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CAPITOLO I. L’ANALISI STRATEGICA

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Academic year: 2021

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CAPITOLO I. L’ANALISI STRATEGICA

1.1 L’EVOLUZIONE DELL’ANALISI STRATEGICA NEL TEMPO

Il tema dell’analisi strategica non è certamente nuovo. A partire dalla metà del’900 molte pubblicazioni hanno presentato modelli e strumenti di analisi in grado di approfondire le diverse problematiche strategiche dell’azienda. Nella realtà operativa, in taluni casi, le analisi delle problematiche strategiche sembrano eccessivamente frammentate, non sempre ispirate ad un approccio unitario al fenomeno aziendale.

L’ interesse per la strategia aziendale emerse in modo chiaro negli Stati Uniti, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, in seguito ai problemi connessi alla gestione di imprese di grandi dimensioni, strutturate in modo complesso. Il problema principale di queste imprese era quello di riuscire a coordinare decisioni singole consentendo alla direzione di mantenere il controllo generale. Con l’introduzione del budget annuale furono in parte risolti i problemi relativi al coordinamento e controllo, ma per pianificare gli investimenti era necessaria la programmazione a piu’ lungo termine. L’importanza attribuita negli anni ’60 alla pianificazione di lungo periodo dimostra appunto il crescente interesse verso la realizzazione coordinata e coerente degli obiettivi che devono essere perseguiti in un periodo di espansione.

In particolare la pianificazione di lungo periodo basata sulle previsioni economiche e di mercato si affermò in maniera decisa quando le imprese definirono come loro obiettivo l’efficienza ed il controllo dei rischi attraverso una produzione realizzata su un livello di scala efficiente, la commercializzazione di massa, l’integrazione verticale e gli investimenti di lungo periodo nel settore tecnologico. Il tipico documento di pianificazione era costituito da un piano elaborato su base quinquennale che stabiliva finalità e obiettivi, prevedeva l’andamento degli indicatori economici principali, definiva le priorità per i vari prodotti e settori di attività dell’impresa e determinava l’allocazione delle risorse.

Negli anni ’60 e ’70 la diversificazione era vista come il mezzo principale di sviluppo e redditività delle aziende e pertanto la ricerca della stessa rappresentava l’elemento centrale della pianificazione. Igor Ansoff a questo proposito ha definito la strategia come mezzo per la differenziazione dell’azienda: “Le decisioni strategiche sono

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innanzitutto connesse ai problemi esterni all’impresa, piuttosto che a quelli interni, e più specificatamente, alla determinazione del mix di prodotti e di mercati sui quali opererà”. Negli anni ’70, le grandi aziende diversificate iniziarono ad utilizzare le matrici di pianificazione di portafoglio come base per le scelte strategiche e l’allocazione delle risorse.1

L’entusiasmo per la pianificazione strategica che caratterizzò quegli anni è parallelo a quello dimostrato nello stesso periodo dai governi e dalle autorità pubbliche per la pianificazione economica, sociale e degli investimenti.

L’entità, i rischi connessi e la tempistica dei nuovi investimenti implicano una superiorità della pianificazione aziendale sull’aleatorietà di un sistema gestionale abbandonato agli andamenti mutevoli ed imprevedibili dei mercati.

Tuttavia alla metà degli anni ’70 cambiarono gli atteggiamenti e le circostanze. In particolare risultava sempre più evidente che la diversificazione non era in grado di determinare i vantaggi sinergici previsti dall’analisi strategica e la conseguenza fu un brusco rallentamento della tendenza verso la creazione di imprese conglomerate. Inoltre la crescente instabilità macroeconomica (associata in particolar modo al forte aumento del petrolio nel 1974-1975) mise in discussione i sistemi di pianificazione complessi attuati nel decennio precedente da molte aziende leader, che furono perciò costrette ad abbandonare i loro piani a livello di corporate elaborati sul medio termine e ad optare per approcci alla gestione strategica più flessibili. Un altro dei fattori che hanno determinato la necessità di rivedere l’approccio delle imprese alla strategia, è l’incremento della dinamica competitiva internazionale che si è avuta negli anni ’70 e ’80. In particolare l’attenzione si stava spostando dalla diversificazione e dagli sforzi per espandere la capacità produttiva e prevenire gli incrementi della domanda, ad una sempre maggiore focalizzazione sulla competizione all’interno dei singoli settori e mercati. Le preoccupazioni attuali del top management sono perciò più rivolte alla gestione strategica che non al corporate planning.

I fattori chiave che caratterizzano questo nuovo approccio alla strategia sono:

• particolare attenzione alla creazione del vantaggio competitivo ottenuta attraverso la combinazione del controllo e dell’analisi del settore, con la valutazione e lo sviluppo delle risorse interne;

1

Per un approfondimento sulle matrici di pianificazione delle attività si veda Robert M. Grant, L’analisi strategica nella gestione aziendale, Milano, il mulino, 1995, p. 403 e s.s.

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• rifiuto della rigidità rappresentata da una pianificazione a livello di corporate molto dettagliata e maggiore ricerca della flessibilità;

• riunificazione delle responsabilità di formulazione ed implementazione della strategia nelle mani degli stessi manager.

Questa transizione dalla pianificazione verso quella che oggi è definita direzione strategica fu associata alla crescente attenzione rivolta alla concorrenza come caratteristica centrale dell’ambiente imprenditoriale e al vantaggio competitivo come principale scopo della strategia di impresa.

Questo cambiamento nelle priorità ha avuto importanti implicazioni per lo sviluppo dei concetti e degli schemi di strategia. Durante la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80, l’attenzione fu rivolta ai mercati di riferimento delle imprese e in particolare verso l’analisi della struttura del settore e l’analisi della concorrenza. Uno dei precursori in questo ambito è stato sicuramente Michael Porter della Harward Business School che con i suoi studi ha aperto la strada all’applicazione degli studi economici all’analisi delle organizzazioni, contribuendo alla scoperta delle determinanti della redditività d’impresa.

Durante la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, il sempre maggiore interesse nei confronti del ruolo della strategia nel creare il vantaggio competitivo portò a dirigere l’attenzione verso gli aspetti interni dell’impresa. In tal senso lo sviluppo degli studi sulle risorse d’impresa, sulle capacità, sulle competenze organizzative, indicò le risorse e le competenze come fonti primarie del profitto e come basi per la formulazione della strategia a lungo termine delle imprese.

La strategia rappresenta ancora oggi uno dei campi più interessanti e in forte sviluppo nelle discipline manageriali e il campo di studio e di sperimentazione è tuttora in rapida evoluzione. È alimentata in particolar modo dal continuo sforzo delle imprese al fine di riuscire ad identificare ed acquisire nuove fonti di profitto e per ideare nuovi schemi per competere all’interno di mercati più consolidati.

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1.2 LA DIFFERENZA TRA STRATEGIA E TATTICA

In generale si può affermare che le imprese hanno bisogno delle strategie per ragioni molto simili a quelle degli eserciti che hanno bisogno di strategie militari: per fornire una direzione e uno scopo, per schierare le risorse nella maniera più efficace e per coordinare il flusso delle diverse decisioni prese all’interno dell’organizzazione. I concetti e le teorie della strategia di business hanno i loro precedenti proprio nella strategia militare. In particolare le due tipologie strategiche condividono alcuni principi e concetti comuni, il fondamentale dei quali è la distinzione tra strategia e tattica. In tal senso la strategia è il piano complessivo per lo spiegamento di risorse necessarie a stabilire una posizione di vantaggio. La tattica invece è un progetto di azione specifica. Inoltre mentre le tattiche riguardano le manovre necessarie per vincere le battaglie, la strategia si preoccupa di vincere la guerra ed è caratterizzata quindi da un orizzonte temporale più lungo.

Le decisioni strategiche, sia che riguardino la sfera militare sia quella aziendale, hanno in comune tre caratteristiche: sono importanti, implicano un significativo impiego di risorse e non sono facilmente reversibili. Molti dei principi di strategia militare sono stati utilizzati in campo imprenditoriale. Questi principi includono ad esempio l’efficacia delle strategie offensive e difensive, i metodi d’aggiramento di fronte ad un attacco frontale, i metodi d’accerchiamento nel tentativo di catturare un’ampia fetta del territorio del nemico e molti altri.

1.3 LA DISTINZIONE TRA STRATEGIA DI GRUPPO E STRATEGIA DI BUSINESS

Nel momento in cui l’attenzione del management strategico si è spostata dai processi di pianificazione alle origini del profitto, le ricerche si sono indirizzate verso l’analisi delle fonti di profitto e dei fattori che determinano le differenze nella redditività tra le imprese. Lo scopo dell’impresa, come sappiamo, è quello di ottenere un rendimento del capitale superiore al costo. L’impresa può ottenere risultati superiori percorrendo due strade alternative. Con la prima, l’impresa può scegliere di operare in un settore dove le condizioni favorevoli portano ad un tasso di remunerazione superiore alla media. Con la seconda, invece, l’impresa può conseguire una posizione di vantaggio rispetto ai suoi

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concorrenti all’interno del settore ottenendo una remunerazione superiore al livello medio del settore.

Queste due fonti di rendimenti superiori definiscono i due livelli di base della strategia di un’impresa: la strategia di gruppo e la strategia di business. La strategia di gruppo (corporate strategy) definisce il campo d’azione dell’impresa attraverso la scelta dei settori e dei mercati nei quali competere. Le decisioni strategiche a livello di gruppo includono gli investimenti per la diversificazione, l’integrazione verticale, le acquisizioni e le nuove iniziative imprenditoriali, l’allocazione delle risorse tra le diverse aree d’affari e il disinvestimento.

La strategia di business (business strategy) definisce, invece, il modo di competere all’interno di un determinato settore o mercato. L’impresa se vuole avere successo in un settore, deve stabilire un vantaggio competitivo sui suoi rivali. È per tale ragione che quest’area della strategia è anche definita strategia competitiva.

La distinzione tra strategia di gruppo e strategia di business e le loro connessioni con le due fonti fondamentali di redditività possono anche essere espresse in termini più semplici. Lo scopo e il contenuto della strategia di un’impresa, infatti, sono definiti rispondendo ad un singolo quesito: “In che modo l’impresa può fare soldi?”. Questa domanda può essere elaborata attraverso due ulteriori quesiti: “Qual è il nostro settore o quali sono i nostri settori d’attività?” e “In che modo dobbiamo competere all’interno di ogni settore?”. La risposta alla prima domanda definisce la strategia di gruppo di un’impresa, mentre la risposta alla seconda domanda definisce i principali temi della strategia di business (o strategia competitiva).

La distinzione tra le due strategie corrisponde alla struttura organizzativa di un’impresa diversificata. La strategia di gruppo è responsabilità dell’alta direzione, coadiuvata dal personale di supporto. La strategia di business è formulata e implementata principalmente dalle singole imprese o aree d’affari (organizzate tipicamente in divisioni o unità di business). Si ha anche un terzo livello di strategia, rappresentato dalla strategia funzionale. Essa è l’elaborazione e l’implementazione delle strategie di business attraverso le singole funzioni operative quali la produzione, la ricerca e lo sviluppo, il marketing, le risorse umane e la finanza. I reparti operativi hanno la responsabilità di svolgere tali attività. Nelle imprese costituite da una singola area d’affari non esiste la distinzione tra strategia di gruppo e strategia di business. Occorre infine sottolineare la forte connessione tra le due tipologie strategiche. Il campo d’attività di un’impresa ha, infatti, implicazioni sulle fonti del vantaggio competitivo,

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mentre la natura del vantaggio stesso influisce sull’estensione delle attività e dei mercati nei quali l’impresa può avere successo.

1.4 IL RUOLO DELLA STRATEGIA NELL’IMPRESA

La strategia ricopre più ruoli all’interno dell’impresa. In particolare essa può essere vista come uno strumento per ottenere tre obiettivi fondamentali del management.

La strategia come supporto alle decisioni.

La strategia è un disegno o una linea guida che conferisce coerenza alle decisioni di un individuo o di un’organizzazione che possono così prendere decisioni ottimali. Il cervello umano, a differenza dei computer, ha una razionalità limitata, è in altre parole incapace di assimilare e analizzare tutte le informazioni disponibili necessarie per attuare scelte totalmente razionali. In una realtà di questo tipo, una strategia rappresenta la migliore alternativa, essa, infatti, stabilisce un complesso di linee di condotta e di criteri per dare un ordine alle decisioni degli individui.

Anche nelle più piccole imprese, ogni giorno vengono prese moltissime decisioni. Non è possibile né desiderabile ottimizzare ogni singola decisione considerando tutte le implicazioni e le permutazioni di ogni decisione. In queste circostanze bisogna cercare una strategia che limiti il numero delle possibili decisioni alternative in modo da semplificare l’indagine delle possibili soluzioni al problema decisionale.

La strategia come strumento di coordinamento e comunicazione.

Una strategia aiuta a raggiungere una coerenza delle decisioni nel tempo. Inoltre, nelle organizzazioni complesse, la strategia funge da strumento per ottenere una coerenza decisionale tra i diversi dipartimenti e le diverse categorie di individui. Le organizzazioni, come sappiamo, sono formate da molte persone ciascuna delle quali è impegnata nel prendere decisioni che devono essere coordinate. La strategia per riuscire a fornire questo tipo di coordinamento deve agire come un meccanismo di comunicazione all’interno dell’impresa. Uno dei più importanti cambiamenti avvenuti nelle grandi imprese nel recente passato ha riguardato il trasferimento della responsabilità per la formulazione strategica dai dipartimenti di pianificazione di gruppo ai dirigenti che hanno la responsabilità delle singole aree d’affari. Uno dei maggiori

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benefici apportati da tale cambiamento è che il processo di pianificazione strategica fornisce un’importante occasione di dialogo tra i manager del gruppo, delle divisioni e delle unità di business, tra i direttori generali e gli specialisti di funzione. Molte imprese utilizzano come strumento per comunicare la propria strategia l’esplicitazione della mission: un breve elenco delle linee essenziali che orienta la strategia e l’azione organizzativa.

La strategia come obiettivo.

La strategia collega la mission e la vision nel definire gli obiettivi futuri che l’impresa vuole raggiungere. La definizione degli obiettivi, quindi, non è finalizzata solo a stabilire una linea guida per la formulazione della strategia, ma anche a fornire obiettivi più precisi per l’impresa. Un ulteriore ruolo della strategia, quindi, è quello di fissare gli obiettivi per l’organizzazione. Hamel e Prahalad sostengono che un elemento critico nelle strategie delle imprese di grande successo è ciò che loro chiamano “motivazione strategica”: uno sforzo molto determinato per ottenere la leadership nella propria area d’affari2. I due studiosi spingono ancora più avanti il loro pensiero. Infatti, essi ritengono che l’approccio convenzionale alla formulazione della strategia, che postula l’adattamento delle risorse interne alle opportunità esterne come fattore fondamentale del successo, può essere insufficiente per spiegare la competitività di lungo termine. Il successo e gli alti tassi di sviluppo di alcune imprese, è uno “strappo” (mismatch) tra risorse e aspirazioni, per cui un’ambizione irragionevole è divenuta la forza trainante per l’innovazione, l’assunzione del rischio e un miglioramento continuo. Al posto della

coerenza strategica e dell’allocazione delle risorse, Hamel e Prahalad mettono in

evidenza la capacità di realizzare performance superiori attraverso un sofisticato sfruttamento delle risorse (leverage) capace di assorbire lo “strappo”, cioè tale mancanza di coerenza oggettiva3.

2

G. Hamel e C.K. Prahalad, Strategic Intent, in “Harward Business Review” maggio-giugno, 1989, pp. 63-77; trad. It. Motivazione strategica, in “Harward Espansione”, 45, dicembre, 1989.

3

G. Hamel e C.K. Prahalad, Strategy as stretch and Leverage, in “Harward Business Review”, marzo-aprile, 1993, pp.75-84.

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1.5 CONSIDERAZIONI SULLE FINALITÀ DELL’ANALISI STRATEGICA

La dottrina aziendale ha da molto tempo chiarito, pur con diverse sfumature terminologiche, che lo scopo dell’azienda è da individuare nell’“equilibrio economico a valere nel tempo”.

L’equilibrio economico si esprime in termini di attitudine a rimunerare adeguatamente tutti i fattori della produzione compreso anche, come ribadito dalla teoria della creazione del valore, il fattore che fisiologicamente viene rimunerato in via residuale rispetto agli altri, cioè il capitale conferito con il vincolo del pieno rischio.

Il fatto che l’equilibrio economico assume significato in relazione alla sua valenza temporale, porta a sostenere che esso deve essere perseguito nella prospettiva del lungo termine. Osservando attentamente la storia delle aziende, si può facilmente rilevare come sia diverso, nel tempo e nello spazio, il livello di rimunerazione del capitale di rischio e quindi, per certi versi, “il grado di perseguimento” dell’equilibrio economico. Ad esempio non si può negare che esistono molte aziende che sopravvivono, nel breve ma anche nel medio-lungo termine, pur senza riuscire a rimunerare in misura adeguata, considerate le caratteristiche di rischiosità relativa, i portatori del capitale proprio e che alcune fasi di diseconomicità a breve-medio termine possono non compromettere le condizioni di vita dell’azienda.

Talvolta, nel breve-medio termine, livelli di economicità positivi in termini assoluti ma oggettivamente inadeguati rispetto alle condizioni di rimunerazione del rischio di impresa, possono essere considerati, dai ruoli di vertice, soggettivamente soddisfacenti. In particolare ciò può avvenire per effetto di imperfezioni informative o di interpretazioni dovute, solitamente, a schemi di ragionamento non del tutto razionali o, talora, volti a favorire singole persone o gruppi ristretti. A titolo di esempio si possono richiamare quelle aziende familiari nelle quali il legame affettivo con l’azienda e la patologica commistione dei ruoli non permette, ai membri della famiglia imprenditoriale che governano l’azienda, un’analisi sufficientemente “distaccata” della adeguatezza della rimunerazione del capitale proprio. Inoltre, sempre a titolo di esempio, si pensi ai casi di aziende a capitale frammentato in cui il top management, nell’intento di sostenere disegni particolarmente vantaggiosi, riesce ad occultare, per periodi anche molto prolungati, la non piena rispondenza dell’azione di governo rispetto all’“obiettivo dichiarato” di creare valore per gli azionisti.

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Altre aziende, invece, perseguono con una certa continuità temporale gradi di economicità tali da consentire una “più che adeguata” rimunerazione dei mezzi propri. In altre parole, nella storia delle aziende adeguatamente rimunerative diversa è l’entità della creazione di valore.

Si possono quindi astrattamente individuare, volgendo la nostra analisi oltre i limiti del breve termine:

1. livelli minimi di economicità tali da non compromettere il patrimonio netto dell’azienda correttamente espresso in base a valutazioni di funzionamento (redditività di lungo termine non negativa in valore assoluto);

2. livelli minimi di economicità compatibili con l’adeguata rimunerazione dei mezzi propri;

3. livelli superiori a quest’ultimo limite, ma diversamente graduabili.

Si manifestano pertanto tre zone, che non sono tuttavia ne’oggettivamente definibili ne’precisamente delimitabili, dello spazio economico: la zona della dissipazione

patrimoniale che, secondo una prospettiva di non breve termine, si pone sotto al livello

minimo compatibile con le condizioni di esistenza dell’azienda; la zona della

sopravvivenza, nella quale non si raggiunge una rimunerazione pienamente adeguata dei

mezzi propri ma ciò non compromette nel breve ma anche nel medio termine, le condizioni di esistenza; la zona della creazione di valore, nella quale i mezzi propri sono pienamente rimunerati rispetto all’entità del rischio.

L’analisi empirica dimostra che una quota assai rilevante di aziende non si colloca, anche per periodi lunghi, nella zona della creazione del valore.

È inoltre evidente come la zona della sopravvivenza è caratterizzata da elevata instabilità: in essa l’azienda può essere spinta verso l’involuzione o verso l’evoluzione. Nel primo caso il suo destino è di scivolare verso la via della dissoluzione; nel secondo caso la prospettiva può essere quella di approdare alla zona della creazione del valore. L’azienda può continuare a dibattersi, anche per periodi prolungati e sovente con andamenti alterni, in questa zona. Infatti, anche un’azienda che sta scivolando nella zona della dissipazione, può trovarsi a percorrere differenti vie: la definitiva disgregazione, la cessione, il rilancio (turnaround) e così via.

La valutazione strategica deve in primis analizzare la posizione dell’azienda rispetto alle zone di cui si è detto sopra ma, ancor più, la “direzione della dinamica economica” (tendenza al miglioramento o al peggioramento).

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È quindi necessario guardare la tendenza evolutiva e non solo il livello di redditività puntuale. Ad esempio, un’azienda potrebbe muoversi da una situazione di grave diseconomicità verso un più o meno graduale miglioramento oppure, viceversa, da una situazione in cui il reddito è molto elevato ma tendenzialmente decrescente, fermo restando l’impostazione strategica.

Il non considerare la direzione della dinamica economica, in altre parole, può portare a fraintendimenti sul reale stato di salute dell’azienda ed alla conseguente incapacità di valutare se l’azienda sia orientata a creare od a distruggere valore.

È evidente, inoltre, che l’analisi strategica non può limitarsi all’osservazione dei risultati economici. Essa deve, infatti, interpretare i nessi causali e le determinanti della dinamica economica e deve saper valutare la qualità della formula imprenditoriale secondo una prospettiva di lungo termine, andando al di là dei risultati storici conseguiti, e deve saper cogliere le potenzialità aziendali inespresse e le opportunità ambientali, oltre alle minacce e ai fattori di rigidità, al fine di mantenere, condurre o riportare l’azienda verso la durevole creazione di valore. Possiamo perciò dire che l’analisi economica è solo una fase, sempre necessaria, dell’analisi strategica.

È evidente che se l’inadeguata redditività è dovuta alla definitiva assenza di vitalità economica, cioè dell’attitudine e della determinazione a perseguire l’equilibrio economico a valere nel tempo, l’azienda è condannata alla dissoluzione. La ricerca dell’equilibrio economico durevole e la capacità e possibilità di perseguirlo devono sempre caratterizzare l’azienda.

La profittabilità a valere nel tempo dell’azienda dipende certamente dall’attrattività del settore/sottosettore in cui essa opera. Dipende però anche dalla qualità della strategia e dunque dalla capacità di dispiegare pienamente le potenzialità reddituali dell’azienda nel settore e dalla capacità di mutare la formula imprenditoriale in armonia con i cambiamenti dell’ambiente.

Le pressioni competitive e sociali tendono per loro natura a comprimere l’azienda verso le zone basse dello spazio economico di cui si è detto. I concorrenti proveranno a sottrarre quote di redditività, i potenziali entranti sono pronti ad accaparrarsi spazi di mercato, i fornitori e i clienti eserciteranno la loro forza relativa per ottenere condizioni contrattuali migliori e così via. La crescente pressione delle istanze sociali, inoltre, impone un progressivo arricchimento delle proposte progettuali rivolte agli interlocutori, siano essi portatori di risorse o soggetti che in altro modo possono condizionare al vita dell’azienda.

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La politica e la strategia dell’azienda tendono invece, in situazioni fisiologiche, a spingere e mantenere l’azienda nelle zone alte dello spazio economico bilanciando e gestendo le suddette pressioni, alimentando e guidando il sistema delle idee e delle operazioni e, quindi, la dinamica aziendale.

La politica aziendale, come prodotto dell’attività di governo, esprime e si estrinseca in un insieme di idee, decisioni ed azioni volte all’efficace ed efficiente attuazione della formula imprenditoriale. Quando la politica aziendale è volta al cambiamento del modello gestionale, è orientata in pratica a perseguire un disegno imprenditoriale “del domani” che tende a rompere gli equilibri nella formula in atto, essa assume i caratteri della strategia.

L’azienda deve essere guidata verso l’esaltazione del proprio fine istituzionale (creazione di valore “a valere nel tempo”) e ciò può avvenire solo se, oltre a perseguire l’efficacia e l’efficienza della formula imprenditoriale operante, essa riesce ad intraprendere consapevoli cammini innovativi.

Si può quindi affermare che il governo dell’azienda deve essere orientato a realizzare, secondo una prospettiva dinamica, il dispiegamento delle potenzialità economiche, considerate le risorse disponibili o sviluppabili, i fattori di rigidità, il mutevole contesto competitivo e ambientale.

Obiettivo principale dell’analisi strategica è quindi, in primo luogo, quello di studiare, mediante modelli e strumenti di analisi, i caratteri dell’azienda e dell’ambiente per individuare i percorsi di governo che possono consentire di dispiegare le potenzialità economiche delle risorse aziendali, del contesto operativo, competitivo e sociale; risorse e contesto che devono essere analizzati nei loro caratteri strutturali e funzionali, nei loro connotati e nelle loro reciproche relazioni. Si tratta, quindi, di un’analisi che approfondisce le caratteristiche dell’azienda e dell’ambiente, si orienta a favorire la diagnosi della formula imprenditoriale in atto, cerca di individuare i percorsi per intervenire e orientare l’azienda al pieno dispiegamento delle potenzialità economiche, si impegna ad interpretare i trend di cambiamento del settore e del contesto ambientale ed aziendale per meditare sulla necessità di rinnovare la formula in atto e di acquisire elementi per una più consapevole definizione degli indirizzi di cambiamento.

L’analisi strategica deve pertanto realizzare una tempestiva e approfondita comprensione dei problemi che interessano la formula imprenditoriale operante e delle condizioni del suo cambiamento; essa si inserisce quindi nel più ampio processo di gestione strategica.

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In particolare nel caso in cui l’azienda si trovi ad operare nella zona della dissipazione patrimoniale o in quella della sopravivenza, l’analisi strategica dovrà orientarsi ad individuare, sulla base di un attento studio delle potenzialità inespresse, le condizioni che possono consentire di spingerla nella zona della creazione del valore. Tuttavia anche se l’azienda si trova nella zona della creazione del valore è molto probabile che non riesca a beneficiare appieno delle sue potenzialità o che esistano le condizioni affinché essa possa cogliere nuove opportunità, anche in relazione ai trend di cambiamento del settore ed ai vincoli posti dalla struttura.

La necessità dell’analisi strategica è particolarmente sentita nelle fasi in cui l’azienda naviga saldamente e da molto tempo nella zona della creazione del valore. Nelle aziende in crisi, e anche in quelle con indicatori di performance che mostrano trend non positivi, è palese la necessità di analizzare i motivi profondi delle difficoltà o degli andamenti negativi. Il miglior modo per affrontare le crisi aziendali è fare in modo di non trovarcisi. È tuttavia evidente che in ogni azienda, sia o non sia di successo, esistono o possono generarsi disarmonie di gestione o elementi di rigidità e, quindi, fonti di possibili disequilibri operativi o fattori di impedimento al cambiamento.

Non tutte le aziende dedicano però particolare attenzione ed impegno all’analisi strategica a causa dell’incessante accumulo dei problemi e delle esigenze quotidiane della gestione operativa. Inoltre molto spesso esiste l’erronea convinzione che la formula imprenditoriale sia destinata a mantenersi valida nel tempo.

1.6 L’IMPOSTAZIONE STRATEGICA E I PRINCIPALI STRUMENTI

La storia dell’imprenditorialità è piena di realtà aziendali di successo nei quali non è stato fatto alcun ricorso a strumenti formali di rappresentazione e di analisi strategica. Oggigiorno, tuttavia, soprattutto nelle grandi aziende operanti in settori altamente dinamici e competitivi, vi è la convinzione che il ruolo del top management sia anche quello di offrire un supporto culturale e metodologico alla gestione strategica.

È innanzitutto evidente come nell’ambito dell’analisi strategica, un ruolo centrale è assunto dall’analisi critica dell’impostazione imprenditoriale in atto, cioè della formula posta in essere dall’azienda nella ricerca dell’equilibrio economico (cd. formula imprenditoriale operante). Tale formula, in particolare, deve servire da modello di

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riferimento per la politica aziendale. A questo proposito è chiaro come per la singola azienda non esisti una formula imprenditoriale che risulti valida per sempre.

L’analisi diagnostica è quindi orientata oltre che a raggiungere e mantenere l’efficacia e l’efficienza gestionale della formula operante, a favorire ed attivare percorsi di cambiamento e, perciò, ad analizzare approfonditamente l’evolvere della dinamica aziendale nel contesto ambientale.

Governare un’azienda pertanto significa anche tratteggiare un disegno strategico del domani diverso da quello dell’oggi ed orientare in maniera consapevole la gestione verso un nuovo modello gestionale.

In particolare con il termine intento strategico si vuole in primis indicare il disegno imprenditoriale che il top management intende realizzare per il conseguimento dell’equilibrio economico nel futuro. Esso è fondato sull’idea di sviluppo dell’azienda e viene riferito sia al proposito del vertice aziendale di attuare determinate linee strategiche (quindi un progetto imprenditoriale diverso dalla formula attualmente operante), sia alla tensione rispetto al perseguimento di tale proposito.

L’intento strategico, in tal senso, non si configura come un piano o un programma, ma in un progetto tratteggiato in modo consapevole circa lo stato futuro desiderato della formula imprenditoriale. Le sue funzioni principali devono essere quelle di costituire la “bussola” dell’agire strategico e il “tensionatore” delle energie manageriali ed operative. L’intento strategico è quindi, necessariamente, frutto di un processo di “concettualizzazione della strategia” da parte del Soggetto economico, anche se spesso le idee su cui si fonda si alimentano nell’operatività e sono frutto di percezioni originali di uomini d’azienda collocati ai diversi livelli gerarchici.

Il management ha una precisa responsabilità realizzativa rispetto al progetto d’impresa che ispira la formula imprenditoriale in atto e l’intento strategico. Nel momento in cui l’intento strategico non coincide con la formula in atto od in corso di realizzazione, si parla in tal senso di gap strategico, è logico aspettarsi che la sua responsabilità realizzativa lo spinga ad intervenire con determinazione ed efficacia per reimpostare la direzione dell’attività gestionale.

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1.7 LE CARATTERISTICHE DELL’“ENUNCIATO STRATEGICO” DI UN’AZIENDA

Esistono numerose modalità per esprimere sinteticamente un enunciato strategico. In ogni caso, per poter essere validamente espressivo di una strategia intrinsecamente coerente esso deve contenere almeno le seguenti classi di informazioni:

• ambito scelto e ruolo da assumere in esso. Questo primo punto riguarda il dove l’azienda intende competere (tipo di prodotto, fascia competitiva, mercati, canali, aree geografiche ecc) e il che cosa l’azienda intende essere nell’ambito prescelto (es. leader di tecnologia, operatore di nicchia quasi artigianale, contoterzista per grandi aziende del lusso e così via). L’individuazione dell’ambito e del ruolo deve portare a chiarire anche dove l’azienda non intende operare e quali ruoli sono considerati inadeguati per l’azienda;

• elementi di diversità o unicità che conferiscono al sistema di prodotto fattori di vantaggio rispetto alle aziende concorrenti. Nella definizione delle componenti essenziali della strategia è necessario evidenziare quali sono gli elementi di diversità del sistema di prodotto (riguardanti aspetti materiali, immateriali, finanziari ecc.) che conferiscono (o che dovranno conferire) fonti di vantaggio concorrenziale. Tali elementi possono ad esempio riguardare la rapidità, la puntualità o la qualità del servizio, la presenza capillare nelle diverse zone territoriali, i minori prezzi, l’immagine superiore, la tecnologia, l’affidabilità percepita e così via;

• la logica con la quale l’azienda intende assumere il ruolo che si è data perseguendo in modo economico il vantaggio concorrenziale. Non è sufficiente evidenziare il contesto ed il ruolo che l’azienda intende assolvere e gli elementi di diversità che conferiscono al sistema di prodotto un vantaggio concorrenziale (es. costo di produzione più basso che comporta un prezzo minore). Bisogna, infatti, evidenziare anche perché l’azienda con la sua struttura, le sue risorse e competenze, i suoi processi, è in grado di

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realizzare in modo profittevole quel vantaggio nel contesto stabilito. La logica esprime, in altre parole, il perché l’azienda ha o può avere successo.

In molti casi è utile che l’analisi conduca alla formulazione di un enunciato strategico che riepiloghi in sintesi gli aspetti qualificanti delle tre classi d’informazioni sopra evidenziate. In sintesi quindi l’enunciato strategico altro non è che un tentativo di rappresentare in maniera discorsiva la mappa concettuale sottostante all’idea imprenditoriale e gli elementi che compongono siffatta idea. Formulare un enunciato strategico, tuttavia, non significa necessariamente realizzare un processo di comunicazione a vasto raggio dello stesso. È utile sottolineare come l’idea imprenditoriale e il disegno operativo che, più o meno direttamente ne discende, siano caratterizzati da dinamicità. Un ulteriore aspetto da evidenziare è la consapevolezza che lo sfruttamento e la difesa del vantaggio concorrenziale “di oggi” non equivalgono a creare i presupposti per conseguire il vantaggio concorrenziale “di domani” e che la mutevole azione delle forze aziendali e ambientali rende necessario il ripensamento della proposta progettuale che l’azienda intende offrire al complesso degli interlocutori. Il processo di concettualizzazione del disegno strategico dovrà riguardare, quindi, sia la formula imprenditoriale “dell’oggi” quanto quella “del domani” (intento strategico).

1.8 LA VALUTAZIONE DELLE ALTERNATIVE STRATEGICHE

È fondamentale procedere ad un’attenta valutazione delle diverse strategie possibili. Per un singolo business, o per l’impresa nel suo complesso, l’attrattiva delle diverse strategie può essere confrontata prevedendo i cash flow del business (o dell’impresa) derivanti da ciascuna strategia e selezionare quella che fornisce il valore attuale netto più elevato.

Un numero crescente di imprese sta introducendo nei processi di pianificazione strategica l’analisi del valore per l’azionista. Molto spesso quest’analisi, che ha il pregio della coerenza, è utilizzata come misura di performance, costituendo l’obiettivo di ciascuna divisione e unità di business, come base per la valutazione delle strategie e delle proposte di investimento e come criterio guida per il monitoraggio, a livello di gruppo, delle performance delle unità di business. La stessa metodologia dell’analisi del valore attuale e lo stesso obiettivo di massimizzazione del valore per l’azionista sono

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utilizzati per valutare i singoli progetti d’investimento, le singole business unit, le strategie di business alternative e l’impresa nel suo complesso.

Le fasi per poter utilizzare l’analisi del valore per l’azionista come metodo di valutazione delle strategie di business sono:

• identificare le strategie alternative (l’approccio più semplice consiste nel confrontare la strategia attuale con la strategia alternativa preferita);

• stimare i flussi di cassa associati a ciascuna strategia;

• stimare le implicazioni di ciascuna strategia sul costo del capitale, infatti, se una strategia implica un incremento delle spese di capitale (rendendo necessario il finanziamento), ciò può aumentare il costo del debito dell’impresa e anche il costo delle sue azioni, dato che esse verrebbero ad essere più rischiose;

• scegliere la strategia che genera il più elevato valore attuale netto.

Confrontando l’analisi delle strategie con il metodo del flusso di cassa con la valutazione dei singoli progetti d’investimento, emergono alcuni problemi specifici. I singoli progetti d’investimento hanno, infatti, una vita limitata, mentre l’impresa (o l’unità di business) ha una durata più prolungata nel tempo, quindi la scelta delle strategie deve essere effettuata con riferimento al lungo periodo.

1.9 LE CRITICHE ALL’ANALISI BASATA SUI FLUSSI DI CASSA ATTUALIZZATI QUALE METODO PER LA VALUTAZIONE DELLE ALTERNATIVE STRATEGICHE

Sono stati compiuti notevoli passi in avanti nel collegare l’analisi strategica a quella finanziaria, ma nonostante questo sussistono ancora molti problemi. I problemi principali che emergono nell’applicazione dell’analisi basata sui flussi di cassa attualizzati per la valutazione delle strategie sono: incapacità di considerare il valore delle opzioni, la tendenza al breve termine e la difficoltà di stima dei flussi di cassa futuri.

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Le strategie come opzioni.

La valutazione delle singole unità di business presenti in un’impresa è più semplice della valutazione delle strategie alternative di business. Valutare strategie alternative di business in termini di flussi di cassa netti scontati ad un costo del capitale appropriato è, infatti, un compito difficile, poiché la maggior parte delle strategie implica un flusso di decisioni di allocazione delle risorse distribuito nel tempo, in cui le decisioni di investimento successivo sono fortemente legate ai risultati e alle informazioni generati dagli investimenti precedenti. In un ambiente sempre più turbolento come quello di oggi, la strategia è sempre meno un programma predeterminato di piani di investimento e sempre più un posizionamento dell’impresa per cercare di trarre un vantaggio dalle opportunità d’investimento remunerativo che si presentano. In questa nuova visione della strategia, gli investimenti nei primi stadi dei progetti sono essenzialmente delle opzioni, il cui valore è quello di offrire all’impresa la possibilità di realizzare successivi investimenti se le prospettive alla fine dello stadio iniziale sembrano favorevoli. Ad esempio, gli investimenti in R&S solitamente non offrono ritorni diretti, ma il loro valore risiede nell’opzione di investire in nuovi prodotti e nuovi processi originati dall’attività di ricerca. Il problema in questo senso è che l’analisi basata sui flussi di cassa attualizzati non valuta accuratamente gli investimenti in cui è presente un significativo valore di opzione. L’impresa per riuscire a stimare il valore dell’opzione degli investimenti strategici deve, specificare gli stadi successivi del processo d’investimento, identificare le alternative a disposizione in ogni stadio e specificare i possibili risultati insieme alle loro probabilità.

La tendenza al breve termine.

Una seconda critica avanzata nei confronti dell’approccio del valore per l’azionista è quella secondo cui l’attenzione rivolta al valore al valore di mercato delle azioni della società potrebbe distogliere l’attenzione del management dalle questioni critiche riguardanti la ricerca della competitività nel lungo periodo, rivolgendo maggiori attenzioni alle aspettative del mercato azionario. In questo senso, la preoccupazione rivolta alla massimizzazione del valore sul mercato azionario può portare ad una maggiore attenzione ai profitti di breve termine a discapito della redditività a lungo termine. Gli osservatori, per molti anni, hanno sostenuto che il forte orientamento al valore azionario delle imprese americane e inglesi ha causato preoccupazione per i risultati nel breve termine, un sottoinvestimento di capitale, una riduzione nella R&S e

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una disponibilità a cedere mercati ai concorrenti asiatici, più propensi a adottare una visione di lungo periodo. Michael Porter in uno studio sui fondi d’investimento aziendale statunitensi evidenzia una mentalità di breve termine sotto forma di bassi tassi d’investimento e un’avversità agli investimenti intangibili (come la conoscenza e la capacità) e in progetti a lungo termine. Tuttavia, queste conclusioni sono state contraddette da numerosi studi che non hanno trovato alcuna tendenza al breve termine nel mercato azionario.

Difficoltà di stima dei flussi di cassa futuri.

Il principale obiettivo di lungo termine per l’impresa è rappresentato dalla redditività. Questo è un concetto ampiamente condiviso, i problemi sorgono quando si deve specificare la misura appropriata per valutare il profitto. I contabili sono a favore delle tradizionali misure della redditività, mentre gli esperti finanziari affermano invece che “il contante è il re”. Da un punto di vista teorico, il cash flow è certamente il parametro più appropriato per la valutazione di un’impresa. I problemi invece si verificano nelle applicazioni pratiche. Nella realtà non ha molto senso chiedere ai manager di massimizzare il valore dell’impresa sul mercato azionario, poiché si hanno difficoltà a trasferire tale indicazione in termini decisionali. Ordinare ai manager di massimizzare il valore attuale dei flussi di cassa futuri è sicuramente un’istruzione più precisa, ma crea due problemi. Prima di tutto non possiamo misurare i flussi di cassa futuri. Abbiamo a disposizione, infatti, solo le misure dei flussi di cassa passati e le stime incerte del futuro. Inoltre il secondo problema è costituito dal fatto che non esiste un sistema separato di contabilità del cash flow. Tutte le stime dei flussi di cassa, infatti, derivano da misure di contabilità standard. Sostenere che i flussi di cassa sono più corretti perché non soggetti a manipolazioni contabili è, quindi, solo parzialmente vero.

Inoltre quanto più la previsione dei flussi di cassa futuri è difficile, tanto più i profitti contabili diventano una misura delle performance e una base per le valutazioni. Per esempio, se un’impresa è molto redditizia, ma al contempo sta investendo in maniera pesante per espandersi, i suoi flussi di cassa netti nel medio periodo saranno probabilmente negativi, anche se nel lungo periodo saranno più rilevanti. Quanto più difficile è la previsione nel lungo termine, tanto più sarà probabile che le valutazioni con il flusso di cassa attualizzato sottovalutino la crescita delle imprese e la crescita delle strategie rispetto ad un approccio che prende in esame i redditi operativi o i redditi economici.

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1.10 LA GESTIONE STRATEGICA E LA “TRAPPOLA DEL NON GOVERNO”

Nella realtà si possono osservare molti casi di aziende nelle quali, dopo periodi più o meno lunghi di risultati gestionali positivi dovuti all’efficace ed efficiente attuazione di un’idea imprenditoriale vincente, l’attività di governo si sviluppa in modo sterile, in mancanza di un’azione politica realmente incisiva e di ambiziosi progetti di cambiamento imprenditoriale. Ogni volta che si presenta una situazione di questo tipo, possiamo dire che l’azienda scivola verso il non governo.

Il non governo è una situazione nella quale la classe dirigente abdica dal suo ruolo guida consapevole verso obiettivi ambiziosi, chiaramente delineati ed orientati con determinazione al cambiamento, si astiene dal progettare e realizzare disegni strategici validi e realmente di ampio respiro. L’azienda, in questi casi, diviene prigioniera di una classe dirigente che non sa o non riesce ad assolvere con efficacia al suo ruolo di stratega del cambiamento e, dunque, in ultima analisi, non è all’altezza delle sue responsabilità socio-economiche di lungo termine.

Il non governo può verificarsi a causa dell’assenza o della sterilità dell’idea di sviluppo, in questi casi l’azienda si schiaccia sulla formula imprenditoriale operante e non riesce ad esprimere un valido progetto di cambiamento, oppure dell’incoerenza tra l’idea di sviluppo e le risorse disponibili o attivabili. Spesso l’assenza o la sterilità dell’idea di sviluppo è dovuta ad una sorta di “illusione del benessere illimitato”. La storia di molte aziende permette di evidenziare che, dopo un prolungato periodo di successo economico e competitivo, a volte si crea una sorta di autocompiacimento narcisistico che coinvolge principalmente il vertice dell’azienda e che in alcuni casi si traduce in un convincimento di superiorità rispetto ai competitor. Il Soggetto economico, inoltre, è così convinto della superiorità della formula imprenditoriale in atto che tende talvolta a sottovalutare i segnali deboli dei cambiamenti ambientali. Esistono casi anche di alcune grandi aziende leader che, forti delle loro posizioni dominanti, hanno subito pesantemente gli effetti di attacchi da parte di aziende innovative attardandosi sulla formula preesistente senza capire che era ormai iniziato un processo di ridefinizione delle regole del gioco concorrenziale.

Altre volte invece l’idea di sviluppo risulta perfino troppo ambiziosa. Essa in pratica non è compatibile con le risorse disponibili o potenzialmente attivabili e, di conseguenza si traduce in un programma di governo velleitario.

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In altri casi, al contrario, il Soggetto economico riesce a cogliere i segnali del cambiamento, ma intimamente ritiene che essi siano destinati a compromettere prima o poi le condizioni di esistenza dell’azienda. Si genera così un senso di pessimismo e, talvolta, di diffusa incertezza che può sfociare in un atteggiamento meramente difensivo o rinunciatario. Questo può dipendere da un’oggettiva irrimediabilità della situazione creatasi, ma in molti casi è dovuto principalmente allo stato mentale del Soggetto economico che, ancorato a logiche interpretative ormai superate, alle risorse da lui ritenute disponibili ed alle routine operative consolidate, non riesce a cogliere tempestivamente le opportunità insite nei cambiamenti e ad interpretare il vero potenziale delle risorse aziendali.

In tal senso, è utile ripetere che, in ogni azienda, una vasta rete di operazioni ed anche di decisioni aziendali sono incorporate nell’ambito di regole e routine operative ed organizzative divenute una componente del patrimonio di conoscenze e competenze. Il rinnovamento dell’azienda, quindi, passa anche attraverso la creazione di nuove regole e routine e la distruzione di alcune regole e routine consolidate, ma questo è spesso molto costoso e tutt’altro che agevole sotto il profilo organizzativo ed anche psicologico, perché difficilmente conciliabile con le mappe cognitive o con le posizioni di potere. L’azienda tende così a rimanere nel solco delle traiettorie gestionali coerenti con il set di routine consolidate (path dependency). Dietro le risorse e le competenze, quindi, si cela un paradosso. Esse sono alla base della capacità dell’azienda di conseguire performance superiori, ma allo stesso tempo possono frenare lo sviluppo ed il cambiamento.

Un’idea di sviluppo valida e coerente con le risorse attuali o potenziali può essere vanificata inoltre da un programma di governo o da un metodo di governo inadeguati. In casi come questi, l’idea di sviluppo non riesce a tradursi, rispettivamente, in piani operativi ed in azioni strategiche validamente orientate o in un intento strategico realmente condiviso. Basti pensare a ciò che avviene ad esempio in quelle aziende familiari nelle quali la qualità dell’idea di sviluppo dell’imprenditore-fondatore e l’originaria capacità di leadership di quest’ultimo sono vanificate da crescenti distorsioni nel metodo di governo dovute alla patologica dialettica tra le diverse generazioni della famiglia ed alla tendenza a sovrapporre alcune esigenze del gruppo familiare agli obiettivi istituzionali.

Si può inoltre osservare come la pubblicistica di general management, un tempo riservata agli specialisti ed oggi diventata ormai in parte letteratura divulgativa che

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talvolta ha addirittura prodotto dei veri e propri best seller, ha finito per creare negli ultimi decenni una vastissima area di “convincimenti condivisi” a livello intra-aziendale ed inter-aziendale.

Le best practice manageriali universalmente condivise sembrano quindi spingere, in molti casi, le aziende verso sentieri non divergenti che, nella continua ricerca della massima efficienza ed efficacia operativa, attenuano i fattori di diversità dei singoli disegni imprenditoriali. Questa tendenza ha fatto intravedere ad alcuni studiosi di management un crescente orientamento alla convergenza competitiva. Il benchmarking, vale a dire la necessità di confrontarsi con le organizzazioni che costituiscono modelli vincenti di riferimento, oppure l’importanza di far ricorso all’outsourcing, sono ormai universalmente riconosciute come delle tecniche necessarie per poter competere nel nuovo scenario competitivo. È forse anche per questo che molte aziende dopo anni di progressi in termini di efficienza ed efficacia operativa, ottenuti grazie ad encomiabili sforzi di applicare al meglio le best practice manageriali, hanno dovuto constatare deludenti risultati. Sono, infatti, le diversità e non le omogeneità a creare per la singola azienda le condizioni per conquistare livelli superiori di performance.

Un’azienda di successo che cade nella trappola del non governo vive di inerzia gestionale, beneficia in altre parole della spinta che le viene dalla forza delle idee e delle azioni imprenditoriali che il Soggetto economico è stato in grado di esprimere e di attuare nel passato più o meno remoto.

L’analisi strategica, perciò, costituisce la risposta che un management professionale deve dare per fronteggiare il rischio di scadimento che sempre incombe sulla formula imprenditoriale.

Figura

Figura n. 1 Lo sviluppo storico del management strategico.

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