Edizione 2013
Il merito
delle donne:
una favola per narrare l’altra metà del lavoro
Direzione Regionale Toscana
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Tipolitografia INAIL - Milano, settembre 2013
Prefazione
Donna e lavoro. Parole che assieme evocano temi sempre attuali: entrare nel mon- do del lavoro, “conciliarlo” con la famiglia, affermare e realizzare se stesse nella professione senza sacrificare la propria dimensione personale e familiare e senza rinunciare alla propria sicurezza in scenari di vita quotidiana sempre più sfidanti in cui incidono progresso tecnologico, crisi economica, esigenze di mercato, evoluzioni culturali e mutamenti sociali.
Ma anche uno sguardo sul mondo dei grandi con gli occhi dei “piccoli” che ancora questi problemi non li vivono in prima persona ma di riflesso e in famiglia.
I quattordici racconti che presentiamo sono stati realizzati dagli studenti delle classi terze della Scuola Media dell’Istituto Comprensivo Gereschi di Pontasserchio nell’ambito di una iniziativa congiunta tra la Sede Inail di Pisa e l’Assessorato alle Pari Opportunità ed il Consiglio delle Pari Opportunità del Comune di San Giuliano Terme, promossa per sottolineare l’importanza del lavoro al femminile e al contem- po la centralità dei temi della sicurezza e della prevenzione sui luoghi di lavoro.
Il risultato, per certi versi sorprendente, sono racconti freschi che con un linguaggio inusuale e lo stile della fiaba affrontano però temi quanto mai seri e impegnativi che troppe volte, trattati in maniera o troppo tecnica o con eccessiva enfasi politica, finiscono per restare lontani dal vissuto di ogni giorno.
La sicurezza come fattore culturale, il valore ineliminabile della consapevolezza del rischio, il rispetto del lavoratore prima di tutto come persona e con un occhio alla differenza di genere, ma anche il valore aggiunto che la sicurezza rappresenta per il mondo del lavoro, quale determinante fattore di competitività, sono invece da vivere nel quotidiano, aspetti cardine del messaggio veicolato da tempo da INAIL attraverso il suo intero operare e devo dire magistralmente colti e riproposti in questi brevi scritti.
Un grazie a tutti coloro che con entusiasmo, lavoro e voglia di mettersi in gioco hanno reso possibile questa pubblicazione.
Buona lettura… e buona riflessione!
Giovanni Lorenzini Direttore della Sede INAIL di Pisa
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La storia che stiamo per narrare ha luogo in una tranquilla e piccola citta- dina chiamata Boscolandia. Sono le sei del mattino. A Cappuccetto Rosso, come ogni giorno, suona la sveglia. Lei vorrebbe rimanere a dormire, ma deve prepararsi per andare a lavorare. La bella signorina Rosso si alza e si dirige fuori dalla porta della sua graziosa cameretta. La ragazza, ancora assonnata, percorre lo stretto e lungo corridoio, che avrebbe dovuta con- durla sino al bagno. Improvvisamente si ferma e guarda impassibile un quadro appeso al muro. Quel maestoso quadro, incorniciato con un’esile lastra d’oro, è l’unico oggetto prezioso di quella casa. Per Cappuccetto, però, il valore che quel quadro possiede è sentimentale. Esso, infatti, raf- figura un uomo al quale Cappuccetto ha sempre voluto bene: suo padre, deceduto in guerra quando lei aveva solamente undici anni.
Cappuccetto si avvicina dolcemente al quadro, si bacia delicatamente la mano sinistra e con un cauto gesto sfiora le rosee membra dipinte del padre. Sul suo volto compare per un momento un sorriso, che si dissolve nell’aria appena la ragazza abbandona il sogno e torna al presente. Cap- puccetto si avvia verso il bagno dove, dopo essersi lavata, si mette la sua bellissima uniforme da postina color rosso fluo. Rosso scende le grandi scale a chiocciola di marmo ed esce dal portone principale costruito in mogano. Poi attraversa il vasto giardino fiorito, illuminato dal sole co- cente. Ad un tratto, Cappuccetto, si ferma in mezzo al prato e pone il suo sguardo su un fiore dai petali bianchi come la neve. La ragazza non resiste ad una simile bellezza, così si inginocchia sul terreno e velocemente lo coglie. A lei pare che il fiore danzi alla minima oscillazione di quel vento primaverile. All’improvviso si volta e vede la madre camminare impettita verso di lei. La ragazza si alza di scatto e con alcuni rapidi gesti cerca di levare dai pantaloni la terra che vi era rimasta attaccata. – Amore mio, devi sbrigarti, altrimenti farai tardi al lavoro – dice premurosamente la madre. Cappuccetto si solleva delicatamente la manica sinistra e guarda
Cappuccetto Rosso Fluo
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il suo bellissimo orologio. Subito dopo sul suo volto appare un’espres- sione di preoccupazione. Sono le otto!! – urla Cappuccetto. La ragazza corre impetuosamente verso il garage. Approfittando della bella giorna- ta, Cappuccetto decide di prendere la moto. Rosso sta per partire, quan- do, all’improvviso, la madre le porge il casco e le impone di metterselo.
Cappuccetto non è entusiasta all’idea di mettersi il casco, ma per evitare eventuali discussioni non si oppone al comando della madre. La ragazza saluta la mamma e parte. Rosso percorre veloce come il vento l’autostrada e, pochi minuti dopo, arriva alla posta, dove afferra lestamente le lettere da consegnare ai destinatari per poi ripartire con il suo veicolo a due ruo- te. Cappuccetto comincia a depositare le lettere e i documenti nelle varie cassette postali situate vicino alle abitazioni.
Come ultima tappa, Cappuccetto, deve andare a consegnare la posta in una casa situata tra alberi mutilati alti più di dieci metri. Per arrivarci deve percorrere uno strettissimo sentiero colmo di buche e di micro- scopici sassolini, che avrebbero potuto bucare le ruote della moto. Ad un tratto, la ragazza, perde il controllo della moto, balza in aria, casca sul terreno umido e batte violentemente la testa al suolo. Dopo, tutto intorno a lei diventa buio. Cappuccetto si risveglia poche ore dopo all’o- spedale. La ragazza si volta lentamente e vede accanto a lei la
madre e il dottore Lupo. Il dottore le si avvicina e le chiede: – Come ti senti? – . Cappuccetto Rosso, che non si ricorda l’accaduto, risponde con un piccolo gemito che si sente bene. Passano delle ore e dopo svariati controlli Cappuccetto riceve il permesso per poter tornare a casa.
La madre la guarda negli occhi colma di gioia, le si avvicina e attra- verso un sussurro le dice: – Per fortuna mi hai ascoltato e ti sei messa il casco – . Subito dopo Cappuccetto si alza dal lettino dell’ospedale e stringe a sé con un abbraccio la madre. Sono passati diversi mesi da questo episodio e ormai quello che ne rimane sono una cicatrice sulla fronte della ragazza e la consapevolezza da lei acquisita, che quando consegna la posta andando sulla moto deve assolutamente indossare il casco di protezione per evitare eventuali incidenti che potrebbero mettere a rischio la sua vita e quella altrui.
Ludovica Batistoni, Giada Andreotti, Rashed Hakim Classe III C Scuola Media Enrico Fermi
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Come tutte le sere Gabriella racconta a sua figlia Sofia una fiaba per farla addormentare, ma quella volta Sofia volle sapere come si erano conosciuti i suoi genitori.
“Quella mattina tutto sembrava tranquillo,come sempre d’altronde. Pre- si la macchina e mi diressi a un bar dove facevo sempre colazione; dopo mezz’ora ripartii e arrivai nel mio ufficio”, racconta la mamma.
“Che lavoro facevi?” domanda incuriosita la figlia.
“Il mio incarico era di trasferire i dati del territorio sul computer. Mi ricorde- rò per sempre di quell’edificio, era fatto di vetro, con uffici spaziosi e colo- rati di un azzurro intenso. Il mio ufficio era uno dei più grandi. Ad un tratto sentii odore di bruciato e un attimo dopo iniziai a tossire. Smisi di scrivere e mi affacciai alla porta del mio ufficio, ma tutto era calmo. Ritornai dentro;
stavo iniziando a sudare: l’ambiente si stava riscaldando velocemente...
Bene, finisco qui il mio racconto per ora, si è fatto tardi. Vai a dormire Sofia!” dice la mamma con voce fioca. Sofia però volle sapere il continuo della storia. “...suonò l’allarme e capii che non era un’esercitazione, come pensavo inizialmente, ma era un incendio vero e proprio che si ab- batteva sull’edificio. Tutti stavano evacuando e anche io mi diressi verso l’uscita, ma respiravo malissimo, stavo perdendo le speranze, nessuno riusciva a vedermi.
Improvvisamente vidi una sagoma, era una persona che si stava avvi- cinando a me. Era un pompiere venuto a salvarmi. Quando era a circa un metro da me notai che in mano aveva una mascherina, mi aiutò a indossarla e mi sentii subito meglio. Mi accompagnò fuori e ci bevemmo un tè. Mentre parlavamo, mi venne in mente dove il pompiere avesse preso la mascherina; lui mi raccontò che i pompieri hanno sempre delle mascherine anti – gas nella loro attrezzatura. A quel punto mi accorsi che nell’edificio in cui lavoravo non c’erano le attrezzature di sicurezza, quindi trovammo una soluzione: denunciammo il capo delle sicurezza.
Un casuale incontro
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Ora, dove sono stata
assunta per il mio nuovo lavoro ci sono tutte le attrezzature di sicurezza ed è un ambiente sicuro!”.
“Ma cosa c’entra questo discorso
con l’aver conosciuto babbo?” chiede Sofia pensando di non capire. “Tuo padre, Sofia era il pompiere che mi salvò la vita!”.
“Quindi se babbo bob avesse avuto con sé la mascherina, non saremmo qui?” domanda Sofia.
“Figlia mia, questo ti deve far capire che gli elementi di prevenzione sono essenziali”.
Caterina Sbrana, Laura Filippelli, Giulia Di Salvo, Francesco Di Lena Classe III C
Scuola Media Pontasserchio
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C’era una volta una dea che, di mestiere, accompagnava le anime dei morti nell’aldilà lungo un tragitto percorribile da lei sola, e con la sua Lamborghini o per lo meno prima della crisi che aveva colpito l’Olimpo, e dei tagli che ne erano scaturiti. Infatti ora gli Dei le avevano dato un modestissimo apino…un vero catorcio!! Ma lei continuava ad essere fiera del suo lavoro.
Correva l’anno 1914, e tutto andava per il meglio. Però una sera, rientrata a casa dopo una soddisfacente giornata, suo marito le annunciò che era scoppiata la prima guerra mondiale che di conseguenza avrebbe dovuto lavorare duramente negli anni a venire; ma lei non gli diede troppa im- portanza. Quattro giorni dopo, passando dalla reception, dove ritirava le richieste di trasporto, le vennero consegnate ben centoventitre richieste da eseguire in giornata. Ma lei partì comunque. Alla centocinquesima le venne comunicato che altre ottantatre anime erano appena arrivate.
La sera stessa andò a letto subito, senza cena, sapendo che il giorno dopo avrebbe dovuto lavorare come una matta.
E ogni giorno andava avanti così … richieste su richieste… senza un mo- mento di tregua. Ma il peggio dovrà ancora venire. Un po’ di tempo dopo fu costretta ad iniziare a fare i turni di notte perché, sempre a causa dei tagli, doveva sostituire i suoi compagni che erano stati licenziati.
Oltretutto, a causa dell’inverno, la strada si ghiacciò.
Una sera al TG OLIMPIUM vide la foto di una sua amica e l’immagine del punto in cui era uscita fuori strada. Non ci pensò due volte: prese e andò a comprare le catene.
Di giorno andava lentamente, e di notte ancora di più, a causa dei fari ai quali era stata tolta la corrente per risparmiare soldi.
Qualche mese dopo, passando dall’ufficio informazioni, venne a sapere che il numero delle anime sarebbe salito ancora perché con l’invenzione delle bombe a gas i morti erano ancora più frequenti.
Crisi e catene
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La stanchezza aumentava, giorno dopo giorno, tanto da non capire più cosa le accadesse attorno. E un giorno, mentre trasportava l’anima di un generale furibondo, si distrasse e sbandò. Avrebbe potuto fare la fine della sua amica… ma aveva le catene che rallentarono la corsa. Dopo quel giorno prese il suo lavoro più tranquillamente, con qualche pausa in più, senza la paura di trasportare tutti.
E menomale che aveva messo le catene!!
Gabriele Braccini, D’Aurizio Alessio, Nencioni Gianni Classe III C Scuola Media E. Fermi
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C’era una volta una principessa, di nome Camilla, che era viziata dal padre, il re.
Aveva dieci camerieri, dieci donne e ognuna faceva per lei una cosa spe- cifica come vestirla, sceglierle i vestiti, le scarpe, i cappotti, i cappelli.
Poi aveva al suo servizio 10 cuochi che le cucinavano tutto quello che lei voleva. Ma aveva anche 10 giardinieri che si occupavano del suo giardi- no costruendo per lei siepi e composizioni floreali uguali a lei ed infine aveva maestri provenienti da tutte le parti del regno che le insegnavano tutto quello che lei voleva. Ma la principessa essendo molto vanitosa e scansafatiche imparava quello che le conveniva di più: cose riguardanti la moda. Quindi, la principessa non sapeva fare niente perché gli altri facevano le cose per lei. E lei non le ringraziava mai per le cose che fa- cevano e era sempre cattiva nei loro confronti paragonandoli ad esseri inferiori a lei.
Un giorno la principessa si sdraiò nel suo prato pensando a quale poteva essere il vestito da mettersi per cenare ma fu persuasa da una voce che proveniva dal bosco e incuriosita si avventurò nel bosco. Cammina cam- mina ad un certo punto, quasi nel centro del folto bosco di proprietà del padre, comprato per difendersi dai nemici ed incutere timore, incontrò una vecchia; essa era in fin di vita, si aggrappò al vestito della princi- pessa e lo ruppe accidentalmente. Camilla indossava un vestito di seta pregiata e disse con tono disgustato: “Vecchia serva, io sono superiore a te. E adesso come faccio a ricucire questo vestito?!?. Serva insulsa!!!”.
Ma all’udire queste parole, la vecchia si trasformò in una giovane donna, con un capello a punta, occhi celesti che perforavano l’anima, capelli biondi ed una carnagione bellissima, e disse: “Ah ah ah. Io non sono una vecchia mendicante ma sono una giovane strega. Ho fiutato la tua arroganza e superiorità da molto lontano e visto che ti sei comportata così con me adesso non ho più dubbi, leverò a te ed a tuo padre tutti i
La principessa che esige sicurezza
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vostri averi!”. E così la bellissima strega svanì in una polvere verde che fece cadere a terra la principessa.
La giovane principessa impaurita andò di corsa al castello. Mentre cor- reva e mentre il vento fresco le accarezzava il viso pensava;non credeva che la maledizione della strega fosse vera ma non sapeva più a che cosa credere perché aveva appena visto una vecchia megera trasformarsi in una specie di top model. Quando uscì dal bosco vide il suo castello in vendita, i suoi giardini seccati e la sua servitù che andava via salutando cortesemente qualcuno. Poi in un angolo del suo vecchio castello vide il padre stremato a terra con la corona senza gli zaffiri ed un vestito rotto e vecchio che gli aveva prestato un giardiniere una volta per andare al mercato senza dare nell’occhio. Si precipitò dal padre e disse: “Padre cosa è successo?”. Il padre aggiunse: “Figlia mia ho perso tutto!”. “Ah padre, come faremo a vivere? Ed io come farò a vestirmi?”. “Figlia mia l’unica soluzione logica è che tu vada a lavorare. Ci andrei io ma sono vecchio e … “. “No mai padre!”. E con questo svanì nella foresta.
Mentre era nella foresta pensò al suo futuro e si immagino suo padre in un vecchio bar e lei vestita di sacchi a servirlo. Scosse la testa cercando di perdere quel ricordo. Ormai la notte stava calando e pensò che suo padre vedendola tornare non le avrebbe più proposto di andare a lavora- re. Così tornò ed il padre disse: “ Figlia mia, sono stato tanto in pensiero per te: dove sei stata?”. “Nella foresta”. “ Sai che non voglio che tu vada in quel posto è pericoloso e pieno di trappole dei cacciatori.Cara ho trovato un posto dove potremo ricavare dei soldi. Domani presentati al numero 36 di Thorton street alle dieci in punto. Non ritardare.” “Grazie padre”. E così si accamparono sotto un albero. Camilla era contenta di non dover più lavorare e passò la notte serena. Ma la principessa non sapeva che quel numero 36 le avrebbe procurato un lavoro.
La mattina seguente la principessa partì ed alle dieci in punto era già davanti al numero 36. Dall’esterno non si vedeva l’interno e Camilla, con la sua ingenuità di ragazza, entrò. Quel luogo era nuovo per lei ma capì dopo pochi passi in che posto era capitata.Vide uomini che si ubriacavano ai tavoli, vecchie donne che pregavano ed un cane vecchio e pulcioso.
Rimase scioccata ed inorridita e sul suo viso apparve una smorfia di disgusto. Stava per andarsene ma un uomo basso, grasso, con la barba
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molto folta e puzzolente le si avvicinò e le disse: “Ehi bella! Tu devi essere Camilla, tuo padre si è tanto raccomandato di farti lavorare!”.
Camilla, stordita e fuori dal mondo seguì l’uomo. La portò in una cucina.
Poi si fermò davanti a quattro donne che sembravano mal curate. L’uo- mo aggiunse:”Queste sono: Melissa, Odessa, Matilda e Clarissa. Ti lascio nelle loro mani. Ragazze fatela iniziare con qualcosa di semplice. Ok??”.
Strizzò l’occhio e se ne andò. Odessa le si avvicinò ed aggiunse con voce femminile:”Cara, inizia prendendo quel pentolone.” E Camilla:”Cosa?! A mani nude? Io devo proteggere questa tenera pelle di principessa! Avete dei guanti?”. “Certo, tieni!” E Odessa le tirò un paio di vecchi guanti.
Così Camilla riuscì a prendere un pentolone senza bruciarsi e senza spor- carsi il vestito. Poi quando ebbe finito le si avvicinò Melissa e le disse:
”Porta i piatti puliti nella credenza.” “No mai! Mi avete già fatto lavorare con l’inganno. Lavori da cameriera? Mai! So che cosa facevano le mie cameriere, ed io non farò lo stesso!!!”. “Devi farlo o ti licenzieranno e non potrai avere i soldi per i tuoi vestiti. E poi tu avevi delle cameriere?
Se eri così ricca perché ti sei ridotta a lavorare in questo buco?”. Ribadì con voce severa la giovane donna allontanandosi. E sbuffando Camilla si allontanò con una pila di piatti nelle mani. Si avviò con passo di dan- za verso la credenza ma si accorse che il pavimento era stato appena lavato e che, se non stava attenta, sarebbe potuta cadere. Così chiamò una delle quattro cameriere presentate dall’ometto Matilda e arrabbiata disse: “Qualcuno avrebbe potuto farsi male scivolando! Mettete un car- tello di avvertimento che qui è bagnato!”. “Sì, calmati Camilla! In fondo nessuno si è fatto male, non essere così esagerata! A proposito Clarissa voleva il tuo aiuto!”. Così Camilla, con i nervi a fior di pelle, mise i piatti al loro posto ed andò in cucina. “Etciù!” udì. “Etciù” udì nuovamente.
Era Clarissa che in piedi su uno sgabello per pulire su un alto scaffale, stava starnutendo ed aveva le mani ed il naso rosso. Starnutiva così forte che anche i clienti potevano sentirla, così Camilla le disse:”Perché non usi il panno ed i guanti fatti apposta per la polvere? Non vedi che sei allergica? E poi così facendo potresti cadere dallo sgabello con i tuoi movimenti improvvisi.”. “Hai ragione.” Poi Camilla, come una condot- tiera, si avviò verso l’ufficio del capo dell’osteria ed aspettò che uscisse l’avventore che c’era prima di lei. Quando questi uscì, il capo vide Ca- milla che aspettava e disse:” Cosa c’è Camilla? Andiamo a discuterne in
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privato.”. Ed entrarono nell’ufficio. Camilla spazientita si sedette su una sedia di pelle e aspettando che il capo si sedesse guardò in giro. Era una bella stanza con una enorme scrivania al centro piena di fogli e penne ad inchiostro. Il capo disse:” Camilla che sorpresa !!!! Di solito non rice- vo visite dalle inservienti. Ah, giusto stavo quasi per dimenticare, tieni questa è per le nuove arrivate “ e le allungò una borsetta in pelle della vecchia stagione. “ Comunque dove eravamo già… cosa c’è ? Problemi con Odessa? Si è strana la ragazza ma non ci fare caso. Allora?” Camilla quasi addormentata aggiunse molto nervosamente:”Questa osteria non ha nessuna norma di sicurezza, prima non si lavora con i guanti, dopo nessun avvertimento sul pavimento bagnato ed infine le inservienti al- lergiche che non usano oggetti per non causarle una crisi?!?!?!?Da ora in poi ci saranno molte norme, perché tutti i lavori sono importanti. Ora l’ho capito! Prima pensavo che tutti dovessero essere miei servi. Io non sapevo fare niente e non pensavo alla vita di ogni mio singolo cameriere.
Ora ho capito quanto è importante il lavoro. Ed in ogni luogo di lavoro ci deve essere prevenzione e sicurezza”. “ Beh se la mettiamo su questo piano faremo a modo tuo, Camilla. Ti nomino addetta alla prevenzione ed alla sicurezza sul lavoro”. Così da quel giorno in poi, l’osteria divenne più sicura e Camilla cominciò ad apprezzare anche chi era più umile.
Ulivieri Francesca, Turi Leonardo, Bottai Francesco e Filippi Noemi
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La mia mamma lavora con una signora di nome Fabiana, una donna alta con fare altezzoso, come se pulire gli uffici fosse il miglior lavoro di que- sto mondo, nulla da dire nei confronti di quelli che puliscono uffici, ma di certo non bisogna sentirsi chissà chi solo perché si pulisce uffici! A parte questo Fabiana è un donna intelligente e qualificata, dal fare sen- sibile, già e forse può anche apparire una signorona sprezzante ed altera ma se ascolti cos’ha nel cuore ti accorgi della sua incredibile dolcezza!
Fabiana era attenta alle norme etiche e morali degli uomini e si com- portava severamente nei confronti di chi non aveva come virtù l’one- stà e il senso di giustizia, addirittura mortificava coloro che non erano di un’invidiabile rettitudine, avendo questi pregi dava per scontato che ne disponessero tutti ma che solo pochi avessero intenzione di usufruirne.
Dovete sapere che anni e anni fa, quando la nostra Fabiana aveva ven- ticinque anni, fu assunta nell’agenzia di pulizie, aveva studiato lettere e si era diplomata con un bel centodieci e lode. Fioccarono subito due richieste d’assunzione, una era da parte di una ditta di pulizie e l’altra come custode e ricercatrice di un’antica biblioteca, a rigor di logica la nostra Fabiana avrebbe dovuto subito scegliere l’impiego tra i libri scar- tando a priori quello di pulizia. Ma la donna aveva una figlia da mante- nere e il padre della bimba era scappato appena saputo che Fabiana era incinta. L’impiego di pulizia aveva un salario di milleduecento euro il mese contro i cinquecento della biblioteca.
Fabiana odiava il suo lavoro, con tutto il cuore!
Era trattata come una pezzente solo perché puliva e non lavorava di cervello,che ci faceva lì? Cosa ci faceva una brillante e promettente ne- olaureata in un ufficio a pulire? E in più voleva far causa al direttore:
“Quel taccagno indecente! Saranno venuti cinque o sei volte i funzionari dell’Inail per i controlli della sicurezza sul lavoro, ma niente! Continua a
Fabiana
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comprare quegli stupidissimi detersivi a basso prezzo, una volta o l’altra mi uccideranno!” era solita a lamentarsi...
Una volta, dal direttore, c’andò davvero! Timidamente bussò alla porta del suo ufficio:
– Signor Direttore, la questione è seria. Non ce la faccio più, e parlo a nome di tutti i miei colleghi, i detersivi che si ostina a comprare non rispettano le norme di sicurezza e mettono in pericolo la nostra salute, vuole ucciderci?
– Ucciderci, quale esagerazione! Nessuno vi vuole uccidere … Che brut- ta parola che ha usato, lei che è laureata in lettere conoscerà sicuramen- te termini meno duri per esprimere questo concetto. Si dà il caso che io non sia un assassino e a lei non è permesso attribuirmi tale accusa – rispose il signorone quale suo capo.
– Questo lo dice lei, io dico ciò che voglio! – Si da il caso che Fabiana credesse fermamente nel diritto di pensiero e di parola, essere “censu- rata” le faceva saltare i nervi
– Ascolti bene, evidentemente non ha letto tra le righe, stavolta non userò mezzi termini, chi le dà lavoro sono io e se ci tiene a sua figlia ed ai mille- duecento euro di stipendio non venga a lamentarsi e si accontenti! Chiaro?
– Chiarissimo – Fabiana chinò la testa e se ne uscì dall’ufficio.
Due anni dopo, da dodici che erano gli impiegati delle pulizie, diventa- rono undici.
Una giovane ventiquattrenne era misteriosamente scomparsa, non ve- niva più a lavoro, non rispondeva al telefono e neppure per posta. In- somma era sparita!
Le chiacchiere di corridoio dicevano che era malata, ma dopo due mesi di assenza furono sostituite da un ipotetica fuga con l’amante. Dal canto suo, Fabiana, non s’arrischiava a dire la sua. Non si sa mai che la ragazza misteriosamente comparisse e scoprisse tutte le calunnie dette sul suo conto, per Fabiana sarebbe stato moralmente insopportabile!
Passò un altro mese senza sapere nulla quando, improvvisamente, la notizia dilagò!
In ogni angolo dell’ufficio gruppetti eterogenei di impiegati, segreta- ri, capireparto e donne delle pulizie sproloquiavano sulla notizia. Tutti tranne Fabiana. Tutti tranne Fabiana che, invece, credeva che la notizia doveva essere messa a tacere con un velo di pudore per la deceduta.
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Già perché ecco cosa era successo alla ragazza, era morta di cancro hai polmoni dovuto a intossica mento.
Nei diciassette anni successivi morirono altri sei impiegati della stessa ditta di Fabiana, ma smistati in uffici diversi.
I motivi erano sempre i soliti, non si faceva attenzione alle norme di sicurezza.
Una mattina la nostra Fabiana si alzò per andare a lavoro e sentì di avere una specie di tosse, la tosse continuò per due mesi. Nonostante prendesse sciroppi per la tosse, mangiasse sano e portasse sempre una sciarpa al collo questa non passava.
Sua figlia, ormai, era grande e poteva essere seguita un po’ meno, que- sto significava che almeno la domenica Fabiana sarebbe potuta andare da un qualsivoglia medico per farsi controllare quella maledetta tosse che peggiorava sempre di più.
Passò un altro mese, era nell’orario di lavoro e stava pulendo il bagno delle signore con quegli stupidi prodotti che il suo capo si ostinava a comprare, a un certo punto sentì la testa girare e le gambe cedere...
All’età di quarantadue anni tre mesi e sette giorni le fu diagnosticato un cancro hai polmoni, dovuto alle sostanze tossiche inalate …
Smise di lavorare e lei e sua figlia rischiarono seriamente di finire in mezzo ad una strada, se non fosse per l’Inail che le ha supportate e aiutate. Oggi Fabiana lavora come professoressa, grazie hai suoi titoli di studio l’Inail ha trovato un impiego adatto alle sue capacità. Lei e mia mamma sono sempre in contatto, ora più che mai dato quello che le è appena successo …
Lisa Cecchetti
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Carla era una donna sulla quarantina, moglie di un camionista e madre di due gemelli. In passato sua madre le aveva trasmesso la passione per il taglio e cucito e il desiderio di diventare una stilista, magari di qualche Vip. All’età di vent’anni era stata assunta in una sartoria, dove ancora oggi lavora insieme a molte colleghe. Negli ultimi tempi Carla aveva passato un periodo molto impegnativo e faticoso: i suoi bambini erano cresciuti, ma non erano ancora pienamente autonomi, frequenta- vano la scuola e avevano molti interessi e attività, cui la madre doveva star dietro. Il marito, autista di enormi tir, era spesso fuori casa, tornava a casa solo due giorni a settimana e non poteva dare aiuto alla moglie nella gestione della casa e dei figli.
Questo stress, insieme all’ansia di fare tutto in tempo, finì per incidere sul lavoro. Carla, quando entrava in sartoria, si dimenticava spesso in questo periodo di indossare i guanti, il ditale e di seguire tutte le pre- cauzioni richieste in quel luogo di lavoro, come aveva sempre fatto pre- cedentemente. A rischio di infortunio quindi. Era stata ripresa un paio di volte dal capo reparto, ma quando questi non era presente, seguire le norme di sicurezza era l’ultimo dei suoi tanti pensieri. Una sera, dopo aver dato il bacio della buona notte ai suoi figli, andò in salotto e come spesso faceva, guardò in tv il suo programma preferito, “Wild”, una sor- ta di documentario sugli animali.
Improvvisamente dopo pochi minuti lo schermo della tv divenne nero e apparve una figura. Carla, non capendo che cosa stesse succedendo, si nascose dietro il divano e attese qualche minuto prima di sbirciare. Si sentì una voce sottile nella stanza:
“Ehilà... dove sei finita? Vieni fuori – disse balbettando – Sono io, Roshana Salvadonna.”
La donna rimase ferma, poi si affacciò leggermente dal divano scorgen- do un esserino. Aveva degli occhi enormi di colore giallo, capelli rossi
La salute è tutto!
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con sfumature oro raccolti in una coda di cavallo e una bocca carnosa a forma di cuore. Indossava un vestito di seta, leggero e turchese, delle calze multicolorate e delle scarpe strane, ma originali.
“Scusa, e tu chi saresti? – disse Clara, quasi incosciente – Che vuoi da me?”
“Oh già! Voi donne mi temete. Credete che io dica frottole, ma senza il mio consiglio poi evitate sempre molti incidenti” rispose Roshana con aria già stufa.
“Non ho ancora capito che c’entri tu con me!?”
“Tranquilla! Non sono mica qui per fari del male” cercò di calmarla.
La donna era ancora sotto shock ma con molto coraggio si alzò con uno scatto. Anche se le sue gambe facevano giacomo – giacomo, si diresse incuriosita verso Roshana.
“E allora che ho sbagliato?”
“È questo il punto! – gridò alzando un dito verso l alto – Ultimamente, non stai rispettando le norme.”
“Ma di che cosa stai parlando?” domandò con una faccia spaventata, ma anche interessata.
“Del tuo lavoro. Ho visto che non stai indossando i guanti per cucire, il ditale o altro. Ricordati che per chi lavora nell’industrie i rischi d’infor- tunio sono altissimi.”
“Ti sbagli... io indosso tutto”, mentì Carla sapendo di mentire, “Io sono una lavoratrice doc!”
Ovviamente Clara disse così perché aveva paura e non aveva la minima idea di cosa le avrebbe potuto fare quella creatura. Ma anche perché non voleva ammettere a se stessa di essere nel torto.
“Non mentire. Sono venuta qui proprio per questo. Mi raccomando, ri- spetta le norme di sicurezza e potrai vivere il lavoro con più tranquillità e occuparti ugualmente dei figli e della casa” disse con un tono deciso,
“ora devo andare, sai quante donne fanno come te!? Molte non mi han- no voluta ascoltare e... lasciamo stare. Fai come credi, ma se mi ascolte- rai, sarai sempre in buona salute.”
Carla si sedette sul divano proprio quando sparì Roshana. Subito dopo ritornò quel programma in tv, oramai alla fine. Quando andò a letto, pensò a lungo e ipotizzò che quella sera era venuto un messaggero pro- prio per evitarle un incidente che sarebbe accaduto l’indomani.
All’alba, Clara era già sveglia perché, come ogni giorno, doveva accom-
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pagnare i figli a scuola, che si trovava piuttosto lontana. Alle 8.00 entrò puntualmente a lavoro. Quella volta aveva il suo stesso turno anche la sua migliore amica, Charlotte. Prima di iniziare a cucire, Carla pensò alle parole di Roshana e per paura che succedesse qualcosa di sgradevole, si decise ad indossare i guanti. Questa volta, a dimenticarseli involonta- riamente però, fu Charlotte: era arrivata a lavoro molto tardi e dovendo fare 6 ore continue, sarebbe uscita dopo le 14.00. E a quell’ora avrebbe avuto un’importante riunione.
Carla lavorando freneticamente non si accorse che la collega non ave- va indossato i guanti, anche perché cucire è molto impegnativo e ogni sarta dovrebbe evitare di fare caos con aghi, fili e stoffe. Charlotte do- veva utilizzare la macchina da cucire, così la prese, l’accese e iniziò a far scorrere sotto l’enorme e appuntito ago una manica di un vestito a fiorellini. Ad un certo punto si sentì un grande strillo: era proprio lei, Charlotte che disgraziatamente si fece un punto croce sul suo dito al posto della stoffa.
Carla si alzò e tamponò la ferita con una pezza. Il suo intervento fu tem- pestivo. Charlotte fu portata all’ospedale e grazie alle cure dei medici guarì. Qualche giorno dopo, le due si sentirono al telefono.
“Pronto! Charlotte, come stai?”
“Ciao Carla – rispose giù di morale – diciamo bene. Il dito è stato fascia- to come un salame, ma il dolore è abbastanza sopportabile.”
“Mi dispiace, però ricorda che vanno sempre indossati i guanti, come fac- cio io!” disse con un tono sicuro e sembrava anche molto orgogliosa di se stessa, perché se fosse stata al posto della sua collega, grazie alle pre- cauzioni adottate quel giorno, non sarebbe successa a lei quell’incidente.
“....ma non eri tu quella che non indossava mai niente e lavorava sempre con furia e ansia?” chiese come se volesse contraddire la sua amica per avere ragione.
“Fino a qualche settimana sì. Ora ho imparato a rispettare queste norme onde evitare infortuni. Che serva di lezione anche a te. Non dimenticare:
la salute è tutto!”
Federica Mulè Classe III A
Scuola Media, L. Gereschi, Pontasserchio)
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Ciao, sono Alessandra, e vorrei raccontarvi la mia storia…
Era una mattina di Ottobre di diversi anni fa, quel giorno mi svegliai molto presto perché volevo andare a lavorare due ore prima, così, anco- ra annebbiata dalla stanchezza, sali in macchina e misi in moto.
Cercai di non addormentarmi mentre il paesaggio monotono scorreva fuori dai finestrini e il solito scoppiettare del motore mi cullava. Dopo circa quaranta minuti vidi in lontananza il basso profilo della fabbrica M. P. ONESTI e, dopo altri dieci minuti, scesi dalla macchina e misi le chiavi nella sudicia tasca dei pantaloni da lavoro. Ridacchiai quando, come al solito, passai vicino al grande cartello che portava la scritta arancione “M. P. ONESTI”, a cui qualcuno aveva aggiunto con un penna- rello “NON TANTO”, davanti a “ONESTI”.
Ed era vero, il proprietario, il signor Onesti, ci pagava poco e ci faceva lavo- rare tanto e soprattutto ci faceva lavorare molte ore al nero. Ma nessuno si lamentava, perché era l’unica fabbrica nel raggio di chilometri e dava lavoro a molte persone; anzi tutti noi approfittavamo della possibilità di prolunga- re l’orario di lavoro per racimolare qualche soldo in più a fine mese.
Quel giorno ero così stanca che cominciai a eseguire il mio lavoro quasi senza porvi attenzione. Con la mente che vagava da un pensiero a un al- tro – le bollette da pagare, l’aumento dell’affitto della casa, le cure per la suocera ammalata – non sentii l’operaio che mi gridava di spostarmi.
Fu un attimo: la trave mi colpì in mezzo alla schiena.
Mi risvegliai all’ospedale. Il mio primo pensiero fu che, conciata in quel modo, non potevo più andare a lavorare. Tutti i miei familiari, marito, suocera e due figli, vivevano grazie al mio stipendio e se io non lavora- vo non avremmo avuto i soldi necessari per andare avanti. Per fortuna il danno che la colonna vertebrale aveva subito non era permanente, tuttavia per ristabilirmi avrei avuto bisogno di alcuni mesi di cure fisio- terapiche e nel frattempo saremmo anche potuti morire di fame.
Il lav–oro delle donne
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Ma la necessità aguzza l’ingegno, così mi venne in mente che un po’ di tempo prima erano venuti alla fabbrica ONESTI dei rappresentanti dell’I- NAIL, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul lavo- ro. Prima che il signor Onesti li congedasse in maniera piuttosto fretto- losa, dopo aver mostrato loro quel poco di regolare che poteva mostrare, riuscii a prendere il loro numero di telefono. Trovai il numero e telefonai.
Loro mi aiutarono nella mia infermità, e quando finalmente ripresi a la- vorare la mia unica preoccupazione fu di aiutare le persone infortunate che non potevano guadagnarsi da vivere. Lavoravo sempre alla fabbrica, ma presi ad aiutare gli operai con problemi economici o di salute, for- nendo loro le indicazioni necessarie a ricevere un sostegno dalle strut- ture alle quali io stessa mi ero rivolta.
Dopo un po’ mi resi conto che aiutare le persone mi piaceva e lavorare alla M. P. Onesti, soprattutto a quelle condizioni, no. Mi resi conto anche che tutti noi operai facevamo lavori troppo pesanti per le nostre capaci- tà e che questo era una fonte continua di rischio. Dovevo assolutamente fare qualcosa: denunciare il proprietario della fabbrica mi sembrò l’uni- ca soluzione. Sapevo bene che in ballo c’era il lavoro di molte persone, che il signor Onesti era molto abile nel nascondere la sua disonestà e che sarebbe stato difficile spuntarla, tuttavia lo feci. Mi rivolsi all’INAIL, con cui ero rimasta in contatto, e denunciai la M. P. Onesti.
Ci fu un processo, fu dura, ma alla fine vincemmo la causa.
La fabbrica passò in mano al proprietario di un’altra serie di fabbriche, e la M. P. Onesti cambiò il nome in M. P. Puliti, o M. P. P. Per fortuna nessuno perse il lavoro e questo fu un grande sollievo per tutti.
Proprio in quel periodo uscì un bando di concorso pubblico dell’INAIL per il quale si richiedeva esperienza nell’ambito del settore della si- curezza e della salute dei lavoratori. Mi sembrò un segno del destino:
avevo l’opportunità di mettere a frutto tutto quello che avevo imparato in quei mesi e il mio diploma di laurea, rimasto fino a quel momento inutilizzato. Così ripresi a studiare, feci il concorso e lo vinsi. Ancora oggi lavoro all’INAIL e sono felice di poter aiutare decine e decine di persone ogni giorno.
Bracci Bianca Classe III D
Scuola Media “E. Fermi” Pontasserchio
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Ciao, mi chiamo Lisa. Vivo con una disabilità: non ho più il braccio destro, ma ho imparato a conviverci. In realtà non è proprio così. Il braccio ce l’ho, ma fuori uso. Lasciate che vi racconti come è successo tutto ciò…
Lavoravo nell’azienda della Piaggio, adoravo il mio lavoro… Avevo un’a- mica, Anna, lavoravamo insieme. Lei era la ragione principale per cui amavo tanto il mio lavoro. È davvero indescrivibile il bene che le volevo.
Partivamo insieme da casa sua (o anche da casa mia, dipende da cosa avevamo fatto la sera prima) alle quattro e mezza di mattina, per poi arrivare al lavoro verso le cinque. Tornavamo insieme anche a casa, la sera e, di solito, ci fermavamo da qualche parte a mangiare una pizza, oppure andavamo in discoteca, e poi andavamo a dormire, o a casa sua o a casa mia, ma sempre insieme. Lei era single, io pure, passavamo tutto il nostro tempo insieme, al lavoro e fuori dal lavoro. In poche parole ci divertivamo, volevamo goderci la vita finché eravamo giovani ed energiche.
Il giorno della tragedia era un giorno come tanti altri. Avevamo dormito a casa sua, dopo essere state in discoteca. Ci eravamo ubriacate ed era- vamo andate a letto a notte fonda, così quella mattina ci svegliammo più tardi del solito. Partimmo da casa alle 5:10, per questo facemmo qua- ranta minuti di ritardo. Il nostro capo era molto severo, anzi di più, direi che era un sociopatico violento; infatti quando arrivammo non si limitò a rimproverarci. Era arrabbiato, davvero molto arrabbiato. Quello era un periodo di crisi per l’azienda, non ci potevamo permettere neanche dieci minuti di ritardo, figuriamoci quaranta minuti!!
“Razza di incapaci! Vi rendete conto che quaranta minuti di ritardo sono migliaia di soldi persi?!?” Questo è quello che ci disse, anzi, che sbraitò.
Io ero paralizzata dalla paura, incapace di parlare. Chiunque aveva pau- ra di quel capo, e nessuno osava replicare a quello che diceva. Tranne Anna. Ed è proprio quello che fece.
La mia storia
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Gli urlò: “lei deve tacere, deve tapparsi la bocca! Pensi alla sicurezza sul lavoro, piuttosto che ai quaranta minuti di ritardo! Lo vede questo scaffale? È pericolante e sulle mensole ci sono contenitori con liquidi pericolosi. Potrebbe cadere..”.
Come immaginavo, la reazione del capo fu durissima: dette ad Anna una spinta violenta e lei andò a sbattere proprio contro quello scaffale. Cad- de un grande barile di liquido corrosivo. Io mi lanciai addosso alla mia amica per spostarla da lì. Non so perché lo feci. Forse perché era la mia migliore amica, o forse perché il suo coraggio per aver sfidato il capo doveva servire da esempio a tutti gli operai della fabbrica, o semplice- mente perché non sapevo quello che mi sarebbe accaduto. Fatto sta che il barile cadde su di me.
Furono attimi. Non sentii il minimo dolore, perché il barile, colpendomi alla testa, mi fece svenire. Non sentii neanche il liquido che corrodeva la mia pelle. Niente.
Quando mi risvegliai ero in ospedale. I dottori mi guardavano; la mia amica mi guardava; perfino la mia famiglia, che non c’era mai stata per me, adesso era lì a piangere per me. Erano tutti lì, tranne il mio capo. Non riuscivo a smettere di pensare a lui, e a quello che aveva combinato.
Mi venne da piangere. Anche la mia amica piangeva. Vedevo nel suo volto disperazione e senso di colpa. Mi guardava con un’espressione in cui si leggeva chiara la richiesta: “perché l’hai fatto? Perché non mi hai lasciato morire? Perché ti sei sacrificata per me?” La sua faccia era piena di interrogativi. Anche la mia lo era. Continuavo a chiedermi: “‘perché ci siamo ubriacate? Perché siamo andate a letto tardi? Perché il capo ha fatto una tragedia per un semplice ritardo?” La risposta a quelle domande la conoscevamo, ma ormai non contava più niente perché non saremmo mai potute tornare indietro.
Ed eccomi qui, con un braccio completamente immobile che non posso più utilizzare. Accettare quello che era successo è stato difficile, ma ce l’ho fatta. Lavoro ancora lì, con la mia cara amica Anna, e sono di nuovo felice nonostante la mia disabilità.
Adesso abbiamo un capo – azienda nuovo, l’altro venne arrestato e non se ne seppe più niente. Il nuovo capo è molto scorbutico, ma fortunata-
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mente molto attento alle norme di sicurezza. Noi, comunque, cerchiamo di non farcelo nemico. Non si sa mai…
Lavorare è certamente più difficile con il braccio immobile, ma Anna mi aiuta molto. Ormai ho imparato a convivere con la mia disabilità e ora, a due anni dall’incidente, è come una parte di me, come se ci fossi nata.
Ora sono davvero felice, anche più di prima. Ho imparato che tutti gli ostacoli si possono superare nella vita, anche quelli più alti e difficili. E io, ne sono la prova vivente.
Gioele Merola Classe III D Scuola Media Pontasserchio
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Salve a tutti, mi chiamo Marinella, ho 45 anni, ho due figli e sono cassie- ra presso un supermercato del mio paese. Vi voglio raccontare la storia del mio infortunio sul lavoro che risale a più di 20 anni fa. Durante il mio primo lavoro ho subito l’infortunio che mi ha provocato la perdita della prima falange del dito indice della mano destra.
All’epoca, appena diplomata, sono andata a lavorare presso un ombrel- lificio. Il mio desiderio di una indipendenza economica e la mia poca vo- glia di iscrivermi all’università mi indussero ad accettare il primo lavoro che mi venne proposto, anche se poco inerente ai miei studi.
Il lavoro mi piaceva e il clima aziendale era calmo e scherzoso. La mia mansione consisteva nell’attivare con il piede una pressa calda che im- primeva alle stecche metalliche la tipica forma a ” U”. Il lavoro era sem- plice: sistemavi le stecche nella base della pressa, con il piede premevi la pedalina, l’altra parte della pressa scendeva dall’alto e attraverso il calore le dritte stecche diventavano curve. Tutto era semplice e ripetitivo ma esigeva un’attenzione totale perché bastava compiere un movimento non sincronizzato e ti giocavi l’uso di entrambe le mani.
I dispositivi di sicurezza erano massimi per l’epoca, il rischio d’infortu- nio era ridotto al minimo ma quel margine di rischio c’era. Ogni giorno per tornare a casa era necessario essere costantemente attenti, non distrarsi mai e per questo io la sera cercavo di andare sempre a letto presto per essere l’indomani, al lavoro, riposata e vigile. Ed è stata questa mia attenzione a limitare al minimo le conseguenze dell’infor- tunio.
Infatti la causa dell’incidente è stata la stupidità di un mio collega, che per ridere e per mettermi paura ha attivato la pressa mentre stavo ancora sistemando la stecca; pensava di riuscire a fermarla in tempo e invece così non è stato. Lui era solito fare scherzi, però mai era arrivato a questo livello. Per questo ogni suo movimento all’interno
Lo scherzo che mi ha cambiato la vita
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dell’azienda veniva sempre controllato da noi colleghi: potevi aspet- tarti di tutto.
Io quel giorno lo vidi con la coda dell’occhio passarmi alle spalle e fare un movimento veloce e furtivo con il piede. In quel momento senza pensarci, prima di poter realizzare cosa stesse accadendo ho, d’istinto, cercato di togliere le mani da sotto la pressa e ho visto il mio collega provare a rimediare al suo danno premendo il pulsante dell’e- mergenza. La macchina però non si è fermata in tempo e l’indice della mia mano destra è rimasto nella pressa. Ricordo il dolore terribile e la mia paura di perdere la mano, infatti è stato così tutto veloce che non mi sono resa conto di niente. I soccorsi sono stati tempestivi ma per il mio dito non c’è stato niente da fare. Appena arrivata in ospedale vidi la faccia del medico e lì capii tutto. I giorni successivi non facevo altro che piangere e pensare che la mia vita era rovinata, che non avrei mai più potuto lavorare e avere la mia indipendenza. In quel momento vedevo tutto nero e invece di reagire mi abbattevo ancora di più. I miei genitori e il mio fidanzato, che oggi è mio marito, provarono a dirmi che la mia invalidità per fortuna era minima e che mi avrebbe permesso di vivere comunque una vita normale, di accudire i miei figli e di poter continuare a lavorare, ma io non ci credevo. Dopo circa due settimane decisi di reagire e per prima cosa mi licenziai e decisi di ricominciare da zero la mia vita lavorativa. In un certo senso decisi di provare a cancellare l’accaduto e di non guardare più al passato, come se quel piccolo handicap lo avessi dalla nascita. Oggi a distanza di più di due decenni sono soddisfatta della mia decisione perché ciò mi ha permesso di vivere una vita serena, nonostante le numerose difficoltà sono riuscita a trovarmi un nuovo lavoro che adoro, a sposarmi, a cre- scere i miei figli.
Quando però ripenso a cosa sarebbe potuto succedere, a come sarebbe cambiata la mia vita se quel giorno fossi stata distratta, mi sento una persona fortunata.
A volte mi capita di ripensare a quel mio collega, a cosa può aver pro- vato e se ogni tanto gli capita di ripensare a quell’episodio. Credo che quell’incidente abbia cambiato più la sua che la mia vita. I giorni suc- cessivi veniva a trovarmi spesso e mi chiedeva costantemente e in ogni modo di perdonarlo. Io sono riuscita a perdonarlo per davvero, dal pro-
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fondo del cuore, ma non so se lui è riuscito a perdonare se stesso. Le mie colleghe infatti mi dissero che al lavoro non era più lo stesso: stava sempre in disparte, non parlava con nessuno e aveva smesso di fare scherzi sciocchi.
Di infortuni sul lavoro ne capitano moltissimi ogni giorno e per svariati motivi, alcuni evitabili altri meno, alcuni gravissimi, altri più superficia- li, alcuni causati da noi, altri provocati da altre persone, ma tutti, in un modo o nell’altro, cambiano la vita di chi ne è vittima.
Elisa AZZOLINA Classe III D Scuola Media Pontasserchio
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A Londra, subito dopo la seconda guerra mondiale, viveva una ragazza di nome Lucy. Aveva 16 anni e la sua famiglia era in difficoltà, perché suo padre era morto in guerra e sua madre lavorava duro per mante- nere Lucy e i suoi cinque fratelli. Così, Lucy cercò lavoro in un cantiere navale. Il proprietario del cantiere la guardò bene dalla testa ai piedi e pensò: “Non è molto robusta, ma è giovanissima e povera, e la pagherò molto poco.”
Il cantiere era molto grande e Lucy lavorava in un settore in cui costru- ivano transatlantici; c’erano grandi macchinari che sollevavano parti della nave e li spostavano da un punto all’altro. Lucy guardò in alto ed ebbe paura: “E se un pezzo di metallo mi cade sulla testa?” Guardò tutti gli operai e notò che nessuno indossava un elmetto. Allora chiese all’operaia vicino a lei: “Come mai non abbiamo elmetti?” E l’operaia la guardò come se fosse matta e rise tantissimo. “E ti credi che il padrone spenda soldi per i nostri elmetti? Ci paga pochissimo, specialmente noi donne, figuriamoci se spende in queste cose.”
La sera Lucy ritornò a casa stanchissima e molto preoccupata. Rimase a pensare tutta la notte e le venne un’idea brillante! La mattina dopo andò al lavoro con una grossa borsa, e quando entrò nel cantiere aprì la borsa e tirò fuori… una grossa pentola da minestra! Se la mise in testa rovesciata e la fissò bene annodando tutto intorno un tovagliolo. Ci fu una risata generale, poi alcune donne si avvicinarono a lei e chiesero il motivo di quella pentola in testa. Lucy disse forte: “Se il padrone non spende soldi per la nostra sicurezza, pensiamoci da soli: da domani prendiamo tutti una pentola e mettiamocela in testa!”
Il giorno dopo quasi tutte le donne e alcuni uomini arrivarono con pen- tole e tegami di tutti i tipi e se li misero in testa con allegria. Tutti discu- tevano e il rumore arrivò all’ufficio del padrone, che andò sul cantiere e non credette ai suoi occhi. Allora prese un megafono e gridò: “Che
Lucy e la sua pentola
(Una donna risolve una situazione di sicurezza sul lavoro)
Racconto vincitore
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cos’è questa pagliacciata di pentole e tovaglioli?! Mettete via quei cosi e lavorate!” Ma l’operaia che aveva parlato con Lucy il primo giorno gli gridò: “Se non vuoi vedere queste pentole compraci dei veri elmetti! Non vogliamo rischiare di farci male perché non vuoi spendere un centesimo per noi!” Il padrone si infuriò e disse: “Allora statevene a casa! Non vo- glio buffonate nel mio cantiere. Sono un imprenditore serio e non voglio che tutti ridano di me. Troverò operai più disciplinati!”
Alla fine della giornata gli operai e le operaie erano molto tristi e temevano di perdere il lavoro. Allora tutti si riunirono intorno a Lucy e dissero: “Che si fa ora? Siamo in un bel guaio!” Ma Lucy disse:
“A questo punto tentiamo il tutto per tutto! Ne va della nostra sicu- rezza! Domani faremo così…” Rimasero d’accordo e andarono a casa speranzosi.
La mattina dopo, quasi tutti gli operai e le operaie del cantiere arri- varono con pentole e tovaglioli in testa, ma non entrarono a lavora- re: prepararono un paio di striscioni con dei lenzuoli su cui scrissero:
vogliamo un elmetto per lavorare sicuri! Poi si incamminarono verso il centro di Londra e sfilarono così nelle strade della City, piene di uomini d’affari e giornalisti, e poi vicino al palazzo del parlamento, dove furono visti da gente di tutti i tipi. Furono fatte molte foto e un giornalista del Times intervistò Lucy, che spiegò il problema con sem- plicità. Alla fine della mattinata ritornarono alla fabbrica. Il padrone li aspettava già sulla porta e Lucy ebbe tanta paura di essere licenziata insieme ai suoi colleghi. Ma vicino al proprietario c’era il giornali- sta che l’aveva intervistata, e c’erano anche altri uomini e una donna dall’aria ufficiale, oltre a un bel numero di passanti e anche familiari dei lavoratori.
Il proprietario era grigio in volto, ma appena arrivarono Lucy e le sue colleghe fece un grande sorriso forzato, andò loro incontro, seguito dal giornalista, e disse: “Ecco le operaie che hanno avuto questa geniale percezione del rischio che hanno corso tutti i miei lavoratori! Giusto ieri mi hanno segnalato questo pericolo, e io… ho provveduto subito!
Ho appena ordinato elmetti per tutti! Ma… è un bene che i miei operai stamattina, invece di lavorare (e qui diede a tutto il gruppo un’occhiata torva), abbiano manifestato a tutta la città l’esistenza dei pericoli sul luogo di lavoro!” Prese fiato perché sembrava che stesse per svenire per
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lo sforzo. “Perciò,” disse rivolgendosi alle persone dall’aria ufficiale,
“signora sindaco e signori ispettori, vi ringrazio di avere onorato il mio cantiere della vostra presenza per inaugurare questa nuova fase del no- stro lavoro: il lavoro sicuro!”
A questo punto tutti, operai, passanti, familiari, giornalista, sindaco e ispettori, fecero un grosso applauso. Gli operai erano esultanti e anche il padrone sembrava molto sollevato. Quella sera, dopo il lavoro, tutti andarono a casa contenti. Ma scommetto che il padrone del cantiere, per la rabbia, a cena si mangiò il cappello.
Camilla Enwereuzor Classe III D Scuola Media Pontasserchio
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Quella mattina doveva essere una mattina come le altre, ma il destino decise che non doveva esserlo.
Avevo acceso come tutte le solite mattine quell’interruttore della luce sopra il letto con le lenzuola gialle e mi ero precipitata a spegnere la sveglia che avevo lasciato, come al solito, in cucina.
Mia figlia Charlotte, sentendola, aveva deciso di alzarsi, subito, con me per tenermi compagnia.
Avevamo preparato per la prima volta la colazione insieme quella mattina.
Il suo sorriso era l’unica cosa che mi reggeva in piedi, non potevo chie- dere di meglio.
Ci vestimmo quella mattina non con i soliti vestiti cupi e deprimenti, ma con altri più confortevoli e dai colori vivaci.
Quello, d’altronde, era l’unico regalo che potevo permettermi, date le spese sostenute nel mese di ottobre per curare una brutta bronchite.
Ora bastavano solo pochi passi e sarei finita alla guida di quella Fiat nera, come tutti i giorni. Come tutti quegli stressanti giorni.
Charlotte, arrivate davanti alla sua scuola, scese e si allontanò di corsa, dedicandomi solo un “ciao mamma” e io di questo mi accontentai.
Ora bastava fare quei quindici chilometri per arrivare a quella grigia e insopportabile fabbrica in cui lavoravo ormai da tre anni. Quella stra- da la conoscevo a memoria e tutto, ma proprio tutto, odiavo di quella strada.
Arrivata, salutai il nostro capo squadra e, assonnata più del solito, mi misi alla mia usuale postazione numero sessantasette.
Gira la vite, controlla il contatore, premi il bottone… Ecco il mio lavoro.
Nella tremenda monotonia di quelle cinque ore di lavoro, tutte le mie riflessioni si scatenavano.
Ma, quella mattina, dopo circa mezz’ora, arrivò il mio capo e mi chiese di seguirlo perché doveva parlarmi in privato.
Quella mattina
doveva essere una mattina come le altre
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Avevo ottenuto una promozione. Mi stropicciai gli occhi, non solo per il sonno, ma perché non riuscivo a credere che finalmente qualcosa avreb- be cambiato la mia solita stressante routine.
“Sei stata scelta per controllare il ferro in fonderia, naturalmente il tuo stipendio aumenterà. Accetti?” Queste parole me le sognai tutta la notte e la mattina seguente, dopo aver chiamato mia figlia, che era andata a dormire da una sua amica, per la prima volta in tre anni, feci quella strada con il sorriso e buoni pensieri.
Arrivata, andai subito a chiedere al capo la mia nuova postazione. La numero ventiquattro.
Quella nuova stanza era cupa e triste come le altre, ma io continuavo a provare un’indescrivibile sensazione di felicità.
Presi la leva e la tirai.
Passarono così due ore.
Non c’era nessuno, oltre a me, in quella stanza. Tutto era così strano.
Decisi di andare a parlare con il capo.. ma niente mi era familiare in quel luogo, nessuno mi aveva detto dove era l’uscita e non c’erano se- gnalazioni di alcun genere. Cominciai a vagare a caso in quella specie di labirinto. A un certo punto vidi una porta con su scritto “SG2”. Pensai di aver trovato la porta giusta per uscire, girai la maniglia ed entrai.
Vidi qualcosa, qualcosa di sfumato, poi, il buio.
Provai ad aprire gli occhi.
Niente. Non c’era più niente nei miei occhi.
Urlavo, ma la mia bocca non si muoveva.
Non avevo la più pallida idea di cosa fosse successo.
Mi ritrovai in un letto bianco e la prima parola che dissi fu “Charlotte”.
Riuscivo a malapena a parlare con la mascherina dell’ossigeno e conti- nuavo a dire solo quella parola “Charlotte, Charlotte, Charlotte”.
Sapevo bene che era successo qualcosa di grave. Ma non sapevo in cosa consisteva quel qualcosa.
Improvvisamente entrò un infermiere e mi chiese se volevo parlare con il capo.
Accettai e lo feci entrare “Come sta?” Mi chiese, ma capii ben presto che stava per rispondere lui a quella domanda perché subito disse:
“Ora non bene, ma tra non molto starai meglio. Per fortuna sei stata soccorsa in tempo.” Poi sospirò e aggiunse: “Non sai cosa è successo, vero? Sei entrata nella sala gas.. Non lo sapevi, vero?”
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E se ne andò. Rimasi con l’angoscia di non avergli potuto parlare. Non avevo le forze necessarie per dirgli tutta la verità.
Questi miei pensieri furono interrotti da una dolce voce: “Mamma, mamma!”
Mia figlia entrò nella stanza e mi abbracciò come non aveva mai fatto.
Dopo tre giorni mi dimisero. Il giorno stesso andai dal capo per spiegar- gli l’accaduto.
Raccontai con precisione come ero finita in quella stanza e quando ebbi terminato il mio racconto mi disse solamente: “Grazie per avermi fatto notare questa mancanza”.
Una settima dopo rientrai a lavorare e, passando davanti alla fatale stanza, notai che sulla porta c’era scritto “SG2 (sala gas numero due)”.
Con sollievo mi accorsi che cartelli chiari, con segnalazioni precise erano stati messi ad ogni stanza e all’inizio dei corridoi.
Ero fiera di me. Avevo appena cambiato una cosa che avrebbe potuto danneggiare altre persone dopo di me.
Da quel giorno capii che avevo un certo potere anch’io e che tutti l’a- vrebbero avuto se avessero parlato.
Asia Della Bartola Classe III D Scuola Media Pontasserchio
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Come ogni mattina mi recavo a lavoro con la mia Panda preparata ad imbattermi in qualche malattia da curare e nel mio direttore pronto a contestarmi ogni volta. Arrivo in ospedale e.. “Eccolo lì!” il mio camice bianco ad accogliermi, come se mi desse il benvenuto. Mi cambio. Per- corro il corridoio ed entro in ufficio lanciando la borsa, stanca di questa vita monotona, mi volto e ad accogliermi con gli occhi spalancati trovo il mio capo: un uomo di bassa statura dai colori bruni. Lo odio.
“Buongiorno, lo so. Sono in ritardo, mi scusi.”
“Lei è sempre in ritardo, ma non sono qui per parlarle di questo.”
“Ah, e a cosa devo l’onore della sua presenza?”
“A momenti verrà inviata in Africa a salvare vite ai bambini grazie a dei vaccini.”
“Che tipo di vaccino?”
“Per il tetano, ci sono stati molti morti.”
“E per quanto dovrò restarci?”
“Dalle quattro alle sei settimane, vedremo.”
“E per il viaggio, come farò?”
“Lo pagherà l’ospedale, andata e ritorno. Non si preoccupi. Abbiamo pensato a tutto. Prepari le valigie: domani sarà di partenza.”
Non sono pronta per un viaggio di questa portata: salvare vite, lasciare mio marito a casa. Ho paura. Intanto devo procurarmi l’occorrente e molto coraggio, perche un viaggio del genere non capita ogni giorno.
Dopo aver girato mezzo ospedale per trovare ogni singola cosa neces- saria, arrivo a casa. Mi lancio sul letto e piango. Perche piango? Non è certo adesso il momento adatto e poi non ce n’è motivo, sono forte, sveglia, intelligente, tutte le qualità per affrontare questo viaggio. Devo prepararmi la valigia, è il caso di iniziare a svuotare l’armadio. “Toc – toc” è arrivato mio marito, neanche l’avevo sentito tanto che ero presa.
“Ehi. Che cosa è successo?”
Un vaccino sicuro
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Gli spiego tutto, ogni singola cosa nel dettaglio. Ogni singolo mio stato d’animo, per quanto io possa capirlo.
“Sta tranquilla, andrà tutto bene. Puoi affrontare tutto questo serena- mente. Riposati un po’, io intanto cucino. Domani avrai un’intensa gior- nata.”
Domani. Chissà cosa farò, cosa succederà, chi mi aspetterà. Di certo so che non ho fame, non cenerò. Mi addormento.
“Miche? Forza, svegliati! È ora di andare!”
Ho tutto pronto, compresa me stessa. Eccomi all’aeroporto con tutto ciò che serve.
Il viaggio sarà lungo e straziante, ma sono pronta a ogni cosa.
Dopo cinque ore d’aereo finalmente sbarco nel Mali, dove con una mac- china mi portano ad un villaggio. Ad accogliermi trovo un centinaio di bambini pieni di speranza, sogni, e uno splendido sorriso. Ho un tuffo al cuore, per loro io potrei essere sinonimo di vita. Non posso permettermi errori, paure o sentimentalismi. Sono qui per vaccinare, nient’altro. Ini- zialmente non riesco a comunicare con loro, parlano una strana lingua, ma gesticolando riusciamo comunque a capirci!
Mi portano dentro ad una costruzione, un ospedale presumo, ma non ha niente a che vedere con i nostri. C’è qualche lettino qua e là, i muri più che bianchi sono grigi e l’odore è nauseante. Ma qui ci vivono persino, chi sono io per lamentarmi?
Vado immediatamente a prendere il kit di vaccinazione che mi è stato fornito dal direttore, non posso permettermi di perdere altro tempo: con tutti questi bambini impiegherò mesi a vaccinarli!
La prima cosa da fare è indossare i guanti antipuntura, non sono obbli- gatori, ma prima di ammalarmi a causa della mia trascuratezza, preferi- sco fare tutto in sicurezza.
Inizio. I primi vaccini si svolgono tranquillamente, i risultati sono posi- tivi, i bambini sono tranquilli e nessuno si ammala nei giorni seguenti il vaccino.
Il primo giorno è andato benissimo, dei ragazzi cercano di spiegarmi la loro lingua, sembro stare loro simpatica, sono contenta, hanno fiducia.
Dopo qualche settimana riesco magicamente a vaccinare metà dei ragaz- zi, ma qui mi rendo conto che dopo questo viaggio non lavorerò mai più allo stesso modo.
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Un bambino evidentemente impaurito dopo aver visto l’ago, mentre sta- vo effettuando il vaccino ha cominciato a muoversi agitatamente, ed io che credevo di non essermi messa i guanti, mi sono presa uno spavento enorme! Ho creduto di aver contratto chissà quale malattia, ed invece grazie all’abitudine ormai consolidata di indossare i guanti protettivi, tutto è andato per il meglio. Il resto dei vaccini si sono svolti tranquil- lamente, ho socializzato con i restanti ragazzi, tra breve potrò tornare a casa. Voglio tornare, ho molte cose da raccontare. In questo viaggio ho acquistato un’importante conoscenza: meglio prevenire che curare!!!
Agnese Scarpellini, Giacomo Lucchesi, Pietro Fanti, Jani Hymetllari Classe III C
Scuola Media Pontasserchio
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C’era una volta, in un paese molto importante, una principessa molto bella, mora, con occhi viola (tipici di quel paese) e di altezza media.
La sua importanza andava ben oltre l’essere principessa, anzi, era una donna forte sia d’animo che di fisico. Quando dico forte non scherzo, perché era una vera e propria guerriera!
A quei tempi le lotte civili erano all’ordine del giorno, e lei ogni volta cercava di farle cessare. Gli uomini la amavano, le donne prendevano spunto dai suoi atteggiamenti e i bambini si allenavano con spade di legno per diventare come lei. La principessa si chiamava Xila, il re Witif e la regina Yana.
Ma scoppiò una guerra: la città di Xiles contro Nullarbor. Il re e la regina dovettero partire e lasciarono a Xila il comando della città. La principes- sa credeva nella sue capacità e per qualche mese se la cavò a regnare, ma poi... Un giorno... Moglie e marito litigarono pesantemente e Xiles si divise in due: le donne dalla parte della moglie e gli uomini dalla parte del marito. Tutti gli uomini se ne andarono dalla città e rimasero solo le donne! A complicare le cose intervenne una notizia terribile: la maga di Xiles aveva predetto un terremoto, o come lo chiamavano gli Xilesiani
“La terra arrabbiata”.
Così Xila informò tutte le donne, che prese dalla paura cominciarono a rendersi conto che avevano bisogno degli uomini, e così si disperarono!
Ma Xila sapeva che gli uomini non sarebbero tornati per un bel po’ di tempo, erano infuriati, indignati e non sapevano ancora del terremoto!
Xila era la principessa, era forte e non poteva far disperare le donne in quel modo! Era compito del re occuparsi di queste cose e Xila non sape- va da dove cominciare, perché nessuno glielo aveva ancora insegnato!
Così disse: – Ascoltatemi amiche mie! Noi dobbiamo dimostrarci forti, e farci rispettare, così gli uomini non ci tratteranno più male, perché noi siamo forti e dobbiamo dimostrarlo anche agli uomini! Quando arriverà
Xila nella città di Xiles
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il terremoto la città verrà evacuata. Vi prego di non stare a portare con voi beni materiali, ma solo provviste essenziali. Non uscite scalze, vi potreste ferire ai piedi, e indossate questi elmetti. Non chiudete le porte a chiave e quando ci sarà il terremoto uscite subito dalle case! Siamo donne, abbiamo un cervello, ce la possiamo fare!
Tutte le donne si alzarono in piedi ed erano così invogliate da Xila che cominciarono subito ad attuare tutte le norme di sicurezza! Quelle sem- plici norme si rivelarono utili quando arrivò il terremoto e nessuno si fece male. Tornarono gli uomini, e molti erano feriti. Le donne li curaro- no pazientemente e tornò finalmente la pace!
“D’altronde non si può stare senza donne!”, dissero, e le donne erano felici di essere apprezzate!
Passarono degli anni, ma il re e la regina tornarono nel loro regno sani e salvi e Xila si sposò, fu incoronata regina e il popolo visse per sempre pacificamente!
Federica Dini Classe III A
Scuola Media, L. Gereschi, Pontasserchio)
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Perché far produrre i chewingum agli umani quando le avrebbero potute produrre i folletti?
Così, a partire dal 2030, il monopolio dei chewingum fu affidato ai folletti.
Era una splendida giornata autunnale, le foglie cadevano dagli alberi ad una ad una, trasportate da una leggera brezza di terra che faceva arros- sire le morbide guance di Xinam, una folletta di appena 120 anni (dovete sapere che i folletti hanno una vita media di 1000 anni) che stava an- dando a lavoro. Era vestita come al solito: un paio scarponcini di pelle, una gonna a pois e il suo solito gilet con le aperture per le ali. Appena arrivata alla fabbrica delle “Folletto chewingum” indossò la propria tuta da lavoro e passò sotto “l’impermeabilizzatore di ali”, un congegno che ricopriva le ali di una patina oleosa che permetteva al fluido ancora in lavorazione di non attaccarsi ad esse. Le ali per un folletto erano fon- damentali: senza di esse si sarebbe sentito totalmente disorientato e incapace. Xinam era una addetta alla sicurezza del personale, un lavoro di grande responsabilità. Le era già successo di dover intervenire, ma mai in una situazione così grave come le sarebbe accaduto quel giorno.
Timbrò il cartellino e percorse il corridoio principale per arrivare al pro- prio reparto. Tutto era sotto controllo: i folletti stavano preparando gli ingredienti e gli impastatori erano in funzione. Proprio mentre era in pausa caffè sentì un gran tonfo: cosa poteva essere successo? Accorse subito in sala impastatori, immaginandosi che, come al solito, l’addetta alle pulizie avesse fatto cadere qualcosa nell’impasto. Subito si ricre- dette, quando sentì delle urla soffocate dal rumore degli impastatori.
Appena arrivò sul posto si accorse che la situazione era grave, anzi gra- vissima. Una folletta, soprannominata “La Novellina”, proprio perché lavorava da poco nell’azienda, era scivolata sul pavimento bagnato ed era caduta nel macchinario per l’impasto. Per la sua inesperienza non si
Maledetti chewingum!
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era ricordata di impermeabilizzarsi le ali. Era intrappolata tra le pale del miscelatore che continuava a girare e con le ali impiastricciate di fluido molto denso e appiccicoso. Il più grande incubo di Xinam si era appena avverato.
La prima cosa che fecero insieme alla sua squadra fu quella di fermare gli impastatori e mobilitare tutto l’impianto, ma non riuscivano a far uscire la folletta dal recipiente. L’unica cosa che poteva salvare la folletta era un acido, un rimedio estremo con molti rischi. Avrebbe sciolto il fluido, ma se anche una goccia avesse toccato il corpo della sventurata avrebbe provocato danni irreversibili. Xinam si calò con una fune nel miscela- tore e cercò di ripulire ogni scoria di fluido. La Novellina, totalmente disorientata, si dimenò nonostante Xinam le intimasse di stare ferma.
Nonostante questo la folletta riuscì nell’impresa e riportò la sventurata fuori dal recipiente. Intanto era stata chiamata un’ambulanza che subi- to portò la Novellina all’ospedale. Il giorno successivo si seppe che l’in- tervento era riuscito, la folletta sarebbe dovuta restare in ospedale per altri 7 – 8 giorni. Ma era fortunatamente rimasta viva e di quell’episodio rimase il ricordo di un grande spavento e l’insegnamento di prendere sempre le dovute precauzioni nel luogo di lavoro.
Ivan Bioli e Gianluca Bandini Classe III A Scuola Media, L. Gereschi, Pontasserchio