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COLORE DELLA PELLE INTRODUZIONE

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Academic year: 2022

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COLORE DELLA PELLE

Letture consigliate:

- Jablonski, N.G. (2006) Skin – A natural history. University of California Press (capp. 4-5).

- Holick, M.F. (2007) Vitamin D Deficiency. N. Engl. J. Med. 357: 266-81.

- Jablonski, N.G. and Chaplin, G. (2010) Colloquium paper: Human skin pigmentation as an adaptation to UV radiation. Proc. Natl. Acad. Sci. USA 107 (Suppl. 2), 8962–8968.

- Del Bino, S. et al. (2018) Review. Clinical and Biological Characterization of Skin Pigmentation Diversity and Its Consequences on UV Impact. Int. J. Mol. Sci. 19, 2668.

- Jablonski N.G. (2020) Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle.

Ed. Bollati Boringhieri, Torino.

consultazione del sito:

https://www.nap.edu/read/12931/chapter/12#172 (capitolo 9)

INTRODUZIONE

La storia del colore della pelle costituisce un sistema modello estremamente interessante per comprendere e spiegare l’evoluzione; infatti, la pigmentazione cutanea soddisfa tutti i criteri per un modello evolutivo vincente. “Ovunque nel mondo, il colore della pelle dell’uomo si è evoluto in modo tale da essere abbastanza scuro per evitare che la luce del sole (più precisamente le radiazioni ultraviolette, UVA e UVB) potesse distruggere alcuni nutrienti cruciali per il successo riproduttivo, come il folato, ma nello stesso tempo sufficientemente chiaro per favorire la produzione della vitamina D”. Il vero stratagemma dell’evoluzione, quindi, è stato quello di trovare un modo per controllare la quantità di UVR che riesce a penetrare nella pelle, e questo è il segreto della pelle scura.

Tutti gli organismi viventi, dai semplici invertebrati ai mammiferi (uomo compreso), presentano diversi modelli di colorazione, che dipendono dalla “personale” distribuzione dei pigmenti in tutto il loro corpo. La pigmentazione è un carattere ereditabile, il cui fenotipo è il risultato degli effetti di fattori genetici, ambientali (raggi UV, xenobiotici, droghe o certi composti chimici) ed endocrini1, che insieme modulano la quantità, il tipo e la distribuzione di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi. La melanina svolge nel corpo diversi ruoli importanti: oltre che essere coinvolta nel mimetismo, nella regolazione del calore e nella colorazione superficiale, la melanina protegge dai raggi UV, per cui rappresenta per la pelle un importante sistema di difesa contro i fattori ambientali dannosi. La pelle è l’organo più esteso del corpo e come tale è sempre sotto

1 I fattori endocrini possono indurre nel colore della pelle cambiamenti temporanei (p.e. durante la gravidanza) o permanenti (p.e. legati all’età).

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l’influenza di fattori interni ed esterni, e spesso reagisce a questi agenti modificando il pattern di pigmentazione costitutiva, cioè della componente ereditata geneticamente.

PELLE E SOLE

Dal momento che l’umanità ha avuto origine ai tropici e ha trascorso sei milioni di anni, e oltre, della sua esistenza nelle aree tropicali, parte del ruolo della pelle ha coinvolto una serie di adattamenti anatomici e biochimici nei confronti del caldo e della luce del sole. La sudorazione è solo un aspetto della storia. La pelle umana ha anche sviluppato altre vie per mediare le trasformazioni chimiche vitali tra il corpo e l’ambiente, e in particolar modo tra il corpo e la luce del sole.

Il sole emette una grande varietà di radiazioni elettromagnetiche, che vanno dalle radiazioni ionizzanti a lunghezza d’onda molto corta, come i raggi gamma, alle radiazioni infrarosse e alle onde radio a lunghezza d’onda maggiore. Le stesse radiazioni ultraviolette (UVR) oscillano in un ampio spettro di lunghezze d’onda, da quelle molto corte (vacuum UV) a quelle di maggiore lunghezza d’onda, e cioè, in sequenza dalla minore alla maggiore, UVC, UVB e UVA (UVA2 e UVA1). Sebbene siano visti male dalla maggior parte dei biologi per il loro effetto distruttivo sui sistemi biologici, gli UVR sono stati una delle forze più forti dell’evoluzione della vita sulla terra.

Dai primi giorni di vita sul nostro pianeta, infatti, gli organismi unicellulari e pluricellulari sono stati costretti a sviluppare speciali meccanismi per proteggere le loro delicate reazioni chimiche dagli effetti distruttivi degli UVR.

Per gli esseri viventi, gli UVR più dannosi sono quelli a minore lunghezza d’onda e maggiore energia (raggi gamma e UVC). Però, per fortuna, il nostro pianeta ha sviluppato un’atmosfera ricca di ossigeno e ozono, che è in grado sia di assorbire che di schermare i raggi solari con le lunghezze d’onda più pericolose.

Nell’ambito degli UVR, i raggi a lunghezza d’onda maggiore (UVB e UVA), insieme con la luce visibile e i raggi infrarossi, riescono a penetrare l’atmosfera piuttosto facilmente. Per questo motivo c’è molto interesse, anche a livello politico, oltre che ecologico e sanitario, circa lo ‘stato di salute’ dell’atmosfera terrestre e, in particolare, dello stato dello strato di ozono che ci protegge. Se questo strato dovesse assottigliarsi o, ancora peggio, “bucarsi”, molte forme di vita sulla terra potrebbero soffrire per gli effetti distruttivi delle radiazioni solari a elevata energia, specie per l’eccesso degli UVB.

Usando i dati dal satellite, è possibile disegnare una mappa su cui riportare i livelli medi di UVR sulla superficie terrestre. Questa mappa mostra situazioni attese e ovvie ma anche alcune sorprese.

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I livelli di UVR sono massimi ai tropici ma soprattutto all’equatore, anche se la latitudine non è determinante, dal momento che aree vicine all’equatore possono ricevere livelli di UVR diversi le une rispetto alle altre. Infatti, le regioni aride, come il deserto del Sahara, ricevono livelli molto alti di UVR, mentre le aree equatoriali più umide o ricche di vegetazione, come la foresta pluviale equatoriale africana e dell’Amazzonia, ricevono livelli più bassi. Al di fuori dei tropici, i livelli di UVR sono generalmente più bassi, con qualche piccola eccezione. L’altopiano del Tibet, per esempio, riceve livelli molto alti di UVR per la sua elevata altitudine e l’atmosfera rarefatta.

Gli UVR penetrano l’atmosfera terrestre in modi differenti. Le lunghezze d’onda ad alta energia (UVC e circa il 90% di UVB) sono assorbiti dall’ossigeno e dall’ozono dell’atmosfera. Il rimanente 10% di UVB e tutti gli UVA la attraversano, ma la quantità che effettivamente raggiunge un bersaglio determinato è in funzione della latitudine e dell’angolo di luce in un luogo specifico in un determinato momento. Allontanandosi dall’equatore e riducendosi l’angolo della luce solare, l’atmosfera diventa più spessa e filtra maggiormente i raggi UVB. Così, bassi livelli di UVB arrivano alle alte latitudini. Piccoli cambiamenti nella quantità di UVB possono avere effetti sostanziali sulle piante e gli animali. Gli organismi che vivono alle latitudini massime a nord e a sud, per esempio, si sono adattati per ricevere solo piccole dosi di UVB, e solo al culmine dell’estate.

L’ineguale distribuzione di UVB e UVA sulla terra ha avuto conseguenze enormi sull’evoluzione della vita a differenti latitudini e sull’evoluzione del colore della pelle.

Molte delle reazioni chimiche provocate dagli UVB nel corpo possono essere pericolose. Se c’è stata una scottatura, si sa che la pelle è stata danneggiata: lo possiamo sentire e vedere. Ma la scottatura è solo l’effetto negativo più immediato e soprattutto visibile dell’esposizione agli UVR.

I danni da UVR possono essere maggiori e ancora più gravi, soprattutto perché si possono manifestare dopo molti anni. A livello molecolare, gli UVR possono danneggiare il DNA, sia direttamente, modificandone la struttura chimica nel momento in cui la cellula assorbe gli UVR, che indirettamente, a causa della potenzialità distruttiva dei radicali liberi generati dagli UVR.

UVR e DNA

Il danno maggiore si ha quando il DNA assorbe gli UVR a più bassa lunghezza d’onda (UVA e UVB).

Sostanze chimiche specifiche, conosciute come “fotoproduttori” perché sono il risultato della radiazione solare, sono prodotte successivamente all’interno della molecola di DNA, provocando piccole distorsioni fisiche nella sua struttura. Queste distorsioni sono normalmente riparate da un processo conosciuto come ”nucleotide excision repair”, che rimuove e sostituisce i filamenti del DNA danneggiati- una sorta di ospedale a livello molecolare. L’evoluzione dell’abilità di

I livelli di UVR sono maggiori tra i due tropici, e specialmente all’equatore (aree rosse e blu), sebbene la latitudine non sia l’unico fattore determinante. Le latitudini estreme a nord e a sud (aree grigie) ricevono livelli veramente molto bassi di UVR e solo al culmine dell’estate.

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riparare il DNA è stata una delle più importanti innovazioni nella storia della vita sulla terra. La riparazione solitamente avviene in modo del tutto irregolare, a dimostrazione che non tutto il DNA è stato colpito e che il meccanismo di riparo è di per sé funzionante. Ma se la riparazione non è adeguata, le cellule si riprodurranno con un DNA difettoso. Avendo abbastanza tempo a disposizione e continuando l’esposizione ai raggi UVR, le cellule con il DNA danneggiato possono moltiplicarsi e causare il cancro della pelle. Anche gli UVB possono provocare danni al DNA, sebbene questo danno sia in qualche modo differente nella sua struttura, e forse nelle sue conseguenze, da quello provocato dagli UVA. Questi ultimi sono soprattutto visti come i principali colpevoli del precoce invecchiamento della pelle (noto come photoaging) causato dall’esposizione ai raggi solari, e negli studi epidemiologici sono stati associati alla forma di cancro della pelle più grave, il melanoma maligno.

UVR e Folato (Vitamina B9)

Il DNA non è la sola molecola minacciata dagli UVR. C’è anche il folato, per esempio, una vitamina idrosolubile del gruppo B (vitamina B9) che è fondamentale nella produzione del DNA. Il folato viene assunto esclusivamente attraverso gli alimenti e viene convertito nelle cellule nella forma attiva, come 5-MTHF (acido 5-metiltetraidrofolico). Nella sua forma attiva come tetraidrofolato (THF) svolge un ruolo essenziale nelle reazioni di metilazione, comprese la sintesi del DNA. Il corpo deve continuamente produrre DNA, perché la maggior parte delle sue funzioni

“routinarie” richiede la divisione cellulare: la produzione di nuove cellule del sangue; il rinnovamento della pelle, dei follicoli dei capelli, del rivestimento della bocca e dell’intestino; la produzione delle cellule spermatiche nell’uomo (la spermatogenesi è un processo che continua per tutta la vita dell’adulto). Ma un’assenza di acido folico può rallentare o ridurre la produzione di DNA, e tutti i processi che necessitano di questa molecola ne soffriranno, specialmente quelli che richiedono DNA immediatamente o in modo continuativo. La replicazione del DNA risulta critica durante la rapida divisione cellulare che si verifica nel corso dello sviluppo dell’embrione e del feto umano, particolarmente nelle prime settimane di gravidanza, quando gli organi cominciano a prendere forma e il piano totale del corpo è stato disegnato. Senza una quantità sufficiente di folato nel corpo della madre, non verrà prodotto abbastanza DNA per promuovere la divisione cellulare che permette ai tessuti embrionali di differenziarsi e crescere.

Il folato gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del sistema nervoso embrionale. Una carenza di vitamina B9 in un momento cruciale della vita biologica, quale è quello delle prime fasi dello sviluppo, può portare a difetti alla nascita di diversi livelli di gravità, compresi alcuni che possono rivelarsi letali in futuro. E’ ormai riconosciuto che una deficienza di folato costituisce un fattore di rischio per numerose complicanze durante la gravidanza, oltre ai ben noti difetti riscontrabili a livello del tubo neurale (p.e. la formazione della spina bifida, una malformazione genetica a carico del sistema nervoso centrale causata dalla chiusura incompleta di una o più vertebre, incompatibile con la vita). Il tubo neurale è il precursore del sistema nervoso centrale nell’embrione e si estende dall’estremità superiore del cervello primordiale fino alla fine del cordone spinale; il suo corretto sviluppo è probabilmente influenzato dalle abitudini alimentari, come p.e. dalla carenza di acido folico durante la gravidanza, da anomalie metaboliche dei folati,

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L’omocisteina è un amminoacido solforato, cioè contenente zolfo, che si forma in seguito alla trasformazione enzimatica della metionina, un aminoacido essenziale della sua stessa natura chimica, abbondantemente contenuto negli alimenti proteici (latticini, carne, legumi, uova ecc). La presenza di omocisteina nel sangue, fino a 5-12 micromoli per litro (μmoli/L) è normale, cioè fisiologica. Per una o più cause, può salire oltre i questi limiti determinando una condizione di iperomocisteinemia (HHcy), che costituisce un fattore di rischio per patologie cardiovascolari, infarto del miocardio e ictus, aterosclerosi, trombosi, embolia e morbo di Alzheimer. L’organismo è in grado di difendersi dall’eccesso di omocisteina con un processo complesso che utilizza vitamine (acido folico, vit. B9, e vitamine B12 e B6), e vari aminoacidi ed enzimi. Questo processo viene definito impropriamente “metilazione”, in quanto questo termine indica un processo chimico dove viene donato un gruppo metilico, e non è questo il caso. Sarebbe più corretto dire “methyl cicle”. Un enzima molto importante è l’MTHFR, che converte l’acido folico e il folato in un composto (5-MTHF), che rende possibile questo processo. In sua assenza l’omocisteina non viene convertita in metionina, e si accumula nel sangue, causando iperomocisteinemia.

dall’alcolismo, dall’obesità e dal diabete. Pochi nutrienti sono paragonabili al folato in termini di impatto sulla salute, soprattutto quando si parla di salute riproduttiva sia per gli uomini che per le donne; noi assumiamo il folato soprattutto dalla verdura a foglia larga, dagli agrumi e dai cereali integrali. Dal momento che il folato è così vitale per la macchina del corpo umano, e per mantenere la salute riproduttiva, è al centro dell’attenzione delle campagne sulla salute pubblica in molti Paesi del mondo. Il folato attualmente è aggiunto a molti alimenti (specialmente pane e cereali, che, per tale motivo, sono detti alimenti “fortificati”) direttamente sotto forma di acido folico, per assicurare alle popolazioni un adeguato apporto a livello dell’organismo, e, in particolare, alle donne in età riproduttiva, viene fortemente consigliata la supplementazione di acido folico nella dieta. L’acido folico o PGA (pteroil[mono]glutammico) rappresenta la forma sintetica del folato ed è aggiunto agli

alimenti come supplemento per la loro fortificazione, in quanto in questa forma risulta maggiormente biodisponibile e ha una maggiore stabilità rispetto ai folati naturali presenti nei cibi, sebbene sia più vulnerabile alla degradazione causata dagli UVA. Anche l’acido folico viene ridotto dall’enzima metilenetetraidrofolato reduttasi (MTHFR) nella forma attiva metilenetetraidrofolato (5-MTHF), principalmente nel fegato (dove si svolge circa l’85% di tutte le reazioni di metilazione), cioè la forma biologicamente attiva dell’acido folico, utilizzata a livello cellulare per tutte le reazioni già citate, oltre al suo coinvolgimento nel ciclo della cisteina e nella regolazione della omocisteina, il cui eccesso nell’organismo

può risultare estremamente dannoso (iperomocisteinemia).

Enzima MTHFR (metilen-tetraidrofolato reduttasi) enzima coinvolto nella trasformazione del 5,10-MTHF in 5-MTHF (metilen-tetraidrofolato), folato nella forma attiva, la più abbondante forma circolante di folato, che serve come donatore di metili per la rimetilazione della omocisteina a metionina (ciclo della metionina); THF o THFA (acido tetraidrofolico) o FH4 o CoF, coenzima tetraidrofolico, cofattore di molte reazioni e forma attiva dell’ acido folico (si produce per riduzione enzimatica); SAH: S-adenosil omocisteina, coenzima coinvolto nel trasferimento di gruppi metile; forma per demetilazione della SAM; SAM:

S-adenosil metionina, coenzima coinvolto nel trasferimento di gruppi metile, coinvolta nella biosintesi di alcuni ormoni e dei neurotrasmettitori, dopamina e serotonina

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Gli UVR e le altre radiazioni a elevata energia possono distruggere o inattivare l’acido folico presente nell’organismo. Quando questo si verifica all’improvviso, e su larga scala, si possono avere serie conseguenze perché tutti i processi chimici che necessitano di vitamina B9 possono risentirne. Sebbene gli studiosi si siano resi conto degli effetti negativi degli UVR su questa vitamina già a partire da 50 anni fa, solo negli ultimi decenni, quando è stata chiarita la sua importanza, si è iniziato a far luce sulle implicazioni del fenomeno. I particolari della distruzione chimica del folato a opera degli UVR sono stati documentati di recente da esperimenti di laboratorio, che hanno messo in evidenza come la vitamina B9 sia particolarmente suscettibile al danno degli UVR a maggiore lunghezza d’onda, cioè degli UVA. Questi studi hanno potuto chiarire come in effetti gli UVA possano recar danno naturalmente ai livelli di folato durante la vita di ogni individuo. Se gli UVR possono distruggere il folato, una sostanza essenziale per la vita e la riproduzione, è chiaro che deve essersi sviluppato un qualche efficace meccanismo di difesa a opera della selezione naturale per aiutare a mantenere nella norma i livelli di folato nell’organismo. (Per approfondimento: Borradale and Kimlin (2012): Folate degradation due to ultraviolet radiation: possible implications for human health and nutrition http://nutritionreviews.oxfordjournals.org/content/nutritionreviews/70/7/414.full.pdf).

LA STORIA DEL COLORE DELLA PELLE

Quando il corpo ha iniziato a patire gli effetti dei raggi del sole, la soluzione evolutiva è stata quella di aggiungere una protezione naturale alla superficie corporea, e questa è stata la pelle.

Gli UVR hanno rappresentato una potente e creativa forza nell’evoluzione della vita sulla terra, e gli organismi viventi hanno evoluto un’ampia varietà di difese contro UVR di determinate lunghezza d’onda. La pelle nuda è stata la prima interfaccia tra il corpo umano e la radiazione solare per gran parte della storia del genere Homo. Nell’Africa equatoriale, i primi rappresentanti del genere Homo e, successivamente, lo stesso Homo sapiens, si sono dovuti confrontare con un potente mix di UVA e UVB che prevale nella fascia intertropicale per tutto l’anno. Gli UVA sono abbondanti e in grado di penetrare profondamente fino al derma; gli UVB sono meno abbondanti e non sono in grado di penetrare fino al derma perché sono assorbiti dall’atmosfera e dispersi. Gli ecosistemi con elevata incidenza di UVR hanno esercitato una forte pressione selettiva sulla pelle, portando all’evoluzione di una pigmentazione costitutiva permanente scura e alla capacità di incrementare la produzione di eumelanina in risposta all’aumento stagionale di UVB. A livello genetico, questo ha comportato una selezione positiva mirata alla eliminazione del polimorfismo al locus MC1R e all’azione continua di una selezione purificante allo stesso locus. I tre eventi migratori dell’ “out of Africa” che hanno coinvolto rispettivamente Homo ergaster (circa 1,9-1,5 milioni di anni), Homo heidelbergensis (circa 500.000 anni) e per ultimo Homo sapiens (circa 100.000, che, partito dalla valle dell’Omo, Etiopia, è riuscito a raggiungere il Sinai, facilitato dal fatto che il Sahara non era un deserto e che, quindi, era facilmente percorribile) hanno portato alla “dispersione” degli ominini da ambienti molto ricchi di UVR a elevata lunghezza d’onda verso ecosistemi molto più eterogenei dal punto di vista delle variazioni stagionali, dell’intensità e della lunghezza d’onda di questi raggi. Inoltre, questi rappresentanti del genere Homo non

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possedevano alcun tipo di abbigliamento né conoscevano metodi di protezione dal sole: per questo, a parte i periodi che trascorrevano all’ombra, i loro corpi erano costantemente esposti agli UVR.

Come detto, la superficie terrestre riceve una maggiore quantità di UVA perché gli UVB sono dispersi e assorbiti dall’ossigeno, dall’ozono e dalle molecole di acqua dell’atmosfera. Per questo motivo, e per l’inclinazione con cui i raggi del sole raggiungono diversi punti della terra nelle differenti stagioni, gli UVB sono molto più variabili in intensità e distribuzione rispetto agli UVA. I livelli di UVB sono massimi all’equatore, specie nelle zone aride, e in alta montagna (in Tibet, sulle Ande e sull’altopiano dell’Etiopia l’atmosfera è molto rarefatta, e per questo ricevono per tutto l’anno livelli di UVB molto più alti rispetto a qualsiasi altra area posta alla stessa latitudine), mentre decrescono in intensità all’aumentare della latitudine, a causa della dispersione e dell’assorbimento atmosferico. Inoltre, all’equatore, gli UVB presentano due picchi di intensità durante gli equinozi mentre alle alte latitudini ne presentano uno, e solo in coincidenza con il solstizio d’estate. Questa riduzione di intensità degli UVB, che comporta una riduzione della capacità cutanea nella biosintesi di vitamina D, ha indotto una selezione positiva verso la

“depigmentazione”: in particolare, alle medie latitudini (tra 23° e 46° N e S) sono stati selezionati fenotipi parzialmente depigmentati capaci di abbronzarsi, fino ad arrivare a una pigmentazione cutanea molto chiara mano mano che ci si avvicina ai poli. Infatti, oltre i 46° di Lat N e S, i livelli di UVB sono insufficienti per innescare, a livello cutaneo, la produzione di provitamina D3 per la maggior parte dell’anno. Ecco, allora, che le popolazioni hanno dovuto escogitare una particolare e ben precisa strategia adattativa.

L’Africa riceve quantità elevate e uniformi di UVB mentre la parte settentrionale dell’Eurasia ne riceve quantità trascurabili. Il coefficiente di variazione (CoV) degli UVB è strettamente associato con la loro natura stagionale (due picchi o un solo picco annuali) e risulta minimo nella zona equatoriale e massimo in nord America e nord Eurasia. L’umidità e le precipitazioni monsoniche abbassano la quantità media di UVB.

Per quanto riguarda gli UVA, i loro livelli sono considerevolmente più alti di quelli degli UVB.

Inoltre, hanno una distribuzione più ampia nel senso della latitudine e presentano i livelli più alti ai poli. Le regioni equatoriali ricevono leggermente meno UVA rispetto alle zone tropicali e subtropicali. Suoli poco colorati, e soprattutto la neve, aumentano i livelli di UVA, mentre l’umidità non ha alcuna influenza. Il pattern del coefficiente di variazione (CoV) annuale degli UVA è quasi l’inverso del CoV degli UVB. Gli UVA risultano più variabili nelle regioni aride tropicali e assai meno all’equatore.

In conclusione, è opportuno confrontare il pattern degli UVR all’equatore e tra i due tropici con quello oltre i tropici. All’equatore e nella fascia intertropicale, la media degli UVB è alta con due picchi stagionali in concomitanza con gli equinozi. Anche la media degli UVA è molto alta all’equatore e tra i due tropici, ma con un grado di variabilità maggiore e più uniforme per tutto l’anno. Oltre i tropici, i livelli medi sia di UVB che di UVA risultano più bassi, ma, mentre il carico di UVA risulta relativamente costante nel corso dell’anno, quello degli UVB presenta un singolo picco al solstizio d’estate. Infine, i livelli di UVR sono diversi nei due emisferi: l’emisfero australe

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riceve un grado di insolazione più intenso in estate mentre l’emisfero boreale in inverno. Inoltre, la diversa distribuzione delle masse terrestri nei due emisferi fa sì che esse subiscano quantità diverse di radiazioni solari, così che la maggior parte dei territori australi riceve una quantità di UVR maggiore rispetto alle aree dell’emisfero boreale che ne ricevono livelli più bassi. A questo è dovuta la differente percentuale di riflettenza della pelle a parità di latitudine nord e sud e di conseguenza del maggior grado di pigmentazione che si osserva nelle popolazioni australi rispetto a quelle boreali che vivono alla stessa latitudine.

Oltre agli effetti dannosi, gli UVR presentano anche alcuni benefici effetti biologici. Il più importante di questi - la produzione di vitamina D, nota comunemente come “la vitamina del sole”- si riscontra proprio a livello della pelle. Il legame tra l’evoluzione della pelle leggermente pigmentata e la sintesi di vitamina è stato sviluppato da Loomis nel 1967. Egli fu il primo a sottolineare l’importanza della vitamina D nel successo riproduttivo, grazie alla sua capacità di favorire l’assorbimento del calcio a livello intestinale, che consente sia lo sviluppo corretto dello scheletro che il mantenimento di un efficiente sistema immunitario. Le successive ricerche di Holick, condotte negli ultimi 20 anni, hanno confermato l’importanza della vitamina D nello sviluppo e nell’immunità. Il suo gruppo di ricerca ha anche dimostrato che non tutti i raggi solari presentano abbastanza raggi UVB per stimolare la produzione di vitamina D. Per esempio, a Boston, a 42° di latitudine nord, la pelle umana riesce a produrre vitamina D solo dopo la metà di marzo. Durante i mesi invernali, i raggi UVB “non svolgono il loro compito”. Questo è un altro particolare importante nella storia del colore della pelle. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, misurando le radiazioni UV sulla terra, è stato possibile costruire il modello di distribuzione degli UVR sulla terra e correlarli alla quantità di UVB necessaria per produrre vitamina D.

LA VITAMINA D

Si tratta di una vitamina liposolubile che si accumula nel fegato e nel tessuto adiposo. Viene prodotta attraverso la pelle a seguito dell’esposizione ai raggi solari, in particolare ai raggi UVB, in quanto scarsamente presente negli alimenti nella sua forma attiva, cioè biodisponibile.

Comunemente si usa parlare di vitamina D come la “vitamina delle ossa”, o “the sunshine vitamin”, in quanto regola

il metabolismo del calcio

, ma è bene precisare, però, che, a dispetto del suo nome, non è affatto una vitamina ma un ormone steroideo a tutti gli effetti, come gli ormoni prodotti dal surrene e gli ormoni sessuali, seppure con caratteristiche diverse da questi.

Dal momento che “agisce” su diverse parti del corpo (per alcune è addirittura essenziale) non può ritenersi “totalmente estraneo” all’organismo. Esercita il suo ruolo biologico legandosi al suo recettore (VDR, Vitamin D Receptor) presente in almeno 37 tessuti. Si può, invece, considerare una vitamina dal momento che si tratta di “something my body needs that I can’t make, so I must get it from the food”. La vitamina D si presenta in due forme: la vitamina D3, prodotta dai vertebrati, e la vitamina D2, la forma che si trova nei vegetali. La vitamina D è una molecola naturale unica, che è apparsa sulla terra per la prima volta oltre 750 milioni di anni fa, come il prodotto della fotosintesi del fitoplancton marino. Sebbene la sua funzione nei vertebrati più

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antichi (pesci) non sia ancora completamente nota, a partire da circa 350 milioni di anni fa (momento in cui apparvero per la prima volta i tetrapodi, la prima forma di animali che passava la maggior parte del suo tempo sulle terre emerse), questa vitamina ha assunto un ruolo preminente ed essenziale nell’evoluzione dei vertebrati.

La vitamina D è fondamentale per tutti i vertebrati perché permette loro di assorbire il calcio introdotto con la dieta e costruire un forte scheletro interno. I pesci possono ricavare facilmente sufficiente vitamina D mangiando il plancton o altri pesci che la contengono. Per le prime forme di vertebrati che vivevano sulla terra, comunque, queste fonti di vitamina D non erano disponibili, sebbene essi avessero una grande necessità di calcio per mantenere uno scheletro forte. In quel momento dell’evoluzione, con la selezione naturale che operava a pieno regime, i vertebrati hanno sviluppato la capacità di produrre da soli la vitamina D: poiché la vitamina D è costruita da un processo fotochimico, o indotto dalla luce solare, i primi tetrapodi erano in grado di soddisfare la richiesta di questa vitamina da parte del proprio corpo esponendosi al sole. In questo modo, essi potevano ottenere vitamina D sia dalla loro dieta che dal fattore vitaminico presente nella loro pelle.

Soprattutto gli UVR corrispondenti al range di lunghezza d’onda degli UVB (280-315 nm) stimolano la produzione di vitamina D nella pelle. I fotoni ad alta energia degli UVB penetrano nella pelle e sono assorbiti da una molecola simile al colesterolo che risiede nelle cellule dell’epidermide e del derma, che catalizza la formazione di una molecola chiamata pro-vitamina D3 (7-deidrocolesterolo). Questa molecola precursore viene poi trasformata nella pelle alla temperatura del corpo (37°C) in pre-vitamina D, che va incontro a ulteriori trasformazioni nel fegato (25-idrossivitamina D; 25(OH)D) e nei reni (1,25-diidrossivitamina D; 1,25(OH)2D) per diventare la forma attiva della vitamina, chiamata calcitriolo. Questa reazione è auto-limitante:

se in circolo c’è abbastanza vitamina D nella forma attiva, si interrompe il processo di produzione di altra vitamina, e il precursore viene scisso in vari composti inerti. In questo modo, il corpo evita una “intossicazione da vitamina D” o avvelenamento da vitamina D, cioè una iperproduzione della forma attiva (si raccomanda di confrontare e approfondire la figura 1 con relativa didascalia del lavoro di Holick, 2007).

La forma attiva di vitamina D è usata dal corpo per un’enorme varietà di scopi. Regola il metabolismo del calcio e del fosforo, la base per la formazione di uno scheletro forte. Facilita anche il riassorbimento del calcio dall’intestino e ha un effetto diretto sulla formazione delle cellule dell’osso. È ormai risaputo che la vitamina D è necessaria per l’accrescimento delle ossa perché permette al corpo di assorbire il calcio dal cibo. La regolazione della concentrazione del calcio nel plasma è sotto il controllo, oltre che della vitamina D, anche di un altro ormone peptidico, il paratormone, sintetizzato dalle ghiandole paratiroidee, i cui livelli sono inversamente

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correlati a quelli della vitamina D: ridotti livelli di vitamina D corrispondono a elevati livelli di paratormone e viceversa.2

Una carenza o assenza di vitamina D ha effetti negativi sul corpo per tutta la durata della vita di un individuo; in particolare, una carenza di vitamina D durante l’infanzia o l’adolescenza può ridurre la capacità riproduttiva di un soggetto per lungo tempo. La conseguenza più preoccupante che si ha in seguito a grave carenza di vitamina D è il rachitismo nutrizionale, una malattia dell’infanzia per cui le ossa lunghe delle gambe si inarcano sotto il peso del corpo.

Rachitismo, Osteomalacia e Osteoporosi

Il rachitismo è una diffusa malattia pediatrica causata anche da un fenomeno economico-sociale:

la rivoluzione industriale, che produsse condizioni di vita malsane nelle fasce più deboli della popolazione, sottratte in massa allo stile di vita tipico del lavoro nei campi e non abituate ad addensamenti in edifici urbani a livelli fino ad allora sperimentati. Questo deficit nutrizionale specifico è stato trattato anche in letteratura e al cinema: il protagonista di “A Christmas Carol” di C. Dickens è un bambino di una famiglia proletaria (“Tiny Tim”) che non cresce a causa dell’ambiente in cui vive, un buio seminterrato di una Londra sempre coperta dai fumi del carbone bruciato nelle case e nelle fabbriche, mentre i suoi coetanei rimasti in campagna si sviluppano normalmente. Un nostro “Tiny Tim” fu e rimase per tutta la vita Giacomo Leopardi, poco esposto all’aria aperta per la sua passione letteraria, anche se cresciuto e nutrito in una famiglia molto agiata.

Nei bambini affetti da rachitismo, la cartilagine delle ossa in via di sviluppo non riesce ad andare incontro a mineralizzazione in maniera corretta perché il corpo non è in grado di assorbire calcio e fosforo. Gravi casi di rachitismo nelle ragazze impediscono anche un corretto sviluppo della pelvi, che potrà causare problemi al momento della gravidanza, con un’alta incidenza di problemi di salute per la madre e il bambino ed elevata mortalità neonatale. Livelli eccessivamente bassi di vitamina D possono anche interferire con il corretto sviluppo delle ovaie. Nelle donne in gravidanza, la mancanza di vitamina D contribuisce a bassi livelli patologici di calcio nel loro sangue e successivamente al rachitismo dei loro figli. Tra gli adulti, può evolvere in osteomalacia, un diffuso indebolimento delle strutture ossee portanti (principalmente le ossa lunghe) che porta a una riduzione della trama proteica dello scheletro, e che può anche incidere sul funzionamento del sistema immunitario. Nel trattamento di questo deficit nutrizionale, la dieta assume un’importanza secondaria rispetto all’esposizione al sole, a meno che questa non sia compromessa. In questo caso è bene ricordare che il latte, ricco di calcio, è poco utile, perché bisogna ricorrere a fonti abbondanti di vitamina D già formata, come i grassi animali in genere, il rosso d’uovo (lo zabaione) e il fegato. I pesci grassi e i loro oli (celebre, per le generazioni più

2 Esiste un terzo ormone, la calcitonina, antagonista del paratormone e anch’esso prodotto dalle ghiandole paratiroidee. La produzione e la secrezione della calcitonina sono stimolate da alti livelli di calcio nel sangue; il suo scopo, quindi, è quello di ridurre i livelli di calcio circolante. In questo motivo la calcitonina inibisce l’attività osteoclastica.

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anziane, quello di fegato di merluzzo) ne sono particolarmente ricchi e questo ha aiutato l’uomo nel suo adattamento nutrizionale alle zone polari (p.e. Inuit).

Fino alla Seconda guerra mondiale, le gambe storte e lo sterno carenato (o a petto di pollo), i sintomi esteriori più appariscenti del rachitismo, erano una non infrequente evenienza nei bambini. Ora sono quasi scomparsi per l’effetto delle vacanze al mare, dell’alimentazione più varia e della prevenzione o cura con vitamina D a dosi farmacologiche.

Anche l’osteoporosi può essere considerata una sindrome da deficit di vitamina D, che colpisce una fetta di popolazione rappresentata principalmente da individui di sesso femminile in età geriatrica, e che si caratterizza perché la massa ossea è ridotta e il tessuto è deteriorato, con conseguente aumento della fragilità delle ossa e aumento della predisposizione al rischio di fratture, soprattutto dell’anca, della colonna vertebrale e del polso.

Il fatto nutrizionale di base è legato all’apporto di calcio e alla regolazione del suo coinvolgimento nella genesi del tessuto osseo, in cui la vitamina D gioca un ruolo preminente. Oltre al fatto nutrizionale, un ruolo determinante viene svolto dalla componente genetica, dal sesso (estrogeni verso androgeni, con grande aumento di rischio nelle donne dopo la menopausa) e dall’attività muscolare, che è fondamentale nel mantenere la densità ossea. E, sempre nel contesto dietetico, è l’alterato rapporto calcio/fosforo che potrebbe rappresentare la principale causa di rischio.

Questo rapporto normalmente è 2:1 nella matrice ossea, ma tende a sbilanciarsi a favore del fosforo per certe caratteristiche del bilancio nutrizionale tipico dei cibi della “globalizzazione”. Il fosforo è presente in grande quantità nei cibi di preparazione industriale e nelle bevande tipo Coca Cola, ed è assorbito con più rapidità del calcio. Anche se numerosi meccanismi di regolazione tendono a ripristinare il rapporto corretto, favorendo l’escrezione renale del fosforo e l’assorbimento intestinale del calcio, la prima reazione a un aumento del fosforo nel sangue, o meglio della sua forma attiva nel metabolismo, lo ione fosfato, è la liberazione del calcio dalla compagine ossea. Uno stimolo di questo genere può rappresentare un rischio per la buona salute dello scheletro.

Meno conosciuto rispetto all’importanza nella buona salute dello scheletro, è il ruolo della vitamina D nel regolare il normale accrescimento cellulare e l’inibizione della crescita delle cellule tumorali. L’insufficienza di vitamina D è stata recentemente correlata a un aumento di rischio di gravi forme tumorali che affliggono comunemente le popolazioni dei paesi ad alto ISU, come il cancro al colon, al seno, alla prostata, alle ovaie. Queste forme tumorali colpiscono prevalentemente le popolazioni che vivono alle elevate latitudini dove si possono verificare carenze croniche o bassi livelli di attivazione di vitamina D: da non dimenticare è anche l’importanza da un punto di vista evolutivo (vedere tabella 1 del lavoro di Holick). Da un punto di vista generale, il contributo della vitamina D allo stato di “buona salute” di un organismo è indubbio, in quanto interviene in molti tessuti o organi nei quali favorisce una serie di importanti attività metaboliche (Norman AW and Bouillon R (2010) Vitamin D nutritional policy needs a vision for the future. Exp Biol and Med 235: 1034–1045. DOI: 10.1258/ebm.2010.010014).

La radiazione ultravioletta sembra essere un’implacabile forza nell’evoluzione della vita sulla terra. A causa del suo potere distruttivo, gli organismi devono aver evoluto mezzi sofisticati per

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proteggere dal suo danno le loro macchine riproduttive di base (il DNA e i suoi precursori a partire dal folato). Come molti criminali, comunque, gli UVR hanno un lato buono che non sempre viene preso in considerazione. La loro abilità di trasformare le molecole presenti sulla pelle nei precursori della vitamina D si è rivelata di massima importanza per tutti i vertebrati che vivono sulla terra, comprese le popolazioni umane.

Il vero stratagemma dell’evoluzione è stato quello di trovare un modo per controllare la quantità di UVR che riesce a penetrare nella pelle, e questo è il segreto della pelle scura.

IL SEGRETO DELLA PELLE SCURA

La pelle umana è interamente colorata. All’interno della nostra unica e recente specie, Homo sapiens, il colore della pelle rivela una “tavolozza di colori”, che varia secondo gradi impercettibili dall’avorio più chiaro al marrone più scuro. Il colore della pelle sana è il risultato della combinazione dei diversi pigmenti e fattori presenti sulla pelle: i carotenoidi (in particolare il beta carotene precursore “vegetale” del retinolo o vitamina A), che conferiscono una colorazione giallo-arancione; l’emoglobina (ossidata o ridotta a seguito del diverso grado di ossigenazione del sangue), contenuta nei globuli rossi, che conferisce alla pelle una tonalità variabile dal rosa al rosso; la cheratina, presente nei cheratinociti, che dona alla cute un colore di base giallo-bianco, che varia in funzione dello spessore dello strato corneo; i vasi sanguigni, presenti nel derma, che, in base al numero, alla profondità e al grado di ossigenazione del sangue, contribuiscono a donare alla pelle toni rosso-bluastri; e, infine, la melanina. È proprio quest’ultima a far sì che le popolazioni differiscano tra di loro, a causa della differente quantità di questo pigmento contenuta nella pelle e nel modo in cui esso è impacchettato. La melanina, dalla quale la pelle deriva gran parte della sua colorazione, è una molecola importantissima che ha avuto letteralmente migliaia di usi nel corso dell’evoluzione della vita: il suo ruolo nel proteggere la pelle umana è solo uno dei suoi più recenti.

La Melanina

E’ il nome dato a una famiglia di pigmenti complessi polimerici che esistono sotto diverse forme (un polimero è un composto chimico formato da unità multiple che si ripetono). La forma primaria di melanina che troviamo nel corpo umano è una molecola di pigmento estremamente densa, praticamente insolubile, di un marrone molto scuro attaccata a una proteina. Quando questa forma di melanina è isolata in laboratorio, assomiglia a una fanghiglia sul fondo di un becker. I pigmenti di melanina sono ampiamente distribuiti in natura, conferendo una colorazione scura a chiunque, dai funghi alle rane, e per tutti per le stesse ragioni.

La melanina è un eccezionale schermo solare naturale. Poiché le molecole di melanina sono composte da unità multiple legate da forti legami carbonio-carbonio, risulta difficile caratterizzare in modo preciso le componenti chimiche. Tuttavia, gli studiosi sono riusciti a decifrare in modo accurato e preciso le proprietà della melanina naturale. Nel corpo, essa è capace di assorbire, disperdere e riflettere la luce a differenti lunghezze d’onda. Le melanine

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nella pelle umana sono un insieme di composti, e cioè i polimeri di melanina, le strutture portanti e i prodotti di degradazione. Queste molecole insieme possono assorbire tutte le lunghezze d’onda dei dannosi raggi UV, proteggendo i sistemi biologi vulnerabili e le strutture molecolari del corpo, sebbene la capacità della melanina di assorbire i raggi solari vada diminuendo passando dai raggi UV allo spettro del visibile.

Alcuni individui producono molta melanina nei loro melanociti, altri molto poca secondo la quantità di UVR presenti nell’ambiente circostante. Il colore della pelle, determinato dall’attività dei melanociti e, in particolare, dalla melanina prodotta all’interno dei melanosomi, si è evoluto sotto l’occhio attento della selezione naturale. L’epidermide umana è costituita da quattro strati:

strato basale, strato spinoso, strato granuloso, strato corneo e da un ultimo “strato” costituito da

“scaglie” di cheratina. I cheratinociti sono le cellule più importanti dell’epidermide. Sono responsabili della forza, della resistenza e dell’elasticità della pelle. La continua produzione di cheratinociti nello strato basale dell’epidermide garantisce alla pelle di mantenersi in buone condizioni. I filamenti di cheratina che forniscono il supporto strutturale e la resistenza all’abrasione sono prodotti nelle cellule che si trovano nello strato spinoso. Nello strato granuloso, le cellule che contengono i granuli interni di cheratina muoiono e muovono verso lo strato corneo. I melanociti sono situati molto in profondità nell’epidermide e nella matrice del bulbo dei capelli. La storia dei melanociti è molto affascinante per quanto riguarda la loro filogenesi (la loro completa storia evolutiva) e la loro ontogenesi (la storia del loro sviluppo all’interno di ciascun individuo). I melanociti hanno origine in una parte dell’embrione chiamata cresta neurale, che si trova a lato del tubo neurale. Essi nascono come cellule molto attive nella capacità di dividersi, cellule note come melanoblasti, che migrano verso l’epidermide durante la 18a settimana dello sviluppo embrionale, per raggiungere la loro destinazione finale: pelle, orecchie, cervello e occhi.

I melanociti producono il pigmento melanina all’interno di piccole strutture, circondate da membrane, chiamate melanosomi, distribuite nel citoplasma del melanocita; una volta maturi, i granuli di melanina vengono espulsi al di fuori dei melanociti e distribuiti tra i cheratinociti dell’epidermide, attraverso propaggini molto sottili, chiamate dendriti. La grandezza e la forma dei melanosomi, così come il modo in cui sono aggregati, influenzano la loro capacità di proteggere la pelle e i sottostanti tessuti dagli UVR. Nelle pelli molto pigmentate, i melanosomi sono più grandi, presentano un’intensa attività metabolica, sono ricchi di melanina, che viene riversata uniformemente tra i cheratinociti. Questo arrangiamento consente a questi melanosomi di assorbire più energia rispetto ai melanosomi più piccoli, che sono anche meno densi e con minor contenuto di melanina, presenti nelle pelli meno pigmentate. Un’ulteriore protezione è fornita da una sorta di “polvere di melanina”, dovuta a sottili particelle di melanina, presenti nell’epidermide e non confinate all’intero dei melanosomi, che sono capaci di assorbire e disperdere gli UVR.

Di recente, un nuovo contributo all’importanza dei melanosomi nella pigmentazione umana è venuto da una fonte inattesa: lo studio della pigmentazione del “pesce zebra” (zebrafish). Questo piccolo pesce, originario dell’Africa, è comune negli acquari e nei laboratori. Esistono parecchie

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varietà di zebrafish con differenti pattern di pigmentazione, compresa una variante dorata che ha molto meno melanina rispetto al wild-type. I melanosomi di zebrafish dorato sono più piccoli e meno densi del tipo normalmente pigmentato. Studi su zebrafish dorato hanno evidenziato che la caratteristica struttura dei suoi melanosomi e la sua pigmentazione sono dovuti a un gene variante, e che l’equivalente umano di questo gene è la forma prevalente nelle popolazioni poco pigmentate dell’Europa settentrionale. Questa similarità comporta la stessa mutazione genetica che genera i piccoli melanosomi con poca melanina tra gli Europei. Questa variante genica e il colore chiaro della pelle a essa dovuta a si è ampiamente diffusa come qualcosa a cui è stato dato il nome di “selective sweep” (“colpo selettivo”). In altre parole, il colore chiaro della pelle prodotto da questa variante genica si è rivelato estremamente vantaggioso per la sopravvivenza quando l’uomo moderno si è spinto per la prima volta in Europa, dove in breve tempo diventò il soggetto predominante.

Nella pelle dell’uomo e di tutti gli altri mammiferi si trovano due tipi di melanina. Il primo, e più comune, è la eumelanina, di colore marrone-nero; il secondo è la feomelanina, di colore giallo- rosso. Alte concentrazioni di eumelanina sono quelle che rendono scura la pelle, ed è anche il tipo di melanina prodotta quando prendiamo la tintarella o abbronzatura. La presenza di feomelanina nella pelle dell’uomo è molto più variabile. È più comune tra gli Europei del nord che hanno i capelli rossi, dove contribuisce alla composizione della quasi totalità della melanina nella pelle. È stata anche trovata in alcune popolazioni dell’Asia orientale e tra i nativi americani, ma la quantità sembra variare da individuo a individuo. Il nostro corpo produce la melanina a seguito di una reazione chimica che induce l’ossidazione dell’aminoacido tirosina, a opera dell’enzima tirosinasi. Entrambi i tipi di melanina sono prodotti attraverso un pathway comune, in cui il composto dopachinone è un intermedio chiave.

La produzione di melanina nel corpo umano è controllata da diversi fattori, dai cosiddetti geni della pigmentazione, conosciuti anche come “melanogeni”, dagli ormoni e dagli UVR. Quando l’azione dei geni e degli ormoni non è bilanciata, la produzione di melanina nell’individuo può essere completamente o parzialmente compromessa, comportando nelle persone riduzione o addirittura assenza del pigmento nei suoi capelli, pelle o occhi - in altre parole può portare alla malattia nota come albinismo. Questa vale per tutti gli animali, compresi gli insetti e altri invertebrati, pesci, uccelli e mammiferi, che, nell’aspetto fenotipico, appaiono molto diversi da chi possiede un normale livello di pigmentazione. L’albinismo è una condizione normale per molte specie di pesci e invertebrati che vivono nelle grotte o alle profondità oceaniche dove la radiazione solare non può arrivare. In questi casi, non si è verificata alcuna forte pressione da parte della selezione naturale, in quanto, non essendoci la necessità dell’effetto protettivo dato dalla melanina, non ha molto senso mantenerne la produzione, per cui questa capacità metabolica è andata perduta, senza effetti patologici.

Dal momento che il pathway, che regola la pigmentazione dovuta alla melanina, è lungo e complesso, e i problemi possono verificarsi in diversi step, possono esistere diversi tipi di albinismo. Nella specie umana, ne sono riconoscibili due: l’albinismo oculare, dovuto alla perdita della produzione di melanina solo nell’occhio, e l’albinismo oculocutaneo, che si verifica quando

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la produzione di melanina è compromessa in tutto il corpo, provocando assenza di pigmentazione anche nei capelli e nella pelle oltre che negli occhi. Gli individui affetti da albinismo oculocutaneo, che vivono in zone con elevati livelli di UVR, sono particolarmente suscettibili al cancro della pelle. In Africa meridionale, gli albini di origine africana hanno un’incidenza di cancro della pelle cento volte superiore rispetto ai loro conterranei più pigmentati.

Nelle popolazioni con un range normale di pigmentazione, la densità dei melanociti varia nelle diverse parti del corpo. Generalmente, il viso e le estremità sono ben pigmentati, mentre il tronco lo è di meno. I melanociti sono molto più concentrati nell’inguine, facendo sì che la parte attorno ai genitali risulti essere la più scura di tutto il corpo persino negli individui che hanno la pelle chiara. Il numero totale di melanociti è sempre lo stesso da una persona all’altra a parità di zona corporea (variando da un minimo di circa 900 a un massimo di circa 2000/mm2), ma non tutti i melanociti in tutti gli individui producono attivamente la melanina. Alcuni individui poco pigmentati producono veramente molta poca melanina nei loro melanociti, mentre gli individui più pigmentati ne producono di più. La produzione di melanina è programmata in risposta all’esposizione solare, ed è massima negli individui che possiedono molti melanociti attivi. Questo è il processo a cui noi comunemente diamo il nome di abbronzatura, ed è un aspetto estremamente importante della risposta protettiva del corpo agli UVR. In conclusione, le pelli più pigmentate non hanno un maggior numero di melanociti ma solo melanociti più attivi nel produrre la melanina.

Il numero di melanociti attivi nel produrre il pigmento melanina varia con l’età. I bambini di entrambi i sessi hanno poche cellule attive, ma i melanociti cominciano a produrre più melanina all’avvicinarsi della pubertà. Le femmine raggiungono il massimo della pigmentazione al momento del menarca (tra gli 11 e i 14 anni), mentre i maschi continuano a scurirsi fino alla fine dell’adolescenza. È interessante notare che all’interno di una popolazione, le femmine risultano sempre più chiare dei maschi (nonostante alcune eccezioni, questo non è evidente per il colore degli occhi). Il maggiore potenziale di produzione di melanina in entrambi i sessi si ha durante l’intero periodo riproduttivo. Intorno ai 35 anni, la produzione di melanina diminuisce in entrambi i sessi. Questo è il motivo per cui le persone anziane tendono ad apparire più chiare dei giovani: le popolazioni umane “sbiadiscono” con l’età.

Per molti anni, la melanina nella pelle umana è stata vista come un filtro protettivo passivo per proteggere dai raggi UV. Ora noi sappiamo che la melanina non è una sostanza semplicemente assorbente; infatti, essa partecipa attivamente alla neutralizzazione chimica degli effetti dannosi dovuti all’esposizione ai raggi UV. Quando la melanina assorbe i fotoni della radiazione solare, può andare essa stessa incontro a una trasformazione chimica. Studi recenti hanno dimostrato che è proprio questo cambiamento chimico che conferisce alla melanina la sua capacità di neutralizzare i radicali liberi, composti potenzialmente dannosi che si formano come intermedi in una serie di reazioni chimiche che avvengono nel corpo. Una grande quantità di radicali liberi si forma quando la radiazione cosmica e gli UVR interagiscono con le molecole lipidiche della membrana plasmatica e con altre componenti cellulari. I radicali liberi sono estremamente reattivi dal punto di vista chimico e sono enormemente tossici per le cellule perché possono

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danneggiare il DNA. Tra i radicali liberi che rivestono una particolare importanza per i sistemi biologici, ci sono le specie reattive dell’ossigeno (ROS), come l’anione superossido (O2-) e il radicale ossidrile (-OH), e il perossido di idrogeno (H2O2).

A livello fisiologico, quindi, la melanina aiuta a proteggere dai danni al DNA causati dagli UVR e dai radicali liberi da essi prodotti. Impedisce anche agli UVR e ad altre forme di radiazione a elevata energia di distruggere vitamine essenziali, come il folato. Quest’ultima funzione è d’importanza chiave nell’evoluzione della pigmentazione cutanea umana.

Se noi osserviamo il nostro corpo, notiamo che alcune zone, come il volto o la parte dorsale delle mani, sono più scure di altre. Altre zone, come p.e. la parte interna degli arti superiori, appaiono leggermente più chiare. Queste zone della pelle differiscono nella colorazione in base al loro contenuto in melanina. La parte interna dei nostri arti superiori è sicuramente meno esposta all’ambiente esterno da sempre e per questo i melanociti producono una quantità minore di melanina. Il colore di questa parte della pelle rappresenta il colore che è determinato esclusivamente dalla componente genetica, noto come “colore della pelle costituzionale o costitutivo”. Le parti del corpo che sono invece esposte ai raggi solari in modo continuativo, come il dorso delle mani e il viso, sono più scure perché hanno sviluppato una qualche forma di abbronzatura, come risultato di un aumento di produzione di melanina. Questo momentaneo scurimento della pelle causato dall’esposizione al sole è noto come “colore della pelle facoltativo” o abbronzatura. La pigmentazione facoltativa si sviluppa quando gli UVR stimolano la pelle che contiene i melanociti in grado di sintetizzare melanina. Questo tipo di pigmentazione è temporaneo: a meno che gli UVR non continuino a stimolare i melanociti, il colore più scuro dovuto alla melanina “extra” andrà perduto non appena le cellule della pelle non saranno più stimolate. Questo è il meccanismo che causa la perdita dell’abbronzatura.

Se prendiamo il sole a lungo senza protezione, la differenza tra abbronzatura costituzionale e facoltativa sarà molto grande. Chi ha una pelle tendenzialmente chiara, poiché produce poca melanina, sarà comunque più soggetto a scottature, si abbronzerà di meno e sarà più suscettibile al rischio di contrarre il tumore della pelle.

Per anni gli antropologi hanno lavorato per sviluppare metodi oggettivi e riproducibili per misurare il colore della pelle nelle popolazioni. Nel XVII e XVIII secolo, era sufficiente una descrizione verbale del colore della pelle: “bianca”, “gialla”, “nera”, “marrone” e “rossa”. Tale definizione presentava ovviamente dei problemi. In questo modo la definizione del colore era molto soggettiva: quello che per un osservatore era “marrone chiaro” per un altro poteva essere

“giallo”, tanto per fare un esempio. All’inizio del ventesimo secolo, è stato introdotto un metodo di riconoscimento del colore che richiedeva l’uso di tavolette o piastrelle di gradazioni di colori che combaciavano con il colore della pelle rilevato nell’angolo interno della piega di flessione del gomito (dove il colore è quasi esclusivamente determinato dalla componente genetica, e molto poco influenzato dall’ambiente). Il più noto di questi metodi è quello conosciuto con il nome di

“scala dei colori di von Luschan”, comunemente usato dagli antropologi fino agli anni ’50 del secolo scorso.

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La possibilità di confrontare i colori era sicuramente migliore di una descrizione a parole, ma non era comunque soddisfacente perché non era riproducibile in maniera convincente. Rimaneva sempre un elemento di soggettività e non sempre gli osservatori erano d’accordo gli uni con gli altri. A partire dal 1950, l’interesse per lo studio del colore della pelle andò aumentando, ed emerse la necessità di avere un metodo di misurazione più oggettivo utile per una classificazione, di cui in quel periodo si sentiva la necessità. Per questo motivo fu introdotto negli studi antropologici il metodo noto come “spettrofotometria a riflettenza”. Il metodo fu introdotto per la prima volta nel 1930 ma divenne di larga applicazione nel 1950 con l’acquisizione di un apparecchio portatile che poteva essere usato sul campo. Il principio dello spettrofotometro a riflettenza è molto facile da capire. Luci di differenti colori (e cioè di differente lunghezza d’onda) sono concentrate su una piccola zona della pelle. La luce riflessa dalla pelle viene poi misurata da una fotocellula. La lettura della fotocellula rappresenta la percentuale di luce relativa a un blocchetto bianco preso come standard. Le pelli chiare riflettono più luce delle pelli scure.

Sempre intorno agli anni ’50 del secolo scorso, antropologi e dermatologi hanno messo a punto diversi strumenti per misurare la riflettenza della pelle, ma il principio è sempre lo stesso. La misurazione della riflettenza della pelle rimane il metodo migliore per la valutazione del colore della pelle poiché il metodo è standardizzato ed è privo di qualsiasi tipo di soggettività.

In medicina, la classificazione del colore della pelle è dettata principalmente dalla necessità di valutare in modo veloce e riproducibile il rischio di cancro alla pelle nei soggetti poco pigmentati.

Dal momento che questi individui differiscono anche nella loro capacità di abbronzarsi, a partire dal 1975 è stato adottato il metodo del “fototipo” della pelle, che aiuta l’osservatore a predire in modo accurato la reazione di ogni singolo soggetto a una moderata esposizione al sole. Secondo questo sistema di classificazione, ci sono 6 fototipi: 3 definiti “melano-compromessi” (fototipi I- III) e 3 definiti “melano-competenti” (fototipi IV-VI). La definizione della reazione all’esposizione solare in questo tipo di classificazione si ottiene dopo 30 minuti di esposizione non protetta e senza schermo solare, al culmine dei livelli di UVR (normalmente in estate).

Fototipo Reazione all’esposizione solare Colore della pelle I Bruciatura senza abbronzatura Bianco pallido II Bruciatura con minima abbronzatura Bianco pallido III Bruciatura ma successiva buona abbronzatura Bianco

IV Abbronzatura senza bruciatura Marrone chiaro V Abbronzatura senza bruciatura Marrone VI Abbronzatura senza bruciatura Marrone scuro

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Sebbene la fototipizzazione della pelle abbia un’applicazione limitata, è comunque utilizzata in diversi campi (anche in cosmetica) perché permette di identificare i soggetti più suscettibili al cancro della pelle e ai danni indotti dal sole (soggetti con fototipo I, II e III) rispetto agli individui meno a rischio (soggetti con fototipo IV, V e VI), e di conseguenza prendere le opportune precauzioni preventive per i i soggetti appartenenti ai primi tre fototipi.

In conclusione, tutta la varietà di colori che si riscontra nelle popolazioni umane ha un significato biologico e la quantità di melanina nella nostra pelle non è determinata da una lotteria, ma dall’evoluzione attraverso la selezione naturale che ha guidato la storia umana.

EVOLUZIONE E GENETICA DEL COLORE DELLA PELLE

Il colore della pelle è uno dei caratteri più variabili nelle popolazioni umane ed è stato ampiamente usato per difendere e giustificare (a torto) l’esistenza delle “razze” umane. Infatti, le variazioni del colore della pelle sono adattative e sono collegate alla regolazione della penetrazione delle radiazioni ultraviolette (UV) nella pelle e agli effetti diretti e indiretti sulla fitness.

Ci sono quattro importanti considerazioni da fare: (1) la riflettanza della pelle è strettamente correlata alla latitudine e ai livelli di radiazione UV. La correlazione maggiore tra riflettanza della pelle e livelli di UV si ha alla lunghezza d’onda di 545 nm, vicino all’assorbimento massimo della ossiemoglobina, il che suggerisce che il ruolo precipuo della pigmentazione dovuta alla melanina è la regolazione degli effetti delle radiazioni UV sugli elementi contenuti nei vasi sanguigni cutanei localizzati nel derma. (2) I valori di riflettenza teorici si discostano poco da quelli osservati

“antroposcopicamente”. (3) In tutte le popolazioni per le quali si hanno a diposizione dati di riflettenza della pelle per maschi e femmine, le femmine risultano avere una pelle leggermente più chiara rispetto ai maschi. (4) La gradazione clinale del colore della pelle osservato tra le popolazioni locali è correlata con i livelli di radiazione UV e rappresenta una soluzione di compromesso nel conflitto esistente tra le richieste fisiologiche di fotoprotezione e la sintesi di vitamina D. Oltre i 46° di latitudine, sia nell’emisfero australe che in quello boreale, i livelli di UVB (la maggior parte dei quali sono dispersi o assorbiti dall’ossigeno, dall’ozono e dalle molecole di acqua presenti nell’atmosfera) sono insufficienti per innescare per la maggior parte dell’anno la produzione cutanea della provitamina D3.

Selezione

I raggi UV possono essere considerati una potente e creativa forza nell’evoluzione della vita sulla terra e gli organismi hanno sviluppato un’ampia gamma di difese nei confronti delle lunghezze d’onda degli UVR.

La pelle nuda è stata la prima interfaccia tra il corpo umano e la radiazione solare per gran parte della storia del genere Homo. Nell’Africa equatoriale, i primi membri di questo genere, e

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successivamente Homo sapiens, sono stati sottoposti a una potente “miscela” di UVA e UVB presente tra i due tropici per tutto il corso dell’anno. Gli UVA sono più abbondanti e capaci di penetrare più profondamente nel derma. Gli UVB hanno maggiore energia, ma sono meno abbondanti e generalmente non raggiungono il derma perché sono assorbiti e dispersi. Gli ambienti con elevata quantità di UVR generano forti pressioni selettive sulla pelle e sul corpo umano, causando l’evoluzione di una pigmentazione scura di tipo costitutivo (genetico), e innescando la capacità di aumentare la produzione di eumelanina, in risposta agli aumenti stagionali di UVB. Tutto ciò in aggiunta all’azione della selezione genetica positiva, mirante all’eliminazione del polimorfismo al locus MC1R e a una selezione continua “purificante” che ha agito su questo stesso locus.

I primi membri degli ominini probabilmente avevano un rivestimento praticamente non pigmentato, o leggermente pigmentato, coperto da peli di colore nero scuro, simile a quello degli attuali scimpanzé: l’evoluzione di un “tegumento” nudo e scuro si è verificata presto nell’evoluzione del genere Homo. La principale pressione selettiva che ha portato alla perdita del pelo è stata la termoregolazione: un’epidermide scura proteggeva le ghiandole sudoripare dai danni causati dai raggi UV, in modo da assicurare l’integrità della termoregolazione corporea. Di ancora più grande importanza ai fini del successo riproduttivo individuale, è stato il fatto che la pelle con molta melanina proteggeva dalla fotolisi, indotta dai raggi UV, il folato (vit. B12), un metabolita essenziale, come ampiamente discusso precedentemente, per il corretto sviluppo del tubo neurale embrionale e per la spermatogenesi.

Nel momento in cui gli ominini migrarono oltre i tropici, si svilupparono vari gradi di depigmentazione per consentire la sintesi della provitamina D3 indotta dai raggi UVB. Il colore più chiaro della femmina è una condizione necessaria per permettere la sintesi di una quantità relativamente più alta di vitamina D3 necessaria durante la gravidanza e l’allattamento.

La colorazione della pelle negli esseri umani è adattativa e labile; i livelli di pigmentazione cutanea sono cambiati più di una volta nel corso dell’evoluzione umana. Proprio a causa di questo, il colore della pelle non può essere utilizzato per le relazioni filogenetiche tra i gruppi umani moderni.

Evoluzione

L’evoluzione della pigmentazione cutanea è legata alla perdita del pelo e, per comprendere entrambi questi processi, bisogna andare indietro nella nostra storia, a circa 7 milioni di anni fa, quando uomo e scimpanzé condividevano un antenato comune. L’umanità si è evoluta, infatti, come un’indipendente linea di grosse scimmie fino a circa 7 milioni di anni fa, quando i nostri antenati si sono staccati da quelli dei nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé: da quel momento si sono evoluti indipendentemente gli uni dagli altri. Lo scimpanzé ha subito meno cambiamenti nel tempo rispetto all'uomo, perché è rimasto nel suo ambiente originario, per cui ci permette di avere un’idea di come dovessero essere i nostri antenati dal punto di vista anatomico e fisiologico. La pelle dello scimpanzé è chiara e ricoperta da peli, quindi è probabile che anche il nostro primo antenato presentasse una pelle chiara e ricoperta di peli. Tra i primati, solamente

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