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I realia come problema di traducibilità

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Academic year: 2021

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4. LA COMPLESSITÀ DEL SIGNIFICATO LESSICALE NELLA TRADUZIONE DELL’OPERA BARRABÁS Y OTROS RELATOS

4.1. I realia come problema di traducibilità

Spesso i problemi di traducibilità sono legati a differenze culturali; per questo motivo è indispensabile conoscere, oltre alla lingua, anche la cultura relativa al testo che si sta traducendo. Il processo traduttivo comporta infatti oltre al confronto tra due sistemi linguistici, anche il confronto tra due culture diverse. Così, «Se la comprensione testuale, in tutte le sue implicazioni, rappresenta l’obiettivo primario della traduzione, il raggiungimento di tale obiettivo passa inevitabilmente attraverso il rispetto dei dati della cultura di partenza»1 e «il conseguente loro inserimento nel contesto culturale di arrivo, affinché chi si accosta al testo tradotto non avverta l’imposizione di una cultura che potrebbe essergli profondamente estranea»2.

Alcuni racconti che compongono l’opera di Uslar Pietri sono ricchi di termini culturospecifici e di realia, parole-segnale3 che arricchiscono il testo di un colore locale. In alcuni casi sono termini tipici della cultura di

1

P. FAINI, Tradurre, Carocci, Roma 2004, p. 17. 2

Ibidem, p. 17. 3

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partenza ma conosciuti anche in quella d’arrivo, altre volte sono concetti assenti e sconosciuti in quest’ultima.

I racconti più culturalmente marcati sono senza dubbio quelli ambientati in Venezuela, come El ensalmo e La voz o quelli che presentano un contesto rurale come El idiota. I realia che compaiono in questi testi si riferiscono soprattutto alla vita quotidiana, al lavoro, alle tradizioni di una determinata cultura, alle caratteristiche geografiche del paese e alle specie endemiche di flora e fauna. In El ensalmo l’autore parla di chinchorro, di cola de gallo e di cocimientos; questi tre termini appaiono nel testo originale in corsivo, probabilmente perché denotano una specifica cultura locale. Il racconto è ambientato in un piccolo paese della Guayana venezuelana abitato da una popolazione indigena. Come terza accezione nel DRAE il termine chinchorro viene definito: “Hamaca ligera, tejida de cordeles o fibra”; la Chuleta Venezolana riporta la seguente definizione: “Hamaca hecha de tela tejida o trenzada, muy utilizada en los llanos”. Los llanos in Venezuela è il nome di una larga estensione di terre pianeggianti, che si estendono da ovest a est, attraversate dall’Orinoco e abitate da molte specie di animali. Chinchorro è quindi il termine usato in Venezuela per indicare l’hamaca che il DRAE definisce come una “Red alargada, gruesa y clara, por lo común de pita, la cual, asegurada por las extremidades en dos árboles, estacas o escarpias, queda pendiente en el aire, y sirve de cama y columpio, o bien se usa como vehículo, conduciéndola dos hombres. Se hace también de lona y de otros tejidos resistentes. Es muy usada en los países tropicales”. Per quanto riguarda il testo d’arrivo, se si traducesse il vocabolo in questione con il termine italiano “amaca”, “Letto pensile formato da una rete o da una tela sospesa per le estremità a due alberi” (De Mauro) si perderebbe la coloritura di un termine, usato in una specifica

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cultura, che nel testo è evidenziato dal corsivo. Così per la traduzione è stato deciso di trascrivere il termine in lingua originale accompagnato da una spiegazione poco appariscente nel corpo del testo: «a causa della curva del chinchorro, l’amaca dove dormiva».

Un altro esempio di realia è cola de gallo, un termine venezuelano per indicare un machete dalla punta che tende verso l’alto usato dagli llaneros, abitanti de Los llanos. Poiché il termine risulterebbe estraneo a qualsiasi lettore, sia di lingua spagnola, sia italiana, non conoscitore di quella specifica cultura, nella traduzione è stato scelto di mantenere il termine in lingua originale e in corsivo. Un trattamento diverso è stato riservato invece al termine cocimientos, ovvero “Líquido cocido con hierbas u otras sustancias medicinales, que se hace para beber y para otros usos” (DRAE) che è stato tradotto con «infusi» i quali indicano per definizione un “Liquido ottenuto per infusione di erbe, droghe e simili in acqua bollente o alcol” (De Mauro).

Nel racconto La voz compare il termine capotera, sostantivo venezuelano che indica una “Maleta de viaje hecha de lienzo y abierta por los extremos” (DRAE); poiché in italiano non abbiamo un unico termine equivalente per indicare tutte queste caratteristiche, che si riferiscano a un oggetto che sia al tempo stesso utilizzato per viaggiare, di tela e aperto ai lati, si doveva ricorrere all’unione di più termini che spiegassero, anche se nella maniera più sintetica possibile, i vari aspetti. La scelta traduttiva è stata quella di generalizzare con «sacchi da viaggio».

Nel racconto El idiota compare il termine bahareque, termine usato in Venezuela, Colombia, Honduras ed Ecuador per bajareque ovvero “Pared de palos entretejidos con cañas y barro” (DRAE); non esistendo nella realtà culturale italiana né una costruzione con queste caratteristiche, né un

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vocabolo che la rappresenti, è necessaria una perifrasi che espliciti le caratteristiche di questo termine. La traduzione di «El sol tostaba el bahareque resquebrajado»4 è stata quindi la seguente: «Il sole essiccava la parete crepata di canne e fango».

I racconti presi in esame fino a ora sono inoltre ricchi di voci che si riferiscono a specie endemiche di flora e fauna; nel racconto El ensalmo per esempio viene nominata la cuaima, che il DRAE definisce come “Serpiente muy ágil y venenosa, negra por el lomo y blanquecina por el vientre, que abunda en la región oriental de Venezuela”; si tratta di un animale che vive solo in una determinata località del Venezuela e quindi, probabilmente, il termine, che nel testo originale compare in corsivo, risulterebbe estraneo tanto a un lettore di lingua spagnola che non vive in quei posti, quanto a un lettore di lingua italiana; la traduzione riporta così il termine in lingua originale. Nel racconto El idiota compaiono alcuni termini che si riferiscono a frutti e piante endemici; risalendo alla voce latina è stato possibile trovare, laddove esisteva, il termine corrispondente italiano; per esempio le guayabitas, ovvero “Fruto del guayabo, que es de forma aovada, del tamaño de una pera mediana, de varios colores, y más o menos dulce, con la carne llena de unos granillos o semillas pequeñas”, nonostante siano frutti tropicali, sono entrati nella lingua italiana o direttamente con il termine spagnolo guayaba o con quello italianizzato “guava”; per la traduzione è stato scelto quest’ultimo. Il merey invece è il termine che in Venezuela, Porto Rico e Colombia indica il marañon ovvero l’anacardio; infine l’espressione mano de cambur è stata tradotta con «casco di banane»; infatti il termine mano indica, a Cuba e in Venezuela, un “Conjunto de plátanos que quedan unidos por un extremo luego de ser separados del

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racimo” (DRAE); nonostante il cambur non sia un plátano, ovvero un banano, ma una “Planta de la familia de las Musáceas, parecida al plátano, pero con la hoja más ovalada y el fruto más redondeado, e igualmente comestible” (DRAE), non conosciuto in Italia, l’aggiunta di una perifrasi avrebbe appesantito la frase e avrebbe dato al termine un’importanza maggiore di quanta ne avesse nel testo originale dove ha una funzione secondaria.

Dai vari esempi è stato possibile capire come non esista una regola adatta a tutte le circostanze nella traduzione dei realia culturali. In linea generale in questi tre racconti è stata privilegiata come scelta traduttiva quella di mantenere il contesto e le coloriture della cultura di partenza, aiutando a volte il lettore del testo d’arrivo con brevi spiegazioni.

Anche nel caso dei realia folcloristici non esiste un solo principio per le scelte traduttive; nel racconto El camino, ambientato in un convento non connotato geograficamente, alcune bambine si divertono giocando e canticchiando una filastrocca: «¿Donde está Doña Ana?», «Doña Ana no está aquí, se fue para el huerto de Tontoronjil»5. “Doña Ana” è il nome di un gioco infantile tradizionalmente femminile nel quale le bambine stanno in cerchio tenendosi per mano. La filastrocca non ha un ruolo funzionale all’interno del racconto se non quello di dipingere un passatempo infantile; fa parte della tradizione della cultura di partenza e il lettore del testo di partenza riconoscerebbe questa filastrocca come parte del proprio bagaglio culturale. Se si traducesse la filastrocca letteralmente si perderebbe la musicalità creata dall’assonanza delle parole “aquí” e “tontoronjil”; il termine “tontoronjil” deriva da quello di “toronjil” che vuol dire “melissa” e trattandosi di una filastrocca l’aspetto fonologico ricopre una grande

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importanza. Se il testo originale fosse diretto a bambini allora forse si potrebbe trovare un corrispettivo nella cultura d’arrivo tra le tante filastrocche appartenenti alla tradizione folcloristica italiana; ma trattandosi di un testo rivolto a un pubblico adulto questa operazione non è adatta in quanto il testo d’arrivo risulterebbe etnocentrico. Tenendo conto del fatto che il testo di arrivo deve provocare sul lettore «un effetto il più vicino possibile a quello prodotto sui lettori dell’originale»6 la scelta traduttiva è stata quella di creare una filastrocca in italiano, anziché prenderla dalla tradizione, in modo che non risultasse marcata, ma neutra per un lettore italiano La traduzione è stata la seguente: «Dov’è andata Zia Rosina?», «Zia Rosina sarà andata in cucina, se in cucina poi non c’è, a trovarla tocca a te».

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4.2. Le forme colloquiali come esempi di variante diatopica e diastratica

Alcune forme colloquiali presenti nei racconti danno al testo una connotazione diatopica, relativa all’area geografica in cui viene usata la lingua, e diastratica, relativa alla posizione che il parlante occupa nella stratificazione sociale7; così in alcuni racconti compaiono termini, esclamazioni, eufemismi marcati come parlati in diamesia8, medio-bassi in diastratia, e venezuelani o ispanoamericani in diatopia. Poiché ogni cultura

6

P. NEWMARK, La traduzione: Problemi e metodi, Garzanti, Milano 1988, p. 79. 7

Si veda AA. VV. G. BERRUTO, Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A. A. Sobrero, Laterza, Bari 1999.

8

Il termine diamesia viene usato da Mioni, citato in G. BERRUTO, Introduzione

all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A. A. Sobrero, Laterza, Bari 1999.

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possiede le proprie varianti linguistiche e le proprie forme colloquiali, è stato possibile trovare forme equivalenti nel testo d’arrivo.

Così vediamo che l’interiettivo Guá che nella cultura venezuelana può assumere varie sfumature, dalla burla, alla replica, allo stupore9, compare nel racconto La tarde en el campo; qui è pronunciato dal personaggio Miguel che, dopo aver preso a sassate un cane, rimane stupito dalla reazione di dolore dell’animale: «¡Guá! Le duele. Uhú»10, tradotto con «Per la miseria! Gli fa male. Uh!». Vediamo poi alcune interiezioni con valore eufemistico come Caray11 che compare nel racconto Ahora y en la hora de la muerte: «Ah, caray chico, eso es muy largo»12, tradotto con: «Ah, cavolo ragazzo, è una lunga storia». Un significato analogo ha il termine carrizo, che in Venezuela è un interiettivo con valore eufemistico (Diccionario de hispanoamericanismos) e lo troviamo nel racconto No sé: «Es un negocio, carrizo...!»13, tradotto con: «È un negoziato, cacchio...!». Nel racconto Miralejos il dialogo tra il personaggio Gabriel, prima con l’oste, poi con una donna, presenta un linguaggio caratterizzato da un registro molto basso. Vediamo alcuni esempi: «Dame dos palos»14; palo è un termine colloquiale, usato soprattutto a Cuba e in Venezuela, per indicare un “Trago de bebida alcohólica fuerte” (DRAE) che ho tradotto con «un altro goccetto»; il termine “goccetto” è diminutivo di “goccio”, termine familiare che indica “una piccola quantità di liquido spec. di bevanda” che nei casi in cui compare senza il tipo di bevanda specificata indica un alcolico (De

9

Cfr. A. GOMEZ DE IVASHVESKI, Lenguaje coloquial venezolano, Universidad Central de Venezuela, Facultad de Humanidades y Educación, Instituto de Filologia “Andrés Bello”, Caracas 1969, p. 222.

10

La tarde en el campo, p. 205. 11

Eufemismo per carajo (DRAE) 12

Ahora y en la hora de la muerte, p. 230 13

No sé, p. 222 14

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Mauro). In seguito, rivolgendosi a una donna, Gabriel dice: «Toma tú, perra sucia, para que te se caliente el buche»15. L’utilizzo dell’espressione «perra sucia» per rivolgersi a una donna è senz’altro offensivo, infatti come prima accezione il DRAE riporta per “perra” “Hembra del perro” e come seconda “prostituta”. Questa espressione è stata tradotta con «Prendi, sporca cagna, che ti scaldi le budella», poiché anche il termine “cagna” racchiude le due accezioni: “cane femmina” e “spreg. donna di facili costumi, donnaccia” (De Mauro). Per quanto riguarda invece la traduzione di “buche” con “budella” i termini non sono esattamente equivalenti. “Buche” come seconda accezione è “En algunos animales cuadrúpedos, estómago (parte del aparato digestivo)” e per quinta è un vocabolo colloquiale per indicare “Estómago de las personas”; in italiano non esiste un termine colloquiale che indichi solo lo stomaco, ma piuttosto un termine (budello) che indica al plurale (budella) “l’intestino, le viscere” che a loro volta possono indicare per estensione “ciascun organo contenuto nella cavità toracica e addominale dell’uomo e degli animali” (De Mauro). A livello sintattico infine la frase presenta l’inversione dei pronomi personali, fenomeno che riconduce alla lingua parlata di un ceto sociale basso.

4.3. Il socioletto campesino nel racconto «El idiota»: perdite e compensazioni

Il socioletto campesino di don Raimundo nel racconto El idiota rappresenta un esempio di varietà diastratica che è necessario trasferire nella traduzione per non perdere la coloritura che l’autore ha voluto creare.

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Lo scopo di Uslar Pietri era probabilmente quello di mettere in risalto il linguaggio socialmente marcato del personaggio, che appartiene a un ceto sociale basso, e per farlo l’autore sfrutta i fenomeni della lingua parlata dal punto di vista lessicale, fonologico e sintattico. La traduzione dovrà quindi mirare a suscitare lo stesso effetto nell’ipotetico lettore italiano.

Vediamone un frammento:

Tú sabes, Mijaure, que ese muchacho es muy bruto, ya yo he perdido toda esperanza en él, en eso no se parece en mí en na.Tú sabes que yo no he tenido escuela, que mi taita a lo que me enseñó fue a ser güén pión, pero he sido muy vivo, carrizo, que si he sido; es que me agarrado a fuerza de uñas pa poder defender este cacho e tierra de los malucos, de tanto bicho mal nacido que quería quitármelo, este que es mío desde los agüelos...[...] Pero este Fermín, caray, no parece hijo mío, siempre está como las perezas, dando quejidos, y viéndolo todo como si estuviera muy lejos. Parece un animal. Yo no quiero ni pensar en mañana cuando yo esté difunto, aquí va vení la zamurá y se lo va llevá todo, todo, y él se va a quedar como un aguaitacaminos, viendo cómo lo mudan, cómo le quitan lo mío, sin decí nada, con esa cara e peñon que tiene...16.

L’autore ha voluto rappresentare certe variazioni della lingua parlata di alcuni gruppi sociali; così alcune parole subiscono un cambiamento consonantico: la labiale b all’interno di parole come buen o abuelos, diventa una velare g; quindi buen diventa güen e abuelos diventa agüelos. Il fenomeno dell’apocope è presente in alcuni pronomi e sostantivi, na invece di nada, zamurá invece di zamurada, e in alcune forme verbali infinitive

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vení al posto di venir, llevá invece di llevar, e quello dell’aferesi nella preposizione che compare come e invece di de. In un solo caso l’ausiliare del verbo avere he, nella costruzione del passato prossimo, viene omesso: es que me agarrado. È possibile notare un altro fenomeno fonologico nel sostantivo peón che nel testo compare come pión; anche qui lo scrittore ha voluto sfruttare una caratteristica del linguaggio parlato di un individuo appartenente a un ceto basso, ovvero quella di pronunciare in dittongo uno iato, come conseguenza della velocità di pronuncia. Il tutto è accompagnato da un linguaggio a tratti grottesco e figurato per la descrizione del figlio di don Raimundo.

La traduzione è la seguente:

«Lo sai, Mijaure, quel ragazzo è proprio ottuso, non ci sono più speranze, non m’assomiglia per niente. Lo sai, non sono andato a scuola, il mio vecchio m’ insegnò a essere un gran lavoratore, ma ero molto sveglio, cacchio se lo ero; ho tirato fuori le unghie per difendere questo pezzo di terra dai molucchesi, e da qualsiasi carogna che voleva fregarmelo, questo che è mio da generazioni… quando gli spagnoli…» [...] «Ma questo Fermín, cavolo, non sembra proprio figlio mio; è come un bradipo piagnone, e non ci vede manco bene; somiglia a un animale. Non voglio pensare a un domani quando avrò tirato le cuoia, uno stormo d’avvoltoi arriverà e mi divorerà tutto, tutto, e lui se ne starà lì impalato senza fiatare, come un allocco, con quella faccia imbambolata che si ritrova, mentre il mio corpo viene massacrato, sfigurato …»

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Nella traduzione non sono state usate forme dialettali che avrebbero marcato il testo diatopicamente, e dato a quest’ultimo una connotazione regionale italiana. Si è scelto di utilizzare un registro basso prediligendo termini popolari e colloquiali e di lavorare alla creazione di un linguaggio caricaturale. A livello grammaticale per esempio è stata scelta la forma contratta «m’» del pronome personale «mi» (m’assomiglia, m’insegnò). È stato tradotto il termine taita, che in molti paesi dell’America Latina è una forma infantile e rurale “para dirigirse o aludir al padre y a las personas que merecen respeto” (DRAE), con il termine «vecchio» nella sua accezione familiare per indicare il padre (De Mauro). L’espressione de tanto bicho mal nacido que quería quitarmelo è diventata «da qualsiasi carogna che voleva fregarmelo» mantenendo il duplice campo semantico animale/umano ma nella sua accezione spregiativa (bicho-carogna) e traducendo il verbo quitar con la forma familiare del verbo rubare, «fregare» (De Mauro). Infine il personaggio che si identifica con el idiota viene paragonato nel testo originale a un uccello notturno (aguaitacamino) che vive nell’America centrale e che è forse l’unico della sua specie ad andare in letargo per molte settimane. Poiché questo uccello non vive in Italia e non è nemmeno conosciuto nella nostra cultura, e dovendo creare un’immagine di un individuo ottuso, pigro e lento ho tradotto la similitudine «y él se va a quedar como un aguaitacaminos viendo cómo lo mudan, cómo le quitan lo mío, sin decí nada, con esa cara e peñon que tiene...»17 con «e lui se ne starà lì impalato senza fiatare, come un allocco, con quella faccia imbambolata che si ritrova mentre il mio corpo viene massacrato, sfigurato …».

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Il termine “allocco” indica infatti un rapace notturno, ma con valore figurato indica anche un individuo “sciocco, tonto, babbeo” (De Mauro). Infine la «cara e peñon», che letteralmente sarebbe «faccia di roccia» diventa «faccia imbambolata» ancora una volta per compensare la perdita di una variazione della norma grammaticale (“e” al posto di “de”) con una variazione semantica.

4.4. Il linguaggio figurato: traduzione semantica o comunicativa?

L’opera di Uslar Pietri è caratterizzata da un linguaggio figurato, creativo e originale. Metafore e similitudini spesso sono usate per descrivere caratteristiche fisiche dei personaggi o particolarità del paesaggio. In generale lo «scopo della metafora consiste nel descrivere un’entità, un avvenimento o una qualità in modo più chiaro e conciso, e allo stesso tempo più complesso, di quanto sia possibile con il linguaggio letterale»18. Newmark parla di metafore originali, quelle cioè che «hanno spesso un effetto sensazionale e di rottura»19 ed è questo il caso di Uslar Pietri. L’autore infatti nell’utilizzare spesso espressioni figurate, crea una lingua originale, nuova, che suscita stupore nel lettore. Ancora Newmark afferma che «quanto più la metafora si discosta dalla forma linguistica della LP, tanto più è necessaria la traduzione semantica, perché il lettore della LA resterà stupito, sconcertato ecc. con la stessa probabilità con cui lo è stato quello dell’originale»20, ovvero il traduttore deve creare un testo che produca lo stesso effetto a cui mirava il testo originale21. Esistono vari tipi

18

P. NEWMARK, La traduzione: Problemi e metodi, Garzanti, Milano 1988, p. 152 19

Ibidem. 20

Ibidem, p. 166. 21

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di metafore e di conseguenza, secondo Newmark, altrettanti modi per tradurle; il traduttore può infatti riprodurre la stessa immagine nella LA, «purché presenti, nel registro appropriato, frequenza e diffusione simili»22; così in Barrabás la frase «entre las barbas le resaltaba la piel pálida como el agua sobre las piedras»23 crea un accostamento di immagini non consuete tanto nella cultura di partenza che in quella di arrivo, nella quale vengono mantenute: «la pelle chiara risaltava tra la barba come l’acqua sopra le pietre». Un altro esempio lo troviamo in Zumurrud dove compare la frase «Era pobre de toda pobreza, tan pobre como un guijarro en una charca»24; per quanto riguarda il livello fonologico è importante mantenere, nella traduzione, l’allitterazione; in riferimento al livello semantico, compare una similitudine tanto insolita nella lingua di partenza quanto in quella di arrivo e per questo è stata mantenuta: «Era povero che più povero non si può, così povero come un ciottolo in uno stagno».

Nell’opera di Uslar Pietri appaiono inoltre similitudini e metafore, spesso offensive, basate sul riferimento ad animali. Per esempio il burro, ovvero il somaro, è un animale che tanto nella cultura venezuelana che in quella italiana si associa alla tolleranza della fatica e del lavoro; così è stato possibile tradurre «¡Esto es para burros!»25 con «È un lavoro da somari!»; allo stesso modo i maiali sono associati a caratteristiche fisiche negative; così in El idiota «un ronquido sordo como el que producen los berracos en los chiqueros»26 diventa «un grugnito sordo come quello dei maiali nei porcili». Sempre in El idiota, per descrivere un personaggio lento e pigro

22

P. NEWMARK, La traduzione: Problemi e metodi, cit., p. 158 23 Barrabás, p. 143. 24 Zumurrud, p. 215. 25 El ensalmo, p. 181. 26 El idiota, p. 233.

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l’autore scrive che «está como las perezas»27 che diventa «è come un bradipo»; qui, nonostante il bradipo non sia un animale presente in Italia, è entrato comunque nella nostra cultura con valore figurato per indicare le persone lente e un pò ottuse (De Mauro). E infine nel racconto La burbuja l’espressione «perra vida» diventa «una vita da cani».

È possibile inoltre tradurre una metafora con una similitudine28, conservando l’immagine; l’uso della similitudine infatti modifica l’impatto della metafora, così in La voz il passo dell’indio è associato a quello di un cane: «El indio marchaba delante de mí con un paso ágil, de perro»29 diventa nella traduzione: «L’indio camminava davanti a me con un passo agile, come quello di un cane». Newmark sostiene che «quanto più una metafora è originale, tanto più è slegata dalla sua cultura e quindi tanto più se ne può conservare l’originalità con la traduzione letterale». Così è stato per la maggioranza delle metafore, similitudini o immagini “creative” e “originali” di questo testo. Vediamone alcune:

«El mar está de color de ladrillo. En el horizonte el cielo es una llaga roja que chorrea sangre sobre el agua» (S. S. San Juan de Dios, p.151. Trad. «Il mare è color mattone. All’orizzonte il cielo è una piaga rossa che stilla sangue

sull’acqua»).

«Una noche, toda embadurnada de luna, nos quedan al pairo, flotando como una cosa muerta» (S. S. San Juan de Dios, p. 152. Trad. «Una notte, tutta imbrattata di luna, eravamo fermi in panna, lontano dalla costa, galleggiando come una cosa morta»).

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Ibidem, p. 236. 28

P. NEWMARK, La traduzione: Problemi e metodi, cit., p. 162. 29

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«en aquella charca muerta cuajada de flores de agua, clavada de juncos tísicos, en cuya orilla había siempre una garza estática sobre un solo pie como un arbol de sal» (El ensalmo, p. 183. Trad. «in quello stagno putrido colmo di ninfee, trafitto da giunchi tisici, sui cui bordi c’era sempre un airone statico su un solo piede come un albero di sale»).

«casado con una mujer de la que pendían cinco hijos como un traje en harapos» (Miralejos, p. 247. Trad. «sposato con una donna dalla quale pendevano cinque figli come un vestito fatto di stracci»).

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