michel-édouard leclerc — Lei divide la sua vita tra la Francia e l’Italia, tra un appartamento e uno studio nel IX arrondissement di Parigi e questa casa sulle colline tosca- ne, poco lontano da Pisa. A cosa sta lavorando in questa estate del 2015?
lorenzo mattotti — A due progetti di ampio respiro.
Il primo è un film d’animazione che dovrebbe uscire nel 2018-2019, tratto da un romanzo di Dino Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Ovviamente mi occupo dei disegni, ma sono impegnato anche nella sceneggiatura, nel lavoro di animazione e nella ricerca iconografica. L’altro progetto è una storia fantastica a fumetti. I temi saranno la metamorfosi, il rapporto simbiotico tra i personaggi animali e la natura. Con questa storia, ambientata agli albori di un mondo immaginario, cerco di tornare alla semplicità della narrazione che caratterizzava le origini del fumetto. Da più di trentacinque anni tengo quaderni in cui disegno spesso creature oniriche, che si muovono in mondi nati dalla mia immaginazione. Le reinvento, le inserisco in contesti diversi, cambio le loro espressioni, l’atteggiamento, l’ambiente in cui agiscono. Da questi disegni, che chiamo Linea fragile, sto recuperando personaggi, situazioni e universi che nu- trono costantemente il nuovo racconto.
david rosenberg — La sceneggiatura è sua?
lm — A questa storia sto lavorando insieme a Jerry Kramsky.
Non esiste una vera e propria sceneggiatura. Prende for- ma giorno dopo giorno, si nutre delle nostre discussioni.
Trasferisco direttamente le nostre idee in uno storyboard che ci serve da filo d’Arianna. È una costruzione empirica.
mel — Ha lavorato spesso con Jerry Kramsky, si tratta di una collaborazione di lunga data…
lm — Sì, è anche la storia di un’amicizia leale.
mel — Una collaborazione che, seppur discontinua, va avanti da quarant’anni!
lm — Ma certo, non viviamo insieme. È un susseguirsi di scambi con momenti particolarmente intensi e periodi di pausa. Ci conosciamo da quando eravamo adolescenti. Nel gruppo di amici con i quali condividevo la passione per la musica e per i fumetti, spiccava come un essere singolare sia per l’inventiva, sia per la vastità della sua cultura. Come me, amava discutere di Queneau, di Michaux e di tutti questi autori di dialoghi surrealisti e metafisici.
mel — Effettivamente vi vedete solo di quando in quando, vi spostate entrambi molto spesso. Come siete riusciti a lavorare insieme in un arco di tempo così lungo? Tanto più che, incontrandola qui, è facile immaginarla come una per- sona piuttosto solitaria?
lm — Indipendentemente dalla storia e dalla sceneggiatu- ra, nonché dalla qualità degli autori che me le propongo- no, io resto co-sceneggiatore e co-autore. Non sono e non
Lorenzo Mattotti, David Rosenberg, Michel-Édouard Leclerc
David Rosenberg, Lorenzo Mattotti e Michel-Édouard Leclerc in Toscana, estate 2015.
Conversazione
voglio essere il disegnatore di qualcun altro, per quanto geniale sia. Non è una questione di ego, e nemmeno di libertà. È solo perché ci sono varie forme di interazione tra disegno e scrittura. Talvolta i testi esistono già: può trattarsi di una poesia, una canzone come A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Bob Dylan, che ho illustrato. In questo caso ovviamente non modifico il testo, ma seleziono certe parti, permettendomi di ometterne altre se l’immagine è forte e sufficientemente espressiva. Se non lo facessi, il testo rischierebbe di diventare ridondante.
dr — Per Caboto, il testo esisteva già?
lm — Sì, l’aveva scritto Jorge Zentner, ma l’abbiamo com- pletamente rivisto insieme, operando diversi tagli. Avevo bisogno di trovare un ritmo per i disegni, che non doveva necessariamente corrispondere alla scrittura originale.
dr — Sono molti gli sceneggiatori e gli scrittori con cui ha collaborato…
lm — Ho lavorato molto con Jerry Kramsky quando erava- mo adolescenti. Ci siamo ritrovati negli anni tra il 1985 e il 1988, in cui abbiamo pubblicato diversi racconti sull’Echo des Savanes, e poi Labyrinthes (Labirinti, Hazard) e Murmure, editi da Albin Michel nel 1988 e nel 1989. È sem- pre con lui che, nel 2002, ho realizzato Docteur Jekyll
& Mister Hyde per Casterman (Jekyll & Hyde, Einaudi).
Ho anche illustrato alcuni racconti per ragazzi scritti da Kramsky per Seuil, nel 1990 e nel 2000: si tratta di Grands Dieux e Un soleil lunatique (Il sole lunatico, Gallucci) o – qualche anno prima – la serie Les aventures de Barbe Verte (Le avventure di Barbaverde, Orecchio Acerbo).
mel — Lavorava in parallelo anche con Jorge Zentner?
lm — Sì, ma l’ho incontrato in un momento successi- vo. Abbiamo pubblicato Le voyage de Caboto (Caboto, Hazard) per Albin Michel nel 1993. È sempre con lui che nel 2003 ho pubblicato per Seuil Le bruit du givre (Il rumo- re della brina, Einaudi). Se vogliamo continuare l’inven- tario delle collaborazioni, non posso tralasciare Antonio Tettamanti con il quale, fin dal 1975, ho creato storie per la rivista Circus, prima di adattare in forma di fumetto la storia di Huckleberry Finn. E soprattutto Lilia Ambrosi, con cui ho realizzato un’opera fondamentale per la mia vita (e forse per la nostra: all’epoca vivevamo insieme), L’uomo alla finestra, del 1992. C’è anche Claudio Piersanti, con cui ho prodotto Stigmate, una delle mie opere più dure. In un registro meno forte, ha scritto i brevi testi che accompagnano i ritratti di donna della serie Anonymes.
dr — Immagino che lavorando su un testo letterario, già pubblicato o conosciuto, i vincoli a livello editoriale e in termini di soggetto siano più forti e le consentano una minore libertà d’azione.
lm — Sì, certamente: è la differenza che passa tra cre- azione, illustrazione e interpretazione. Ho servito i te- sti di Jacob e Wilhelm Grimm per Hänsel e Gretel, Carlo Collodi per Pinocchio, Mark Twain, Dante, Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe. Per avvicinarsi a questi mo- numenti della letteratura è necessaria una grande umiltà.
mel — Nel 2009 la Galerie Martel ha invitato Lou Reed a Parigi nei giorni in cui lei esponeva i suoi lavori ispirati a Edgar Allan Poe, commissionati proprio dal cantante newyorkese. Come avete vissuto concretamente quel rapporto?
lm — Come sapete, ho lavorato per il New Yorker. Lou Reed aveva chiesto ad Art Spiegelman di suggerirgli un di- segnatore europeo con cui lavorare all’adattamento di un testo di Poe. Aveva già lavorato a una versione teatrale, una sorta di opera musicale, insieme a Robert Wilson. Aveva deciso di trasformarla in un libro e ho avuto la sorpresa, un giorno, di ricevere una sua telefonata in cui mi diceva di avere molto apprezzato il mio albo Docteur Jekyll & Mister Hyde. Ci siamo incontrati e gli ho mostrato come immagi- navo di lavorare a quell’opera, che avevo letto in gioventù.
Ovviamente amavo il trattamento simbolico, fantastico, di temi che mi sono sempre stati a cuore come la paura, la tensione. Dino Battaglia, in Italia, aveva prodotto alcune interessanti illustrazioni che mi avevano molto colpito…
Per farla breve, le mie idee sono piaciute a Lou Reed, che
Lou Reed e Lorenzo Mattotti a New York, 2009.
mi ha lasciato una grandissima libertà. I testi sono molto cupi e inquietanti, come alcuni dei pastelli che ho realizzato.
Il pubblico dell’esposizione potrà scoprire la serie intitolata The Raven quasi per intero.
mel — La mostra raccoglie anche numerose tavole di gran- de formato e in bianco e nero, molto cupe, che illustrano il racconto Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm.
lm — Anche questa volta il New Yorker aveva chiesto a di- versi artisti di lavorare a una mostra alla Gallery Met, desti- nata ad accompagnare la fiaba musicale Hänsel und Gretel alla Metropolitan Opera House. Ogni artista poteva fornire la propria interpretazione dell’opera. In sé, la proposta non mi interessava particolarmente, tuttavia all’epoca stavo la- vorando su una serie di grandi dipinti di foreste. Come sog- getto, la foresta si presta perfettamente a trattare temi quali il labirinto personale, il buio, ma anche la paura. Partendo da queste riflessioni, ho proposto una versione di Hänsel e Gretel che esprimesse il carattere contraddittorio della pau- ra e del senso di energia che si provano attraversando una foresta. È una preoccupazione concreta, un’ossessione che mi accompagna dall’infanzia, ma è anche, senza pretese, una maniera per esprimere la solitudine degli esseri umani nel labirinto della contemporaneità. C’è il terrore del buio, è un classico, c’è la paura di perdersi. Ma non basta trovare la strada verso la luce: bisogna avere la forza di uscire da quegli intrichi di radici e tronchi, da quel muro vivente che talvolta protegge (ci nasconde) ma spesso minaccia.
dr — Sentendola parlare di Hänsel e Gretel oppure di Oltremai, altra grande opera in bianco e nero, si ha l’im- pressione che ritenga di essere giunto a una sorta di punto d’arrivo...
lm — In questo percorso non parlerei di punto d’arrivo, ma di una tappa importante. Dal punto di vista tecnico, ho avuto l’impressione di padroneggiare la creazione pittorica.
Cercavo una forma di sintesi al limite della narrazione, della rappresentazione e dell’astrazione. Ho avuto l’impressione, in questi lavori, di essere giunto non solo a una compiutez- za tecnica, ma anche a una forma di apertura spirituale.
La mia produzione è, anche per me, un viaggio alla ricerca dell’identità. Probabilmente ho paura di perdermi a mia volta. Ho sempre bisogno di una luce, di un albero. Sono combattuto tra la profondità, la vastità della natura, le sue forme, la sua energia, il suo potere, e la fragilità della con- dizione umana. Non è facile trovare la propria strada. Con queste opere ho avuto l’impressione di poter condividere questa energia, di farla emergere dentro di me. Ho finito
per nutrirmene. La foresta è davvero uno splendido sog- getto pittorico e non è un caso che sia stata trattata in molti racconti. È la misura del nostro isolamento.
dr — In genere, diversamente da molti autori di fumetti, in particolare quelli definiti “classici”, lei realizza i suoi disegni senza integrarvi i balloon o il testo, giusto?
lm — In realtà li anticipo, prevedo uno spazio e li inserisco in un secondo momento. Con i miei sceneggiatori abbiamo sperimentato di tutto. È appassionante. Non voglio che le persone si sentano confinate nel proprio ruolo. Bisogna saper guardare l’effetto prodotto da ciò che si è fatto, e rivederlo partendo da lì. Spesso alcune modifiche sono necessarie, perché dal disegno emana una musica, un ritmo che si sostituiscono alla narrazione originale. Così, con ogni sceneggiatore, lavoriamo in maniera progressi- va, empirica. Per esempio scriviamo quattro pagine, io disegno, metto in scena, dopodiché discutiamo l’effetto prodotto e a quel punto scopriamo che l’immagine può anche rimanere muta…
dr — La sua serie Oltremai è un’opera narrativa voluta- mente senza parole, muta appunto...
lm — Non ho nulla contro la scrittura, bisogna solo trovare un buon equilibrio con l’immagine. Ma il punto su cui vorrei insistere è che non si può ragionare per compartimenti stagni. L’immagine è anch’essa produttrice di narrazione.
Devo riconoscere che da qualche tempo, nella mia opera, l’immagine va assumendo un’importanza crescente. Il dise- gno può produrre un effetto poetico o drammaturgico, che talvolta richiede che il lettore non sia obbligato a leggere un fumetto, un testo. Non c’è niente di assoluto e non voglio desumerne una filosofia, un metodo o un concetto parti- colare. Qualche volta la storia si trasforma un po’ in una scusa, un pretesto, di cui nel disegno finisco per scordarmi.
È questo che mi rende diverso da un illustratore come lo si intende tradizionalmente.
mel — Effettivamente bisogna ricordarlo: lei è a un tempo autore, illustratore, pittore, regista. Le sue immagini hanno valenze diverse a seconda dei casi. Sono pochi gli artisti della nona arte in grado di riunire tante forme espressive. Come riesce a lavorare di volta in volta, o contemporaneamente, per un periodico come il New Yorker o una rivista di moda come Vanity, all’illustrazione di un romanzo o di un brano musicale, a praticare la pittura o il disegno?
lm — Devo ammettere umilmente che questa varietà è legata alla mia storia, e prima di tutto alla constatazione
della mia iniziale ignoranza. Quando ho cominciato, vole- vo fare il disegnatore di fumetti. A poco a poco, mi sono diretto verso altre forme figurative.
mel — È un autodidatta?
lm — Non ho una vera e propria formazione da disegna- tore, ma ho comunque frequentato una facoltà di ar- chitettura. Ho studiato la geometria, la matematica, la prospettiva ma anche, e soprattutto, la storia dell’arte, aprendomi così a una vasta cultura umanistica. Ho stu- diato a Venezia, una città che mi ha nutrito. È lì che ho appreso la contemplazione solitaria, la forza della luce e i rapporti plastici tra gli elementi. Sono sempre stato pronto a disegnare su qualsiasi tipo di supporto. Che si tratti di esperimenti autonomi o di lavori commissionati dagli editori, ho sempre considerato una fortuna il fatto di potermi misurare con nuovi ambiti. Ciò che mi interessa e mi appassiona è la tecnica, non la definizione di artista che questa implica. Termini come pittore, artista plastico, disegnatore, illustratore rimandano per quanto mi riguar- da alle tecniche utilizzate nelle opere, ma non valgono a definire un artista; certo, a volte capita di arrabbiarsi e di rammaricarsi perché la critica d’arte tende a ingabbiarci in queste definizioni.
dr — È vero che lei stesso, quando si riferisce a un artista, non lo classifica mai, non fa necessariamente riferimento al genere o al supporto sul quale lavora.
lm — Sì, sì, è una cosa fondamentale. Certe classifi- cazioni rispecchiano soltanto lo sguardo della società, che spesso è riduttivo. Io rifiuto questa gerarchia. Tenga presente, però, che da adolescente la mia ambizione era fare fumetti per comunicare con gli altri. Si trattava di una scelta forte sul piano culturale e sociale, volevo partecipare a quel movimento importante che allora era agli esordi e stava facendo saltare i codici del fumetto in Italia. Personalmente, ho un percorso da artigiano. Oggi gli artisti tendono a evitare questo termine, ma nel mio caso funziona, descrive bene ciò che faccio. Per tutta la vita sono stato ossessionato dall’idea di imparare un mestiere, volevo che mi desse da vivere, ho cercato di imparare tutte le tecniche, tutte le sfaccettature, e ogni volta che guardavo la copertina di un disco, un dipinto, una vignetta satirica, era per integrare la competenza dell’artista alla mia personale pratica. Sì, rivendico i miei esordi sperimentali e la mia progressiva evoluzione. Non avendo compiuto studi artistici, ho dovuto capire da solo come erano fatte le opere. Certo, nel mio viaggio
personale – dato che sono riuscito ad assimilare le opere del passato e le competenze che hanno richiesto – ora posso lasciarmi andare, creare e inventare un’opera forte.
Fin dai primi tempi ho cercato, nella mia arte, di spingere i linguaggi grafici e le tecniche fino ai loro limiti. Ma, men- tre alcuni sapevano fin dall’inizio dove volevano andare, mentre altri subordinavano il proprio lavoro a un obiettivo politico o difendevano la propria adesione a una scuola o a un manifesto, io ho sempre cercato di essere prima di tutto un buon tecnico, un buon artista, un buon fumetti- sta, per poi andare oltre. Così ho copiato, ho cercato, ho seguito varie piste e poi, a poco a poco, ho insistito fino a rendere miei di volta in volta un colore, una musica, un tono, e solo allora, al termine del percorso, è apparso un universo personale e coerente.
mel — Per lei è dunque molto importante sottolineare l’in- fluenza dei suoi predecessori, dei grandi maestri dell’arte o dei suoi amici?
lm — Non userei il termine “sottolineare”. È una realtà, un dato di fatto. Mi sono imposto una forma di disciplina e per molto tempo tutto ciò che iniziavo a fare è stato legato a quei riferimenti. È così strano? Perché dovremmo esse- re tanto orgogliosi da dimenticare le opere del passato?
Grandi artisti come David Hockney o Picasso hanno spie- gato quale fosse il loro debito verso i propri predecessori.
dr — Nell’Italia degli anni Ottanta quali erano le sue let- ture preferite, gli artisti emblematici che la ispiravano?
lm — All’età di tredici o quattordici anni, traevo ispirazio- ne dalle opere che alcuni disegnatori italiani come Lino Landolfi o Dino Battaglia, ma anche Uderzo in Francia, rea- lizzavano in quel periodo. Mi esercitavo a copiarli, creando a poco a poco, per via d’imitazione, universi umoristici personali, talvolta persino grotteschi. Certo, leggevo qua- lunque cosa mi capitasse sotto mano e adoravo tutte quel- le pubblicazioni che, dai fumetti italiani al Sergente Kirk (pubblicato da Florenzo Ivaldi), mi avrebbero fatto scoprire gli svariati universi del fumetto francofono, italiano, ameri- cano. Negli anni Ottanta rimasi completamente sconvolto da un incontro a Milano con Carlos Sampayo e José Muñoz.
Entrambi avevano un modo molto soggettivo di raccontare una storia: con loro, disegnatore e sceneggiatore entrava- no in qualche modo a far parte della narrazione e il tratto diventava nervoso, meno stereotipato. Mentre io mi ero esercitato a realizzare strisce o tavole che definirei accade- miche, quei sudamericani – a cui andrebbe aggiunto il mio grande maestro Alberto Breccia, ma anche il figlio Enrique
Breccia, con riferimento ai primi lavori – inventavano una scrittura grafica apertamente espressionista. Scoprirli è stato per me uno shock culturale pari a quello che mi ha provocato un altro grande del fumetto francese, Philippe Druillet con Lone Sloane.
mel — È soltanto dall’età di trent’anni che ha cominciato a realizzare illustrazioni per la moda, manifesti come quel- li per il Festival di Cannes, copertine di riviste, disegni di grande formato…
lm — Fino alla pubblicazione di Fuochi, nel 1984, lavoravo soltanto sul fumetto. Ma dovevo guadagnarmi da vivere, ed è il mestiere di illustratore che mi ha garantito i migliori introiti. Così non ho disdegnato i lavori su commissione. Fin dall’adolescenza ho realizzato manifesti per venderli; all’i- nizio si trattava di poster un po’ psichedelici che vendevo ai concerti, poi sono passato a manifesti di grande formato, con immagini di ampie dimensioni realizzate con estre- ma libertà, finché un giorno, grazie agli amici del gruppo Valvoline, mi è stato proposto di realizzare disegni di moda per la rivista Vanity. Si trattava di esprimere e illustrare l’universo, l’atmosfera della moda e dei suoi creatori. Erano stati interpellati diversi disegnatori. Io mi sono ispirato ai disegni molto stilizzati degli anni Trenta. A partire da quei
modelli, estremamente espressivi, ho prodotto una se- rie di lavori molto colorati, molto vivaci, che sono stati pubblicati a partire dal 1984.
dr — Si può dire che è da questo momento che smette di essere soltanto un fumettista? Con quei disegni per Vanity ha ottenuto un grande successo.
lm — Il mio primo lavoro per Vanity era stato commis- sionato per un numero speciale della rivista in cui diversi disegnatori di fumetti d’avanguardia erano stati invitati a realizzare un’opera sulla moda del decennio. Vi par- tecipavano tutti i disegnatori del gruppo Valvoline, ma anche Charles Burns o Liberatore, per citare soltanto due nomi. Per loro, come per me, si trattava di un’esperienza nuova. Ho pensato immediatamente che avrei dovuto mettere l’abito al centro dell’immagine e che questa avrebbe dovuto valorizzarne la forma, i tessuti, i colori.
Ho fatto qualche ricerca tra i disegni pubblicati su Vogue negli anni Trenta, ho studiato la tecnica di Erté (Harper’s Bazaar) e di altri artisti fino agli anni Quaranta. Quando ho consegnato i primi disegni, il direttore artistico di Vanity, Alberto Nodolini, mi ha proposto di lavorare alle copertine della rivista. È stato un vero successo, che ha dato il via a una collaborazione a pieno ritmo con tutta la
Lorenzo Mattotti nel suo studio, 1999.
redazione ma è stata soprattutto una formidabile scoperta personale. Ispirandomi al lavoro svolto per Fuochi o Il si- gnor Spartaco, riscoprivo quanto un disegno potesse es- sere ricco, completo, complesso. Inoltre, per Vanity avevo bisogno soltanto di un’immagine alla volta, senza dovermi preoccupare degli aspetti narrativi o della collaborazione con uno sceneggiatore o un tecnico. Ho provato un senso di liberazione, di gioiosa leggerezza. È stato allora che ho capito che il fumetto era stato il migliore degli apprendi- stati e che quest’arte poteva aprire molte altre porte sul piano grafico e professionale.
mel — In Italia è noto soprattutto come illustratore. Ha trat- tato praticamente tutti i generi e la sua cifra stilistica è stata ben presto riconosciuta. L’hanno definita un grande colorista.
lm — Ogni autore di fumetti comincia con il pennino. La china, il bianco e nero sono le basi. Per molto tempo non ho toccato i pennelli. Ma per Fuochi o Il signor Spartaco ho attinto a tutte le possibilità offerte dalle matite colorate.
Lavoro su una carta piatta, leggermente granulosa. Ho lavorato a lungo partendo da uno schizzo leggero a matita, poi mi sono lanciato in trame di grandi dimensioni, in cui ho imparato a mescolare i colori e a lavorare sulle trasparenze.
mel — L’albo Fuochi (1984) ha destabilizzato il mondo del fumetto. All’epoca gli autori che lavoravano in colore diretto erano pochissimi. Il suo albo, invece, offriva un’e- splosione cromatica.
lm — Avevo realizzato i primi disegni dopo aver visto Fitzcarraldo, di Werner Herzog. Vi ricordate quel battello bianco nell’intrico della foresta amazzonica? Volevo espri- mere una specie di shock visivo: il battello, molto lineare, con il suo corpo fisico e tecnologico, si contrapponeva alla foresta e soprattutto alla montagna, creando un con- trasto brutale. C’era anche il problema del rapporto di proporzione tra le masse. Ben presto ho pensato a grandi macchie colorate. La magia è nata dalla contrapposizione tra il tratto e la densità del colore. Lo stesso effetto pro- dotto dal contrasto tra il disegno del battello e l’isola. Non potevo rinchiudere quelle forme dietro un tratto troppo striminzito. L’uso del colore, in macchie molto dense o in trasparenza, ha creato un senso di profondità e, per me, di libertà. La forza espressiva di Fuochi dipende in gran parte dall’uso della materia pittorica. I colori non si limitavano a illustrare: simboleggiavano uno stato, si trasformavano in un linguaggio, un codice emotivo oltre che pittorico.
dr — Allora la pittura sta assumendo un’importanza cre- scente nella sua produzione?
lm — Mi piacerebbe dipingere di più… Mi sono dedicato alla pittura dalla metà degli anni Ottanta. Le prime ope- re erano ovviamente influenzate dalle tecniche relative al disegno, dalla mia pratica del fumetto. La scoperta della tela e dei grandi formati è stata il risultato di un lungo percorso, che però non ha mai determinato una rottura con ciò che facevo in precedenza. Diversamente da altri disegnatori, non avevo bisogno di affermarmi come pittore, di contrapporre un’arte a un’altra. Alcuni miei amici usavano uno pseudonimo per firmare le pro- prie tele. Io, al contrario, consideravo naturale questa evoluzione. Il mio unico timore era il giudizio qualitativo altrui, oppure la tendenza a catalogare che colpisce talvolta i critici d’arte.
dr — Nella sua posizione, sa bene che non si passa fa- cilmente da una tecnica all’altra, da un supporto o un formato a un altro.
lm — Io l’ho fatto per piacere personale, spesso improv- visando. Il mio obiettivo non era cambiare scala passando dalla vignetta alla tela. Il risultato sarebbe stato un falli- mento. Partivo da immagini necessariamente narrative, figurative e ho imparato a lasciarmi andare, a improvvi- sare, creando un nuovo linguaggio e nuovi codici grafici.
Ho anche scoperto la bellezza di una gestualità eviden- temente più ampia.
Lorenzo Mattotti nel suo studio parigino, settembre 2015.
mel — Direttamente su tela?
lm — No, ho cominciato a lavorare su carta con l’acrilico e, man mano che mi sono sentito più a mio agio, sono pas- sato alla tela. Quindi ho esposto a Trieste, Milano e Torino nella prima metà degli anni Novanta. È solo a partire dal 1995, dopo una mostra a Haarlem, nei Paesi Bassi, che ho cominciato a incontrare un pubblico diverso.
mel — Da allora ha effettivamente presentato diverse serie, come Nell’acqua, Stanze, Altrove...
lm — Sì, mi piace lavorare su un tema in modo molto fluido, molto colorato, com’è accaduto con In the Garden, Ombre umide, Stanze, Nell’acqua o Altrove. La serie Nell’acqua è stata presentata da Christian Desbois, a Parigi. Stanze, invece, a Modena, nel 2005. Tra il 2005 e il 2008 ci sono state diverse esposizioni tematiche in Italia.
dr — E, più di recente, Oltremai...
lm — Grazie a uno dei miei editori italiani, Logos, Oltremai è stato pubblicato come libro, ma è in primo luogo un’o- pera pittorica. Mi sono espresso in bianco e nero, come per Hänsel e Gretel, in grande formato. Abbandonando il pennino per il pennello, lo schizzo a matita in favore di un’improvvisazione totale, mi sono interessato più alla potenza e alla violenza espressiva e gestuale di ogni im- magine, in relazione diretta con la forza e la violenza del soggetto. È stato possibile vedere l’opera nella sua inte- rezza alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e il risultato era davvero impressionante.
mel — Afferma spesso di essere stato influenzato dalle tecniche di regia e montaggio del cinema.
lm — Sì, certamente, in diversi momenti. Nel 1984, di- segnando Incidents (Incidenti, Hazard), mi sono molto ispirato ai primi film di Wim Wenders. Dopo Incidents, con Il signor Spartaco ho riflettuto sui codici propri del fumetto, e sulla forza del disegno e della pittura. Ho capito che il fumetto non era il parente povero di nessuna arte, meno che mai del cinema. Così mi sono potuto spingere oltre i codici della settima arte, arricchendoli con la forza evocativa dell’immagine pittorica. Anche la pubblicazione di Fuochi, nel 1984, è stata un’occasione per rimettermi in discussione. Bisogna essere pronti ad andare all’opposto di ciò che si è fatto in precedenza. È sbagliato lasciarsi cullare dal successo, aggrapparsi alle proprie certezze.
Con quella storia volevo rendere i diversi stati psicologici provati dal protagonista piuttosto che raccontare un’av- ventura. Ho rapidamente imparato a distaccarmi dalla
semplice fedeltà all’immagine. Bisogna sempre saper oscillare tra la realtà e il sogno.
dr — In tutti i periodi che ha citato, ha avuto a che fare con numerosi registi cinematografici.
lm — Devo molto al cinema. Ho visto innumerevoli film, consumato chilometri di pellicola e ho provato così tanta meraviglia! Così è stata una vera gioia essere sollecitato a lavorare su un film.
mel — Antonioni!
lm — È stato lui a propormi di lavorare a Eros, che poi è stato presentato, nel 2004, in selezione ufficiale ai festi- val di Venezia e Toronto. Il film riunisce tre mediometrag- gi in forma di racconto, diretti da Wong Kar-wai, Steven Soderbergh e dallo stesso Antonioni. Ciò che mi si chie- deva era in qualche modo di creare un legame tra le tre opere garantendo una coerenza estetica all’insieme. Così ho realizzato l’introduzione di ognuna delle sequenze. Ho potuto sperimentare in studio, per oltre due mesi, diverse tecniche video per filmare i miei disegni. È stata un’espe- rienza meravigliosa e arricchente.
dr — Ha anche realizzato un cortometraggio di anima- zione per il film collettivo Peur(s) du noir – Paure del buio, presentato al Festival di Angoulême nel 2008.
lm — Sì, si trattava di un film di animazione costituito da una serie di corti affidati a disegnatori come Charles Burns, Richard McGuire, Pierre di Sciullo, Blutch. Il direttore arti- stico era Étienne Robial, e io ho realizzato personalmente uno degli episodi. Mi piacciono tutte queste collabora- zioni. Del resto, ci sono ricaduto anche lavorando su un Pinocchio di Enzo D’Alò, terminato nel 2013, per il quale ho realizzato tutti i disegni preparatori, occupandomi anche dell’estetica generale del film e della scenografia. Anche adesso sto lavorando a un film d’animazione, tratto da una storia di Dino Buzzati. Spero che prima o poi vedrà la luce…
mel — Insomma, è un uomo appagato. Cosa le manca, oggi?
lm — Direi il tempo!