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SommarioL’insegnamento della storia e della geografia in chiave interculturale

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Academic year: 2022

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Premessa

Sergio Marelli 3

Introduzione

Antonietta Fracchiolla 9

La convenienza dell’Intercultura

Antonio Brusa 13

La ricostruzione della coscienza di specie: saperi che uniscono e non dividono

Roberto Mancini 17

La riva nord vista dalla riva sud del Mediterraneo

Mostafa Hassani Idrissi 27

La revisione dei curricoli dell’ambito storico geografico in chiave interculturale

Italo Fiorin 36

L’insegnamento della storia e della geografia in prospettiva interculturale: esperienze europee a confronto. Aspettando un dibattito sui modelli di insegnamento storico

Antonio Brusa 39

La geografia e l’educazione interculturale nelle Indicazioni per il curricolo: un progetto disciplinare di sostenibilità sociale, territoriale e ambientale

Cristiano Giorda 45

La Storia di tutti, critica, oltre i confini, su scale diverse

Charles Heimberg 57

L’insegnamento della geografia e intercultura

Francois Audigier 61

Per una nuova cittadinanza mondiale

Piera Gioda 66

PRIMO PIANO

Sommario

L’insegnamento della storia e della geografia

in chiave interculturale

(2)

Prospettive di Educazione Interculturale

Aluisi Tosolini 69

Pedagogia e didattica interculturale: le proposte delle ONG italiane

Elide Taviani 72

Giovanna Cipollari 76

Marilena Salvarezza 83

Massimiliano Leprotti 86

DOSSIER

(3)

La FOCSIV - Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazio- nale Volontario - nel novembre del 1978 partecipò a Bruxelles ad una mostra di materiali didattici organizzata dalle Organizzazioni Non Go- vernative (ONG) di nove paesi della C.E.E. e in quella occasione si mise in evidenza la scarsa consistenza della presenza italiana in relazione al te- ma dell’Educazione allo Sviluppo. Ciò spinse la FOCSIV ad avviare una Commissione, formata da esperti e docenti, con il compito di studiare ed elaborare un programma di sperimentazione da attivare nella scuola, coinvolgendo in questo lavoro soprattutto i volontari rientrati da organi- smi aderenti alla Federazione. Dalla Commissione, coordinata dal profes- sor Elio Damiano, Docente di Didattica all’Università di Parma, nascerà il gruppo ESCI, acronimo di Educazione allo Sviluppo ed alla Coopera- zione Internazionale. Durante i primi mesi del 1980 il gruppo inizia a la- vorare stabilendo come momenti di scambio e riflessione incontri di due giorni a cadenza mensile di tutti i partecipanti e Convegni Nazionali estivi che si succederanno dal 1980 al 1984 con la presenza di diverse personalità del mondo accademico e della ricerca, quali Cesare Scurati (Docente Università Cattolica di Brescia), Luciano Corradini (IRRSAE Lombardia), Calchi Novati Gianpaolo (Docente università di Pisa) Giu- seppe Arlacchi (Docente Università della Calabria) e delle istituzioni scolastiche, quali Francesco Betti ( Direttore Didattico), Piergiorgio To- deschini (Direttore Didattico) e numerosi altri che in quegli anni intui- scono l’importanza del progetto. L’assioma di fondo è che la proposta educativa è profondamente innovativa in quanto l’itinerario da compie- re comporta una “rivoluzione culturale”. L’Educazione allo Sviluppo (EAS) infatti non consiste né nel parlare degli altri, né nel fare per gli altri, ma vuol dire qualcosa di molto più profondo, in quanto vuol dire cambiare se stessi e gli altri contemporaneamente, per la formazione di un uomo nuovo che - al Nord come al Sud - si riappropri della sua origina- lità culturale, della sua creatività, per lo sviluppo della propria persona- lità in armonia con la personalità degli altri in un contesto di comunità

Premessa

La proposta FOCSIV per

l’Educazione Interculturale

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planetaria, in cui ciascuno è al tempo stesso autore ed attore della pro- pria esistenza e contemporaneamente corresponsabile con gli altri di un processo di cooperazione in grado di trasformare i sistemi politico - eco- nomico - sociali sia a Nord sia a Sud del mondo.

L’obiettivo educativo focalizza subito l’attenzione del gruppo ESCI verso la revisione del curricolo scolastico nella consapevolezza che la scuola è prevalentemente il luogo degli apprendimenti simbolici: ciò si- gnifica che a ragione dei tempi, delle scansioni di orario, delle discipline, della stessa separatezza della scuola dalla vita reale, la scuola è comunque e sempre il luogo in cui si attingono le conoscenze. Quando si afferma che nella scuola possono entrare solo i contenuti rilevanti dal punto di vista scientifico non si intende dire che la scuola è indifferente ai valori, perché quei contenuti, scientificamente assunti, non sono neutrali. A scuola non si insegna tutto lo scibile umano, ma solo quei saperi che si selezionano in base a delle finalità educative. Questa consapevolezza de- termina negli anni ’80 il cammino del gruppo ESCI - FOCSIV che si può sintetizzare in questo cronogramma.

1980 - Convegno di S. Caterina Valfurva (1°): identificazione del pro- blema e necessità di approfondire le tematiche delloSviluppo/Sot- tosviluppo per definire le finalità educative del Curricolo ESCI.

1981 - Convegno di Rimini: formazione di un gruppo di progettazione di un Curricolo fattibile e correttamente fondato dal punto di vista epistemologico da sperimentare nella scuola.

1982 - Convegno di Rocca di Papa: analisi del Curricolo, revisione e va- lutazione da parte di esperti e progettazione di Unità Didattiche ESCI.

1983 - Convegno di Assisi: confronto fra curricoli italiani e stranieri di EAS e valutazione di Unità Didattiche ESCI.

1984 - Convegno di S. Caterina Valfurva (2°): bilancio del progetto e disseminazione del curricolo ESCI.

Al centro del “curricolo E.S.C.I.” vi è il concetto di Sviluppo inteso come processo non necessariamente migliorativo, multidimensionale, di- scontinuo nel tempo e nello spazio, originale, interdipendente, nostro e degli altri. Tale concetto determinano le Finalità del curricolo:

- La prima finalità si incentra sul rispetto dell’altro come condizione del rispetto di sé in quanto l’originalità di ogni processo di sviluppo valorizza la diversità. (Dimensione della conoscenza)

- La seconda finalità sviluppa il senso dell’interdipendenza in quanto lo sviluppo non è divisibile: osiamo tutti sviluppati o siamo tutti mal- sviluppati (dimensione dell’atteggiamento).

- La terza finalità educa alla solidarietà e alla cooperazione internazio- nale per l’inscindibilità dei problemi come assunzione della responsa- bilità del bene comune secondo il criterio della condivisione (dimen- sione del comportamento).

Sergio Marelli

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Le Finalità ESCI servono per selezionare i contenuti, gli argomenti di studio da inserire nel curricolo ESCI da veicolare attraverso le discipline scolastiche.

Il gruppo marchigiano del CVM (ieri Centro Volontari Marchigiani oggi Comunità Volontari per il Mondo), già inserito nel gruppo ESCI- FOCSIV ha portato avanti negli anni successivi la proposta con una se- rie di iniziative:

- sperimentazione nella scuola marchigiana di Unità Didattiche ESCI pubblicate nella Collana “ Nuove prospettive”;

- formazione di Formatori in corsi annuali estivi per attivare corsi di Formazione per docenti in servizio nelle scuole;

- seminari e Convegni per sensibilizzare il mondo della scuola alla re- visione dei metodi, saperi e curricoli scolastici;

- attività di Ricerca in collegamento con l’ Università.

Nel tempo il gruppo marchigiano ESCI - CVM rivisita l’acronimo che diventa Educazione alla Cooperazione, alla Solidarietà e all’Intercul- tura in linea con i nuovi orientamenti didattici e promuove con l’IRRE Marche un indagine volta a rilevare la situazione della scuola marchigia- na. Il progetto ha preso avvio nella primavera del 2001 con la distribuzio- ne di un questionario in 96 scuole di base della Regione Marche che de- nunciavano una maggior presenza d’allievi immigrati. La scheda di rilevazione di Bisogni, inviata alle scuole, focalizzava nella revisione dei libri di testo, nell’aggiornamento degli insegnanti, nella revisione dei sa- peri e dei curricula, nella costruzione di nuovi percorsi didattici le istanze individuate dai docenti marchigiani come prioritarie per qualificare la propria professionalità, messa a dura prova dallo scarto tra la propria for- mazione di base, legata ad una monocultura dal pensiero normativo, li- neare e sequenziale, e le richieste di un’utenza che si muove già di fatto in una realtà multietnica che esige una forma mentis flessibile, trasversale, circolare, erratica e mobile. Sulla base dei bisogni formativi dei docenti marchigiani, CVM e IRRE Marche, elaboravano nell’anno scolastico 2002-3, il progetto “Oltre l’etnocentrismo” coordinato dal prof. Elio Da- miano. Tale progetto pluriennale si articola attraverso la costituzione di tre gruppi di lavoro di docenti marchigiani, coordinati da esperti della ri- cerca universitaria e da un comitato tecnico composto da ricercatori IR- RE ed esperti della CVM -ESCI. Il primo gruppo, coordinato dal prof.

Agostino Portera, docente di Didattica Intercultuale all’Università di Ve- rona, ha come oggetto di studio l’analisi in chiave interculturale dei libri di testo della scuola elementare. Tra il 2003 e il 2004 un gruppo di 52 do- centi ha esaminato un campione significativo di testi tra i più diffusi nel- la scuola di base marchigiana per cogliere i pregiudizi e gli stereotipi che sono ancora all’interno di una visione monoculturale, per modificare le pratiche d’aula in linea con una sensibilità interculturale, per fornire strumenti di riflessione ai curatori dei libri di testo e alle case editrici. I ri- sultati sono documentati nel testo Cipollari G. - Portera, A. (a cura),

“Cultura, culture, intercultura” Ed. Cooperativa Magma, Pesaro 2004.

P R E M E S S A

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Il secondo gruppo, coordinato dal Comitato tecnico IRRE - CVM, è impegnato nella riqualificazione professionale dei docenti attraverso un aggiornamento da conseguire con Seminari in cui Ricercatori ed Esperti del mondo universitario hanno come oggetto d’indagine la revisione del- le discipline in chiave interculturale. Tra il 2003 e il 2007 una rete di do- centi marchigiani ha partecipato a Seminari sulla revisione della mate- matica, della geografia, della storia e dell’italiano tenuti da esperti e professori della Ricerca Universitaria quali Favilli (Università di Pisa), Pizzamiglio (Università di Brescia) Bagni (Università di Udine) per la matematica; Gusso (Presidente IRIS ), Brusa (Università di Bari) per la storia; Gnisci (Università di Roma) e Ceserani (Università di Bologna) per l’italiano; Brunelli (Università di Urbino) per la geografia riportati in parte nella rivista “Innovazione scuola” (IRRE Marche, Ancona), n.

1/2 (gennaio-giugno), 2005, pp. 24-26.

Il terzo gruppo, coordinato dal Comitato tecnico IRRE Marche - CVM, ha come attività la sperimentazione in contesto d’aula di curricoli didattici interculturali alimentati dai materiali forniti dalla ricerca Uni- versitaria. Nel luglio del 2004 lo staff IRRE Marche - CVM ha commis- sionato a ricercatori disciplinaristi delle Università di Bari, Roma, Udi- ne, Bologna, Urbino reading, comprensivi di una raccolta ordinata di testi relativi a:

• scambi e contaminazioni storiche ed attuali fra le culture altre e quella occi- dentale

• condizioni di Soggetti migranti in transizione identitaria all’interno delle so- cietà multiculturali-multietniche-multireligiose in via di costituzione.

Lo scopo dei reading è quello di fornire materiali inediti di matemati- ca, storia, geografia, italiano, da cui estrapolare un repertorio di concetti dalle discipline rivisitate nella loro struttura ed organizzazione epistemo- logica. Questi nuovi saperi disciplinari, selezionati in base al grado di in- novatività, sistematicità e pregnanza interculturale, sono poi utilizzati per la costruzione di un catalogo curricolare che, articolato in base all’età e alla psicologia cognitiva degli allievi, determina la elaborazione di una matrice curricolare rispondente ai bisogni formativi di soggetti chiamati a vivere nella società globale dei nostri giorni. Nell’anno scolastico 2005-6 si è avviata una sperimentazione di Unità di Apprendimento uti- lizzando i cataloghi curricolari elaborati sulla base dei reading forniti dal- la ricerca universitaria i cui esiti sono documentati nel testo: AAVV “Ol- tre l’etnocetrismo: i saperi al di là dell’occidente” Emi, Bologna, 2007.

Nel corso dell’anno scolastico 2006-7 si è costituita una rete di scuole che stanno sperimentando un nuovo curricolo di storia con la guida del professor A. Brusa e il sostegno dello staff IRRE Marche - CVM.

Il desiderio degli operatori CVM - FOCSIV - IRRE Marche è quello di fornire alla riflessione sull’educazione interculturale un materiale certa- mente da rimodellare e da riplasmare, ma comunque utile per fare un pun- to sullo stato dell’arte della ricerca in atto. Resta la consapevolezza che per realizzare questo occorrono risorse umane, mezzi e istituzioni a servi- zio della ricerca in genere e dell’educazione interculturale in particolare.

Sergio Marelli

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Nel 2008 il lavoro prosegue all’interno del Gruppo Scuola della Piat- taforma EaS dell’Associazione ONG italiane, dove viene intrapreso un percorso soprattutto politico, per cominciare un dialogo con il Ministero della Pubblica Istruzione sul tema dei curricola scolastici. L’obiettivo principale e soprattutto iniziale del gruppo, che nel corso del tempo a causa dei cambiamenti dei referenti istituzionali ha dovuto rivedere e modulare il proprio percorso, era quello di fare lobbying sul MPI, per ac- centuare il 20% di spazio che era concesso alla revisione in chiave inter- culturale dei curricoli nel documento “La via italiana all’intercultura”.

Altro obiettivo era far dialogare MPI e MAE. Tale lavoro ha previsto va- rie fasi, tra i momenti chiave la realizzazione di incontri con Vinicio On- gini, presso l’Osservatorio Nazionale per l’Integrazione degli alunni stra- nieri e per l’Educazione Interculturale del Ministero della Pubblica Istruzione, per la stesura di un protocollo d’intesa tra l’Associazione Ita- liana ONG e il Ministero della Pubblica Istruzione sul tema dell’inter- cultura a scuola e la valutazione di possibili altre sinergie; la collaborazio- ne nella realizzazione dello stesso convegno di Porto Sant’Elpidio, oggetto della presente pubblicazione, per l’edizione dell’agosto 2007.

“Verso la costruzione di Curricoli interculturali: dal canone etnocentrico a quello del cittadino cosmopolita”. Importante anche il lavoro appena con- cluso della stesura dell’appello all’interno del Gruppo Scuola sulla “Scuo- la che vorremmo”, documento fatto proprio dall’AOI e diffuso, con il qua- le si sottolinea l’importanza di una scuola comune, interculturale, che promuova il dialogo e il confronto per tutti gli alunni e a tutti i livelli (insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della clas- se) e una scuola che educhi alla cittadinanza mondiale, che permetta di rinnovare e rafforzare quel grande progetto pedagogico che è l’educazio- ne alla cittadinanza, in un momento come quello attuale di cambiamen- to nella scuola e di mutamenti sociali.

“Prendi tutti i soldi che hai e usali nella tua terra per parlare della povertà e delle sue cause”, con questa frase del Presidente della Tanzania Nyerere, la FOCSIV apre il proprio Documento Programmazione strategica settore Educazione allo Sviluppo attualmente in corso, nel quale vengono ripor- tate le indicazioni e proposte concrete per orientare l’impegno degli Or- ganismi Associati in modo maggiormente concertato e strategico, ai fini di un maggiore impatto della nostra azione nella lotta alla povertà, in ot- temperanza alle linee definite dal “Documento di Indirizzo strategico triennale” della Federazione.

In tale documento, si evidenziano le aggregazioni significative tra gli Associati negli ambiti considerati prioritari come impegno federativo con- giunto nell’EaS. Tra queste, vi è quella relativa alla “Formazione formato- ri” per il quale, alla luce dell’esperienza maturata, è stato incaricato il CVM di fare da capofila e che ha visto la Federazione con il CVM e 12 Organismi Asssociati (A.C.C.R.I., A.D.P., A.S.P.Em., Ce.L.I.M., C.I.S.V., C.L.M.C., C.V.M., L.V.I.A., MO.C.I., O.S.V.I.C., PRO.DO.C.S., S.V.I.) lavorare insieme nel progetto “Programma di educazione sui temi dello sviluppo, delle povertà e della convivenza multietnica”.

P R E M E S S A

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La piattaforma comune di tale progetto è stata la critica all’educazio- ne come strumento di trasmissione unidirezionale del sapere e la volontà di affermare le potenzialità creatrici e liberatrici dell’Educazione alla cit- tadinanza mondiale, come prassi orientata al cambiamento e forma dia- logica di comunicazione. E’ alla luce di questo incarico ricevuto dalla Fe- derazione e dell’impegno che in CVM ha continuato a portare avanti nell’ambito della revisione dei curricula scolastici, che FOCSIV ha affi- dato all’Organismo di curare questo numero monografico della rivista Volontari e Terzo Mondo, dedicato in modo particolare ai formatori.

Sergio Marelli Direttore Generale

Volontari nel mondo - FOCSIV

Sergio Marelli

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I giorni 28-29-30 agosto 2008 si è svolto a Villa Barucchello di Porto Sant’Elpidio (AP) il secondo Seminario Nazionale sulla revisione dei curricoli di storia e geografia in chiave interculturale promosso dalle ONG (Organizzazioni Non Governative) italiane, in collaborazione con la Ri- cerca Scientifica, rappresentata sia da docenti di Università italiane e straniere, sia dall’ANSAS (ex IRRE Marche). La posta in gioco è quella di collegare la scuola di base alle riflessioni innovative che gli storici e i geografi stanno elaborando a livello di studi accademici internazionali. L’Educazione Interculturale infatti non è un optional o una scelta di buon senso portata avanti da qualche insegnante militante, ma è l’unico modo rigoroso e scientifico di educare oggi in sintonia con la nuova mission della scuola.

In una società di profondi cambiamenti, in cui internet e i processi di comunicazione hanno rivoluzionato il concetto di spazio e di tempo, la scuola deve offrire alle generazioni gli strumenti per saper vivere in una società sempre più multietnica, superando l’attuale multiculturalismo caotico e conflittuale.

La costruzione di una società del dialogo, capace di andare oltre la mera tolleranza e il semplice rispetto, indica l’istanza di uscire dall’auto- referenzialità e dall’etnocentrismo per avviare l’incontro attraverso una autentica interazione tra soggetti, gruppi etnici e culture. Questa innova- zione a scuola passa attraverso la revisione epistemologica delle discipli- ne in linea con la loro evoluzione scientifica, in quanto i saperi non sono essenze stabili, ma costruzioni variabili in relazione ai bisogni umani che li generano.

Dopo i saluti delle autorità locali, ha aperto il Seminario il professor Roberto Mancini dell’Università di Macerata con la relazione “La rico- struzione della coscienza di specie, saperi che uniscono e non dividono”. Il dia- logo interculturale, che mira a riconquistare, dopo secoli di conflittualità e separazione, la coscienza di specie, non è innato, ma va preparato, ed in

* Formatrice esper ta di educazione interculturale

Introduzione

Antonietta Fracchiolla *

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particolare a scuola occorre precisare alcune coordinate di fondo. In pri- mo luogo occorre promuovere l’Unità del sapere. In secondo luogo la scuola, come spazio privilegiato di ricerca e di frontiera, deve proporre sa- peri autentici in quanto correlati ai bisogni delle nuove generazioni. In terzo luogo il sapere deve essere dialogico e partecipato tale da consentire viaggi di andata e ritorno, dalla nostra cultura ad altre culture.

Successivamente il professore Mostafa Idrissi dell’Università di Rabat (Marocco) nella relazione “I manuali della riva Sud del Mediterraneo” ha introdotto il tema della revisione della storia, presentando le tre riforme principali che in Marocco hanno influito sulla percezione dell’Europa emerse dai libri di testo delle scuole arabe. Alla riforma del 1970 corri- sponde una prima generazione di manuali, caratterizzata dall’arabizzazio- ne, dallo spirito anticoloniale e dalla valorizzazione della storia naziona- le. Alla riforma del 1987 corrisponde una seconda generazione di manuali, rappresentata dalla pedagogia per obiettivi e da un certo ripie- gamento sulla storia islamica. All’ultima riforma del 2002 corrisponde una terza generazione di manuali, contraddistinta dall’abolizione del ma- nuale unico e dall’attenzione sulle competenze. L’immagine della storia dell’Europa presentata nei manuali di storia in Marocco è un’immagine ambivalente: l’Europa appare come modello accettabile in alcuni conte- sti e inaccettabile in altri a dimostrazione che la storia europea è segnata dal punto di vista di chi la narra.

Sulla problematica “riforma e revisione dei saperi” si è addentrato, con il professor Italo Fiorin, anche il professor Antonio Brusa dell’Uni- versità di Bari che presentando “Le Mappe di un paesaggio che cambia” in- dividua l’istanza di nuovi strumenti intellettuali con cui leggere in profondità i molteplici elementi di una realtà complessa. Nell’implosione ed esplosione di conoscenze occorre riorientare i saperi chiamando in causa la questione del canone, in vista della costruzione di una nuova cittadinanza e di un nuovo umanesimo. La revisione interculturale non è infatti richiesta dalla necessità di far fronte ai processi di immigrazione, ma è parte integrante del processo di trasformazione sia delle discipline, sia del loro insegnamento. L’Educazione Interculturale non riguarda solo il tema dell’accoglienza e della comprensione, ma anche quello della re- visione di obiettivi, contenuti e metodi con la finalità di costruire una comunità e un’identità collettiva volta alla comprensione del mondo e alla partecipazione democratica. Ciò ovviamente riguarda un problema di riforma della scuola, che non è solo nostro, nazionale, ma mondiale. Gli scenari di un prossimo futuro sollecitano, le reti di scuole, le associazioni di docenti e dei ricercatori, i giovani ad utilizzare nuovi strumenti e nuo- ve tecnologie, per poter sostenere l’innovazione della revisione culturale, all’interno dell’Autonomia scolastica.

Charles Heimberg dell’Università di Ginevra nella relazione “La storia di tutti: critica, oltre i confini, su scale diverse” afferma che l’idea di una sto- ria di tutti, critica, aperta, che sappia distinguere storia e memoria, non deriva da una scelta ideologica, ma proprio dall’epistemologia della storia in quanto nessuno può dichiarare e pretendere di essere “autoctono” e

Antonietta Fracchiolla

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rinchiudere la storia degli uomini in un luogo determinato. Non esiste una identità pura perché siamo tutti meticciati o ancor meglio creoli in quanto, come dice Edouard Glissant, la creolizzazione include più prota- gonisti nel mescolamento degli scambi e degli incroci. La storia che si apre al mondo si dipana su diverse scale, coinvolge tutti e mobilita il pensiero storico per percepire la realtà in modo critico. La storia mondia- le, s’interessa per definizione alle storie degli altri che si incrociano con la propria storia, elabora una sintesi di lunga durata su vasti spazi, rac- contando le grandi trasformazioni della storia umana, quelle trasforma- zioni che attraversano tutte le società passate e presenti. Ciò consente di dare a tutti i gruppi sociali uno statuto di riconoscimento, quale trama interdipendente di un unico tessuto, in quanto come nessun filo d’erba vive solo in un prato, così nessuna società, nessun uomo è disgiunto dal- l’Umanità di cui è parte integrante.

Cristiano Giorda, dell’Università di Torino nella sua relazione “La geografia e l’educazione interculturale nelle Indicazioni per il curricolo: un pro- getto disciplinare di sostenibilità sociale, territoriale e ambientale” afferma che la geografia deve insegnare a pensare in termini di transcalarità, ricono- scendo le relazioni e i flussi che legano luoghi e persone dal locale al glo- bale. La diversità culturale è ovunque, ma è il suo legame con i luoghi e i lo- ro abitanti che la rende così speciale e importante per l’educazione interculturale, per cui il primo passo consiste nell’osservare il proprio spa- zio di vita per scoprire in esso gli intrecci e le relazioni multiculturali che lo caratterizzano.

François Audigier dell’Università di Ginevra nella sua relazione “In- segnamento della geografia e prospettive interculturali” afferma che il conte- sto mondiale - globale è caratterizzato: dalla potenza dei mercati; dalla mobilità dei beni materiali e immateriali, dei capitali, delle informazioni;

dalla mobilità ‘controllata’ delle persone; dalle lotte per le risorse che stanno scarseggiando; dalla volontà di potenza e di guerra; dall’aumento delle disuguaglianze e di affermazioni identitarie. In questo scenario - co- me afferma Paul Claval – ci sono tre ostacoli alla comunicazione tra cul- ture: il primo è dato dalla distanza tra diffusione e condivisione dei tratti culturali; il secondo dalla codificazione di barriere politiche, linguistiche, scritturali; il terzo dall’affermazione di identità forti e chiuse con il rifiuto di valori diversi. La geografia, quale scienza dello spazio e della società, permette di tessere le relazioni tra geografia ed intercultura in quanto prolunga la riflessione sull’identità territoriale con le sue dimensioni po- litiche e culturali legandole al concetto di cittadinanza.

Il seminario si è poi articolato coniugando teoria e pratica, ricerca e di- dattica d’aula, per cui la voce degli studiosi nazionali ed internazionali è stata offerta come un ipotesi di lavoro in contesto d’aula. Numerosi labo- ratori di didattica interattiva con particolare attenzione verso le pratiche ludiche e del problem solving, sono stati coordinati da esperti provenien- ti dal mondo delle ONG o da Associazioni Professionali scientificamente qualificate.

I N T R O D U Z I O N E

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1

A conferma che la proposta è percorribile, è stato presentato un workshop gestito dai docenti della rete interculturale della scuola mar- chigiana con la descrizione delle UDA (Unità di Apprendimento) di storia e geografia realizzate nell’anno scolastico 2007-2008, sulla base di una Ricerca –Azione coordinata da: CVM – ANSAS (ex-IRRE Marche), in collaborazione con il professor A. Brusa dell’Università di Bari, e dalla Professoressa Catia Brunelli, ricercatrice dell’Istituto di Geografia dell’U- niversità di Urbino. Le UDA rappresentano “buone pratiche” didattiche in- novative: per quanto riguarda la storia esse intendono superare i limiti di una visione unilineare, sequenziale, etnocentrica, settoriale per accoglie- re la proposta di una Storia Mondiale plurilineare, multisettoriale, plurale, transcalare, problematica, socialmente viva, in grado di comprendere le grandi trasformazioni che caratterizzano la storia dell’Umanità; per quan- to riguarda la geografia la finalità della sperimentazione è stata quella di superare l’approccio descrittivo della disciplina e di spostare l’attenzione verso lo studio delle relazioni antropofisiche, ragionando su concetti quali regione/confine; geo-graficità; sistema territoriale; immaginazione geografica.

Antonietta Fracchiolla

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Sospetto che il danno maggiore all’intercultura lo facciano i buoni, senza volerlo naturalmente, come accade spesso alle persone di animo gentile. Essi cercano di diffondere l’idea che l’intercultura sia una batta- glia in nome della generosità, del rispetto e della comprensione degli

“Altri”, e contro alcuni lati brutti del nostro mondo, quali il razzismo o la xenofobia. Non che si tratti di guerre sbagliate (mi auguro, anzi, che se ne facciano molte e che si vincano tutte): ma la mia impressione è che esse aggiungano una difficoltà non indispensabile, alla già ardua impresa interculturale. Per conto mio, vorrei sostenere che l’intercultura è, con- trariamente a quanto solitamente si pensa, un fatto di sano egoismo. È un atteggiamento verso il mondo, del tutto necessario per chi ci vuole vivere con qualche successo (perché no? Anche per chi vuol far soldi, per quanto preferirei parlare di successi un po’ più “umanistici”, per esempio della propria avventura di vita). Per dirla in termini concreti, è un approccio di pura convenienza. Un modo di guardare le cose necessa- rio a tutti, ai buoni come ai cattivi, a quelli di destra come a quelli di si- nistra (il lettore abbini gli aggettivi come crede).

Vediamo, dunque, il perché di questa necessità, cominciando dal ter- mine stesso “intercultura”. Esistono molti studi sulla sua nascita, sulla dif- ferenza fondamentale che un semplice prefisso è in grado di produrre (in- ter/multi/trans), e quindi sulle precauzioni che occorre adottare in proposito. Pochi però riflettono sul fatto che questa parola è, in fondo, pleonastica. È una parola ridondante e forse non necessaria, se riflettiamo sul fatto che la cultura umana è una sola, un flusso continuo, nel quale è illusorio voler tracciare un confine, o erigere una barriera, istituire un uf- ficio cambi o un centro immigrazione. È difficoltoso, come vediamo quo- tidianamente, impedire alle persone di muoversi; figuriamoci se volessi- mo regimentare le idee, i comportamenti, le abitudini, i gusti: quella somma di oggetti impalpabili che costituiscono nel loro insieme “la cul- tura”, il prodotto più astratto, sofisticato e mobile della specie umana.

P R I M O P I A N O

La convenienza dell’intercultura

Antonio Brusa *

* Docente di didattica della storia - Università degli studi di Bari

Cos’è

l’intercultura?

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Ora, proprio in questo continuum abbiamo costruito delle regioni geo- grafiche fittizie (le nostre “culture”, quelle caratterizzate da un qualche aggettivo di localizzazione). Tutti gli studiosi ne conoscono molto bene l’utilità: servono per disegnare territori indispensabili al lavoro scientifi- co. Basti pensare alla letteratura greca o a quella latina. E, sicuramente, ne conoscono benefici più tangibili gli addetti ad altri settori, come quel- lo gastronomico o turistico. Ma, appunto, sono strumenticoncettuali, “di servizio”. Nessuno studioso ha mai spinto la metafora di “regione cultura- le” fino a reificarla, cioè fino a trasformarla in un qualcosa di solido, in una regione effettiva, che possiamo rappresentare su una carta, con i con- fini precisi e i colori che distinguono l’una dall’altra. Nessuno, storico o letterato che sia, perciò, ha nemmeno immaginato che fra la cultura gre- ca e quella latina esistesse una barriera. E possiamo aggiungere che nessu- na persona di buon senso ha mai osato pensare che per cucinare un pollo tandoy in Italia bisognasse chiedere un passaporto in questura. Purtroppo, nell’uso comune, e sicuramente per una diseducazione di massa, ben aiu- tata da una cattiva politica, quest’uso ridicolo del termine è diventato talmente abituale che ci appare molto serio. Noi, infatti, consideriamo normale comportarci come se fra “la cultura italiana” e la “cultura alba- nese” ci sia una specie di dogana, come al porto. Per questo motivo, a causa di questa immaginazione distorta, abbiamo dovuto inventare il ter- mine “intercultura”. Usiamolo, dunque: ma ciò che dobbiamo tenere per fermo è che esso non ci serve per “abbattere le barriere”, creare un nuovo mondo “aperto”, e, dunque, per diventare migliori. Ci serve esattamente per ristabilire una semplice verità: che la cultura è una sola, appartiene alla specie umana, e che quella barriera che tutti hanno in testa, è un prodotto della nostra inesauribile fantasia. Questa verità conviene a tutti.

Infatti, non è molto salutare - per i buoni come per i cattivi – aggirarsi per il mondo con convinzioni così stravaganti sulla sua natura.

Mi aspetto le obiezioni, e anche piuttosto accese, sul rischio che l’a- dozione di questo punto di vista indebolisca la cultura nazionale, e con essa identità e appartenenze; sul pericolo che faccia smarrire il senso del- le radici e delle proprie origini, del proprio passato in definitiva: e con questo anche la capacità di progettare il futuro. Sono argomentazioni dif- fuse, che ritroviamo sia nei discorsi pubblici, nel continuum mediatico o nella chiacchiera del bar, sia nel dibattito sulla formazione. Non per nul- la, un buon numero di manuali di storia recenti si intitolano a radici, va- riamente combinate con futuri possibili, identità o ali (bella metafora per dire che si studia la storia per volare verso orizzonti migliori). La disputa ovvia, che si innesca in queste occasioni, si focalizza su epiteti che im- provvisamente acquistano toni offensivi: il “cosmopolitismo”, per esem- pio, cui si associa la vecchia e mai sopita diffidenza verso gli apolidi; ma si svaria anche contro l’ ”intellettualismo”, marchiato di “astrattezza”

colpevole; mentre in crescita sicura appare l’accusa di “aristocraticismo”, con il quale si vuol significare che questo approccio conviene a quel ri- stretto ceto di figli di papà, che può studiare all’estero o lavora presso re- munerative sedi fuori d’Italia, laddove i ceti popolari sembrano legati al suolo patrio, quasi fossero dei postmoderni servi della gleba.

Antonio Brusa

Metafora di

“Regione culturale”

Cosmopolitismo e

intellettualismo

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A queste accuse, solitamente si risponde con un appello ai valori umanitari, richiamando l’obbligo del rispetto verso gli altri, o, in una strategia argomentativa edonistica e meno penitenziale, sicuramente più gradevole, prospettando il fascino del diverso e della sua conoscenza. Si combatte, duramente, ma in difesa mi sembra, contro chi ha dalla sua l’evidenza di fatti incontestabili. Le radici, ad esempio: possiamo imma- ginare uno così stupido da consentire che qualcuno ce le tagli? E che dire delle origini: non sono come una fonte, dalla quale noi discendiamo e che è delittuoso lasciare che vengano inquinate? Vorrei rilevare, a questo proposito, che tutte le parole chiave di questo tema - origini, radici, ere- dità, patrimonio, identità, appartenenza, tradizione – manifestano una medesima caratteristica: le pronunci, e sai già da che parte deve andare il ragionamento. Hanno, dentro di sé, precostituito, lo schieramento chi ha ragione e chi ha torto. Insomma, costringono chi sostiene le ragioni dell’intercultura a correre in salita. Sono queste parole che lo obbligano sulla difensiva.

In effetti, questo è un bel campo dell’educazione interculturale: mo- strare che queste parole sono delle invenzioni della nostra fantasia; delle invenzioni molto ricercate, anzi, perché partorite della infinita creatività degli studiosi. Hanno tutte una nobile origine (forse per questo, infatti, sono stato appena costretto ad usarne una). Ma vi immaginate un con- tadino del XVII secolo, che faccia un qualche cenno alle “origini” della sua stirpe o della sua religione? Poco credibile: per lui “fonte” o “radici”, si sarebbero riferite a realtà molto concrete e quotidiane. E infatti, l’uso metaforico di questi termini è tipico del mondo scientifico. Basti pensare al termine “fonti” elaborato dalla grande storiografia tedesca del XIX se- colo (“quellen”, soggiungono a questo punto i manuali di medievistica).

Ora, le metafore bisogna usarle bene. Altrimenti si corre il rischio di creare situazioni in cui l’equivoco genera non di rado situazioni ridicole.

Succede nella maggior parte delle barzellette sui carabinieri, che si fon- dano appunto su metafore mal comprese e soprattutto male usate: uno sente una metafora, che va bene in un determinato contesto, gli piace e la ripete in un altro, in cui non c’entra. L’effetto comico è assicurato.

Proprio questo è il caso delle nostre parole chiave. Funzionano alla gran- de nella ricerca scientifica, perché servono fondamentalmente a stabilire relazioni spaziali (fra regioni diverse) o temporali (fra periodi diversi).

Generano situazioni di comicità surreale, se le applichiamo ai nostri con- testi di vita, come se fossero oggetti effettivi. Immaginate, per esempio, se dovessimo applicare alla individuazione degli “eredi culturali” di un determinato periodo (Roma, ad esempio), gli stessi strumenti che usiamo nella vita quotidiana per definire la controversa eredità di un lontano parente (quali cause, giudici, tribunali, testimoni, codici dovremmo con- vocare per stabilire il vero erede del Colosseo o del diritto romano?).

Tuttavia, mentre nel caso delle barzellette sui carabinieri si ride (ingene- rosamente, lo riconosciamo volentieri), in questo uso pubblico e sballato di queste metafore, si pontifica con sussiego o addirittura si celebrano riti con ampolle e gite in barca: e questa è una situazione ingiusta, soprattut- to nei confronti dei carabinieri.

P R I M O P I A N O / La convenienza dell’intercultura

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1

È una questione di buona educazione, mi pare. Senza enfasi e senza afflati umanitari. Conviene che gli italiani (come chiunque altro) adope- ri le parole per quello che sono e significano, e non si espongano al ridi- colo di chi fa solo finta di saperle usare. Riportiamo le cose alla loro realtà, come devono fare gli insegnanti. Occorre dimostrare che certe co- se siano effettivamente delle “radici” o delle “origini”, prima di usarle co- me argomenti. Ma questo è ben lontano dalle nostre capacità scientifi- che: per Marc Bloch, ad esempio, la ricerca delle origini era tanto inutile, da considerarsi una perdita di tempo. Essendo questa l’evidenza della ricerca, conviene anche che questa sia la base imprescindibile di ogni discorso educativo, che abbia a cuore una cultura nazionale, solida e seria.

Antonio Brusa

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Rinnovamento della scuola italiana

La scuola italiana da tempo cerca una sua via di risposta sia ai proces- si migratori che investono il nostro paese, sia, più ampiamente, al biso- gno di rigenerazione della sua intera vita. Al dibattito su questo processo di rinnovamento, da tempo avviato e focalizzato oggi sulle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, vorrei contribuire dal punto prospettico che riguarda la natura dei saperi colti- vati nell’attività didattica. La mia relazione1si muove lungo questo ver- sante con uno scopo preciso: quello di mostrare come la trasformazione interculturale del quadro vigente dei saperi, delle discipline, dei pro- grammi scolastici non possa risolversi aggiungendo a questo quadro, la- sciato di per sé immutato, temi e prospettive di respiro europeo o mon- diale. Il respiro interculturale dei saperi e della didattica non si acquisisce per mera estensione, aggiungendo ciò che appare esotico a ciò che è tradizionale, o attraverso un salto che dalla cultura nativa ci tra- sporti magicamente in un’altra a noi estranea. Il respiro interculturale può distendersi quando si affina la coscienza autocritica della tradizione cui apparteniamo e quando finalmente si sperimentano viaggi di andata e ritorno tra le culture, dialoghi e forme di condivisione tra tradizioni di- verse, imparando così a riconoscere un orizzonte di senso più vasto per tutti, un orizzonte che non scaturisce dalla pura somma del nucleo di ogni cultura del mondo, poiché piuttosto è questo orizzonte a metterle in cammino e a farle incontrare.

Tra le condizioni positive dell’apertura interculturale dei saperi e della didattica va anzitutto considerato il ripensamento della natura del sapere

La ricostruzione della coscienza di specie: saperi che uniscono e non dividono

Roberto Mancini *

* Docente di Filosofia Te o r e t i c a - U n i v e r s i t à di Macerata

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1 Per l’avvio di tale riflessione rimando ai miei scritti seguenti: Etica contemporanea e pro- cessi interculturali, in AA.VV., La ricerca didattica per un’etica interculturale, a cura di M.

Filipponi e G. Cipollari, Ancona, Irrsae Marche - Esci CVM, 2000, pp. 47-91; I fonda- menti epistemologici dell’incontro interculturale, in AA.VV., Prepararsi all’incontro. Azione educativa e prassi interculturale, Comune di Loreto - Esci CVM, 2001, pp. 55-79.

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in quanto tale e, per noi, del modo in cui esso si è sviluppato non solo in Italia, ma nella tradizione della modernità europea e occidentale, di cui la cultura del nostro paese, complessivamente considerata, è un’espres- sione. La questione che così viene in primo piano è quella dell’universa- lità dei saperi che coltiviamo, di quale universalità sia credibile oltre la tentazione di ritenere una visione già universale soltanto perché è nostra. Una cultura edificata da secoli sul primato dell’io, del noi, o co- munque dell’identità in quanto identità esclusiva non può cavarsela giu- stapponendo alla sua impostazione abituale un’apologia dell’altro; deve piuttosto prendere distanza critica dal proprio modo di guardare la realtà, deve scoprire che cosa siano il trascendimento dell’io, il formarsi delle identità umane, l’essere in relazione, la libertà solidale. Da questo punto di vista mi sembra più appropriato un senso di discontinuità che una per- cezione di continuità con la tradizione complessiva e con la concezione della scuola più abituale in questi decenni nel nostro paese. Un nuovo umanesimo non potrà essere né l’ennesima versione dell’egemonismo oc- cidentale, né un’ideologia antropocratica che comporta la mortificazione del mondo vivente.

La considerazione di quella che si direbbe una trasformazione inter- culturale dei saperi, e che è piuttosto la dinamica più fisiologica e conge- niale alla loro vita, non può trascurare la consapevolezza del luogo oggi.

Da un lato abbiamo fenomeni positivi come il costante sviluppo delle conoscenze scientifiche e una più vasta maturazione della percezione del- l’interdipendenza sia tra gli esseri umani, sia tra umanità e mondo natu- rale. Ma dall’altro siamo alle prese con fattori di crisi quali la strutturale mancanza di giustizia, il permanente ricorso a guerre e strategie di terro- rismo, la frequente violazione dei diritti umani e la correlativa elusione dei doveri umani, la sistematica aggressione al mondo naturale, la rica- duta velenosa dei processi della globalizzazione, con la sua programmati- ca riduzione della società mondiale a mercato globale2.

Se guardiamo alla vita del mondo e al posto dell’essere umano in es- sa, ci rendiamo conto del dato fondamentale per cui ciascuno di noi è come il filo unico, preziosissimo, di un tessuto3. Il tessuto è la vita del mondo, ma lo sguardo con cui consideriamo le cose ci porta a credere di essere un filo isolato che deve cercare di sopravvivere senza o contro il tessuto stesso. Le vite intrecciate nel tessuto sono quelle dell’umanità, volto per volto, del mondo naturale, del senso che illumina il tessuto, del senso nei suoi molti nomi: la Vita, appunto, oppure la verità, Dio, il divi- no. Questa visione della realtà ritorna nel nucleo più avanzato delle cul-

Roberto Mancini

Sviluppo della natura del sapere

in occidente

Trasformazione interculturale dei saperi

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2 Per un approfondimento dell’analisi della globalizzazione rimando a quanto ho scritto nel libro Senso e futuro della politica. Dalla globalizzazione a un mondo comune, Assisi, Cit- tadella editrice, 2002. Circa il tema delle conseguenze di questo ordine del mondo sull’e- sperienza interiore degli individui ricordo il volume di A. Elliott e C. Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2007.

3 Per un approfondimento a riguardo rimando a quanto ho proposto nel libro L’uomo e la comunità, Magnano, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, 2004.

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ture del mondo. Ad esempio nelle lingue bantu questa consapevolezza si riassume nel termine ubuntu, che condensa l’idea secondo cui siamo per- sone attraverso altre persone grazie a legami di generosità reciproca4. Nella lingua della sapienza hindu è la parola Charkha, il filatoio a mano, che designa l’arte di tessere insieme con pazienza le differenze5in uno stesso Khaddar, in un tessuto unico nel quale ogni filo è riconoscibile.

Eppure il tessuto viene continuamente aggredito, lacerato. Il lato oscuro della nostra condizione si riassume in quel sortilegio per cui siamo in tutto esseri relazionali, ma ogni relazione tende a essere spezzata e, per così dire, geneticamente modificata dalla logica di dominio. “Si direbbe - ha osservato Elsa Morante - che l’umanità contemporanea prova la oc- culta tentazione di disintegrarsi. (…) E se il mondo, nella enormità della sua massa, corresse alla disintegrazione come al proprio bene supremo, che cosa resterebbe da fare a un artista? ”6. Oggi dovremmo chiederci:

che cosa possono fare, lungo questo crinale pericoloso, le culture, i sape- ri, le istituzioni della ricerca e dell’educazione?

Richiamo l’attenzione sui principali fattori della crisi storica odierna non per oscurare l’orizzonte con una diagnosi pessimista della situazione, bensì per superare l’ingenua furbizia che induce molti a seguire la logica della conciliazione per addizione, quella che accosta gli opposti senza leg- gerne l’antagonismo. è la logica che evoca insieme mercato globalizzato e democrazia - come fece a metà degli ani ’90 il Libro bianco sull’educazione dell’Unione Europea -, accumulazione privata di ricchezza e solidarietà, crescita materiale illimitata e giustizia, pretendendo poi di fondare de- mocrazia, solidarietà e giustizia su mercato globalizzato, accumulazione privata di ricchezza e crescita materiale illimitata. Nel nostro caso si trat- terebbe di coniugare cultura etnocentrica e cosmopolitismo, così come di conciliare l’addestramento di individui specializzati nel competere e l’e- ducazione delle persone.

La logica dell’addizione, tra l’altro, ha il difetto di nascondere il fatto per cui ciò che realmente costituisce un valore vivente - ossia le persone, le relazioni, le comunità, l’umanità, la natura - viene subordinato a ciò che in effetti lo contraddice e lo minaccia. Essa preclude la percezione dei cambiamenti necessari e impedisce il risveglio dal sonno della pigra ripetizione degli schemi più abituali. La fisionomia tipica di tale logica è oggi quella economica che innalza le esigenze del mercato al di sopra di tutto. In realtà occorre non tanto e semplicemente “stare sul mercato”, quanto imparare a stare nella società e nella natura senza distruggerli, oc- corre insegnare al mercato a stare al mondo. Infatti il mondo reale ha mercati, ma non è un mercato e la scuola non è un’azienda.

L’uomo:

un essere razionale

Logica del mercato globale e democrazia

“Stare sul mercato”

P R I M O P I A N O / La ricostruzione della coscienza di specie ...

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4 Cfr. D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 46.

5 Cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi, 1996, p. 141.

6 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987, pp. 99 e 103.

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Però ogni consapevolezza critica del presente si smarrisce presto se non si sperimenta un autentico risveglio. I saperi risultano frammentati nello specialismo e chiusi nell’etnocentrismo se non sono l’espressione plurale di un fondamentale sapere umano che riconosca il senso e le re- sponsabilità dell’esistenza dell’umanità sulla terra. La sollecitazione al ri- sveglio viene offerta, in molti modi, dai persistenti dinamismi dell’anti- chissima e permanente interdipendenza storica tra i popoli e tra le culture, di cui la globalizzazione non è che una versione particolare e perversa. Mi riferisco a quell’interdipendenza che, storicamente intessuta di scoperte, incontri, conflitti, mercati, traduzioni, saperi, forme di reci- procità, richiede tra l’altro l’interdisciplinarietà dei saperi e vive nell’in- terculturalità deliberata e assunta come valore. Per i singoli così come per le comunità, l’essere in relazione rimane la provocazione più incisiva e la fonte più autentica di cambiamento positivo.

Nonostante la pressione all’omologazione patita dalle culture, dalle forme di sapienza delle diverse tradizioni, dalla ricerca scientifica, la per- sistente vita interculturale del sapere umano rende disponibili le energie per una lucidità diversa, come pure per un’azione educativa ispirata da un orizzonte di senso tanto ampio da ospitare le differenze e tanto vinco- lante da suscitare corresponsabilità. Al centro di questo orizzonte - che viene variamente considerato dalle culture, dalle religioni, dalle visioni del mondo, dai saperi - troviamo il valore della vita comune del tessuto di cui siamo partecipi. Vedere davvero, qui, significa imparare ad ascolta- re: l’insieme dei valori viventi infatti ci interpella a fare creativamente la nostra parte per avere cura di questa trama universale di vite, di questo testo del mondo.

Riguardata da questa prospettiva, la scuola è la risposta creativa della società non solo al bisogno di tramandare la cultura delle generazioni adulte, ma anche al diritto delle generazioni recenti di fiorire e di contri- buire ad affrontare la crisi attuale grazie alla novità che esse incarnano.

Così il nesso tra didattica e ricerca non va solo faticosamente cercato in un coordinamento tra scuola e università, perché la scuola si rivela già un luogo essenziale e un organismo comunitario di ricerca se e quando riesce a operare come soggetto di umanizzazione e di armonizzazione del- l’unicità delle persone, della particolarità di una tradizione e dell’univer- salità della condizione umana.

Gli elementi da considerare, nel processo che lega la società, la scuo- la, i suoi protagonisti, le sue finalità e i saperi sarebbero molti: i processi tipici della vita delle culture, la credibilità del loro orizzonte di senso, lo sviluppo dei saperi e il loro strutturarsi in discipline insegnabili, la fron- tiera delle scoperte e la pratica delle metodologie di conoscenza, di inse- gnamento e di apprendimento, la forma istituzionale che organizza la scuola e la qualità delle relazioni intersoggettive. La correlazione tra que- sti elementi va promossa favorendo un movimento di trasformazione in- terculturale o, più propriamente, di rinnovata cura per la vita intercultu- rale della società e della scuola stessa. In questa sede mi limiterò ad alcune osservazioni in particolare sulle dinamiche di fondo della vita in- terculturale del sapere e dei saperi.

Roberto Mancini

Il valore della vita comune

La scuola è la

risposta alla

crisi attuale

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La critica dei difetti più evidenti del sapere tradizionale in Occidente è nota e si concentra su due nodi: nei secoli, soprattutto con l’avvento della modernità, si è sviluppato un sapere di tipo scompositivo, che isola e spezza i fenomeni senza correlarli, e di tipo dominativo, che serve non a partecipare alla vita del mondo, ma a mortificarla. Di questa conformazio- ne del sapere tradizionale mi limito a porre in risalto alcune conseguenze cruciali, precisamente quelle che devono essere risanate da una rigenera- zione interculturale del sapere umano e dei suoi molteplici percorsi.

a. In primo luogo questo modello epistemologico e metafisico com- porta la neutralizzazione della verità: la conoscenza non è una relazione con la verità viva, ma metabolizzazione della sua alterità, riduzione a og- getto di qualunque realtà, raccolta di informazioni. Se, alla lettera, sape- re è potere, la verità fa la fine di una superstizione del passato e viene la- sciata come slogan a fanatismi e fondamentalismi. Vero è solo ciò che vince. Lo sforzo della conoscenza è così sistematicamente deviato dal culto della potenza, cioè dell’efficacia a tutti i costi, senza che ci sia il di- scernimento dei fini da perseguire e dei mezzi da impiegare. Un sapere di questo tipo ci lascia soli nel compito di distinguere i mezzi e i fini dell’a- gire e fa del senso delle cose nulla più che una costruzione arbitraria.

b. Questo modello implica nel contempo la sistematica neutralizza- zione di ogni ulteriore alterità (ad esempio la natura, il tempo, lo stranie- ro, oppure la donna nello sguardo maschile), che viene subito percepita come minaccia, affermando la logica dell’identità conclusa, esclusiva, che porta con sé etnocentrismo, colonialismo, xenofobia, razzismo, fon- damentalismo, universalismo violento. In tale ottica diventa irrilevante, se non pericolosa, la forma fondamentale di relazione che schiude lo spa- zio dell’autentica conoscenza: il dialogo.

c. Inoltre, mentre la conoscenza effettiva è una relazione tra il sog- getto conoscente e la realtà conosciuta, e in quanto relazione respira nel- la dialettica di distacco e coinvolgimento, distanza critica e partecipazio- ne sintonica, il modello dominante ha assolutizzato il momento del distacco: sa pensare e conoscere solo sulla base dello sradicamento del soggetto conoscitivo dalle relazioni che pure lo costituiscono. Così la cultura, il sapere e la scienza sono edificati contro il mondo vivente e al di sopra di esso. Il punto, qui, non è auspicare il ritorno a un mitico stato di natura, ma assumere culturalmente, creativamente la nostra creaturalità. Il sapere dominativo costruito sulla rottura della relazione con tutto ciò che è natura e, in generale, alterità ha comportato lo smarrimento della sapienza creaturale indispensabile a ogni sapere umano.

d. Infine, un’altra conseguenza epistemologica del modello epistemolo- gico e metafisico dominante in Occidente emerge nel fatto che i saperi che ha generato sono rimasti prigionieri della sterile oscillazione tra indi- vidualismo metodologico e olismo astrattivo: due concezioni per cui il rea- le veniva o scomposto in entità individuali irrelate, oppure riassunto e omologato in una totalità soverchiante. Una totalità rispetto a cui ogni forma di vita risulta niente di più che una particola del tutto, riguardata

P R I M O P I A N O / La ricostruzione della coscienza di specie ...

Difetti del sapere

tradizionale

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come qualcosa di calcolabile, interscambiabile e sacrificabile. Vorrei osser- vare in merito che anche l’interculturalismo può divenire una sorta di oli- smo ideologico, se ipostatizza ogni cultura come se fosse un macrosoggetto unitario e dimentica che le culture sono componenti dell’unicità delle persone e non entità che possano oscurarne il valore, i diritti e la libertà.

Il sapere preso nell’alternativa tra individualismo metodologico e oli- smo astratto si svolge solo secondo i movimenti logici della frammenta- zione e della globalizzazione, cioè dell’astrazione che perde la relazione per studiare l’individuale e dell’astrazione che perde la relazione per stu- diare il generale. In tutti i casi le dinamiche relazionali dei viventi sono ignorate, il che causa sia lo smarrimento del valore dell’unicità, sia la contraffazione dell’universalità. E infatti si è preteso di conseguire l’uni- versalità, puntualmente rivendicata dal sapere scompositivo e dominati- vo, producendola tramite la generalità del concetto, l’automatismo del calcolo, la supremazia di una metalingua valida per tutti.

Solo la verità, da un lato, e, dall’altro, la comune condizione terrestre e l’unicità di ogni vivente sono le fonti del sapere vero. Chiunque abbia avuto un’esperienza della verità di una persona, di un’epoca storica, di un fenomeno naturale complesso, di un senso metafisico o religioso sa che la verità non è assoluta - cioè a sé stante, isolata e oppressiva al tempo stes- so-, e neppure relativa - cioè arbitraria, fabbricata secondo la convenien- za -, ma vivente, relazionale, dialogica, nel senso che essa coinvolge gli esseri umani in una relazione di partecipazione, di riconoscimento, di trasformazione del nostro modo di esistere. La relazione con la verità non riguarda mai solo il cervello, l’intelletto, lo studio, la raccolta di informa- zioni, le procedure oggettivanti. Chiede che tutta la persona e che comu- nità di persone siano coinvolte con le loro facoltà di discernimento e con la loro libertà, in una ricerca che è dialogo e accesso delicato a gradi di realtà prima sconosciuti.

Il sapere deve servire alla vita comune dell’umanità, del mondo vi- vente e della loro verità, del senso che la illumina (e che le culture di so- lito chiamano con i nomi religiosi della divinità). Il sapere deve servire a esistere corrispondendo al senso della vita, il che intanto vuol dire, per ogni cultura e per ogni persona, senza violenza, sperimentando in ogni evento di riconoscimento della verità una forza di liberazione. Sapere è aver assaporato e incontrato una verità della vita, è acquisire gradi sem- pre più profondi di presenza alla realtà e di risposta creativa alla vita. Il senso dei metodi del sapere, allora, non è la formalizzazione, ma l’immer- sione per attrazione. Immersione lucida, critica, a occhi aperti, capace di distanziazione riflessiva, ma nel contempo partecipe della vita della ve- rità studiata, ascoltata, della verità con cui si entra in dialogo.

Sapere davvero, in tale concezione, significa avere riguardo per l’uni- cità, per le relazioni, per l’intero tessuto del mondo vivente. Così la par- ticolarità di ogni cultura, di ogni scuola di pensiero, di ogni paradigma, di ogni sapere, di ogni sistema educativo è nella tensione tra unicità e universalità. L’universalità concreta e reale è ospitalità e correlazione

Roberto Mancini

Le fonti del sapere vero

La particolarità della cultura:

universalità,

unicità, reciprocità

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delle unicità, è buona reciprocità nelle relazioni. Per questo i saperi pos- sono averne cura solo integrando di continuo le molteplici forme dell’e- sperienza umana della realtà e del senso: non più il concetto in quanto tale, o il calcolo, o una metalingua (che sia l’informatica o l’inglese glo- balizzato), ma la pluralità delle lingue, i concetti, le narrazioni, la memo- ria, l’immaginazione, il rapporto con i nomi propri, i sentimenti.

Un sapere e anche un modello didattico sono all’altezza della com- plessità del mondo vivente e della condizione umana non quando eleg- gono a forma culturale suprema uno di questi elementi, bensì quando sanno correlarli. Penso alla irrinunciabile ricchezza delle costellazioni se- mantiche delle diverse lingue dei popoli, alla fondamentale trama narra- tiva grazie a cui le culture vivono, alla loro memoria storica, all’energia dell’immaginazione e della creatività artistica, alla sapienza che consiste nel riconoscere il mistero prezioso dell’unicità attraverso i nomi propri, alla forza orientativa dei sentimenti, che sono il cuore della ragione an- che quando non ce ne accorgiamo7.

Vorrei dare un’idea dell’orizzonte epistemologico della vita dialogica e interculturale dei saperi evidenziando quello che potrebbe essere detto lo spirito del sapere vero. Questo spirito si coglie ricordando che il sape- re, propriamente, è sempre l’unione di scienza e sapienza: parafrasando Kant si potrebbe una sapienza che abolisce la scienza è vuota, mentre la scienza senza la sapienza è cieca. Una simile unione può scaturire solo da un’unione ancora più radicale, quella tra conoscenza e amore8. La parola

“amore” non è esprime una resa al sentimentalismo, perché proprio l’a- more, in ogni suo forma, è il nome di una lotta: tra egoismo e generosità, tra delirio e guarigione. La parola “amore” qui serve a ricordare semplice- mente che solo appassionandoci alla vita possiamo aderirvi, orientarla, non sprecarla, trasfigurarla sino a quell’armonia per cui davvero la vita può mostrare il suo senso e la sua bellezza.

A mio parere la sapienza è credibile, e non è una mistificazione su- perstiziosa e arbitraria, non tanto quando identifica in un concetto o in una teoria il mistero dell’origine della vita, quanto se è innanzitutto al- l’altezza della creaturalità della vita. In questo termine - che è accostabile alla nozione di identità terrestre, proposta da Morin, e in parte all’idea di finitezza ricorrente in Heidegger, e che trova equivalenti omeomorfici9in tutte le culture del mondo - non va colto un obbligatorio rimando all’i- dea di un Creatore divino; non si tratta di abbracciare una teologia.

Creaturalità significa essenzialmente l’originalità della condizione di esseri che, nascendo, ricevono in dono l’esistenza e ne sono costituiti

Il sapere unione di

scienza e sapienza

Creaturalità della vita

P R I M O P I A N O / La ricostruzione della coscienza di specie ...

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7 Ricorda Jung che un capo degli indiani Pueblos Taos, a proposito dei bianchi, gli disse: “

‘Pensiamo che siano pazzi’. Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi.

‘Dicono di pensare con la testa’, rispose. ‘Ma certamente. Tu con che cosa pensi ?’ gli chiesi sorpreso. ‘Noi pensiamo qui’, disse indicando il cuore” (C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Milano, Rizzoli, 1981, p. 297).

8 Cfr. M. Scheler, Amore e conoscenza, Padova, Liviana, 1967.

9 Cfr. R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, Assisi, Cittadella editrice, 2000, pp. 9-22.

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responsabili. Qualunque sia l’origine della vita, tutti noi siamo creature in questo senso e, per fedeltà alla responsabilità di essere donati anzitutto a noi stessi e di partecipare originalmente a una vita che abbiamo ricevu- to, abbiamo un compito ontologico, radicato nell’unicità del nostro esse- re. È un’etica che viene prima di ogni etica. È il compito di imparare a esistere in modo creativo, ossia non distruttivo e non sacrificale, nella re- te delle relazioni vitali: con noi stessi, con gli altri, con il mondo natura- le, con lo spazio e il tempo, con la fonte stessa della vita, chiunque sia.

La creaturalità porta con sé l’esigenza costante dell’armonia in questa rete di relazioni, l’esigenza della liberazione dal male, dalla sofferenza, dalle distruzioni. Per giungere all’altezza della creaturalità occorre rico- noscere in particolare, a mio avviso, che gli esseri umani, e credo i vi- venti, “anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per inco- minciare”10. C’è uno scarto tra la vita e la morte, che non sono le due metà di una stessa totalità. “Il nostro spazio è sempre la vita o qualcosa di più, mai di meno”11ha scritto Ernst Bloch. I saperi umani sono autentici se assumono tale tensione, ne approfondiscono i gradi di realtà e il senso, ricercando sempre meglio un modo di esistere che non sia dominato dal- la morte o non se ne faccia suo alleato, dunque un modo di esistere che superi la razionalità vittimaria e risani l’angoscia profonda che ha ispira- to il sapere tecnocratico e dominativo. Questo per Mohandas Gandhi fu, a partire dal 1906, il senso della scoperta della nonviolenza in quanto energia dell’adesione amorevole alla verità12.

Grazie alla sensibilità della sapienza creaturale può maturare una fa- miglia di scienze della natura che sviluppino il sapere come un organo di partecipazione armonizzante alla vita del mondo. Sul fondamento di questo tipo di sapere potrà delinearsi una tecnologica informata al di- scernimento di fini e mezzi umani, una tecnologia capace di servire la società senza instaurarsi come un fine in sé. Analogamente può maturare per questa via anche una sapienza antropologica che si traduca in cura maieutica per le persone e per la loro umanizzazione, quella sapienza che María Zambrano ha chiamato un sapere dell’anima13e che rimane un sa- pere non calcolabile in crediti e debiti. Persone seguite con questa sensi- bilità non dovranno semplicemente adattarsi al mondo com’è, potranno rinnovarlo e porre mano a quello che va cambiato.

In questa prospettiva la famiglia delle scienze storiche può svilupparsi e, insieme alla sapienza letteraria e narrativa, alimentare l’incontro tra le memorie dei popoli, compresa la specifica memoria delle vittime di ogni storia nazionale, in modo che prenda forma una coscienza planetaria nel cui sguardo ogni diversità umana non sia più vista come un nemico da

Roberto Mancini

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10 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989, p. 182.

11 E. Bloch, Tracce, Milano, Coliseum Edizioni, 1989, p. 39.

12 In merito rimando a quanto ho proposto nel libro L’amore politico. Sulla via della nonvio- lenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Assisi, Cittadella editrice, 2006.

13 Sulla prospettiva dell’autrice rinvio al mio studio Esistere nascendo. La filosofia maieutica di María Zambrano, Troina, Edizioni Città Aperta, 2007.

Il nostro spazio è sempre la vita

mai di meno

“Sapere

dell’anima”

(25)

sconfiggere o un essere inferiore da colonizzare. Non c’è spazio effettivo per la pace senza una memoria storica interculturale, che ancora una vol- ta non è solo un ampliamento del sapere pregresso, perché piuttosto è l’incontro della memoria delle proprie vittime con la memoria delle vit- time propria delle altre culture, è la condizione della riconciliazione lì dove conflitti irrisolti portano tuttora i loro frutti velenosi. In questo senso ogni autentico processo interculturale implica una prassi di restitu- zione dei diritti umani ai popoli oppressi e dei doveri umani a quanti li hanno elusi. A tale cammino dovrà contribuire la famiglia delle scienze sociali, che dovranno rendere disponibili le conoscenze più adatte a co- struire le condizioni economiche, sociali e politiche della convivenza se- condo armonia. Basta ricordare, in proposito, il fatto che oggi, dopo l’ampio sviluppo di approcci analitici e di teorie della liberazione nel cor- so del Novecento, possiamo elaborare una teoria critica integrata, su sca- la interculturale, delle forme storiche del dominio e della violenza. In ogni caso, lo spirito dei soggetti della conoscenza e della ricerca scientifi- ca non sarà quello di un conquistatore, ma quello di un traduttore, cioè di colui che sa correlare le lingue, i saperi, le esperienze in vista del bene comune che comprende umanità e mondo vivente.

La via fisiologica della vita interculturale dei saperi è quella del dialo- go e tende sempre alla buona reciprocità, quella in cui nessuno è ridotto a un ruolo o a una funzione e in cui ciascuno può essere se stesso nell’es- sere insieme agli altri. La ricerca è in sé dialogica, quindi non può essere l’impresa privata di un singolo, di una cultura erettasi a civiltà dominan- te e unica. Dove subentrano esclusività e spirito di supremazia, lì il sape- re finisce e subentra la logica di dominio, l’esercizio della razionalità co- me potenza incapace di discernimento.

Il dialogo autentico, anziché ridursi a una qualsiasi conversazione, è l’esperienza stessa della ricerca della verità che si attua in una condivisio- ne del senso tra soggetti che si rispettano. Il dialogo è la dinamica di sco- perta sempre rinnovata del dato per cui la verità è viva, non è un oggetto o un concetto a disposizione del nostro arbitrio. È proprio lei che ci con- voca al confronto dialogico e che in esso si rivela14. Il dialogo è l’evento dell’incontro cosciente con la verità vivente: per questo esso non è mai a due - tra me e l’altro -, ma sempre almeno a tre: l’altro, io, la verità viva e libera. A ben vedere, non è neppure soltanto a tre. È un incontro vir- tualmente onnilaterale proprio perché apre uno spazio da cui nessuno può essere escluso e chiede di rigenerare le condizioni della convivenza.

Il fiorire del dialogo delle culture e dei saperi promette la svolta di una rottura della spirale mimetica della violenza15e della contrapposizio- ne all’altro visto come un pericolo incompatibile con la propria sicurezza.

P R I M O P I A N O / La ricostruzione della coscienza di specie ...

Memoria storica

Il dialogo tra le culture

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14 Ho approfondito questa prospettiva nei libri seguenti: Linguaggio e etica. La semiotica tra- scendentale di Karl Otto Apel, Genova, Marietti, 1986; L’ascolto come radice. Teoria dialogi- ca della verità, Napoli, E.S.I., 1995; Il silenzio, via verso la vita, Magnano, Edizioni Qi- qajon - Comunità di Bose, 2002.

15 Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980.

Riferimenti

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