Il giudice, letti gli atti, sciogliendo la riserva osserva quanto segue.
Parte ricorrente, con ricorso ex art. 1 comma 48 L. 92/2012, chiede -previo accertamento della natura ritorsiva del licenziamento intimatogli il 23.8.2012- la condanna della convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno corrispondendo un’indennità commisurata alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla reintegra. In subordine chiede l’annullamento del licenziamento per insussistenza della giusta causa con le conseguenze di cui all’art. 18 IV° comma .
Resiste la convenuta contestando la natura ritorsiva del licenziamento, deducendo l’inapplicabilità dell’art. 18 st. lav, per insussistenza del requisito dimensionale e contestando nel merito la domanda.
A sostegno della pretesa natura ritorsiva del licenziamento il ricorrente afferma che il reale motivo del suo licenziamento sarebbe dovuto al fatto che “ l’azienda non ha gradito la denuncia di infortunio all’INAIL presentata dal lavoratore” e deduce i capitoli di prova n. 11 e 12 intesi a provare che in occasione di una telefonata con la sig. Chiara Vastapane questa, appreso della denuncia di infortunio, si sarebbe adirata urlando per ben tre volte infortunio?infortunio?infortunio? .
Le allegazioni in fatto offerte dal ricorrente sono ad avviso della scrivente assolutamente inidonee a dimostrare, ove anche venissero confermate in istruttoria, la pretesa natura ritorsiva del recesso datoriale.
Secondo il consolidato orientamento della cassazione infatti il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni ( da ultimo cass.
17087/2011).
Nella specie è certo che il motivo determinante del licenziamento è correlato all’infortunio posto che il licenziamento è stato intimato proprio a causa dei dubbi sull’autenticità dell’infortunio stesso e pertanto il fatto che l’azienda si sia risentita dopo aver appreso la notizia della denuncia di infortunio è ricollegabile al dubbio sull’effettivo verificarsi dell’evento lesivo e non certo ad un inverosimile intento ritorsivo.
L’insussistenza del requisito dimensionale è documentata dal L.U.L. prodotto in giudizio.
Come condivisibilmente affermato dalla cassazione “ai fini della valutazione della sussistenza del requisito numerico richiesto dall'art. 35 legge n. 300 del 1970 in relazione alla cosiddetta "tutela reale" del posto di lavoro, atteso che la norma fa riferimento ai lavoratori dipendenti e non semplicemente agli "addetti" o agli
"occupati", non possono essere considerati tra i dipendenti tutti coloro che prestano stabilmente la propria attività lavorativa per l'azienda, prescindendo
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dalla qualificazione del rapporto che ad essa li lega” (cass. 519/01; 13274/03). La richiesta di parte ricorrente volta ad ottenere l’accertamento incidentale della simulazione dei rapporti contrattuali ( associazione in partecipazione, contratti di lavoro a progetto) intercorrenti con altri prestatori d’opera ai fini della inclusione degli stessi nel novero dei dipendenti è pertanto inammissibile tenuto conto altresì della sommarietà del rito delineato dall’art. 1 commi 47 ss L.
92/2012 incompatibile con accertamenti istruttori così complessi ed implicanti la qualificazione di rapporti contrattuali intercorrenti con terzi estranei al giudizio.
La parte ricorrente ha chiesto in subordine l’annullamento del licenziamento con applicazione della tutela obbligatoria.
Le conseguenze dell’accertata insussistenza del requisito dimensionale non sono disciplinate dall’art. 1 L. 92/2012 ed il comma 49 dell’art. 1 cit. prevede, quale unico possibile contenuto dell’ordinanza emessa al termine della fase sommaria, l’accoglimento o il rigetto della domanda.
Non è ipotizzabile la trasformazione del rito in quanto l’applicazione analogica degli art. 426 e 427 C.P.C. è impedita dal fatto che si tratta di norme che disciplinano i rapporti tra diversi riti a cognizione ordinaria né può applicarsi l’art. 4 d.lgs. 150/2011 ( il quale testualmente recita:” quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto”) poiché si tratta di disposizione strettamente legata alla triplicità dei riti contemplati nel decreto legislativo stesso. Ulteriori argomenti a sostegno della tesi esposta discendono dal fatto che il comma 56 dell’art. 1 citato prevede la separazione delle domande ( con conseguente trattazione con il rito ordinario) solo nell’ipotesi di domanda riconvenzionale non fondata sugli stessi fatti costitutivi posti a base della domanda principale.
Né può essere applicato in via analogica l’art. 702 ter secondo comma cpc posto che la pronuncia di inammissibilità discende dall’accertamento della non appartenenza della domanda a quelle indicate nell’art. 702 bis; in ogni caso poi la pronuncia di inammissibilità , oltre ad essere lesiva del diritto di difesa in quanto espressamente dichiarata non impugnabile, rischierebbe di compromettere il diritto del lavoratore di contestare la legittimità del licenziamento in quanto il pur tempestivo esercizio dell’azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto dalla decadenza laddove il giudizio si concluda con una pronuncia in rito ( così cass. 1090/2007).
L’accertata mancanza del requisito dimensionale comporta quindi necessariamente la pronuncia di infondatezza nel merito della domanda del lavoratore, con conseguente necessità di superare l’orientamento giurisprudenziale che qualificava il requisito dimensionale come fatto impeditivo del diritto alla reintegra.
La volontà del legislatore si è infatti chiaramente espressa nel senso di limitare la possibilità di ricorrere al procedimento speciale alle sole domande aventi ad oggetto l’impugnazione del licenziamento di cui al comma 47 . Ciò significa che in tutti i casi in cui il lavoratore intenda contestare la legittimità della cessazione del rapporto di lavoro l’impugnazione del licenziamento tramite il ricorso ex art.
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414 C.P.C. continua ad essere la regola generale mentre la procedura di cui al comma 47 e seguenti costituisce un’eccezione limitata ai casi in cui venga espressamente invocata la tutela di cui all’art. 18 st. lav., come tale di stretta interpretazione. L’eccezionalità del ricorso alla procedura speciale è poi ulteriormente ribadita dal comma 48 nella parte in cui stabilisce che “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Se si dovesse seguire l’orientamento espresso dalle sezioni unite nella nota sentenza 141/06 a mente del quale “ in tema di riparto dell'onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l'invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro” la conseguenza inevitabile sarebbe che in caso di accertata inesistenza del requisito dimensionale la controversia avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento e l’applicazione della tutela obbligatoria andrebbe trattata comunque con il rito speciale essendo fondata sugli identici fatti costitutivi ed in particolare sull’esistenza del medesimo rapporto di lavoro e sull’illegittimità dello stesso atto espulsivo.
Siffatta conseguenza è evidentemente inaccettabile perché contrasta con la lettera della norma nonché con l’impianto normativo complessivo della legge 92/2012 che trova la sua ragion d’essere nella riforma dell’art. 18 sia dal punto di vista sostanziale sia da quello processuale ma che certamente nulla ha voluto mutare per il regime di tutela obbligatoria.
La consistenza numerica del datore di lavoro deve quindi necessariamente essere configurata come un elemento costitutivo del diritto alla reintegrazione e come condizione dell’azione proposta ex art 1 commi 47 ss L. 92/2012 ; il requisito dimensionale viene infatti in rilievo come elemento destinato ad integrare la fattispecie del diritto fatto valere e, per porsi come condizione dell'accoglimento della domanda, comporta, in quanto tale, ai sensi dell'art. 2697, 1 comma, c.c.
l'onere della prova a carico di chi l'adduce. La predetta conclusione non impone al lavoratore una prova diabolica in quanto il contemperamento del criterio di distribuzione dell'onere della prova con quello della vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti ( valorizzato sul piano generale dalle Sezioni unite con la sentenza n. 13533 del 2001 nonché, nell'interpretazione L. 300 del 1970, art. 18, dalle sentenze n. 613 del 1999 e 7227 del 2002) comporta che qualora il lavoratore alleghi la sussistenza della condizione dell’azione l’accertamento in concreto dell’effettiva consistenza dell’organico dell’azienda potrà avvenire attraverso l’esercizio dei poteri d’ufficio ex art. 421 c.pc. con ordine al datore di lavoro di produzione in giudizio del libro unico del lavoro, unico strumento efficace nella dimostrazione dell’elemento dimensionale.
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Entrambe le domande devono quindi essere respinte.
La novità e controvertibilità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese.
P. Q. M.
Visto l’art .1 commi 47 sss L. 92/2012 Respinge il ricorso
Compensa le spese.
Torino, 25.1.2013
Il Giudice
Drssa Clotilde FIERRO
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