault, a cura di A. Fontana e P.

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26 se non esistono metacriteri, la preferenza per un criterio di verità non può essere giustificata: è una scelta che ha motivazioni extrarazionali: tradizionali, di potere ecc.

3.1RELATIVISMO CONCETTUALE

Ad una prima analisi, secondo Marconi, sembrerebbe che la tesi della relatività della verità non si riesca a formulare se non si dà per scontata una concezione epistemica della verità: solo chi identifica verità e giustificatezza può sostenere sensatamente che una stessa credenza può essere vera per X ma non per Y, intendendo con ciò che può essere conforme ai criteri di giustificazione di X ma non a quelli di Y.

Dopo aver effettuato una considerazione di tal genere, l’autore si chiede che cosa potrebbe voler dire che qualcosa è vero per X ma non per Y, al di fuori di una concezione epistemica della verità. Secondo costui se si condividesse l’opinione realista, ci sarebbe un modo in cui le cose stanno, indipendentemente dalle opinioni di chiunque, e sarebbe lo stesso per tutti. In altri termini, le proposizioni che dicono che le cose stanno in quel modo sono vere per tutti, quelle che dicono che le cose non stanno in quel modo sono false per tutti. Tuttavia, come ancora fa notare Marconi, secondo alcuni, non c’è un “modo in cui le cose stanno” o, meglio, abbiamo accesso al “modo in cui le cose stanno” sempre e soltanto attraverso una descrizione, che si realizza tramite un linguaggio. In termini un po’ più tecnici, identifichiamo “un modo in cui le cose stanno”, grazie a determinati concetti, vale a dire quelli mediante i quali individuiamo e categorizziamo i costituenti della realtà e le loro relazioni.

Ne discende che diversi schemi concettuali diano accesso a stati di cose diversi: si può descrivere il mondo nella categorie della cultura primitiva o in quella della nostra attuale cultura, nelle categorie della scienza aristotelica o in quelle della scienza post-galileiana.

È possibile che ci siano stati di cose ugualmente accessibili da molti o addirittura da tutti gli schemi concettuali ma, è altresì possibile, che vi siano stati di cose accessibili solo da un particolare schema concettuale.

Di per sé, però, la pluralità degli schemi concettuali non implica la loro reciproca irriducibilità: che uno stato di cose sia accessibile da

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27 uno schema concettuale non implica che a quello stesso stato di cose non si possa avere accesso anche da un altro schema concettuale. Tuttavia, c’è chi ha sostenuto che schemi concettuali irriducibilmente diversi non esistano né possano esistere. Nel famoso saggio On the

Very Idea of a Conceptual Scheme, Donald Davison ha sostenuto che

uno schema concettuale che sia irriducibile al nostro non è nemmeno identificabile come uno schema concettuale. Non essendoci, quindi, schemi concettuali alternativi al nostro, non avrebbe nemmeno senso parlare del nostro schema concettuale: la stessa nozione di quest’ultimo andrebbe abbandonata36.

In ciò che segue, riporterò come per Marconi, la nozione di schema concettuale sia, viceversa, perfettamente praticabile.

In altre parole, l’autore ritiene che ci siano o possano esserci schemi concettuali radicalmente diversi, tali cioè che ci sono stati di cose che possono essere concettualizzati nei termini dello schema A ma non in quelli dello schema B, e che sono quindi accessibili da A ma non da B. si cercherà poi di evidenziare quali conseguenze derivino da questa ipotesi per la questione della verità e della sua eventuale relatività.

Al riguardo, Marconi ha ragionato più o meno nel modo che segue: • Se ci sono schemi concettuali diversi, almeno in alcuni casi (e

probabilmente in molti casi) ci sono stati di cose che sono accessibili da uno schema A ma non da un altro B;

• Dunque, in alcuni casi, il “modo in cui le cose stanno” dipende dallo schema concettuale che si adotta;

• Una proposizione è vera se e soltanto se dice che le cose stanno nel modo in cui effettivamente stanno;

• Dunque, almeno in determinate ipotesi, la verità di una proposizione dipende dallo schema concettuale adottato: una proposizione può essere vera dal punto di vista dello schema A (perché dice che le cose stanno in un modo che è concettualizzabile da A, e le cose stanno effettivamente in quel modo) e non essere vera dal punto di vista di B (perché B non concettualizza le cose in quel modo).

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28 Questo ragionamento caratterizza il cosiddetto relativismo concettuale, che è stato spesso considerato una pietra angolare delle argomentazioni più importanti e interessanti a favore del relativismo. Esso attribuisce un senso all’espressione “vero per X”, dove X può essere una persona o, più spesso, una comunità definita in termini storici o antropologici.

Veniamo ora, sempre secondo Marconi, alle conseguenze che si possono trarre circa la relatività del concetto di verità, una volta adottato lo schema del relativismo concettuale.

Se la tesi fondamentale di quest’ultimo è che un “modo in cui stanno le cose” dipende da una concettualizzazione, anzi, non esiste se non per via di quella concettualizzazione, le implicazioni che ne derivano possono configurarsi come piuttosto controintuitive.

L’autore riporta a titolo di chiarificazione il seguente esempio: «Il sale non era cloruro di sodio prima della creazione della chimica? […] In che senso, infatti, non era vero per un greco dell’età omerica che il sale era cloruro di sodio? Se il sale era cloruro di sodio già allora, la proposizione che il sale era cloruro di sodio era vera anche allora. Certo, un greco dell’età omerica non aveva accesso a quella verità: lo schema concettuale che adottava non includeva gli ingredienti della proposizione in questione. In questo senso non era vero per lui che il sale era cloruro di sodio»37.

In definitiva, se dicendo che A è vera per X ma non per Y, intendiamo dire che A è vera, ma Y non ha le risorse concettuali per concepirla e quindi non è in grado di riconoscerne la verità (mentre X possiede quelle risorse ed è in grado di riconoscerne la verità): ciò è un senso chiaro di “vero per X, ma non per Y”.

Si tratterebbe, però, e con ciò Marconi procede all’ultima precisazione, di una forma più attenuata di relativismo: ciò che è relativo non è la verità di una proposizione ma la sua accessibilità.

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29

CAPITOLO II: VERITÁ E POLITICA

1.INTRODUZIONE: PUÒ LA VERITÀ ASSUMERE UN RUOLO POLITICO?

La politica, in quanto ambito del disaccordo e del dibattito, del giudizio e della decisione, dunque, ambito “umano” per eccellenza, ha da sempre offerto interessanti opportunità per mettere alla prova l’importanza della verità, oggetto filosofico “trascendente” per eccellenza in quanto non governabile dalle nostre inclinazioni e indisponibile ai nostri condizionamenti.

Tale messa alla prova ha avuto nel corso del tempo esiti numerosi e differenti; non essendo possibile ripercorrerli tutti, si è scelto di impostare l’analisi del nesso tra verità e politica seguendo le più recenti prospettive teoriche.

Ad uno sguardo d’insieme, due sono le tendenze filosofiche che prevalgono, anche se l’alternativa da esse posta non esaurisce la totalità delle posizioni presenti.

In epoca contemporanea, infatti, la delicatezza e la problematicità della relazione tra verità e politica è stata fronteggiata, principalmente, mediante il ricorso a quelle che sono state definite due diverse strategie: una «strategia di drammatizzazione» e una «strategia di banalizzazione»38.

La prima intende la verità come un concetto filosofico «spesso», caratterizzato da proprietà di indisponibilità e di indipendenza; la seconda la concepisce come un concetto «sottile» e sprovvisto di alcun tipo di proprietà. Nel primo caso si “gonfiano” le caratteristiche filosofiche del concetto di verità, nel secondo, viceversa, le si “affievoliscono” o, addirittura, le si eliminano.

Si cercherà, a questo punto, di illustrare brevemente il funzionamento di tali strategie, anche per fornire un criterio di orientamento circa la preferenza in merito agli autori la cui riflessione si è scelto di ripercorrere nella trattazione.

La strategia della drammatizzazione si concentra su quegli aspetti di frizione che andrebbero a giustificare una presa di distanza della politica, “luogo” della libera iniziativa e della conseguente

38 Sul tema la letteratura è vastissima; nel presente lavoro sono stati consultati: E.

BERTI, La ricerca della verità in filosofia, Edizioni Studium, Roma 2014; G. VOLPE, Teorie della verità, Guerini, Milano 2005; D. MARCONI, Per la verità.

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