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L EUCARESTIA A CÎTEAUX A METÀ DEL XII SECOLO

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L’EUCARESTIA A CÎTEAUX A METÀ DEL XII SECOLO Marie-Gerard Dubois OCSO

Collectanea Cisterciensia 67 (2005) 266-86 Quando si parla di un sacramento, prima di chiedersi che cosa ne hanno detto o pensato i grandi autori dell’epoca, può essere utile comprendere come venisse praticato. Abbiamo informazioni più che sufficienti sul modo di celebrare dei nostri primi padri, grazie alle prescrizioni che hanno voluto codificare, affinché si potesse procedere dappertutto nello stesso modo che a Cîteaux, la casa madre.

Infatti in base al loro progetto e al loro volere si previde che tutte le comunità:

vivessero e cantassero nello stesso modo, e avessero tutti i libri necessari alle ore diurne e notturne, nonché alle messe, conformi al modo di vivere e ai libri del Nuovo Monastero, in modo che non ci fosse alcuna discordanza nei nostri atti, ma che vivessimo in una sola carità, sotto una sola Regola e seguendo uno stile di vita simile (Carta di Carità, cap. III).

E quindi possediamo quello che gli antichi hanno chiamato Ecclesiastica Officia, che non va tradotto troppo alla lettera come Uffici ecclesiastici, ma, in modo più ampio, «occupazioni e compiti della piccola chiesa che è la comunità», il principale dei quali è, ovviamente, la celebrazione della liturgia. Fino alla metà del XX secolo ne conoscevamo soltanto una versione, quella trasmessa dal ms 114 della biblioteca municipale di Digione, scritto verso il 1185 (= D 114). Ma in seguito sono stati scoperti dei manoscritti precedenti, che ci permettono di conoscere un po’ meglio la situazione delle origini e di seguire l’evoluzione che ha potuto prodursi nel corso del secolo. I due manoscritti più antichi risalgono addirittura all’epoca in cui era vivo san Bernardo: il ms 1711 della biblioteca comunale di Trento (= T 1711), scritto tra il 1131 e il 1140 e il ms 31 della biblioteca dell’università di Lubiana, in Slovenia (= L 31), scritto tra il 1147 e il 1521.1

A dire il vero, questi documenti qualche problema lo pongono. Il più antico, T 1711, proviene da Villers-Bettnach, fondato nel 1133: è una copia, realizzata forse al momento della fondazione, ma con svariate correzioni, come si intravede dai raschiamenti, dagli spazi vuoti e dalle sovrascritture. Tali correzioni sono conformi al Breviario conservato a Berlino (n. 402) datato con certezza 1132. Tuttavia il quaderno che comprende i capitoli relativi alla Messa, corrispondenti ai capitoli 53-60 di D 114, che ci interessano qui, è stato sostituito da un altro, scritto da due mani diverse…

Tuttavia non si possono «retrodatare» eccessivamente questi manoscritti. Infatti appare abbastanza evidente come la liturgia, in base alla descrizione, presupponga che ci si trovi nelle grandi chiese, con molti altari, comparse solo nel secondo terzo del XII secolo. Nel capitolo 68, gli Ecclesiastica Officia descrivono l’ingresso dei monaci nel coro per le Vigilie: si inchinano davanti al primo altare, come devono fare, si dice, ogni volta che passano davanti a un altare, poi si piegano davanti all’altar maggiore ed entrano nel coro dall’alto, poiché non c’è l’abitudine di entrare e uscire dal basso quando gli anziani sono negli stalli, salvo l’abate, il priore e i loro vicini prossimi. Questo si capisce perfettamente pensando al grande monastero di Cîteaux2, ma non può corrispondere alla chiesa originaria. Conosciamo bene

1 Gli Ecclesiastica Officia (= E.O.) sono stati pubblicati, con la traduzione francese, da sorella D. CHOISSELET e fratello P.

VERNET, Les Ecclesiastica Officia cisterciens du XIIe siècle, in «La Documentation cistercienne», vol. XXII, Reiningue 1989.

Rimandiamo a quest’opera per quanto riguarda i manoscritti e i loro apparati critici. Si veda anche P. VERNET, La messe chez les cénobites en Occident de 750 à 1150, in «Liturgie», 32, 1980, pp. 64-85.

2 Scendendo dal dormitorio per la scala che porta in chiesa, i monaci passano davanti alla prima cappella del transetto, poi arrivano davanti all’altar maggiore. La chiesa descritta dagli E.O. comprende un santuario sopraelevato (presbiterio) abbastanza ampio, poiché il celebrante e i suoi ministri vi si siedono durante certe parti della messa (bisogna anche poter fare il giro dell’altare), il coro dei monaci e un retrocoro dove si trova un pulpito per le letture delle veglie e dove stanno gli infermi. C’è anche il coro dei conversi […] Una sola volta si fa allusione al caso di una chiesa con un solo altare e senza transetto, quando

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questa chiesa consacrata nel 1106. Diventata in seguito la cappella Saint-Edme in cui furono inumati oltre una quindicina di abati di Cîteaux fino al 1537, fu demolita soltanto nel 1791: era lunga ventidue metri e larga sette, non aveva transetto e conteneva un solo altare. La costruzione del grande monastero a pianta classica iniziò senza dubbio solo nel 1130. Alcuni si chiedono se i lavori della chiesa non fossero già cominciati nel 1124-1125; ma ne collocano il completamento verso il 1147-1150.3

À Clairvaux, san Bernardo cedette solo nel 1135 alle richieste del suo priore, il quale si era reso ben conto che bisognava cambiare di livello per continuare la vita cistercense in modo adeguato: il

«monastero vecchio», come lo si vede ancora nei disegni di dom Milley del 1708, lascia intuire come gli spazi fossero angusti. La chiesa di pietra, che sostituì abbastanza in fretta quella di legno degli inizi, era a pianta quadrata: le mura esterne misuravano diciassette metri. Ci si entrava da est, dietro all’altare principale, in una specie di deambulatorio dove si trovavano due altari, lusso che Cîteaux non conosceva.

Ma lo spazio interno dell’oratorio non doveva superare i dieci metri per nove, una superficie di novanta metri quadrati.4 Nelle prime fondazioni di inizio secolo, le chiese non dovevano essere molto più grandi.

Quella di Pontigny probabilmente misurava solo una ventina di metri. La chiesa di Fontenay, ancora in piedi, fu consacrata da Eugenio III nel 1147 e non è quella della fondazione nel 1119.

Ci si chiede come facessero tutti i monaci e tutti i novizi a entrare in quegli edifici angusti, e si comprende perché era così urgente una rifondazione… Ma anche, come avrebbero potuto svolgersi in tali spazi ristretti diverse prescrizioni degli Ecclesiastica Officia? Sarebbe forse il caso, per esempio, dell’autorizzazione data di cantare messe private in certi giorni di feste, dall’offertorio della messa conventuale: come avrebbero potuto queste messe essere celebrate nella chiesa originaria di Cîteaux che ha soltanto un altare? Persino à Clairvaux i due altari collocati lungo il muro, dietro all’altare principale, erano troppo vicini a esso perché le messe potessero esservi celebrate senza disturbare la messa conventuale: e comunque solo due sacerdoti avrebbero potuto officiare!

È assai plausibile che il calendario previsto nei manoscritti primitivi fosse in vigore dai primi anni della fondazione di Cîteaux; quanto alla celebrazione della liturgia delle ore, obbediva alla regola benedettina ed era dunque praticata sin dall’inizio. Diverse prescrizioni riguardo all’Eucarestia possono essere antiche, ma per quanto riguarda le messe private, e quindi l’insieme della raccolta, deve risalire più al decennio 1140-1150 che a quello precedente. Non sarebbe forse questa la spiegazione dell’introduzione di un nuovo quaderno in T 1711, corrispondente proprio ai capitoli sulla celebrazione dell’Eucarestia?

Si sa che nei monasteri benedettini le messe private si sono moltiplicate a partire dal IX secolo, per rispondere alle richieste dei laici in favore dei defunti e delle loro famiglie. Talvolta ci si asteneva dalla comunione perché non si riteneva di esserne degni, talvolta si richiedeva la celebrazione dell’Eucarestia come mezzo per ottenere il perdono, soprattutto al momento della morte: alcuni signori che avevano senza dubbio molto da farsi perdonare, lasciavano delle somme di denaro per far celebrare messe per loro dopo la morte. Molti fondarono addirittura dei monasteri a questo scopo, per riscattarsi da azioni poco raccomandabili! I Dialoghi di san Gregorio senza dubbio non sono estranei alla nascita di questa mentalità: raccontano la storia di defunti prigionieri delle pene del purgatorio che sono liberati grazie alla celebrazione di messe (e in particolare dopo trenta messe, fatto che è all’origine della «messa gregoriana»).

È quello che ha portato alla moltiplicazione delle messe nei monasteri cui si rivolgevano i fedeli. Certi monaci venivano ordinati a tale scopo.

A Cluny si attribuiva grande importanza alla preghiera per i defunti. A partire dall’XI secolo, l’abate Odilon introdusse svariate consuetudini, preghiere, elemosine e messe «mirate a liberare le anime dei fedeli defunti, […] addolcirne le pene od ottenerne l’intera remissione perché potessero accedere al

si tratta di un fratello che ha subito un salasso e non va al coro, (90, 48): non è la situazione in cui l’E.O. colloca le sue prescrizioni.

3 Cfr. Pour une histoire monumentale de l’abbaye de Cîteaux, 1098-1998, sotto la direzione di M. PLOUVIER LOUVIER e A. SAINT- DENIS, pp. 131-32. Padre Anselme Dimier collocava la costruzione della chiesa di Cîteaux tra il 1140 e il 1150; cfr. Les moines bâtisseurs, Paris 1964, p. 100.

4 Sulle chiese di Clairvaux, cfr. T. KINDER, Les églises médiévales de Clairvaux. Probabilités et fiction, in Histoire de Clairvaux (Atti della conferenza del giugno 1990 a Clairvaux), pp. 205-29. Riguardo a Pontigny, cfr. A.DIMIER, op. cit., p. 100. Dello stesso autore, v. Recueil de plans d’églises cisterciennes, Paris 1949.

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riposo», osserva il Grand Exorde de Cîteaux.5 Ricorda inoltre che Cluny è all’origine degli anniversari liturgici solenni per i defunti, e in particolare quello del 2 novembre. È al servizio di questa dottrina e di questa pratica che Pietro il Venerabile scrive il suo De miraculis, in cui riferisce di svariate apparizioni di defunti, anche se questo abate ha dovuto limitare le iscrizioni al necrologio dell’abbazia per alleggerire un pochino gli impegni di cui i monaci si erano progressivamente caricati per servire i defunti e i loro sostituti simbolici, i poveri.6

Cîteaux, sin dall’inizio, elimina tutte queste preghiere surrogatorie che a Cluny appesantivano la celebrazione dell’ufficio divino: salmi per i familiari, salmi per i defunti eccetera. I monaci neri ne cantavano ogni giorno circa duecentoquindici, anziché la quarantina indicata dalla Regola.7 Soltanto l’ufficio delle Vigilie, con le sue litanie e le sue preghiere, durava più tempo che tutto l’insieme degli uffizi dei cistercensi, a parte la messa e i vespri.8 Hugues, abate di Reading, nella sua risposta all’Apologia di Bernardo, ironizza persino sulle veglie abbreviate dei cistercensi, che permettono loro di dormire di più…9

Si può ipotizzare che le messe private per i defunti siano state incluse nella «epurazione»

cistercense delle origini? Questo coinciderebbe con la linea generale di un monachesimo più ritirato dal mondo, senza cure pastorali. Non ci sarebbe stato bisogno di prevedere dall’inizio grandi chiese con molti altari… È proprio così che si presentano i primi edifici cistercensi, senza alcuna possibilità di messe private. C’erano molti monaci ordinati sacerdoti nelle prime comunità?

Ma, a poco a poco, forse sotto la pressione delle critiche di altri ordini, la preoccupazione per i defunti riprese piede, come attestano i primi manoscritti degli Ecclesiastica Officia. Già nell’esemplare di Trento, si prevede che ogni settimana venga celebrata una messa conventuale per i defunti; ogni giorno, eccetto il Venerdì santo, un sacerdote, incaricato per la settimana, celebra per i defunti o, almeno, aggiunge delle preghiere per loro. L’Ufficio dei defunti (un notturno, laudi e vespri) è aggiunto all’uffizio del giorno tutte le volte che questo è festivo, salvo durante il triduo pasquale e le ottave di Natale, Pasqua e Pentecoste.10 La pratica dei conversi

Prima di soffermarci sulla comunità dei monaci, guardiamo quanto accade tra i conversi. Per la maggior parte abitavano nelle grange, a una certa distanza dalle abbazie e non partecipavano alla loro liturgia quotidiana. Non si insegnavano loro i salmi, salvo forse il Miserere, ma recitavano Pater noster e Gloria Patri. In linea di principio, se la grangia non era troppo lontana, partecipavano a turno11 alla messa al monastero la domenica e nei giorni festivi, in cui vengono celebrate due messe in comunità, anche se tali feste per loro sono lavorative (avevano in media 29 giornate non lavorative12, e lo stesso per le

5 Grand Exorde, libro I, cap. 8, p. 7.

6 D.IOGNA_PRAT, Cluny et la gestion de la mémoire des morts autour de l’an mil, in Le jugement, le ciel et l’enfer dans l’histoire du christianisme, (Atti del dodicesimo incontro di storia religiosa), Angers 1989, pp. 55-76.

7 Sull’ufficio dei cluniacensi alla fine dell’XI secolo, v. Coutumes di ULRICH, PL 149, c. 635-778. Cfr. P. SCHMITZ, La liturgie de Cluny, in Spiritualità cluniacense, Todi 1960, p. 85-99.

8 Cf. «Dialogus duorum monachorum», del monaco IDUNG, scritto nel 1153 (a cura di Huygens, p. 122).

9 In noctem quoque profundiorem secure poterit dormitio, quia pauculi tantum psalmi quos regula præcipit, nec amplius aliquid est ruminandum in matutinis. Psalmi pro familiaribus, vigiliæ pro defunctis gloriosæ denique quas ecclesia recipit cantilenæ minime decantantur; sed puris perrarisque psalmis decursis, totam ferme noctem dormitando consumitis. «Di certo può prendere sonno in una notte più profonda, poiché alle veglie ha da ruminare soltanto i pochi salmi prescritti dalla Regola. I salmi per i familiari, le veglie dei defunti e le gloriose cantilene che la Chiesa ha conservato non sono affatto cantati, ma una volta percorsi i soli e assai rari salmi si può trascorrere quasi tutta la notte dormendo.» Cf. A. WILMART, Une riposte de l’ancien monachisme au manifeste de S. Bernard, in «Revue Bénédictine», 50, 1934, p. 335.

10 In T 1711: 68 (un giorno della settimana), 47 e 82 (messa quotidiana di un sacerdote). Ufficio dei defunti: E.O. 50. Cfr. più avanti altre precisazioni sulla messa quotidiana.

11 Non era possibile lasciare le mandrie nelle grange senza guardiani. I certosini dell’epoca prevedevano che avrebbe potuto recarsi al monastero, alternativamente, la metà dei conversi.

12 Oltre alle grandi feste del Temporale, sono sostanzialmente le feste della Vergine, degli Apostoli, con Giovanni Battista, san Lorenzo, san Martino e Ognissanti. Va aggiunta la dedica per quelli che sono al monastero. Cfr. Us des Convers, a cura di C.

WADDELL, Cistercian Lay Brothers, Twelfth-century usages with related textes, in «Commentarii cistercienses», 2000, pp. 62, 172. I monaci si astengono dal lavoro anche i primi tre giorni della settimana di Pasqua e di Pentecoste, per san Matteo, san Benedetto, san Marco, le feste della Croce, san Pietro in Vincoli, san Luca, la decapitazione di Giovanni Battista, il patrono

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inumazioni. Assistevano alla prima messa, detta mattinale, almeno nei giorni di festa. Infatti la domenica vengono citati all’aspersione dell’acqua (E.O. 55, 21). Ma non si comunicavano a tutte le messe cui partecipavano. Persino il Giovedì santo, all’inizio per loro non era un giorno di comunione. I documenti più antichi parlano di dodici comunioni l’anno. A poco a poco, i giorni divennero fissi, ed erano: la prima domenica d’Avvento, Natale, l’Epifania, il 2 febbraio, la prima domenica di Quaresima, Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste, il 29 giugno, il 15 agosto e l’8 settembre, Ognissanti. 13 Se non ci si poteva comunicare in uno di quei giorni, si poteva farlo la domenica successiva, e questo indica, per inciso, che di solito la domenica i conversi non si comunicavano. Più tardi le dodici volte si sarebbero ridotte a sette, e una di esse sarebbe caduta il Giovedì santo;14 è quanto prevede D 114: «Sette volte nell’anno, salvo colui cui l’abate, secondo suo giudizio e con cognizione di causa, permetterà di comunicarsi più spesso o più di rado».15 Se dei conversi in una grangia troppo lontana non riuscivano a rientrare al monastero in un giorno di comunione, potevano riceverla in una casa religiosa vicina al loro luogo di residenza, una prioria benedettina per esempio, ma non in una chiesa parrocchiale.16

Questa ci può sembrare una frequenza assai ridotta. Ma collocandola nel contesto ecclesiastico dell’epoca, si constata che i conversi si avvicinano alla comunione sacramentale più spesso dei laici cristiani in parrocchia. Dal VI secolo, i fedeli si disaffezionano alla comunione. Da un lato, la purezza necessaria per avvicinarsi all’Eucarestia si afferma al punto che la sua assunzione diventa più rara, e allo stesso tempo non si osa più toccare l’ostia. Ma d’altra parte bisogna pur ammettere la comparsa di tiepidezza e indifferenza: il concilio d’Adge del 506, presieduto da san Cesario, determina che i laici i quali non si comunichino a Natale, Pasqua e Pentecoste non possono essere più considerati membri della Chiesa. Non bisogna generalizzare, certo, ma la situazione, nel suo insieme, non a migliora nei secoli successivi; quei tre giorni diventano la norma che nel XII secolo si cerca non senza difficoltà di far rispettare. Un secolo dopo, il concilio Laterano del 1215 deve prescrivere un minimo di una comunione annuale, la comunione pasquale, preceduta dalla confessione nella propria parrocchia: «fare la Pasqua»

era il segno di un buon cristiano.

È così che si passa progressivamente dal tocco allo sguardo: vedere l’ostia diventerà più importante che riceverla. In modo analogo, nel rito delle ordinazioni, si instaurerà l’unzione delle mani del sacerdote, per renderle degne, e loro soltanto, di toccare il sacro Corpo.

La frequenza delle messe per la comunità dei monaci

Ogni giorno la comunità si riunisce tutta insieme salvo alcune note eccezioni che vedremo, per partecipare all’Eucarestia.

Durante il digiuno monastico, dal 14 settembre a Pasqua, questa messa conventuale (prende questo nome a partire dal 1150) viene celebrata dopo Prima, quando si è fatto giorno. La riunione del capitolo si tiene dopo Terza, poi si va a lavorare fino a Nona; o anche più tardi, in quaresima, perché in quel periodo si mangia solo dopo Vespro.

In estate, da Pasqua al 14 settembre, il Capitolo avviene dopo Prima, che in giugno può celebrarsi alle cinque del mattino. Il lavoro comincia alla fine del Capitolo; si torna una mezzora prima di Terza, che è cantata tra le otto e le nove. Quindi viene celebrata la messa conventuale. Il lavoro riprende solo dopo Nona. Tuttavia, nel periodo del raccolto, la messa si celebra subito dopo il capitolo e, se fa bello, il grosso della comunità non vi assiste nemmeno: vi partecipano, come possono, solo quelli che hanno subito un salasso nei giorni precedenti e gli infermi. Perché il lavoro urge. Dopo aver cantato la messa, gli officianti

della diocesi (E.O. 60). È interessante notare che i nostri padri attribuivano più importanza di noi alle feste degli apostoli, al punto da considerarli giorni festivi. Altre feste erano lavorative e prevedevano una sola messa comunitaria, salvo in quaresima (cfr. E.O. 74, 18; 14…).

13 C.WADDELL (a cura di), op. cit., pp. 63-64, 74 e 176.

14 Le altre sei sono: Natale, 2 febbraio, Pasqua, Pentecoste, 8 settembre, Ognissanti. Il 15 agosto non fa nemmeno parte del conto!

15 Notiamo per inciso l’intervento dell’abate.

16 C. WADDELL (a cura di), op. cit. pp. 67-68, 176.

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raggiungono i fratelli nei campi. Talvolta i fratelli vi si fermano a mangiare a mezzogiorno e vi fanno la siesta, o addirittura vi celebrano i Vespri senza tornare al monastero.

San Bernardo giustifica questa pratica che corrisponde, a suo dire, a un certo ordine della carità.

Nell’ordine affettivo, la carità della verità, bisogna amare Dio più degli uomini, i più degni prima dei meno degni e così via. Ma la verità della carità, la carità effettiva, actuosa, segue l’ordine inverso. Bisogna amare di più quelli che ne hanno più bisogno, i più bisognosi, cercare la pace sulla terra più che la gloria nei cieli e saper lasciare il colloquio con Dio per occuparsi del prossimo… o del raccolto! (Cfr. SCt 50, 5).

Anche nel periodo della fienagione la messa si svolge subito dopo il capitolo. Ma vi partecipa tutta la comunità.

Nei giorni delle feste non lavorative (una quarantina) e in quelle, anche se lavorative, che cadono in Quaresima, e ogni domenica, prima della messa conventuale, la comunità partecipa a una prima messa, dopo la prima; è la messa mattinale o mattutina, prima del capitolo. A Cluny, secondo le usanze di Ulrich del 1075, tutti i giorni venivano celebrate due messe, la prima, mattinale, per i defunti, salvo la domenica e nelle feste. Quindi Cîteaux è più sobria, e la messa quotidiana per i defunti verrà celebrata in privato.

All’inizio, la domenica si riprendeva la messa del giorno, che quindi veniva celebrata due volte. Ma a partire dal 1202, durante il tempo pasquale, la messa del mattino sarà quella del giorno di Pasqua e, dopo Pentecoste, quella della Trinità. Se una festa cade la domenica, non è difficile stabilire come ripartire le due messe.

Se è previsto che in un giorno di festa non lavorativa durante la Quaresima, ci siano comunque due messe per la comunità, la prima consente di prendere il formulario della festa di Quaresima, che altrimenti non si celebrerebbe. Si può dunque celebrare di seguito: prima, messa del mattino, capitolo, messa conventuale, poi lavoro.17 E così all’Annunciazione dell’anno 1150, che cadeva il sabato della terza settimana di Quaresima, san Bernardo poté avvicinare nel suo sermone le figure di Susanna, dell’adultera e di Maria, poiché le prime due erano state evocate nelle letture della messa mattinale.

Le messe private

Ogni sacerdote può ancora «cantare» una messa singolarmente tutti i giorni durante la lectio: i giorni festivi può rinviarla fino al pasto, a Nona in inverno, ai Vespri in quaresima. Tuttavia deve tenere la voce bassa se molti celebrano alla stessa ora e occorre che sia assistito da due ministranti, uno dei quali sia un chierico. Come abbiamo già detto, questo uso presuppone che la chiesa disponga di diversi altari:

senza dubbio non poteva essere in vigore nei primi decenni dell’Ordine.

Di solito, in estate, ma certamente non durante la fienagione e il raccolto, il tempo della lectio si colloca nella mezz’ora che separa il lavoro da Terza. Bisogna accertarsi presso il sacrestano, incaricato di stabilire le ore, se il tempo disponibile è sufficiente. Se non lo è, si può cominciare queste messe private dopo l’offertorio della messa conventuale. Ma se c’è tempo abbastanza prima della messa grande, bisogna parteciparvi. Nel periodo del raccolto non è consentito celebrare messe private, nemmeno all’abate.18 D’inverno, la messa conventuale si svolge dopo Prima ed è seguita, dopo un breve intervallo, da Terza e dal capitolo. Poi è il tempo del lavoro. Allora i preti sono autorizzati a celebrare in privato se l’abate lo ritiene opportuno, durante la messa conventuale, con alcune eccezioni, come il Mercoledì delle ceneri, fatto che si comprende poiché tutti devono ricevere le ceneri. Ugualmente, se capita una festa di tre notturni, i sacerdoti cominceranno le loro messe private solo all’offertorio. Perché tale ritardo? Forse perché bisogna che ci siano tutti per cantare la liturgia della parola, meno conosciuta o più festiva. Bisogna ammettere, in effetti, che se i sacerdoti si assentavano dalla messa conventuale con i loro due ministranti, non dovevano più restare in molti a cantare. Il beato monaco David d’Himmerod, deceduto nel 1179, restava anche un po’ più a lungo:

17 Cf. E.O. cap. 14. Questo può riscontrarsi il Mercoledì delle ceneri; nel calendario dell’epoca la festa aveva maggior peso. I conversi partecipavano solo alla messa delle ceneri, ma non a quella della festa, che seguiva immediatamente la prima, perché quel giorno non c’è capitolo.

18 Lo prevede uno statuto citato in un manoscritto della fine del XII secolo: cfr. C. WADDELL, Twelfth-Century Statutes from the Cistercian General Chapter, Cîteaux, in «Commentarii Cistercienses», 2002, p. 617.

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Spesso nei giorni di festa aspettava per celebrare la messa che la messa grande fosse quasi finita, e non voleva mai uscire prima della prefatio. Faceva in modo di essere sempre nel coro, soprattutto quando si cantava il Sanctus: cantandolo con applicazione ed entusiasmo, stimolava gli altri alla devozione.19

Osserviamo che a Cluny, questa procedura sarà soppressa da Pietro il Venerabile: i suoi statuti del 1146 proibiscono la celebrazione di messe private durante la messa conventuale, affinché questa non venga offerta dal celebrante quasi da solo, ma da tutta la comunità, ab universa praesentialiter congregatione.20 Si può rimpiangere che a Cîteaux non abbiano seguito l’esempio, senza dubbio perché i monaci partecipavano di più al lavoro manuale e disponevano, meno dei clunicensi, di altri momenti per celebrare. Ma questa pratica accentua il processo di privatizzazione o di «clericalizzazione» della messa che si riscontra nel popolo cristiano: la messa diventa sempre più una cosa dei sacerdoti e sempre meno la celebrazione di tutta l’assemblea. Dal IX secolo, certe preghiere vengono dette soltanto a bassa voce dal celebrante, perché i fedeli non le capiscono più. Nell’XI secolo vengono introdotte altre preghiere che sono soltanto degli atti di devozione o di umiltà del celebrante, in prima persona singolare, mentre si manifesta una certa disaffezione rispetto agli atti comunitari molto presenti nell’antichità, come la processione delle offerte o la condivisione dopo l’Eucarestia con i più indigenti. Nello stesso tempo compaiono tra i fedeli pratiche di devozione che definiremmo extraliturghiche, o di supplenza: non si tratta più tanto di pregare con le preghiere liturgiche, quanto di occuparsi della pietà mentre il prete recita le preghiere liturgiche.

Alle feste dette «di due messe», cioè che comportano una messa mattinale, durante questa i sacerdoti potranno celebrare in privato, se l’abate lo giudica opportuno, ma non in Quaresima, poiché la messa mattinale, come è già stato osservato, è unica nel suo genere essendo quella della feria di Quaresima (cap. 59). È così che, un 15 agosto, san Bernardo evoca durante il capitolo la sua visione del converso rimasto nei campi durante le Vigilie, ma in un notevole slancio di devozione. Secondo il Grand Exorde, che riferisce il fatto, accadeva «dopo la celebrazione dei santi misteri da parte di ciascuno dei preti in onore dell’altissima Madre di Dio», azione che poté essere compiuta solo all’ora della messa mattinale.21 Le messe dette (cantate) in privato potevano spesso essere messe per i defunti: il cap. 59 degli E.O., dedicato alle messe private, prevede le orazioni da recitare quando si deve pregare per i defunti.

Chi canta per i defunti può aggiungere altre collette per altre necessità, senza però superare il numero di tre collette, a meno che, su ordine dell’abate (forse per soddisfare le richieste dei fedeli), non ne aggiunga una quarta.22 Non si reciteranno collette della Santa Trinità, dello Spirito Santo o di un santo. Del resto, alle altre messe, salvo nei giorni in cui non è consentito cantare per i defunti, si possono aggiungere delle collette per loro (i defunti). Il prete non darà mai la pace a messa, salvo nel caso in cui siano presenti degli ospiti o un fratello voglia comunicarsi.

Comunque, ogni giorno un prete celebra per i defunti su un altare speciale, salvo il Venerdì santo e il Sabato santo, e nei giorni di Natale, Pasqua e Pentecoste.23 Ben presto si prese anche l’abitudine che un prete celebrasse tutti i giorni, alle stesse condizioni, una messa in onore di Maria. Non se ne parla ancora in T 1711 e L 31. Uno dei manoscritti degli Instituta 92 che la citano risalirebbe circa al 1147.24 Il culto mariano si sviluppò abbastanza in fretta: se una festa di due messe impediva di celebrare l’ufficio per la Vergine, il sabato la messa mattinale era della Vergine Maria.

19 Vita, n. 17, a cura di Schneider, in Analecta SOC 1955, p. 39.

20 J. DUBOIS, Office des heures et messe dans la tradition monastique, in «La Maison-Dieu», 135, 1978, pp. 61-82. Lo statuto di Pietro è citato e commentato a p. 74.

21 Grand Exorde, IV, 13, 14. In certi sermoni, san Bernardo allude alle messe che seguiranno (Mich, 6; OS 1, 5 e 2, 8). Il missarum sollemnia può indicare la messa grande.

22 A Cluny, può essercene una decina per persone diverse.

23 All’inizio, questa messa era omessa solo il Venerdì santo (T 1711, 47). Viene celebrata anche il Giovedì santo. Nelle tre solennità in cui è omessa, colui che deve privarsene celebra all’altare in cui viene detta di solito (quindi c’è un altare dedicato a questa celebrazione) e aggiunge un’orazione per i defunti a quella della festa (D 114, 59).

24 Manoscritto proveninente da Savigny, cfrC. WADDELL, Twelfth-Century Statutes, cit., pp. 563, 521.

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Senza dubbio le messe private venivano recitate più per compiere dei suffragi per vivi e morti, ma soprattutto per i morti, che per devozione o per soddisfare una pietà eucaristica personale. È questo che ha condotto alla moltiplicazione delle messe.

La comunione dei fratelli che non sono sacerdoti

Tutte le domeniche, i fratelli si comunicano e nel contesto del tempo è un fatto notevole: tale consuetudine si conserva ancora nel XIII secolo, come attestano svariati documenti.25 A Cluny, i monaci lo fanno solo una volta al mese; quindi i cistercensi sono più generosi. Più tardi (cfr. ms D 114) si dice che quando i sacerdoti cantano durante la settimana, cioè celebrano in privato, saranno liberi la domenica, se in quel giorno non celebrano, di comunicarsi o meno.

I giorni di due messe, o almeno alcuni di essi, sono anche giorni in cui i fratelli sono autorizzati a comunicarsi. Il capitolo 66 degli E.O. precisa:

I giorni della natività del Signore, di Pasqua e di Pentecoste, i tre giorni obbligatori per i cristiani nel XII secolo, i fratelli devono ricevere la pace e comunicarsi senza alcuna dispensa, salvo se l’abbate lo proibisce a qualcuno.26 Tutte le domeniche, chi può si comunicherà. Il monaco che non si è comunicato la domenica potrà farlo un altro giorno, se vuole.

Il testo più antico, T 1711, aggiunge che all’Epifania e all’Ascensione, nelle quattro solennità mariane (2 febbraio, 25 marzo, 15 agosto, 8 settembre), il 24 e il 29 giugno, a san Benedetto, a Ognissanti, alla dedicazione, «chi vuole e può» si comunica; con Natale questo rappresenta una dozzina di volte l’anno, oltre la domenica.

Bisogna aggiungere che diacono e sottodiacono si comunicano sempre alla messa conventuale in cui officiano. In compenso, alle messe per i defunti non si dà né la pace né la comunione (E.O. 54, 10).

Il rito della comunione

Si potrebbe pensare che la comunità si comunichi alla messa mattinale; in effetti, è previsto che a questa messa, se è necessario, vengano consacrate diverse ostie, e che siano distribuite sulla patena da colui che serviva come diacono la settimana prima (E.O. 54, 15-16). Talvolta i conversi assistono soltanto a questa messa, soprattutto se dopo devono lavorare. Tuttavia coloro che servono messe private possono comunque comunicarvisi se è un giorno di comunione, fatto normale se queste messe vengono celebrate nello stesso momento della messa mattinale. Gli Instituta precisano che l’abate può dividere monaci, novizi e conversi secondo gli altari.27 Si precisa però che, se un fratello parte per un viaggio, può comunicarsi alla messa mattinale se non parteciperà alla messa grande (E.O. 88, 6), e questo fa supporre che, di solito, ci si comunichi alla messa grande. Ciò nonostante, alla fine del capitolo che descrive lo svolgimento della comunione, si dice che se è una domenica i fratelli non lasciano il coro prima della benedizione del lettore;

quindi si tratta della messa grande. Da parte sua, il Grand Exorde ci riferisce che il futuro abate d’Igny (nel 1168) e di Clairvaux (nel 1179), Pierre, quando era ancora un monaco giovanissimo (adolescente, dice il testo), si sforzò, pur essendo malato, di partecipare all’ora della comunione, una domenica, prima di andare a riposare: dovette aspettare fino alla messa grande e fu allora, mentre si comunicava, che sentì come una grossa palla di piombo cadergli dalla testa e fu guarito (III, 20). Si può concludere solo che gli usi dovevano variare. Del resto, è precisato che l’Ordo della comunione, che descriveremo, è osservato

«alle due messe», ovvero la conventuale e la mattinale (E.O. 58, 7); i cucinieri, per esempio, si organizzano per comunicarsi a messe diverse, mentre cantiniere, refettoriere e usciere sono invitati a farlo alla messa mattinale per via del loro servizio; per ragioni diverse, un infermo può comunicarsi solo alla messa

25 HERBERT DE CLAIRVAUX (1178): cum in quadam die dominica more solito sacram communionem acciperet… PL 185, 1298D. Grand Exorde IV, 3.

26 Osserviamo ancora l’intervento del discernimento dell’abate.

27 Il provvedimento esiste già dal 1135 circa; cf. C. WADDELL, Twelfth-Century Statutes, cit.,

p. 61. Il testo degli Instituta (ibid. p. 549) precisa che si tratta di giorni in cui i fratelli si comunicano, e non di ogni volta che servono la messa.

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mattinale.28 È previsto lo stesso a Natale: gli officianti e gli infermi si comunicano alla messa dell’aurora (E.O. 4, 10). Tutte queste prescrizioni, che vengono presentate come concessioni, dimostrano che la comunione si effettua normalmente, almeno la domenica, alla messa conventuale.

La comunione si effettua anche in altre due forme, mentre per i laici questo modo di fare è uscito dall’uso:

cesserà soltanto nel 1261, ma fino al 1437, diaconi e sottodiaconi continueranno a bere dal calice quando officiano.

Alla messa conventuale, se devono comunicarsi in pochi, viene consacrata una sola ostia, che sarà divisa in tre parti: una sarà mischiata al calice, la seconda sarà consumata dal sacerdote, e la terza sarà per gli altri comunicandi: il diacono e il sottodiacono, ed eventualmente un qualche fratello che deve comunicarsi per supplire alla comunione non ricevuta la domenica.

Contrariamente alle parrocchie, in cui i fedeli non hanno più accesso al santuario29 e si comunicano al banco della comunione, i fratelli avanzano fino all’angolo destro dell’altare, mentre il sacerdote è fermo sul gradino dell’altare. I fratelli si scambiano la pace al livello del presbiterio, poi, a due a due, si confessano reciprocamente, di certo recitando il Confiteor. Si comunicano in ginocchio sul gradino all’angolo destro dell’altare, dopo essersi prosternati, poi ciascuno, passando dietro l’altare, si comunica dal calice presentato dal diacono all’angolo sinistro dell’altare. Per bere si utilizza una cannuccia.

Va segnalata un’usanza particolare: si consacrava poco vino (non si utilizzavano calici grandi come oggi), ma al momento della comunione il diacono sorvegliava l’erogazione e, in base alle necessità, aggiungeva progressivamente del vino (non consacrato), da una caraffa. Il vino veniva consacrato mischiandosi al Prezioso Sangue. All’epoca era una pratica corrente:30 oggi avremmo qualche scrupolo a farlo, eppure sarebbe assai pratico!

Quindi ciascuno si sciacquava la gola con del vino offerto dal sacrestano, poi rientrava nel coro dove poteva sedersi alla fine del canto della comunione. Il celebrante invece faceva una tripla abluzione del calice.

La devozione verso l’Eucarestia

Le rubriche descrivono i riti, ma non dicono niente sullo stato d’animo dei partecipanti. Noi disponiamo di alcuni fioretti la cui narrazione è più tarda, essendo essi trasmessi dal Grand Exorde, ma alcuni si riferiscono all’epoca di cui parliamo qui e, anche se posteriori, attesterebbero lo sviluppo di una considerevole devozione. Già l’avventura di Pierre, raccontata nelle pagine precedenti, ci dimostra il suo desiderio di ricevere il pane eucaristico, poiché resistette al dolore che lo spingeva invece ad andare a riposarsi, e ne fu ricompensato.

Un anziano monaco di Grandselve, che assisteva Ponzio, non ancora abate del monastero (l’episodio risale dunque a prima del 1158), aspirava a una vita felice. Un Giovedì santo, «mentre aveva ancora in bocca l’ostia salvifica, il suo animo si sciolse sotto l’effetto dell’ineffabile dolcezza dell’amore divino»; si augurò di nuovo la morte e pregò in questo senso Gesù Cristo, poi «assorbì in fondo all’anima, più ancora che al corpo, con grande allegrezza e profonda devozione, l’ostia salvifica». Cominciò dunque a indebolirsi, e morì il Sabato santo (II, 24). Un monaco di Clairvaux, formato da san Bernardo, ricevette una grazia particolare di devozione, precisamente al momento della consacrazione: quando celebrava, era un profluvio di lacrime e, al momento della comunione, gli appariva un bel bambino che non poteva evitare di scorgere, anche se chiudeva gli occhi o li distoglieva. Questa visione che si produsse per diversi

28 Riferimenti rispettivi: E.O. 108, 7-9; 117, 19; 118, 1; 120, 22 (se vuole e se è un giorno di comunione: nel caso è sostituito dal sottoportiere); 92, 14.

29 Al di fuori della comunione, della restituzione delle candele alla candelora e dell’adorazione della Croce, nemmeno i monaci che non sono sacerdoti accedono più al santuario, chiamato presbiterio, salvo in caso di bisogno se viene loro richiesto. Così, secondo T 1711 (82), chi serve una messa privata può accendere le candele se trova della luce fuori dal presbiterio, se no deve fare segno a un chierico. Il provvedimento si ammorbidirà nel tempo: D 114 limita la proibizione al livello dell’altare (59, 14- 15).

30 Un altro modo di consacrare il vino era l’immersione di un pezzettino di pane consacrato (o anche di far colare del vino sull’ostia…). Cfr. lettera 69 di san Bernardo, in risposta all’abate di Trois-Fontaines il quale si era accorto, al momento di comunicarsi, che il calice conteneva solo acqua.

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mesi, talvolta addirittura tutti i giorni, gli dava grande gioia. Anche Gerardo di Farfa, discepolo di san Bernardo, piangeva durante i santi misteri (III, 17, 6). Non era il solo a essere invaso dalla devozione durante l’Eucarestia. La storia di un altro è oltremodo istruttiva: di solito la domenica l’ostia santa aveva per lui il gusto di un dolce al miele di estrema dolcezza. Il gusto persisteva per tutta la giornata, o tre giorni, o addirittura per tutta la settimana. Il fenomeno si produsse in diverse occasioni, secondo la grazia dello Spirito santo. Ma un giorno avvertì invece un’amarezza peggiore di quella dell’assenzio o del fiele.

Allora si rese conto di aver ripreso un fratello in modo troppo severo e di non avergli chiesto perdono per averlo ferito prima di comunicarsi.

Di grazia, conclude il narratore, che riflettano su questo esempio tutti coloro che sono gelosi della purezza dell’Ordine, tutti quelli che, infiammati di zelo per la giustizia, lasciano ribollire il loro spirito. Mentre si dilaniano da soli per la collera ed esasperano quelli che dovrebbero correggere, producono loro delle piaghe avvelenate (IV, 3).

La carità fraterna e il perdono reciproco sono dunque le condizioni per comunicarsi in modo fruttuoso, ma non ci si aspetta dalla comunione che favorisca l’unione della comunità, come dicono le nostre costituzioni attuali.31 La prospettiva è più individualistica: si ha in vista solo la dolcezza dell’unione al Cristo. Questo è in linea con il carattere più personale che assume la celebrazione in seguito alla dispersione della comunità intorno a diversi altari, persino durante la messa conventuale. A confronto, la nostra situazione attuale, permessa dalla concelebrazione, favorisce ancora di più l’aspetto comunitario ed ecclesiale dell’Eucarestia.

Il pane degli angeli […] contenente in sé tutte le delizie, che è il verbo di Dio, viene mangiato – oh, meraviglia della condiscendenza divina! – da poveri vermiciattoli, per mezzo della felice umanità di quello stesso Verbo; un pezzettino di alimento terreste, disprezzabile per il suo aspetto e il suo scarso valore, consacrato secondo le leggi tradizionali della Chiesa […] diventa un nutrimento pieno di soavità grazie al quale l’animale ragionevole, ma miserabile, che la riceve con pietà, è deliziosamente riconfortato e associato alla creatura ragionevole, ma felice, nella gloria e nella beatitudine.32

L’Eucarestia è fonte di vita. A un tal punto che un monaco, trovando nel calice un ragno la cui puntura era considerata velenosa, esitò alcuni attimi, poi inghiottì il tutto, «persuaso che la morte non avrebbe potuto prevalere sulla vita». E si produsse un miracolo: dovendo subire un salasso quel giorno, vide il ragno uscire con il suo sangue senza che gli avesse provocato alcun male!33 Più seriamente, i dubbi sulla presenza reale non erano concepibili. Se alcuni ne risentivano, era perché erano stati temerari, volendo comprendere troppo un mistero con la sola ragione.34 Si conosce la replica di san Bernardo a un suo monaco che smise di comunicarsi a causa dei dubbi: «Se non hai la fede, te lo ordino in nome dell’obbedienza: vai a comunicarti in nome della mia, di fede!»35

Si credeva soprattutto nella potenza dell’Eucarestia per il perdono dei peccati e per confortare le anime dei defunti. San Bernardo che conosceva la difficoltà di un converso nelle pene dell’aldilà supplicò i suoi fratelli di raddoppiare l’ardore nelle loro preghiere e nella celebrazione dell’Eucarestia per soccorrerlo. E in effetti, poco dopo il converso apparve a uno dei monaci dicendogli di essere stato liberato grazie alle messe celebrate: «A quest’ostia salvifica nulla può resistere, salvo un cuore impenitente», disse.36 Anche se ci vuole del tempo e bisogna moltiplicare le messe, per il tempo di una messa gregoriani!37 Nella Vita di Malachia, san Bernardo evoca la figura della sorella defunta del santo

31 Costituzioni 18 dell’OCSO: «L’Eucarestia è la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana e della comunione dei fratelli in Cristo.

Così essa è celebrata ogni giorno per tutta la comunità. Infatti attraverso la partecipazione al mistero pasquale del Signore, i fratelli sono uniti più saldamente tra loro e alla Chiesa intera.»

32 Grand Exorde VI, 2, 14.

33 Grand Exorde VI, 6, 17. E dire che talvolta abbiamo paura di prendere il raffreddore da un comunicando che ci precede per bere dal calice!

34 V. per esempio, Grand Exorde VI, 1 e 2.

35 Grand Exorde II, 6.

36 Grand Exorde II, 2. Un episodio simile in Vita Prima I, 47.

37 Grand Exorde II, 33, 31.

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vescovo. Doveva essere assai «sozza», poiché Malachia dovrà moltiplicare le messe per vederla, alla fine, nello spirito penetrare a poco a poco nella Chiesa e avvicinarsi all’altare, con degli abiti sempre più bianchi… Bernardo conclude sulla potenza della preghiera o piuttosto sulla potenza del Cristo, che è inclusa nel sacramento: «È proprio il sacramento che ha la forza di consumare il peccato, di sconfiggere le potenze nemiche, di portare nei cieli le anime che lasciano la terra».38

Un rito cistercense della messa?

Segnaliamo alcune peculiarità rispetto ai nostri usi attuali, della celebrazione come viene precisata negli Ecclesiastica Officia. Quelli di fine secolo (D 114), del resto, sono più prolissi dei testi anteriori, e questo presuppone una certa evoluzione progressiva.

Il vino può essere preparato nel calice all’inizio della celebrazione, mentre il celebrante recita le orazioni, o il coro canta il Gloria. D 114 nota che sacerdote e diacono si siedono per ascoltare l’epistola, pur potendo leggere, il sacerdote nel messale e il diacono nell’evangeliario. Che lettura è? È l’inizio della pratica per cui il prete deve dire tra sé quello che viene eseguito da un ministro subalterno o cantato dal coro? Forse non ancora, ma soltanto una preparazione della tappa successiva. Tuttavia questa disaffezione di fronte a quello che accade annuncia dei comportamenti che, per fortuna, saranno corretti dal Concilio vaticano II, conformemente al carattere comunitario della liturgia.39

Non c’è offertorio propriamente detto. Il pane e il vino sono soltanto deposti in silenzio sull’altare, senza essere elevati, poi, eventualmente, vengono incensati (il diacono stesso incenserà la croce e l’altare). Il sacerdote s’inchina e, secondo il D 114, dice una preghiera che è un’umile raccomandazione di se stesso a Dio, tratta dal libro di Daniele (3, 39-40), In spiritu humilitatis, ancora oggi in uso, anche se con alcune varianti. Questo modo di procedere viene da Cluny, che ha volontariamente creato un rito di preparazione dei doni molto simile al tipo romano puro di cui attesta l’Ordo Romanus I in cui la preghiera «segreta» è l’unica vera preghiera d’offerta.40 Solo nel XV secolo verranno introdotte ufficialmente nel messale cistercense le formule che elencano i nomi di coloro per i quali per chi viene offerto il sacrificio. Preghiere tipo Suscipe, Sancta Trinitas, che si recitavano in ginocchio, ma che sono spostate in quanto utilizzano formule proprie della preghiera eucaristica, fiorivano in alcune chiese locali e anche in alcune tradizioni monastiche carolinge del nordest della Francia o della Renania.

Il messale attuale, frutto della Riforma conciliare, è voluto tornare all’uso romano primitivo e non prevede più offertorio, nel senso del pane e del vino. La vera offerta si fa solo dopo la consacrazione. Il pane e il vino sono «offerte» dei fedeli che li portano, vengono deposti sull’altare, ma non è detto da nessuna parte che sono offerti a Dio. I primi progetti prevedevano che si sarebbe fatto un gesto di deposizione senza dire nulla; alla fine è stata conservata una formula, ispirata alle benedizioni ebraiche, ma forse viene detta a voce bassa; ci si accontenta di «presentare» a Dio i doni deposti, in attesa della consacrazione.

Per tornare all’Ordo cistercense del Medioevo, segnaliamo ancora che il sacerdote non dà la benedizione alla fine della messa: questo gesto è riservato al vescovo o all’abate. Alla fine del secolo, l’embolismo del

«Padre nostro» sarà occasione per pregare per diverse intenzioni, su richiesta del Capitolo generale. A poco a poco verranno introdotte altre pratiche, come l’elevazione dell’ostia dopo la consacrazione nel 1210 e quella del calice solo nel 1544.

In linea di massima, i cistercensi non hanno voluto avere una liturgia propria della messa. Hanno continuato a seguire l’Ordo di Molesmes, che si ispirava a quello di Cluny dell’ XI secolo, senza dubbio tramite Marmoutier. Questo Ordo, caratterizzato da una certa sobrietà riguardo alle preghiere di devozione che cominciarono a introdursi nelle chiese locali dall’ XI secolo, recitate sottovoce dal sacerdote durante un’azione liturgica, era del tutto adeguato, poiché voleva accentuare, in linea generale, la sobrietà e

38 Vie de Malachie V, 11. In un ulteriore articolo, analizzeremo i testi dei primi scrittori cistercensi, che danno una visione più ricca della loro fede.

39 Constitution sur la liturgie, 8: «Chiunque, ministro o fedele, allontanandosi dalla sua funzione farà solo e totalmente quello che gli compete in virtù della natura della cosa e delle norme liturgiche».

40 Cfr. P. TIROT, Un Ordo Missae monastique : Cluny, Cîteaux, La Chartreuse, in «Ephemerides Liturgicae», 1981, pp. 44-120, 220-251. Qui rimandiamo a p. 97. Nel messale attuale, il canto gregoriano ha conservato il nome tradizionale, ma non il rito.

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l’autenticità della liturgia, come si dice nel cap. 17 del Petit Exorde, e queste prescrizioni verranno riprese nei documenti giuridici posteriori:

I fondatori decisero di non conservare croci d’oro o d’argento, ma solo di legno dipinto; e nemmeno candelabri, a parte uno solo di ferro; e nemmeno incensieri, se non uno di cuoio o di ferro; e nemmeno casule, se non di fustagno o di lino, senza seta, oro o argento; e nemmeno albe o amitti se non di lino e pure senza seta, oro o argento. Rinunciarono assolutamente a tutte le tappezzerie, alle cappe, alle dalmatiche e alle tuniche; conservarono però i calici d’argento, non d’oro ma se possibile dorati, una cannuccia d’argento e se possibile dorata, delle stole e delle manipole solo di seta, senza oro o argento.

Quanto alle tovaglie dell’altare, ordinavano chiaramente che fossero fatte di lino e senza motivi; e quanto alle ampolline per il vino, che non fossero né d’oro né d’argento.

Povertà e semplicità, quindi, nel mobilio, negli arredi, negli stessi oggetti di culto; questo contrastava con le convinzioni correnti all’epoca e diede alle chiese cistercensi, persino nella loro architettura, un aspetto particolare di cui si fece rapidamente la teoria. Nella sua Apologia, Bernardo se la prende con gli arredi sontuosi delle chiese, che privano i poveri del pane: in realtà, Cluny dona altrettanto denaro ai poveri di quanto ne investe per il culto (più la liturgia è solenne, più le elemosine sono copiose) e i vasi consacrati rappresentano una specie di investimento, che si realizza vendendo i preziosi calici nel momento di una carestia o di altre necessità. Rimane comunque il fatto che non c’è nulla che sia ritenuto troppo bello o troppo ricco nella chiesa cluniacense, concepita per simboleggiare lo splendore della Gerusalemme celeste, mentre la chiesa cistercense, senza capitello ornato, senza arredo o illuminazione straordinaria, deve la propria gloria solo alla comunità orante che la abita.

In pratica fino al concilio di Trento non vi è stato alcun cambiamento importante nella liturgia cistercense, se non una evoluzione del calendario e l’aggiunta di alcuni nuovi usi, che si possono trovare negli atti dei Capitoli generali, alcuni dei quali, del resto, si allontanano dallo spirito primitivo. La semplicità nelle vesti, per esempio, si allentò: furono autorizzati mantello di seta, dalmatica, stole di seta;

alla fine del XVI secolo gli abati ottennero la concessione di portare la mitra e altre insegne pontificali.41 A dire il vero, a partire dal XIII secolo, in occidente la liturgia si codifica e si consolida sempre di più. Al di fuori del mondo monastico ci si allinea alla liturgia della Curia romana, che i francescani diffondono dappertutto, e la scoperta della stampa non farà che confermare tale tendenza. Mentre in precedenza la liturgia latina, unica nella sostanza, restava elastica e si celebrava con variazioni locali, più o meno importanti, da quel momento in poi i diversi usi si perpetueranno tramite speciali famiglie rituali. Ed è così che il modo cistercense di celebrare la liturgia nel XII secolo diventerà il rito cistercense, a fianco del rito domenicano o certosino, del rito lionese o del rito romano. Un rito che sarà in parte abbandonato a metà del XVII secolo42 e che nessuno, a metà del XX secolo, avrebbe voluto restaurare…

Ma cominciava a emergere una diversa interpretazione dell’azione liturgica. Si arrivò a una concezione più teologica e pastorale della liturgia, a fianco della quale la preoccupazione di tornare agli usi antichi non aveva più peso, salvo quando si trattava di usi dettati dal buon senso. È arrivato il Concilio vaticano II, e i cistercensi dovevano rivedere il loro antico rito nel suo spirito. Lo scopo pastorale della riforma non proibiva certo, anzi, di conservare o restaurare pratiche molto cistercensi, a condizione che avessero un valore pastorale, tenuto conto dei principi enunciati dal Concilio. La nuova commissione di liturgia incaricata della riforma nell’Ordine cistercense preparò in quest’ottica un adattamento della Presentazione generale del messale. La santa sede ci consigliò di presentare invece un elenco di elementi specifici da autorizzare nel quadro del nuovo Ordo Missæ romano. In fin dei conti per il messale ci furono accordate poche cose, bisogna riconoscerlo, senza dubbio nell’intento di non disorentare o stupire i fedeli che partecipassero alle nostre celebrazioni. In compenso abbiamo adottato quasi tutti gli elementi nuovi del Messale romano. Possiamo parlare ancora di rito cistercense? Ma è ancora importante?

In modo più autentico, la liturgia sarà cistercense se è adeguata perr la comunità che la celebra e se è conforme allo spirito che animò l’opera dei nostri padri in materia di celebrazione. Lo sappiamo, si

41 Salem nel 1373 ; Les Dunes e Clairvaux nel 1376 ; Cîteaux nel 1380…

42 L’abbandono dell’antico rito cistercense in seguito fu rimproverato a Claude Vaussin, abate di

Cîteaux, che fece approvare la riforma della liturgia nel 1666. Si può dire, al contrario, che ha salvato quanto si poteva salvare, a fronte delle fortissime pressioni di chi voleva adottare semplicemente il rito romano.

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tratta di uno spirito di semplicità, di autenticità e persino d’austerità che può essere considerato un elemento della nostra cultura monastica.43 La riforma della liturgia romana non ha forse voluto obbedire proprio agli stessi criteri? Non c’è forse coincidenza tra i propositi riformatori del Medioevo e del Vaticano II (L’abbiamo visto a proposito dell’ «offertorio»)? E allora perché avere un rito a parte, almeno per quanto riguarda la messa? Certo la prospettiva del nuovo Ordo Missæ è piuttosto paradossale: il modello presentato è quello di una messa domenicale celebrata da un parroco in mezzo alle sue pecorelle.

In effetti c’è abbastanza elasticità nelle norme date per rendere realizzabili gli adattamenti che permettono al modello di funzionare in prospettiva monastica, nella diversità delle Eucarestie quotidiane e domenicali o festive senza che sia necessario formare una famiglia liturgica particolare, un rito cistercense distinto.

Si auspicherebbe piuttosto che le diverse comunità disseminate nel mondo si rifacessero ai riti delle loro chiese locali, pur conservando ciò che costituisce la specificità cistercense. Non è forse quanto è accaduto nel Medioevo, quando non si parlava ancora di rito cistercense? Certo esiste un patrimonio comune cistercense, ma come dicono le nostre Costituzioni:

spetta a ogni comunità, nel dialogo con gli altri, trovare le vie che permetteranno un’espressione vivente nella sua cultura del patrimonio dell’ordine, tenendo conto delle circostanze particolari, e tuttavia mantenendo sempre ferme le norme stabilite dal Capitolo generale.44

Perché questo non dovrebbe valere a livello della liturgia?

43 Constitutioni 27: «Il modo di vivere dei fratelli è semplice e frugale. Che tutto nella casa di Dio sia in armonia con questo genere di vita, dove il superfluo non ha alcuno spazio, così che la semplicità stessa possa essere un insegnamento per tutti.

Che questa semplicità appaia chiaramente […] finanche nella celebrazione liturgica».

44 Constitutioni 4, 3. Sui problemi evocati in questo paragafo, cfr. G. DUBOIS, «Tradition et culture locale (communautaire)», in Liturgie, 74 (1990) pp. 204-19.

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