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Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M

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Consiglio Superiore della Magistratura

La dimensione economica del diritto nel pos-moderno La funzione del giudice civile tra mercato e diritti

Roma, 26 maggio 2016

Sala Conferenze del Palazzo dei Marescialli

I lavori hanno inizio alle ore 9,48

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Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Buongiorno a tutti, un vivo ringraziamento alle autorità intervenute, ai colleghi, e un particolare ringraziamento al Presidente della Corte Costituzionale, professor Paolo Grossi, per aver aderito al nostro invito a dar lustro con la sua prolusione a questo incontro.

Nell’analisi dei rapporti fra valori giuridici e società si rileva come nei differenti momenti storici, in ragione delle mutate circostanze economiche e sociali, possa prevalere un valore e non un altro.

Nelle ultime riforme legislative il fattore tempo costituisce il motivo conduttore attraverso il quale si snodano gli interventi soprattutto in materia processuale. Lo Stato assume come dovere fondamentale la organizzazione del proprio sistema giudiziario in modo tale da garantire a ciascuno il diritto di ottenere una decisione in tempi ragionevoli. L’eccessiva durata dei processi determina un rilevantissimo pregiudizio economico per lo Stato italiano e soprattutto danneggia gli utenti del servizio giustizia, provocando reazioni negative sull’intera collettività. Già nel 2008, forse ancor prima delle

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classifiche stilate dalla Banca mondiale, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione in una pronuncia in tema di maggior danno nelle obbligazioni pecuniarie ammonivano che le istituzioni del paese annoverano le inefficienze e le lungaggini del sistema giudiziario civile tra le cause del rallentamento dello sviluppo economico dell’Italia, sicché il principio della ragionevole durata del processo, ormai dotato di copertura costituzionale e postulato dal diritto comunitario, si è versato nell’ambito dell’attività ermeneutica giudiziale divenendo uno dei principali canoni interpretativi. In tale quadro anche le emergenze ermeneutiche, almeno quelle caratterizzate da imprevedibilità fra merito e legittimità, indeboliscono il sistema allargando il contenzioso e provocando ritardo nelle decisioni con forti ricadute nell’economia del paese per effetto delle distorsioni nella concorrenza in un mercato globalizzato. Per questo è di vitale importanza quella certezza del diritto che non significa cristallizzazione ma stabilità in assenza di plausibili ragioni di revirement, e che è assicurata anche dal rafforzamento della funzione nomofilattica della corte di legittimità. Tuttavia il proliferare delle fonti sovrannazionali, le nuove complesse esigenze del mercato globalizzato, i nuovi modelli contrattuali, le stesse trasformazioni imposte dalla crisi economica richiedono al giudice civile, nella riduzione del tasso di sistematicità nell’ordinamento e conseguente messa in crisi della operazione decisoria di tipo meramente sillogistico, una funzione di supplenza nell’assenza di decisioni politiche e più in generale un ruolo sempre più complesso di interpretazione di fenomeni e di riconduzione degli stessi nell’alveo dei tipi legali. Per la verità già Piero Calamandrei esaltava la funzione di produzione giuridica assegnata alla giurisprudenza, sottolineando la prevalenza nel tempo precedente della ricerca di una casella teorica in cui collocare la realtà. Ma con l’aggiunta di caselle supplementari la giurisdizione ha finito con l’allargarsi oltre una tradizionale opera di interpretazione e pervenire a una consapevole attività di creazione nell’ambito di un sistema di regole.

“Il diritto non è ma si fa” diceva Betti, ed infatti il nostro diritto privato non è più quello del codice del 1942 in quanto, come felicemente osservato, molti degli istituti tradizionali vanno fra l’altro ora declinati al plurale per mutazione interna della rispettiva nozione socio economica, così ora esistono le proprietà, le famiglie e così via. E una ulteriore difficoltà è data per il giudice dall’affermarsi dell’idea di bilanciamento e di prevedibilità anche delle conseguenze economiche dell’intervento giudiziario. Il giudice deve darsi carico del costo che le sue decisioni hanno sulla finanza, sul mercato, sul mondo del lavoro, deve calibrare i modi del suo intervento. Decidere è sempre applicare il diritto? Fino a che punto le esigenze dell’economia legittimano la compressione dei diritti, come sembra puntualmente avvenire in occasione dei periodi di crisi economica? Questi sono alcuni degli interrogativi cui si cercherà di dare una risposta nella prima parte di questa giornata, per la cui

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realizzazione mi corre l’obbligo di rivolgere un particolare ringraziamento ai colleghi dell’Ufficio studi del Consiglio Superiore della Magistratura, che vi hanno dato un formidabile contributo di competenza e di intelligenza, alla dottoressa Caterina Bocchino, che vi ha contribuito con la sua appassionata opera di organizzazione e coordinamento, e a tutta la struttura dell’Ufficio studi, oltre che ovviamente alla Sesta Commissione, sotto la cui egida si svolge quest’incontro.

Nella seconda parte della giornata si affronteranno più specificamente nella tavola rotonda le problematiche ordinamentali afferenti al ruolo del giudice civile prendendo a spunto di riflessione alcune delle più significative realtà giudiziarie italiane: Milano, Roma e Napoli. Seguirà un dibattito al quale ci auguriamo di poter lasciare uno spazio adeguato al fine di un proficuo scambio di esperienze giudiziarie e di stimoli alla riflessione.

Vi ringrazio e passo la parola al Presidente Legnini, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per un indirizzo di saluto.

On.le Giovanni LEGNINI, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura – Grazie buongiorno a tutti, saluto il Presidente Grossi innanzitutto, tutte le autorità, voi magistrati tutti, e vi rivolgo un caloroso saluto e un ringraziamento per la presenza così nutrita a questo evento che mi onoro di introdurre, un convegno voluto dal Consiglio Superiore della Magistratura che vuole rappresentare un momento di riflessione su uno degli snodi cruciali del nostro tempo, quello dei rapporti tra decisione giudiziaria nel settore civile e sistema economico passando attraverso la ridefinizione del ruolo del giudice nell'ordinamento. Ringrazio innanzitutto particolarmente la Presidente Maria Rosaria San Giorgio, che ha fortemente voluto questo evento e ne ha tracciato già da subito i profili essenziali di contenuto, come pure rinnovo la mia gratitudine al Presidente Canzio e al Procuratore Generale Ciccolo, che hanno aderito con entusiasmo a questa iniziativa e che dopo di me porteranno il loro saluto insieme al Presidente Luca Palamara, Presidente della Sesta Commissione.

Vi è condivisa consapevolezza che confronti come quelli di oggi sono destinati tra l'altro ad intensificare il dibattito sulla funzione nomofilattica che la Costituzione assegna alla Suprema Corte di Cassazione, e certamente il Presidente Canzio ce ne darà conto. Un ringraziamento sentito consentitemi di riformularlo però in particolare al Presidente Grossi, che, prima nella veste di giudice costituzionale e poi di Presidente della Corte, offre e sta offrendo sempre più un alto magistero alla cultura giuridica italiana, così come ringrazio anch' io i magistrati dell'Ufficio studi che hanno dato un contributo così rilevante all'organizzazione di questa giornata, come già diceva il Presidente Maria Rosaria San Giorgio. Il Presidente Grossi da storico del diritto è già riuscito in un' impresa a mio modo di vedere

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notevole: quella di aver saputo proiettare la ricostruzione diacronica del diritto moderno al cuore dell'attualità, un'operazione a cui non molti sono riusciti in quel tratto di cammino che lui stesso ha voluto nominare pos-moderno. Le originali e profonde riflessioni che è andato sviluppando nel corso della sua attività di studioso del diritto e poi nell'esercizio della funzione di giudice delle leggi, costituiscono lo sviluppo migliore di quella lungimirante affermazione di Tullio Ascarelli il quale nel lontano 1959 ebbe a rilevare che “Il diritto non è mai un dato ma una continua creazione della quale è continuo collaboratore l’interprete, e così ogni consociato, ed appunto perciò vive nella storia ed anzi con la storia”. Si tratta di una consapevolezza che ha accompagnato i decenni della crisi della codificazione, particolarmente accentuata nel tempo che viviamo, e soprattutto è cresciuta con l’irrompere dell’esigenza di un nuovo ordine orientato alla valorizzazione della nomofilachia e del dialogo tra le Corti anche sovranazionali. Sono questi due fronti fondamentali su cui la riflessione necessita di essere coltivata, così come occorre soffermarsi sulle tendenze indotte dall’affermarsi di nuove dinamiche sociali, economiche e di comunicazione. Degli effetti di simili fenomeni sulla giustizia civile e sul rapporto tra il diritto dei privati e l’andamento dell’economia, sulla valutazione dei modelli giurisprudenziali si discuterà oggi grazie alle relazioni di illustri interventori, tutti quelli che seguiranno alla prolusione del Presidente Grossi.

Mi limito in questo saluto introduttivo a proporre sintetiche riflessioni che alla luce di quello che subito dirò incidono sulla trasformazione delle funzioni consiliari di fronte ai dirompenti cambiamenti del tempo che viviamo, la stratificazione del sistema delle fonti di produzione del diritto specie con l’irruzione nello scenario del diritto vivente europeo della globalizzazione giuridica “e della rivincita dei fatti economici sul diritto”, cito testualmente il professor Grossi nel suo bellissimo e recente volume Ritorno al diritto, non può non determinare effetti rilevanti sulla giurisdizione e conseguenti riflessi che non esito a ritenere vasti e profondi sull’esercizio delle funzioni proprie del Consiglio. Il tema dell’incertezza del diritto e della necessità del recupero della prevedibilità della risposta giudiziaria è presente, e non da oggi, nel dibattito tra gli studiosi del diritto civile e sotto forme nuove rispetto al passato anche nella stessa teoria generale. La ricerca di ancore di certezza che rendano pronosticabili tempi e risultati delle controversie tra singoli è infatti inestricabilmente connessa con il ruolo dell’ordine giudiziario nel sistema e con lo sgretolarsi o l’indebolirsi delle usuali categorie giuridiche del diritto continentale su cui si sono formate generazioni di giuristi. Si ripropone così l’antica e mai risolta questione dell’effettività, considerata quale relazione tra il diritto e il divenire dei fatti, quale rapporto tra il fluire degli accadimenti sociali, politici ed economici e le norme volte a regolarli, essa rappresenta così un fondamentale predicato di ogni ordinamento costituzionale e la crisi della funzione

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legislativa, per certi versi l’affievolimento della forza dalla rappresentanza parlamentare da più parti evidenziata, è divenuta nel tempo determinante ed accresce la percezione di un ampliamento dell’attività interpretativa del giudice, specie di fronte al vorticoso evolvere dei mercati e al crescente peso dei soggetti economici che agiscono su scala globale. D’altronde la forza del mercato globalizzato costituisce una delle principali cause della debolezza degli impianti legislativi nazionali e costringe il giudice nella sua attività interpretativa e adeguatrice a dialogare direttamente con le vicende economiche, a tenerne nel debito conto gli effetti. In altre parole l’interprete più che applicare semplicemente il diritto al fatto - è stato detto da autorevoli studiosi - spesso si trova a dover mediare pur nell’irrinunciabile funzione dell’applicazione del diritto positivo alla fattispecie che gli è sottoposta tra le novità complessità dei fatti e le norme che faticano a contenerle, il che segna, come è stato sostenuto da più parti, il progressivo superamento dell’antico modello di giudice quale mera bocca della legge.

Vengo quindi a proporvi, e lo faccio qui per la prima volta sia pur in modo sintetico e pienamente consapevole che ciò richiederebbe ben altri approfondimenti, vengo a proporvi di individuare un filo conduttore tra questo tema dei nuovi e diversi spazi dell’interpretazione giudiziaria e l’evolvere delle funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Occorre sul punto innanzitutto domandarsi come si debba intendere in questo nuovo scenario la garanzia di autonomia e indipendenza del magistrato, e non è difficile concordare sul fatto che autonomia ed indipendenza, intese quali terzietà di fronte alle parti, oggi si declinano non più solo in chiave difensiva ovvero quale argine alle immissioni di influenze esterne nella purezza del giudizio, tali valori costituzionali possono invece leggersi come capacità di governare la complessità degli interessi e dei valori connessi alla controversia. Si tratta dunque di nodi problematici che richiedono ancor più che nel passato preparazione, cura della complessità della funzione, consapevolezza del ruolo del giudice e dell’istituzione giudiziaria nell’ambito dell’economia dei conflitti, capacità gestionali non inferiori al sapere giuridico. Si spiega così perché il lavoro consiliare su organizzazione giudiziaria (su cui stiamo investendo molto), dirigenza (su cui stiamo investendo molto), valutazione di professionalità (il lavoro è appena iniziato), indirizzi formativi (con l’apporto prezioso e insostituibile dalla Scuola Superiore della Magistratura), assuma oggi una valenza in parte nuova, certamente diversa e più complessa che nel passato, ed è avvertita sempre più l’esigenza di offrire al giudice strumenti adatti per affrontare le nuove sfide dell’interpretazione attraverso la definizione di modelli virtuosi, la diffusione di pratiche organizzative dagli effetti benefici, il confronto con altre culture e saperi.

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Per conseguire il recupero di efficienza all’organizzazione giudiziaria la formazione e le competenze specialistiche del giudice assumono oggi un peso ben maggiore che nel passato, infatti la necessità di navigare spesso in mare aperto, e voi lo sapete bene, implica riconoscere che è venuto il tempo del confronto anche per il Consiglio Superiore così da allontanare i rischi derivanti dalle banalizzazioni insite in vecchie tesi, alcune delle quali vedevano nelle linee guida del diritto mite, volte a favorire ad esempio la buona organizzazione degli uffici giudiziari, un rischio di violazione dell’autonomia del singolo giudice e persino uno stravolgimento della sua funzione. Non è così, a dimostrarlo si registrano alcuni mutamenti culturali che si rivelano sempre più preziosi, ad esempio lo strumento dell’organizzazione su base tabellare non è più letto al servizio del solo principio della precostituzione del giudice naturale ai sensi l’articolo 25 della Costituzione, esso assurge sempre di più anche a strumento per perseguire l’efficienza e la tempestività della decisione, dunque a vero e proprio pilastro dell’organizzazione degli uffici giudiziari. E non si può non accennare ad ulteriori svolte culturale come ad esempio - non posso che andare per titoli - al progetto organizzativo come parametro incidente nel processo di conferimento degli incarichi direttivi e alla valutazione delle prestazioni ottenute alla guida degli uffici giudiziari quale cardine per la conferma nell’esercizio delle funzioni dirigenziali.

In definitiva vi è bisogno del contributo dalla cultura organizzativa per garantire una giurisprudenza vigile e ragionevolmente tempestiva cosicché le innovazioni proposte dal Consiglio siano percepite in conformità alle esigenze poste dalla nuova realtà tanto da richiedere progressivi adattamenti sui quali lavoriamo quotidianamente. E questo è il contributo che il Consiglio Superiore ha il dovere di offrire ai magistrati e al quotidiano esercizio della giurisdizione, non a caso il Capo dello Stato, cui va il mio ringraziamento personale e sentito per la scrupolosa guida del Consiglio cui soprintende, ha di recente proprio all’inaugurazione dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura ricordato che “I provvedimenti adottati dalla magistratura” - cito testualmente - “incidono oltre che sulle persone sulla realtà sociale e spesso intervengono in situazioni complesse ed a volte drammatiche in cui la decisione giudiziaria è l’ultima opportunità, a volte dopo inadempienze o negligenze di altre autorità. Per questo l’intervento dalla magistratura non è mai privo di conseguenze” - ha aggiunto il Capo dello Stato - “e la valutazione delle conseguenze del proprio agire non può essere certo intesa in alcun modo come un freno o un limite all’azione giudiziaria rispetto alla complessità delle circostanze”. Dunque di fronte ai contorni di questo gravoso compito ed al fine di favorire lo sviluppo delle attitudini necessarie nel giudice il Consiglio evolve nella direzione di fornire modelli organizzativi certo non vincolanti ma neanche astratti ed indifferenziati. Anche così si contribuisce a

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ridurre il debito di giustizia che grava sul nostro Paese e ad incrementare il tasso di civiltà culturale e giuridica. Si tratta di un auspicio e al contempo della promessa di profondere ogni energia a disposizione perché questo obiettivo possa essere raggiunto. Confronti e riflessioni come quelle di oggi costituiscono dunque non soltanto un contributo molto importante per la crescita di consapevolezza delle sfide nuove che la magistratura italiana si trova a dover affrontare ma anche, a ben riflettere, un sostegno ad un più moderno ed incisivo esercizio di quelle funzioni così rilevanti che la Carta Costituzionale ha voluto affidare al Consiglio Superiore della Magistratura. Anche per queste ragioni vi ringrazio ancora e vi auguro per davvero buon lavoro.

Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Grazie Presidente. Primo Presidente della Corte di Cassazione dottor Canzio.

Dott. Giovanni CANZIO, Primo Presidente della Corte di Cassazione – Un indirizzo di saluto che precede la lectio magistralis del professor Grossi deve risolversi soltanto nel tentativo di offrire delle riflessioni all’attenzione degli studiosi, dei colleghi, dei magistrati, degli avvocati che sono oggi qui presenti, quindi vorrei solo svolgere alcune riflessioni di tipo quasi preliminare. Mio convincimento è che il mutamento di paradigma che viene segnalato da quello che è chiamato il postmodernissimo prima di tipo filosofico, e penso a Rapporto sul sapere di Lyotard, o di tipo giuridico, il postmodernismo dei movimenti legali, questo mutamento di paradigma a mio parere in realtà non concerne il ruolo del giudice nella società contemporanea in quanto titolare di funzioni legate alla interpretazione e all’ermeneutica in senso stretto, cioè quello che viene definito la dissoluzione di una paradigma tradizionale, cioè quello della unità e della semplicità a fronte della postmoderna o posmoderna complessità o molteplicità in realtà non mi convince, non mi convince perché il diritto giurisprudenziale ha in sé nel suo ubi consistam la fluidità, la discontinuità, e di ciò ne parlavano - è stato citato giustamente Betti - ne parlavano già i nostri padri, i nostri grandi giuristi, pensiamo al continuo/discontinuo di Pugliatti, di cui pure ha scritto pagine memorabili il professor Grossi, pensiamo al diritto come esperienza di Capogrossi, pensiamo a La giurisprudenza come scienza pratica di Betti, pensiamo a Tullio Ascarelli. La giurisprudenza come scienza pratica dà per scontata la mobilità dei concetti giuridici, la mobilità del giuridico in relazione al divenire e al fluire di tipo economico e sociale. Cioè questa purezza isolazionista del diritto e in particolare diritto civile in realtà probabilmente c'è stata ma è stata vissuta in alcuni ambiti ma non in tutti gli ambiti della ricerca, della dottrina o della giurisprudenza. Il giudice italiano probabilmente è postmoderno fin dai primi anni

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Sessanta e Settanta perché la sua opera di mediazione tra la legge, il principio, il precetto, l’astrattezza e tutta la carica valoriale del fatto il giudice italiano l’ha fatta e l’ha saputo fare, e l’ha saputo fare in anni difficili, in anni in cui non era facilmente esportabile questo tipo di interpretazione che allora veniva chiamata di tipo evolutivo e che in realtà non era altro che un’interpretazione, un’ermeneutica legata ai nuovi valori costituzionali e all’acquisizione anche di valori legati al progresso dell’economia e della società. La disgregazione e la frammentazione dei concetti in tema di lavoro, in tema di famiglia, in tema di beni, in realtà è passata attraverso la giurisprudenza del giudice italiano. La stessa tensione che oggi viene molto evidenziata tra i diritti e le regole del mercato il giudice l’ha mediata, l’ha mediata nelle prospettive di volta in volta di quei valori, di quei grandi valori, metavalori, della salute, dell’ambiente, dell’impresa, del lavoro. E parlo di tutti i giudici, dai giudici inferiori, dal pretore di allora che aveva una carica importante, ha avuto una carica direi quasi dirompente nell’accentuazione di questa opera di mediazione e di adeguamento, fino alla Corte di Cassazione con sentenze memorabili che hanno fatto storia. Cosa voglio dire? Se voi leggete le ultime opere dei grandi civilisti come La crisi della fattispecie di Natalino Irti, Le categorie del diritto civile di Lipari o Eclissi del diritto civile di Castronovo, l’introduzione ai nuovi volumi sui contratti di Enzo Rocco, in cui si evidenzia questo irrompere del giudice anche in quello che era il recinto sacro di una volta, cioè l’autonomia negoziale delle parti, in queste prospettive così plurali rispetto a quelle unitarie di una volta, in realtà evidenziano uno sconcerto ma lo sconcerto nasce soprattutto dal cedimento di una categoria più generale secondo me che è quella che noi chiamiamo la certezza del diritto, pure intesa in senso lato, in senso dinamico ma comunque come un valore. Il mutamento di paradigma non riguarda tanto secondo me il ruolo del giudice, come una volta mero applicatore oggi creatore o parzialmente creatore o conformante della norma, perché questo il giudice l’ha sempre fatto e l’ha fatto anche nell’antichità, non solo i giudici italiani. E cioè il giudice sillogista io non l’ho conosciuto, devo dire, sinceramente nei miei pur lunghissimi anni, ormai quasi cinquant’anni, in cui faccio il giudice. Io personalmente non sono mai stato un giudice sillogista e vi assicuro che molti miei colleghi - ho fatto sempre collegio, non sono stato mai monocratico - non ho conosciuto giudici sillogisti. Li ho conosciuti nella sulla carta, nei libri. E neppure ho conosciuto giudici legislatori o creatori di per sé, ho conosciuto giudici che si piegavano di volta in volta di fronte al caso concreto e provavano a mediare l’astrattezza della norma per renderla adeguata alla fattispecie che veniva sottoposta al loro esame e per trovare attraverso i valori e le cariche valoriali le risposte più adeguate da dare a quella fattispecie. E neppure mi convince il tentativo di costruire oggi il giudice come un giudice che debba necessariamente essere, come si dice, consequenzialista, cioè che debba utilizzare l’argomento consequenzialista come quello

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risolutore della controversia, cioè orientata solo alle conseguenze pratiche - quali sono le conseguenze pratiche nel mio agire sull’intero tessuto socio economico - perché comunque anche in questo caso anche l’argomento consequenzialista deve fare i conti coi metavalori e deve fare i conti con l’opera di intermediazione ermeneutica dell’interprete che è il giudice. Cosa intendo dire? Che secondo me se si deve parlare di mutamento di paradigma il mutamento di paradigma è più profondo, riguarda secondo me soprattutto l’alterazione del sistema delle fonti con tutto quello che ne consegue per quanto riguarda, quello sì, la posizione del giudice nella società cosiddetta postmoderna, e cioè la legittimazione del giudice, il suo vincolo alla legge e quello che ne consegue in tema di sua indipendenza e autonomia. Il sistema delle fonti e disgregato, è plurale, è troppo plurale. L’invito al dialogo fra le Corti in alcuni momenti assume la sembianza del confronto tra le Corti in taluni casi addirittura muscolare. Questo confronto se non è intessuto da una vera volontà di dialogo lascia il pluralismo e relativismo troppo aperto di fronte a una società civile globalizzata complessa e a fattispecie sempre più complesse, e di fronte a questa pluralità delle fonti sfugge il legame costituzionalmente preteso dall’articolo 101, comma secondo, della Costituzione del giudice vincolato esclusivamente alla legge. Se la domanda è: dov’è la legalità? Dov’è la legge? Cassese parla di tribunali di Babele e voi capite qual è la difficoltà di individuare l’ubi consistam oggi del giudice nella società che si dice postmoderna. La complessità delle vicende, complessità e pluralità delle fonti, questo pluralismo che diventa un pluralismo poi anche valoriale eziologico è chiaro che rende instabile l’agire dell’interprete e allora siamo sprovvisti di antidoti? Siamo privi di qualsiasi supporto per far fronte a queste vicende così clamorosamente difficili da affrontare? Io dico di no, gli interpreti i giudici li hanno sempre fatti e dobbiamo continuare a farlo, non possiamo accettare che il post modernismo significhi liquidità o deriva nichilistica verso il caos. Io credo che abbiamo dei punti di riferimento, uno, si è detto, è il dialogo fra le Corti, io spero non sia soltanto un confronto di tipo muscolare ma sia un dialogo serio che lavori sulle carte, su quelle che sono le carte dei diritti fondamentali, ma anche sulla nomofilachia. Io credo molto nell’istituto nomofilattico e credo perché il precedente ha un senso proprio nel fluire e nel divenire della storia del diritto. Non sono innamorato di una nomofilachia statica, come vi dicevo non ho mai fatto il giudice sillogistico e non mi interessa. La nomofilachia certo che va intesa in senso dinamico, ma io ricordo le parole bellissime che risalgono ormai a quarant’anni fa, quindi forse prima ancora che Lyotard scrivesse Rapporto sul sapere sul postmoderno, di Pino Borrè che diceva “La , amici miei,” - in un incontro di studi che poi riversò in un suo studio interessante -

“non è la gabbia della ragione” - diceva testualmente - “non è un valore assoluto ma metodologico”, sta a significare il dovere funzionale di tenere ferma, di mantenere la soluzione ragionevolmente raggiunta

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finché non ne venga fuori una ancora più ragionevole, più corrispondente all’evoluzione del costume, della storia, dell’economia, della società, quindi non una gabbia della ragione, quindi sia considerata dinamica ma che ci sia è fondamentale perché proviamo a rovesciare adesso il problema, guardiamo dalla parte dell’utente della giustizia, il cittadino. Natalino Irti ha scritto proprio un mese o un paio di mesi fa un testo bellissimo che se non sbaglio è intitolato Un diritto incalcolabile, io lo rovescerei e direi ma veramente è incalcolabile il diritto? Certo non è esatto, non è scienza matematica ma è scienza applicata sì, se è scienza applicata all’utente, il cittadino ha diritto alla prevedibilità? Non vogliamo usare il termine certezza del diritto che forse appartiene più al nostro mondo ma io mi pongo come cittadino, la prevedibilità, la calcolabilità delle conseguenze del mio agire a fronte di un precetto è un bene, è un valore oppure no? Oppure la liquidità e la complessità postmoderna deve sciogliere in termini di mobilità assolutamente insondabile incalcolabile e imprevedibile questo agire? Allora se è un bene probabilmente è un bene anche la nomofilachia, è un bene anche il precedente. Però, vedete, sempre nello sviluppo di queste mie riflessioni di cui non voglio farne un sistema però occorre proseguire nella ricerca su questo terreno perché è in gioco il ruolo del giudice ma, attenzione, è in gioco la formazione del giudice e non aggiungo altro a quello che ha detto il Presidente Legnini che ha colto secondo me nel segno: la formazione è l’organizzazione del lavoro dei giudici. È una scienza applicata, ebbene occorre essere formati per una scienza applicata, ma fino in fondo, fino in fondo e non in superficie, e occorre forse più collegialità nelle decisioni e non il giudice monade. Io ho vissuto la collegialità fino in fondo e vi dico che è una cosa bellissima, ci siamo persi qualcosa con la collegialità. Il giudice monocratico di fronte a questa pluralità a questa complessità è solo, implementiamo le ragioni di collegialità. E infine il problema della legittimazione, chi controlla? Il controllo democratico sulla giurisdizione come avviene nel momento in cui il vincolo alla legge - 101, comma secondo - si slabbra? E lì si fonda l’indipendenza e l’autonomia dalla magistratura, e allora come rifondare una legittimazione che abbia forza, potenza e che dia ragione dell’autonomia e dell’indipendenza senza un vincolo stretto alla legge in questo slabbrarsi delle fonti e moltiplicarsi delle fonti? Qual è il controllo democratico? Il primo controllo è il ceto dei giuristi, io credo che il ceto dei giuristi debba impegnarsi di più nel controllo democratico delle decisioni dei giudici, ma c'è anche il controllo della critica democratica dei cittadini, in quali forme deve avvenire. Non lo sappiamo ancora, è tutto da scoprire il 101, comma secondo, deve essere ancora inverato per questa parte nel mutamento di paradigma del postmoderno ma certo è che la legittimazione del giudice oggi può avere una sua forza soltanto se intessuta di forte professionalità di saperi e di etica, l’etica del limite, l’umiltà nella decisione. Perché non mi spaventa tutto questo, e invito soprattutto i giovani magistrati a guardare con

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fiducia e con coraggio al futuro? Perché noi siamo contemporanei anche se sono trascorsi tremila anni, duemilacinquecento anni, siamo contemporanei degli antichi greci e dei romani, e queste risposte possiamo mutuarle anche dalla sapienza di allora. Vorrei soltanto ricordare che quando Roma cominciò a diventare una Roma imperiale nel Mediterraneo e ad affrontare nella sua città che originariamente era una piccola città repubblicana il problema dei traffici del Mediterraneo, dei negozi con tutti quanti i mercanti e i mercanti del Mediterraneo, inventò la figura del praetor peregrinus perché l’antica formularità del diritto arcaico aveva bisogno di confrontarsi con la nuova lex mercatoria, quello di cui parliamo oggi, e trovò l’aequitas, la bona fides e inventò nuove figure negoziali immettendole come sangue nuovo nella vicenda straordinaria della sapienza giuridica della storia del diritto romano e quindi riuscì a ricreare e a rigenerare in forme nuove questa sapienza. Però, e veramente concludo adesso, guardate che il praetor urbanus sul praetor peregrinus però all’inizio dell’anno o recepiva l’editto pretorio del precedente pretore o lo riscriveva o aggiungeva delle cose. Questo che cosa significa? Che la tavola dei valori non possiamo inventarla noi tutti i giorni, una tavola dei valori ci vuole, che sia autoregolamentata, autogestita non importa. Perché lo dico? Perché quando parliamo di prevedibilità e calcolabilità dobbiamo essere noi innanzitutto gli autoregolatori di questa prevedibilità e di questa calcolabilità, il praetor urbanus o peregrinus si muoveva alla luce di un editto in cui con un serio self restraint diceva fin dall’inizio ai cittadini e agli stranieri che frequentavano la città di Roma “I vostri traffici saranno regolati da queste regole, queste sono le legis actiones che vi spettano”. Grazie.

Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Mi scuso per avere definito semplicemente indirizzo di saluto questa amplissima e sapientissima relazione per la quale ringrazio il Presidente Canzio e passo la parola al Procuratore Generale della Cassazione, dottor Ciccolo.

Dott. Pasquale CICCOLO, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione – Il mio spazio sarà limitato dopo questi interventi, però vorrei fare una premessa. Le parole del Presidente Canzio mi confortano in una considerazione che da tempo faccio, cioè il nuovo ruolo del giudice e in particolare del giudice di Cassazione. Ogni volta che vengo invitato a fare un saluto ai consiglieri di Cassazione di nuova nomina che iniziano la loro attività nella Corte io dico proprio quello che oggi ha ricordato il Presidente, dico “Ricordatevi che oggi voi non fate giurisprudenza soltanto, fate diritto perché il diritto si crea nelle aule giudiziarie e soprattutto nelle aule giudiziarie della Corte di Cassazione. Questo vi impone un obbligo particolare, un’attenzione particolare”. Il Presidente parlava

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di umiltà e anch’io ho parlato con loro di umiltà, “Dovete essere umili nei confronti della norma che dovete applicare, la fattispecie che dovete giudicare non deve essere l’occasione per le vostre elucubrazioni intellettuali ma deve essere lo strumento per rendere giustizia al cittadino, e la giustizia si rende soprattutto garantendo la prevedibilità e la certezza delle situazioni giuridiche”. Più volte mi son trovato a polemizzare anche dinanzi alle Sezioni Unite civili - non nell’ultima occasione in cui mi son trovato ad intervenire come rappresentante della Procura in un collegio presieduto dal Primo Presidente, ma in passato - a dover contestare la tendenza non infrequente di mutare giurisprudenza. Ho dovuto ricordare più volte che la certezza delle situazioni giuridiche è una garanzia per tutti i cittadini.

La stessa Corte dei diritti dell’uomo lo ha più volte ribadito. Incontrando gli avvocati in occasione di una loro cerimonia ho detto che gli avvocati per primi devono pretendere la garanzia della prevedibilità e della certezza perché anche l’avvocato più corretto quando si trova davanti il cliente che gli chiede

“Quante possibilità abbiamo di vincere o di perdere questa causa?” se vi è un’incertezza giurisprudenziale non potrà dirgli “Facciamo la causa” o “Non facciamo la causa” perché il dovere professionale glielo vieta. Chiudo questa considerazione che mi trova quindi in linea col Presidente.

Dirò poche parole, ovviamente innanzitutto un grande apprezzamento per questo convegno, convegno che introduce un tema di grande attualità, un tema che sta nell’ombra, un tema sfuggente che non emerge mai nella sua evidenza, e sono certo che oggi la relazione del Presidente Grossi darà un contributo direi fondamentale ad una chiarificazione di questi temi. Farò qualche breve riflessione ricordando che il dibattito sulla dimensione economica del diritto è antico ma negli anni più recenti ha assunto toni nuovi. Alle origini delle codificazioni tale dimensione sembrava connotare quasi esclusivamente il diritto commerciale, sistema staccato dalle realtà nazionali e relativo alla società economica tra virgolette, separato dalla società civile. Il Code de commerce fu infatti salutato quale fonte di un diritto universale aggregato a un’entità puramente economica, il mercato, in reale continuità con il diritto commerciato e formato dei Comuni italiani che nel tardo Medioevo ebbe un’applicazione sostanzialmente estesa a tutta l’area europea i cui caratteri tipici sono stati identificati nella sua uniformità e continuità storica caratteristica propria del ceto commerciale che è, come a dire, senza tempo né patria, lo diceva Paul Smith. Caduto il mito della separazione tra diritto ed economia, divenuta chiara l’incidenza della condizione economica su istituti del diritto civile da essa apparentemente lontani, è prevalsa alla metà dello scorso secolo la teoria dell’intervento pubblico nell’economia, del mercato regolato dalla legge, dei limiti all’autonomia privata e nell’interesse della legge, secondo principi alcuni dei quali recepiti anche dalla Costituzione. La globalizzazione, il convincimento che l’economia ha la capacità di esprimere sue proprie regole sembrano aver reso

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vincente l’idea che le norme giuridiche devono essere dettate e applicate avendo riguardo agli effetti economici che ne derivano e ai comportamenti di convenienza che questi possono ingenerare. Inoltre, per ragioni alle quali non posso neppure accennare, è accaduto che ad un sistema caratterizzato da disposizioni aventi sistemazioni organiche e compiute, i codici, ispirate alla completa identificazione del diritto alla legge, è seguita l’epoca moderna che è quella che stiamo vivendo. I profili tipizzanti la post-modernità giuridica sono l’elasticità e la fattualità, in essa primeggia la figura dell’interprete, rileva il piano dei fatti che significativamente in passato connotava proprio il settore una volta tipico del diritto dell’economia, il diritto commerciale, perché - come si diceva - l’impegno del giuscommercialista non si arrestava a livello legale formale a un mondo di domande cartacee.

Nell’epoca postmoderna il giudice è divenuto un attivo cooperatore della creazione del sistema normativo, come è stato ricordato nei precedenti interventi, da ciò in un contesto che ha esaltato le conseguenze economiche anche di sistema delle decisioni delle controversie tra singoli, per restare nell’ambito civilistico, derivano una molteplicità di questioni di diritto sostanziale e processuale e che involgono anche problemi di ordine costituzionale e concernenti il rapporto tra ordinamenti nazionale e sovranazionale. Tra queste - per esigenze di tempo - posso far cenno ad una sola, certo in ragione della specificità della presente sede e che di necessità posso solo prospettare in forma interrogativa proponendola come uno dei possibili temi del dibattito. La premessa della questione è che nell’attuale fase dell’evoluzione della società in un ordinamento non più chiuso in confini nazionali ma multilivello, nel quale le norme giuridiche vanno applicate anche avendo riguardo agli effetti economici, la dimensione economica del diritto esige un giudice professionalmente attrezzato a comprendere sia i presupposti di fatto sia le conseguenze dell’intervento che gli viene richiesto. Tale premessa apre una serie di interrogativi: cosa significa oggi professionalità del giudice? Professionalità vuol dire specializzazione intesa come possesso di un complesso di nozioni tecniche in una determinata materia secondo il modello weberiano del funzionario portatore di un sapere tecnico che lo legittima, o significa qualcosa di più e di diverso? Il compito di selezionare e bilanciare gli interessi mediante l’applicazione di categorie quali la ragionevolezza è compatibile con la figura del magistrato burocratizzato, e in caso affermativo richiede che si proceda in ogni caso ad un profondo ripensamento dei meccanismi di selezione e di incentivazione della professionalità e che inoltre tenga conto della nuova dimensione transnazionale dell’ordinamento per l’essere oggi il giudice comune, tra l’altro, il primo il giudice comunitario? A legislazione invariata può il Consiglio, ed entro quali margini, garantire la specializzazione anche quanto all’acquisizione e valorizzazione del possesso di conoscenze non strettamente giuridiche imprescindibile per dare risposte efficaci ed immediate alle nuove

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esigenze? Esistono, e se sì quali sono, limiti derivanti dai principi costituzionali che governano la magistratura che si frappongono ad una concezione della specializzazione suscettibile di comportare una frammentazione dell’ordine giudiziario se non una sorta di separazione all’interno dello stesso?

Occorre o meno realizzare un equilibrio fra la specializzazione e l’esigenza di conservare l’unità dall’ordinamento per garantire i principi di eguaglianza, solidarietà sociale e gli altri valori fondanti della nostra Costituzione? E questi, e quali, possono essere messi in crisi da una enfatizzazione delle specializzazioni? Sono questi solo alcuni degli interrogativi che il tema della dimensione economica nel diritto pone con specifico riguardo alla funzione del CSM. Il Consiglio non può sottrarsi a questi interrogativi che deve affrontare per contribuire nell’osservanza dei compiti e dei limiti posti dalla Costituzione a garantire che la magistratura sia capace di offrire pronte e corrette risposte ai nuovi bisogni della società postmoderna.

Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Grazie signor Procuratore. Il Consigliere Luca Palamara, Presidente della Sesta Commissione del Consiglio.

Cons. Luca PALAMARA, Presidente della Sesta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura – Buongiorno a tutti, ovviamente limiterò questo mio intervento ad un breve indirizzo di saluto cercando di svolgere solo alcune riflessioni brevi su quelli che sono stati i temi che in maniera dotta, ancor prima di ascoltare relazione del Presidente Grossi, sono stati toccati. Sarò sintetico, affronterò in primo luogo il ruolo del giudice nella modernità per poi soffermarmi brevemente su quello che deve essere il ruolo e l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura ed in particolare, per la quota di riferimento, quello della Sesta Commissione, dedicata appunto all’approfondimento dei temi e sui pareri e sulle iniziative legislative nonché sul tema della formazione e dei rapporti con la Scuola.

Io penso che un dato emerga in maniera molto chiara e netta, che è quello che il giudice della modernità non può arretrare nella tutela dei diritti, questo è il compito che oggi al giudice della modernità viene richiesto. La magistratura della modernità però deve essere in grado di realizzare l’opzione dello Stato a realizzare un triplice scopo: il primo, quello di registrare i cambiamenti; il secondo, quello di individuare i vecchi e i nuovi diritti; il terzo, quello di adeguare la sua azione verso l’interesse dei cittadini. Ma occorre soprattutto capire però, e questo è un dato che a me sembra sia emerso in maniera molto chiara dagli indirizzi di saluto e dalle relazioni che ci sono state in apertura, come conciliare la fedeltà alla legge e insieme rispondere alle domande di giustizia che cambiano

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prima che la legge sia in grado di registrare i cambiamenti. Concordo con quanto è stato detto e con un’interpretazione che non possiamo ritenere burocratica dell’articolo 101 della Costituzione, e concordo soprattutto sul valore fondamentale che ha l’importanza del precedente, non inteso però nell’ottica di una nomofilachia in senso statico ma in senso dinamico. Per evitare però che il giudice possa arretrare nella tutela dei diritti occorre che il Consiglio Superiore della Magistratura sia in grado di realizzare quel presidio all’autonomia e all’indipendenza nell’esercizio della giurisdizione che è quanto mai fondamentale nell’attuale momento storico che vive il Paese, e lo è di più anche sotto il profilo della formazione: la magistratura della modernità, se noi vogliamo esaltare la figura dell’interprete come ampiamente è stato evidenziato, presuppone che ci sia un forte impegno sul tema della formazione dei magistrati. La sfida della modernità passa proprio attraverso la capacità di saper dare al Paese dei magistrati che siano attrezzati professionalmente e siano in grado di registrare i cambiamenti ancor prima che gli stessi siano stati registrati dalla legge.

A breve sentiremo la relazione del Presidente Grossi, non me ne vorrà però se voglio richiamare e soffermare l’attenzione su alcuni spunti che il Presidente Grossi nella relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2015 ci ha offerto e che a me sembra possono costituire un’utile e fondamentale base di discussione. Dice il Presidente Grossi “Nell’esperienza costituzionale che stiamo vivendo la Corte sembra dunque sempre più assumere il ruolo non già di custode quasi museale di valori imbalsamati o immobilizzati in forme solenni ma di garante piuttosto di metodi logici intrinsecamente connotati anche sul piano etico che consentono a quei valori volta per volta tra stabilità e mutamento di essere riconosciuti nella loro attuale e concreta consistenza”. Sono spunti che io ritengo validi ovviamente nell’ambito di un concetto più ampio certamente riferibile all’intero universo giudiziario, e se il ruolo della magistratura passa attraverso la capacità di saper dare giudici attrezzati al Paese io voglio concludere queste mie riflessioni solo evidenziando la necessità che i giudici stessi per primi oggi reclamano un ordinamento che definisca in maniera credibile ed accettata il ruolo dei giudici. Per primi i giudici debbono essere indipendenti ma debbono legittimare l’indipendenza pretendendo processi credibili e comprensibili. I magistrati per primi debbono comprendere la necessità del ragionamento su tutto il loro superato assetto e l’inutilità di reazioni puramente sindacali che li renderebbero incomprensibili. Grazie.

Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Grazie Presidente Palamara. Il titolo del nostro incontro costituisce in un certo senso una rapina perché nasce da una scorribanda tra gli studi del professor Paolo Grossi, acuto interprete della

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dialettica moderno/postmoderno nel novecento giuridico, e mi spiace che non sia oggi tra noi per ragioni di salute il professore Alessio Zaccaria, autorevole componente laico di questo Consiglio e autore tra l’altro di un saggio sul diritto privato europeo appunto nell’epoca del postmoderno, che avrebbe sicuramente per così dire gustato in modo particolare la relazione del professor Grossi. Ma dunque in che cosa si sostanzia questa dicotomia moderno/postmoderno? È la contrapposizione tra la legge come manifestazione di volontà di un’autorità suprema, come comando del tutto insensibile alla fattualità socio economica, quindi come diritto voluto dall’alto, e la riscoperta della società nella sua multiformità e quindi di una giuridicità venata di pluralismo: l’uomo che preesiste allo Stato. Nel suo recente magnifico saggio Ritorno al diritto, già ricordato dal Presidente Legnini, il professor Grossi sottolinea la crisi dello Stato come produttore esclusivo del diritto e la crisi della legge come fonte collocata al vertice della scala gerarchica ponendo in rilievo la complessità del diritto in cui la legge, manifestazione di volontà del potere politico, è solo uno dei canali di produzione giuridica. Cogliere il diritto dal basso dal punto di vista della società chiamata a darsi un ordine in una visione dinamica coerente con i continui mutamenti della società. La parola al professor Grossi, grazie.

Prof. Paolo GROSSI, Presidente della Corte Costituzionale – Caro Vice Presidente, cari amici magistrati, intanto è doveroso e a me gradito un ringraziamento per l’onore che mi viene fatto. Questo invito è il segno che da parte del Consiglio Superiore della Magistratura si guarda con grande considerazione l’attività della Corte Costituzionale, la citazione ora fatta dal Presidente Palamara mi lusinga non poco. Vorrei però precisare il significato di questa mia presenza oggi qui ed è un significato molto rilevante, cioè è l’apprezzamento da parte del Presidente della Corte Costituzionale della operosità del CSM, una grande considerazione che vuole essere tangibilmente verificata dalla presenza mia e vedo con piacere da tre miei colleghi giudici costituzionali, una solidarietà, una collaborazione che deve sempre più investire i nostri due organismi. Grazie e procediamo insieme verso il prossimo futuro.

Direi che la consigliere San Giorgio forse vi ha già dato in sintesi quella che sarà la mia relazione, c'è un sottotitolo, il titolo lo sappiamo, “La dimensione economica del diritto nel pos- moderno”, sottotitolo “La funzione del giudice civile tra mercato e diritti”, quindi è chiaro che noi parliamo con lo sguardo ben appuntato sul giudice civile. Quando io ho letto il titolo mi sono piacevolmente sorpreso perché trovavo quell’aggettivo pos-moderno che io ho usato diverse volte negli ultimi anni, è un aggettivo un po’generico che può sembrare insoddisfacente ma che ha almeno un significato: puntualizza che cosa? Puntualizza un movimento, una transizione e anche una direzione di

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un diritto che lascia l’universo storico moderno e prosegue oltre, cioè pos-moderno vuol dire si lascia alle nostre spalle i valori o i disvalori o gli pseudo valori della modernità per cercarne di nuovi. Diritto moderno, questo diritto che si consolida pienamente con il momento giacobino della Rivoluzione francese e che continua per tutto il secolo diciannovesimo, contrassegnato da due qualità positive o negative a seconda del modo di vedere, statalismo e legalismo, lo Stato unico produttore del diritto, la manifestazione di volontà dello Stato, cioè la legge, unica vera fonte assorbente tutte le altre. È un diritto che nasce in alto e che si proietta su una società civile concepita come una piattaforma neutra, amorfa, passiva, un diritto che si contrassegna per tre caratteri, rigidità, generalità, fissità, tant’è vero che la testimonianza prima del diritto moderno sono i codici. I codici sono una novità assoluta a cominciare da quello napoleonico del 1804 per ripetersi nel Codice unitario italiano del 1865, al Codice attualmente vigente risalente al 1942. Allora il diritto sembrava che dovesse essere consegnato a due qualità essenziali, la astrattezza e la purezza, non per nulla è proprio in questo ambiente che matura quella pseudo verità, almeno pseudo verità per me, di una scienza giuridica come scienza pura, come scienza volutamente astratta che non si mescola con i fatti, i giuristi non devono mescolarsi con i fatti siano essi giuristi teorici o giuristi pratici, con i fatti si mescolerà soltanto il legislatore. Tutto questo a me che ho fatto lo storico del diritto per tanti anni prima di essere giudice costituzionale appare come un clamoroso riduzionismo giuridico con un risultato: si fa di tutto per devitalizzare i giuristi, non solo i giudici ma anche i maestri di diritto, cioè si devitalizzano i giuristi in quanto possessori di un sapere tecnico e pertanto personaggi pericolosi di fronte ai detentori del potere politico. Ai giuristi è un compito specifico che viene assegnato ed è il compito della esegesi. Esegesi è un termine di palese origine greca ma viene dal mondo della scritturistica sacra, dove è chiaro che colui che maneggia un testo che si ritiene sacro deve soltanto avere un sentimento di rispetto, di ossequio, non deve volere nulla rispetto a quel testo ma deve operare soltanto un’attività meramente conoscitiva. Trapiantare dal sacro al profano questa pseudo verità significa togliere al giurista una bocca aperta, una voce aperta, legargli mani e piedi. Tutto questo cambia nel secolo nuovo, il Novecento, secolo a mio avviso pos- moderno, ma un secolo che io intendo lungo perché lo stiamo ancora vivendo malgrado che da sedici anni noi lo abbiamo cronologicamente lasciato. È un secolo di grande transizione dove avviene un forte recupero che è un’autentica rivoluzione culturale per il mondo del diritto e per i giuristi, è il recupero della storicità del diritto, e per storicità, sia chiaro, intendo recupero della elasticità del diritto, che il diritto è ordinamento del corpo sociale e deve seguire necessariamente se non vuole diventare artificio il movimento, le mutazioni del corpo sociale. Recuperando storicità ed elasticità il diritto recupera anche il bene della attualità. Io credo che dobbiamo essere debitori di molto ad un nostro giurista

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italiano coltivatore del diritto pubblico positivo italiano, e cioè Santi Romano. All’inizio del secolo in una sua famosa prolusione pisana, 1909, egli giovane costituzionalista e giovane professore di diritto costituzionale poteva scegliere un tema tecnico paludatissimo, sceglie un tema scandaloso che però per lui, osservatore vigile del proprio tempo, è un tema scottante, ha bisogno di parlarci sopra, e questo tema è lo Stato moderno e la sua crisi. Ecco, Romano individua l’inizio del pos-moderno, l’inizio del nuovo secolo all’insegna di una crisi dello Stato, crisi del ruolo dello Stato rispetto alla società civile.

Sarà semplice per Romano dopo nove anni alla fine della Prima Guerra mondiale nel 1918 scrivere quel breviario di teoria giuridica che è L’ordinamento giuridico, il diritto che prima di essere norma è ordinamento, cioè deve fare i conti con la società civile, deve uniformarsi alla società civile, un diritto che deve innanzitutto provenire dal basso e ordinare al basso. Con Romano il diritto si apre alla società, è nuovo anche il modo con cui si viene a riproporre un vecchio problema, un vecchio nodo della scienza giuridica, il problema dell’equità. L’equità in mano al giudice significa arbitrio, l’equità deve essere consegnata soltanto nelle mani del legislatore, e questo ancora a fine Ottocento ce lo comunica Vittorio Scialoja, un grande giurista italiano, il quale in una prolusione nella Università di Camerino affronta il tema e lo risolve con molta semplicità: l’equità è ottima, ma è ottima soltanto nelle mani del legislatore, al giudice deve essere proibita ogni forma di equità perché questa equità nelle mani del giudice, che è all’interno della società civile, che è sulla trincea, che ha davanti a sé un attore e un convenuto, rischia di diventare arbitrio. Però durante il secolo, dopo la prima guerra mondiale, noi vediamo la dottrina giuridica che comincia ad assumere da parte dei suoi pensatori più vigilanti, più attenti al movimento che si profila di fronte, di fronte a questi giuristi vigilanti l’equità viene presa sotto un aspetto positivo anche per il giurista e comincia a trapelare una idea precisa su codici e leggi:

quei codici di cui si era tanto innamorata la modernità giuridica, in cui aveva fermamente creduto e che erano venuti fuori come dei capolavori di intelligenza umana di sistemazione del diritto con una piena coerenza, quei codici e quelle leggi non bastano più. Al monismo giuridico si sostituisce sempre più un pluralismo giuridico, il vecchio Stato che era stato monoclasse, che era stato borghese, voluto da una rivoluzione come quella francese che è eminentemente borghese, sta diventando uno Stato pluriclasse e la complessità giuridica viene lentamente a recuperare tutta la sua pienezza e ritorna il protagonismo dei giuristi, ritorna il protagonismo soprattutto dei giudici. La riscoperta della storicità cioè dell’elasticità del diritto permette la riscoperta della complessità del diritto. Santi Romano in una sua prolusione costituzionalista aveva detto “Il mondo moderno costruisce un diritto molto semplice, tutto è semplice”, e aggiungeva icasticamente “tutto mi sembra, a me Santi Romano, più che semplice semplicistico”, cioè riduttivo. Alla complessità del nuovo secolo che è complessità sociale ed

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economica corrisponde una complessità giuridica e comincia ad affiorare quello a cui accennava il Presidente Canzio la pluralizzazione delle fonti, una pluralizzazione delle fonti che alla fine del secolo sarà diventata addirittura una detipicizzazione delle fonti, attuando forse da un certo punto di vista disordine dove prima c’era gerarchia, ricordatevi che la gerarchia delle fonti è ignota al diritto romano, è ignota al grande diritto comune medievale, è ignota al common law attualmente ancora ma è il frutto della rivoluzione giacobina e della serrata del diritto che operano i giacobini. Sempre più si attenua questa piramide gerarchica delle fonti durante il secolo ventesimo e quell’articolo 12 delle preleggi che è fatto apposta per legare le mani al giudice, al giudice interprete o in genere al giurista interprete, oggi sa terribilmente di vecchiume.

Un piccolo cenno a una mia vicenda personale, avevo creato una certa rivista a Firenze per la storia del pensiero giuridico moderno, I quaderni fiorentini, e io ogni anno scrivevo una pagina introduttiva in cui esaminavo quello che nella letteratura giuridica mi sembrava più pungente e quindi più meritevole di essere sottolineato. Ebbene nella pagina introduttiva del 1998 io davo conto di un libro scritto da due giudici, Paolo Borgna e Margherita Cassano, oggi felicemente Primo Presidente della Corte di Appello di Firenze, il titolo era interessante, Il giudice e il principe, come dire il giudice e il titolare del supremo potere politico, e vi leggevo frasi come questa, un interrogativo “Il giudice è ancora bocca della legge?” - ancora - “Si rileva come la teoria dei rivoluzionari francesi sia ormai del tutto inadeguata per fondare la legittimazione dei nostri giudici a causa della impossibilità delle norme scritte a far fronte a regolare e risolvere tutti i più disparati casi del vivere civile. Il giudice della Costituzione” - cioè il giudice che vive nell’impero della nostra Carta del ’48 - “ha come riferimento essenziale i principi fondamentali”. Ma segnalavo anche un altro saggio di un laico, di un civilista, Giuseppe Tucci, il quale cominciava a parlare dell’equità nel diritto civile in un articolo apparso in una rivista che era una rivista attentissima alla prassi economica e giuridica, rivista che credo sia viva tuttora, anche se il suo fondatore e direttore Francesco Galgano è morto da qualche anno, Contratto e impresa. Nel 1998 su un fascicolo di Contratto e impresa c’è questo articolo di Tucci in cui il buon Tucci usciva in queste frasi che mi sembrano estremamente significative, dice Tucci “Ho ragione di temere l’appiattimento della regolamentazione giuridica del mercato” - quindi è chiaro che lui ha presente questa nuova realtà, il mercato economico finanziario che diventa mercato giuridico - “ho ragione di temere l’appiattimento della regolamentazione giuridica del mercato nella sola legge per l’inadeguatezza dello strumento legislativo a fornire una disciplina flessibile del mercato”, questa realtà economica che esige flessibilità di disciplina giuridica e che non ce la può avere attraverso la legge.

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Si è finalmente riscoperta la complessità del giuridico, ci sono finalmente strati del giuridico e non c'è solo lo strato legale della legge ordinaria. C'è uno strato legale, certo, fatto di codici, fatto di una infinita proliferazione di legislazioni speciali, ma ora c’è finalmente dal ‘48 in poi anche lo strato costituzionale, anche uno strato fattuale, cioè di fatti che ormai sono carichi di effettività cioè portatori di una carica interna tale da poter emergere, e l’aveva già intuito ai primi del secolo Santi Romano, da poter emergere a livello del diritto. Accanto a noi l’Europa, un’entità che sta costruendo il suo diritto ma che è importante nasca da un mercato, cioè nasca da una percezione forte della fattualità economica, tuttora percepita in modo intensamente forse anche troppo intensamente ma certamente che fa i conti con la attualità, e dove l’organo promotore di un nascendo diritto europeo non è né il Parlamento né la Commissione ma la Corte di giustizia del Lussemburgo, cioè un organo giudiziale.

Accanto, su un livello più fattuale, questa globalizzazione giuridica cui è stato accennato pocanzi, il potere economico che insoddisfatto di codici, di , di norme autorizzative si dà a costruire istituti giuridici non presenti nei codici, non presenti nelle leggi speciali ma di cui il capitalismo maturo ha bisogno, e nascono tutta una serie di istituti che i grandi imprenditori e le grandi multinazionali affidano a grandi studi legali, ed ecco questo canale di diritto spontaneo, la globalizzazione giuridica, che si affianca ormai ai canali dei diritti statuali, dei diritti sopra statuali, del diritto internazionale.

Ecco, oggi a me il diritto appare soprattutto come invenzione, invenzione di un ordine giuridico. Nella relazione introduttiva al nostro convegno celebrativo dei sessant’anni di vita della Corte, che ho avuto l’onore di tenere la mattina del 19 maggio nel Palazzo del Quirinale, io ho usato proprio questo termine e anche un aggettivo, “inventiva”, che sono del tutto inusuali. Che cosa volevo dire? Io volevo identificare il ruolo della Corte Costituzionale in un ruolo inventivo, volevo dire creativo? No, assolutamente no, l’aggettivo creativo e il termine creazione non si addicono al mondo del diritto perché mi sanno terribilmente di artificio. Nemmeno il legislatore è un creatore del diritto perché il diritto è una realtà che appartiene alla natura stessa della società civile, è soltanto da scoprire all’interno della società civile, così come i nostri padri costituenti in quei due anni di prodigioso lavoro dal ‘46 al

‘48 hanno fatto leggendo nelle trame della società, scoprendo valori condivisi, facendoli diventare principi e ricavandone i 139 articoli della nostra Carta. 139 articoli dove ci sono dei valori espressi, dei principi espressi, ma c'è tutto un ordine costituzionale sottostante che la Corte Costituzionale in sessant’anni ha tentato di leggere dove ha riscoperto valori non espressi ma vigoranti all’interno di questa dimensione diciamo latente sottostante, traendone fuori quella gamma di diritti fondamentali del cittadino che è diventata sempre più numerosa grazie all’attività giurisdizionale della nostra Corte.

Dimensione costituzionale, la dimensione formale eccola, la Carta i 139 articoli ma al di sotto un

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ordine dove si deve avere il coraggio, e la Corte ha avuto il coraggio di farlo, di leggere attentamente e fare emergere interessi e valori condivisi. Inventivo è un richiamo all’etimo latino, invenire, cercare e trovare, cioè nessuna creazione ma semplicemente l’individuazione di questi valori rendendoli principi e rendendoli regole della vita associata. Quello che la Corte fa e che il giudice costituzionale fa, che gli dobbiamo riconoscere, è il ruolo stesso a cui io chiamerei volentieri il giudice civile come giudice ordinario spesso chiamato a far supplenza, certamente, pensate alla parabola della responsabilità civile la quale trova non legislatore il suo promotore, il suo consolidatore, ma nella grande dottrina civilistica degli anni sessanta e poi in una meravigliosa giurisprudenza che vede impegnata la Cassazione ma anche la Corte Costituzionale. Quali sono i tre atteggiamenti del diritto italiano che io colgo nei secondi anni Cinquanta del secolo ventesimo, del secolo pos-moderno? Grossa influenza, fortunatamente io dico, della Costituzione del ‘48 con il suo organo garantistico che è la Corte Costituzionale, che al di là del testo scritto ha permesso di fungere da organo respiratorio, questa è una immagine a cui io sono affezionato ma che e fortemente identificatoria, organo respiratorio dell’intero ordine giuridico italiano.

La Costituzione è fatta di principi espressi e inespressi, principi fecondatori dell’intero ordinamento, ed ecco che finalmente noi abbiamo i civilisti che rileggono il loro codice del ’42, codice ammirevole, codice fatto da una grande scienza giuridica, ma che risente ovviamente di essere stato immobilizzato in quell’anno 1942, che vogliono rileggerlo alla luce dei nuovi valori messi in luce dalla Costituzione.

Sarà Rosario Nicolò che nel ‘60 scrive una voce “codice civile” ammirevole per la percezione delle novità, sarà Pietro Rescigno il quale nel ‘68 intitola un suo studio Per una rilettura del codice civile, rilettura in che senso? Rilettura alla luce di quel portato squisitamente nuovo e innovativo che è la Costituzione intesa come complesso di valori e principi. Ma un altro atteggiamento contrassegna questa seconda metà del secolo ventesimo, l’osmosi sempre maggiore fra civil law e common law, con un portato immediato, la valorizzazione del giudice, il vero protagonista del common law, il quale non ha sentito l’efficacia della Rivoluzione francese sulla sua pelle, ha continuato a portare avanti i valori medievali, quei valori che riservavano un grande ruolo protagonistico al giurista e che nel mondo empirico anglosassone diventa valorizzazione di quel giurista che è il giudice, cioè del personaggio immerso nell’esperienza. Vorrei ricordare il crescere dell’Europa di un’Europa giuridica che ancora non ha un ordinamento giuridico compiuto ma che ha almeno queste grandi proposte da fare al mondo dell’Europa continentale codicistica, non soffre più o soffre sempre meno quella divisione dei poteri intesa come una sorta di ossessione, questa divisione ossessiva tra il giudiziario e il legislativo che è una dogmatica che nasce nell’illuminismo settecentesco e che continua imperterrita, ed ecco da qui il ruolo della Corte di giustizia, un Tribunale il quale non crea leggi ma che inventa, inventa diritto. Un

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altro atteggiamento che constatiamo tuttora intorno a noi: il sempre maggiore ruolo dei principi. Il principio proprio perché realtà se volete indeterminata, ma anche elasticissima che si presta ad assorbire i contenuti del futuro, del futuro immediato e del futuro meno immediato. Quando nel 1991 l’Accademia Nazionale dei Lincei dedicò un suo convegno al tema dei principi generali del diritto Angelo Falzea, un grande compianto amico che, come voi sapete è scomparso, alla bella età di 101 anni nel mese di febbraio scorso, Angelo Falzea così rilevava, sono parole sue, “La continua perdita di efficacia nella coscienza e nella vita giuridica della società delle regole della normazione ordinaria e specialmente di quella massa fluttuante di leggi che per la loro occasionalità ed effimerità si presentano nella veste dimessa di una legislazione eterotrofa”, aggettivo un po’occulto ma che voleva significare legislazione che si dedica alle caducità, alle episodicità quotidiane, ecco da qui la scelta dei principi. Lo riaffermava Falzea nel ‘91 ed è singolare che ai principi faccia capo lo stesso legislatore italiano con una sorta di atto quasi abdicativo, a cominciare da quella splendida legge che fu la legge sul procedimento amministrativo del 1990, e non mi ha affatto sorpreso quando ho aperto alcuni anni fa il cosiddetto codice del processo amministrativo, che poi non è affatto un codice, dove si vede che questo atto dello Stato reca ben fissi al suo interno una serie di principi, lo Stato offre soprattutto principi, non si dà in regole minute come il vecchio codificatore che volle fissare in 2969 articoli dettagliatamente puntigliosamente tutto l’ordine giuridico, emana dei principi, diffonde dei principi. Qual è il risultato?

La legge va ubbidita, le leggi vanno sempre ubbidite, ma i principi vanno soprattutto interpretati e l’interprete principale, è ovvio, è il giudice.

C'è un’altra rivoluzione culturale molto importante che incide sulla stessa teoria della interpretazione e applicazione ed è quella che noi siamo soliti chiamare rivoluzione ermeneutica. Nasce sul terreno filosofico, è un grande filosofo, filosofo tout-court, Hans-Georg Gadamer, il quale soprattutto in un grande libro di sintesi, Wahrheit und Methode, Verità e metodo, fissa i canoni di questa nuova teorica interpretativa. Voi direte: ma ora non scendiamo nel terreno filosofico perché andiamo troppo in alto, in un’area troppo rarefatta. Badate, al centro del volume filosofico di Gadamer sta un capitolo che si intitola Significato esemplare dell’ermeneutica giuridica, cioè Gadamer, filosofo puro, chiede ai giuristi un aiuto perché sono i giuristi soprattutto che nel loro campo hanno per primi varato con il diritto romano, con il diritto comune medievale, con il common law anglosassone, hanno varato una vera e propria rivoluzione ermeneutica. Gadamer influenza un grande civilista, Hesser, Hesser influenza un grande civilista italiano, Mengoni, Mengoni viene letto e approfondito da parecchi filosofi del diritto. Quali erano i canoni della vecchia teoria dell’interpretazione, quella della modernità giuridica coniata da uno statalismo e da un legalismo imperante? Aveva tre scopi: collocare

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interpretazione e applicazione fuori del processo di produzione del diritto, processo perfettamente compiuto e concluso nel momento della promulgazione della norma; secondo, concepire l’interprete applicatore come un soggetto tenuto all’intelligenza, cioè alla pura e semplice conoscenza del contenuto di volontà reperibile nella norma; terzo punto, eludere il problema della non evitabile frizione fra testo e vita, fra immobilità del comando fissato nella Carta e mobilità della vita della società. La nuova teoria invece sottolinea che il testo non è realtà autosufficiente ma che al contrario ha compiutezza soltanto con l’interpretazione e applicazione. Interpretazione e applicazione in questa teoria ermeneutica sono due facce giustamente di una stessa medaglia, l’interpretazione e applicazione togliendo generalità e astrattezza alla norma la immerge nel concreto della storia quotidiana, la fa diritto. L’interpretazione e applicazione, ancora, non è operazione meramente conoscitiva ma è comprensione, intermediazione tra il messaggio del testo estraniato dal divenire e la attualità dell’interprete. L’interprete applicatore allora deve essere valorizzato quale attore primario con la sua operosità intermediativa. Il testo senza interprete applicatore se non è muto parla a se stesso ed è privo di comunicazione con la attualità della società.

Conclusione: qual è il ruolo del giudice civile dopo quello che abbiamo detto (la rivoluzione culturale di una riscoperta della storicità del diritto, del pluralismo giuridico, degli strati giuridici, della detipicizzazione delle fonti, riscoperta della nuova rivoluzione ermeneutica)? È quello di essere inventore al pari del giudice costituzionale. Oggi il giudice civile deve avere nel giudice costituzionale il suo modello operativo, cioè un ordine costituzionale che di continuo si autofeconda e si autoalimenta, valori che lentamente si trasformano in principi elastici che seguono il divenire del costume. Ecco, il giurista inventore, forse meglio inventore che interprete, giurista che è chiamato a cercare il diritto che è un dato ontico cioè che esiste, che non si crea artificiosamente nemmeno da un grande legislatore, nemmeno da Napoleone I, che deve essere trovato all’interno dell’ordine giuridico come ordine complesso. Allora se diventerà inventore questo giurista, questo giudice diventerà protagonista dello sviluppo giuridico. Grazie.

Dott.ssa Maria Rosaria SAN GIORGIO, Direttore dell’Ufficio studi e documentazione del C.S.M. – Moltissime naturalmente le suggestioni evocate dalla relazione del professor Grossi e grande l’emozione che ha suscitato.

Il professor Renato Balduzzi, Presidente della Prima Commissione del Consiglio Superiore, ci aiuterà ora a farci strada fra le moltissime pieghe del ragionamento del Presidente della Corte Costituzionale. Grazie professor Balduzzi.

Riferimenti

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