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Academic year: 2021

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CAPITOLO III

DENTRO L'ORGANICO

Qui descriverò la speciale natura e organizzazione della materia organica e dell'informazione che la abita e la dirige. Queste due componenti nella storia dell'evoluzione (resa possibile da un'energia esterna che l'ha in qualche modo finanziata) erano probabilmente unitarie in origine, ma hanno cominciato a

divergere in un crescendo rossiniano che ha finito per creare tutte le forme viventi esistenti e perfino quel tipo speciale di vita che è quella in cui più ci riconosciamo, vale a dire la nostra vita mentale, di cui sempre più ci occuperemo nei prossimi capitoli.

LA MATERIA ORGANICA: LA CELLULA

All'interno della visione monista e riduzionista di Boncinelli, la materia è alla base e all'origine di tutto l'esistente, anche se poi essa conduce al trionfo

dell'informazione. Quest'ultima è infatti “un parametro fisico”1, che è insorto come qualità emergente della materia2

. Dunque dei tre parametri fondamentali – materia, energia e informazione – il primo è all'origine di tutto.

La materia vivente è fatta tutta quanta da cellule, composte dalle stesse molecole che costituiscono la materia inorganica, ma associate in maniera specifica3. Esistono in generale novantadue tipi di atomi e solo una trentina di essi si trovano negli organismi viventi4. Si tratta di carbonio, ossigeno, idrogeno ed azoto che si associano in una formula piuttosto uniforme e semplice, dando luogo a macromolecole ad una o più catene, formate dagli stessi pochi elementi in continua ripetizione, in cui la differenza è data dall'ordine, che risulta perciò determinante. Fin da qui è evidente che la specificità del biologico sta dunque nell'organizzazione della forma o -come egli dice - “il nocciolo della vita”5 è l'informazione. Nelle macromolecole, molto più che nelle molecole, l'informazione è fondamentale.

In qualsiasi organismo eucariotico, dove cioè il nucleo si distingue dalla membrana (sono esclusi quindi i batteri, per esempio, che sono procariotici) le cellule hanno più o meno la stessa

dimensione, sia che si tratti di un essere minuscolo come un moscerino o grande come un elefante. I neuroni sono anch'essi cellule, ma di tipo particolare, cioè nervoso. Sono asimmetriche, coi dendriti opposti all'assone e vengono percorse dai segnali più o meno a senso unico, e questo è ciò che s'intende quando si dice che sono "polarizzate". Il segnale che esse fanno transitare è anch'esso informazione. Esse sono generalmente incapaci di riprodursi, salvo poche eccezioni, così che per tutta la vita ci portiamo dietro pressappoco quelle che avevamo alla nascita. Sono così rilevanti da costituire il discrimine tra l'intero regno vegetale e quello animale6

La cellula è un sacchetto di materia al contempo isolata dal mondo e in comunicazione con

1 Pag. 36 di “Mi ritorno in mente”.

2 Tale concetto è espresso esplicitamente solo ne “La realtà e il pensiero”, volume III, pagina 88, anche se è implicitamente presente e deducibile da tutto il suo pensiero.

3 Pagg. 26 e 27 de "Il cervello, la mente e l'anima". 4 Pag. 53 di "Prima lezione di biologia".

5 La scienza non ha bisogno di Dio”, pag. 139. 6 Pag. 113 di “Verso l'immortalità”.

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questo attraverso la membrana.

Come tutte le strutture biologiche, la cellula è estremamente selettiva ed entra in interazione con una e una sola sostanza tra le centinaia con cui viene a contatto, attraverso un meccanismo di “riconoscimento” operato dai recettori della membrana (i recettori cellulari non sono che una forma modificata di neurone). Anche il compito che esegue è specifico perché è esclusivamente uno tra i tanti possibili7. Sulla membrana infatti i recettori quando riconoscono il segnale vi si legano segnalando tale presenza al nucleo mediante una specie di brivido, e il nucleo può rispondere oppure no, attraverso un'attivazione o uno spegnimento di geni, e può procedere o meno ad

incorporare il segnale. Infatti i segnali, sia chimici che elettrici, non hanno un destinatario specifico. Che vengano recepiti o meno non dipende dalla loro presenza – gli stessi ormoni ad esempio

circolano attorno a tutte quante le cellule – ma dal fatto che esistano o meno recettori adeguati. Il riconoscimento è infatti il meccanismo fondamentale della biologia, che permette alle cellule di interagire aggregandosi se sono affini o disaggregandosi diversamente. Esso interviene laddove si stabilisce una qualsiasi interrelazione, cioè dove i geni smettono di predisporre tutto quanto e lasciano spazio a determinazioni di altro tipo. Può avere una base chimica o elettrica o anche solo da contatto (come avviene quando la riparazione di una ferita si arresta appena trova la pelle). Ed è proprio dall'interazione intercellulare, che su questo meccanismo si basa, che si formano i tessuti e gli organi. A decidere che la cellula si divida o no, si muova o no, produca o meno certe sostanze, etc., non ci sono dunque solo i geni: ci sono anche segnali chimici, che provengono in parte dalla cellula stessa, per esempio dai suoi fattori di trascrizione, ma anche dall'esterno, cioè da cellule limitrofe, attraverso induzione8, o da quelle del sangue, e che consistono in uno scambio di molecole tra cui gli ormoni e i fattori di crescita.

Il riconoscimento è forse la più importante forma di controllo degli organismi biologici ed è essenziale per la vita, tanto che la sua mancanza significa malattia e morte; lo ritroveremo, con modalità differenti, a tutti i livelli di funzionamento degli organismi, perfino al livello sociale.

Vediamo quindi che fin dalle sue componenti elementari nella materia organica c'è qualcosa d'innato (il genoma) e qualcosa di appreso (lo scambio intercellulare e l'influenza dell'ambiente, resi possibili attraverso il riconoscimento) e questa duplicità accompagna tutta la storia degli organismi, sia a livello individuale che di specie. Si può dunque dire che il riconoscimento è, assieme al caso, il meccanismo che arriva dove finisce il determinismo dei geni. Occorre sottolineare che se l'ambiente non influisce sui geni, dialoga però con questi nell'intermediazione del corpo. Più passa il tempo e più l'organismo cresce, più aumenta e s'impone il dialogo tra le cellule, e diminuisce al contempo il dispotismo genetico. Mentre nella fase iniziale dello sviluppo

embrionale l'accensione e lo spengimento dei geni sono quasi automatici, quando il corpo comincia ad avere una certa dimensione o una certa età o, come vedremo, una certa complessità, l'influenza delle cellule vicine e dell'ambiente diventa rilevante; quanto più un organismo è grande e adulto e complesso tanto più l'azione dei geni va "contrattata" con le zone circostanti e l'ambiente, e questo è ciò che s'intende quando si parla di "adattattabilità degli esseri viventi"9 . Ciò comporta un maggior determinismo non solo nelle fasi iniziali dello sviluppo embrionale, ma anche in quelle iniziali della storia della specie, tanto che Boncinelli definisce l'evoluzione come storia del progressivo affrancamento dalla biologia10

.

7 Pag. 16 di "Prima lezione di biologia".

8 Il meccanismo d'induzione tra cellule si basa anch'esso sul riconoscimento; vedi "L'etica della vita", pag.66. 9 Pag. 105 di "La scienza non ha bisogno di Dio".

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Una caratteristica importante dell'organizzazione della materia organica è la “ridondanza o

sovradeterminazione”, che costituisce una sorta di rete di protezione biologica. Vale a dire che le funzioni fondamentali vengono espletate da una molteplicità di agenti. Sono molteplici, per

esempio, i geni che concorrono alla codificazione di una determinata proteina, così che se qualcuno di questi subisce una mutazione, spesso tutto continua a procedere normalmente. I geni regolatori operano su svariati geni esecutori e lo fanno di concerto con altri geni regolatori, per cui quando uno di essi smette di funzionare in apparenza può non cambiare niente. Sono molteplici anche i meccanismi di controllo, che sono incrociati, e non sono in ordine lineare ma a rete, così che "tutto controlla tutto". Ad esempio i vari geni regolatori controllano di concerto le proteine regolatrici, chiamate fattori trascrizionali, ma sono a loro volta controllati da queste.

Nell'organico una distinzione essenziale che già abbiamo visto è quella tra materia e forma, che Aristolele aveva invece esteso a tutta quanta la materia11. Infatti nella cellula la materia viene continuamente sostituita, mediante metabolismo, che crea o assorbe energia (rispettivamente come catabolismo e anabolismo)12, mentre ciò che rimane pressappoco inalterato è la forma, cioè le istruzioni, date dal genoma. Tali istruzioni hanno differenti gradi di necessità: alcune sono inderogabili, altre valgono in certe circostanze, ed altre ancora sono semplici suggerimenti13. Questa, afferma Boncinelli, è una straordinaria novità, che non è presente nell'inorganico: la permanenza temporale non è più qualcosa di materiale, ma sta nell'organizzazione dinamica della forma. In tal modo ribadisce il ruolo fondamentale o come lui dice "il primato" dell'informazione nell'organico: la materia cambia continuamente, ma ciò che dà identità al soggetto è l'informazione, che permane più o meno uguale a se stessa. L'informazione esiste anche nell'inorganico, ma è poco visibile ed è stabile.

La cellula ha un ricambio continuo, che permette una continua sostituzione preventiva e

un'eventuale riparazione delle parti logorate, mentre forma e istruzioni rimangono relativamente uguali. Tale incessante lavoro è possibile grazie ad un'energia che agli animali arriva

prevalentemente sotto forma di alimenti e che viene poi restituita degradata.

Le cellule quindi sono dei motori, che assorbono e utilizzano energia di alto livello (solare,

alimentare) e la restituiscono (attraverso la respirazione, la defecazione, etc) in uguale quantità ma di livello inferiore, che a sua volta è buona per alimentare altri organismi.

Sappiamo dal Primo Principio della Termodinamica che l'energia si conserva e può solo

trasformarsi (da calore in lavoro o viceversa). Ma la sua tendenza spontanea è quella di degradarsi assumendo una qualità inferiore, che comporta perdita d'informazione. Più alta è la temperatura più alta è la qualità dell'energia termica. L'espansione e il raffreddamento dell'universo esprimono questa tendenza alla degradazione energetica, che significa aumento di entropia e perdita di ordine14.

L'assorbimento di energia è ciò che permette le funzioni fondamentali di ogni organismo, che consistono nel 1) sopravvivere, duplicandosi continuamente, 2) riprodursi, 3) modificare l'ambiente circostante; ma negli organismi unicellulari duplicazione e riproduzione coincidono.

Queste tre caratteristiche definiscono il concetto di vita in generale e di esse la prima, cioè il mantenimento del genoma, vale a dire il mantenimento dell'ordine e dell'informazione a cui si è pervenuti, quindi la lotta contro l'entropia, è prioritario15.

11 "Quel che resta dell'anima", pag. 9.

12 Ciò evidentemente comporta la trasformazione di materia in energia e viceversa. 13 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 32.

14 Vedi per quest'argomento alle pagg. 48/53 di "La scienza non ha bisogno di Dio". 15 "Il male", pag. 159.

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Il semplice fatto che si tratti di un lavoro in funzione della sopravvivenza o della riproduzione è qualcosa che distingue nettamente l'organico dall'inorganico, e che introduce il concetto di

“finalità”, che non esiste negli oggetti inorganici neanche nei loro movimenti o trasformazioni più eclatanti come eruzioni o terremoti, a meno che tali oggetti, come può avvenire per esempio ad un sasso o un ramoscello, non vengano utilizzati dall'uomo che assegna loro una funzione determinata facendoli diventare strumenti. In greco òrganon significa strumento e infatti perfino gli organi e le parti degli esseri viventi sono caratterizzati da funzioni e scopi determinati.

Vedremo poi che per Boncinelli oltre che nell'organico, la funzione è presente anche in quegli speciali oggetti inorganici che sono i manufatti dell'uomo. In "L'anima della tecnica", a pagina 77, afferma che la funzione è una proprietà emergente della materia, che anche nella tecnica diventa centrale, in quanto la forma finisce anche qui col travalicare la materia.

Uno degli errori fondamentali nella lettura del reale consiste nel proiettare anche sull'inorganico tale concetto di finalità, che invece vale solamente nel mondo organico e in quello della tecnica che noi abbiamo costruito. A me sembra però fondamentale distinguere, come fa Monod16

, la finalità del mondo organico da quella della tecnica. Monod parla di "oggetti dotati di un progetto", il quale nel primo caso è interno e dato da forze di coesione interne, mentre nel secondo caso proviene dall'esterno e viene introdotto dall'uomo o

dall'animale che quell'oggetto ha costruito. In tal modo la finalità nel biologico forse precede logicamente il concetto stesso di sopravvivenza, perché fa già parte della struttura del soggetto.

Occorre a questo punto distinguere tra funzione e intenzione, perché per avere quest'ultima occorre un sistema nervoso pensante, che per la semplice funzione non è necessario17.

Abbiamo detto che darwinismo e neodarwinismo escludono la presenza di un finalismo, cioè di una progettualità all'interno del processo evolutivo; invece la finalità è apertamente proclamata affermando che il fine ultimo della vita è la sopravvivenza.

Ogni finalità è in funzione, direttamente o indirettamente, della sopravvivenza, che è il "primo e ultimo obiettivo reale, anche se generalmente inconsapevole, degli esseri viventi18"; ad essa tendono infatti le nostre emozioni, che sono alla base del nostro sistema decisionale. Le

sequenze genomiche sensate – ci dice a pagina 105 di "Verso l'immortalità" sono quelle adatte alla sopravvivenza.

Nel "Dialogo su etica e scienza"a pag. 52 afferma che se la sopravvivenza è in generale il fine ultimo, ad un livello individuale ciò significa che il fine della vita è la vita, senza dover pensare a fini superiori. Vedremo che il porsi domande sul senso della vita è insieme ineludibile,

connaturato nella nostra biologia, e patologico, perché è di per sé un indice di nevrosi. Altrove affianca alla sopravvivenza, come fine, la riproduzione19, che come abbiamo visto è la seconda funzione fondamentale degli organismi. Si tratta probabilmente di due concetti in origine identici, che negli organismi elementari tuttora coincidono e che si

distinguono allorché la riproduzione diventa sessuata.

Può apparire strano che Boncinelli affermi da una parte che la sopravvivenza è il fine ultimo della vita e dall'altra che la lotta per l'evoluzione si svolge non tanto in

16 Mi riferisco a "Il caso e la necessità", pag. 23 nell'edizione Oscar Mondadori, ristampa del 1984. Tutti i successivi riferimenti che farò a quest'opera sono relativi e tale edizione.

17 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 19. 18 Pag 107 di "La vita della nostra mente".

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funzione della sopravvivenza ma della riproduzione. La contraddizione forse si risolve pensando che la sopravvivenza a cui l'evoluzione è interessata non è tanto quella del singolo individuo ma del genoma, vale a dire la perpetuazione della sua specie o forse della vita in generale.

Dunque dietro al finalismo c'è l'intenzione e la progettualità, che sono quel che Boncinelli vuole rigidamente escludere dall'inorganico e dall'evoluzione biologica; proprio per ottenere ciò si appella al ruolo del caso, sottolineandolo con enfasi. Il finalismo sembra nascere con l'uomo o tutt'al più con qualche altro animale

superiore. Che poi dietro all'intenzione ci sia consapevolezza o meno, è un altro problema ancora, che Boncinelli qui non affronta, ma che emergerà nello studio del cervello e della mente, dove vedremo che spesso la consapevolezza è più

apparente che reale, perché compare solo a cose fatte. L'intenzione cosciente è infatti perfino nel mondo umano qualcosa che arriva a cose fatte o che è soltanto un'illusione o il risultato di una razionalizzazione20

, dimostrando secondo me indirettamente che intenzione e coscienza sono qualità emergenti della materia. La cellula non è soltanto attiva, ma è anche reattiva, perché reagisce all'ambiente, ed è perciò caratterizzata da: 1) una sensibilità o irritabilità, presiedute dalla membrana 2) una capacità di elaborare una risposta alle sollecitazioni esterne e 3) una capacità di mettere in atto tale risposta. Poiché la materia organica è organizzata a vari livelli paralleli – subcellulare, cellulare, dei tessuti, degli organi, degli apparati, degli individui, ma perfino dei gruppi, della specie, dell'ecosistema fino alla biosfera21 (che sono anch'essi autonomi ed interrelati) - ritroviamo tale schema tripartito di organizzazione ad ogni livello della materia organica. Nell'organismo nel suo complesso esso prende la forma di: 1) organi di senso, 2) sistema nervoso e 3) apparato motorio, che sono contemporaneamente autonomi-separati e interrelati.

L'azione e il suo controllo nel mondo organico sono dunque sempre svolte separatamente, così che l'apparato motorio risulta ben distinto da quello nervoso.

La stessa cosa accade a livello dei geni, dove si distinguono quelli esecutori, che vanno a costruire il nostro corpo, da quelli regolatori, che danno gli ordini corrispondenti, ma che con questi sono sempre strettamente correlati. C'è poi una coordinazione dei vari livelli, che nel corpo è operata dal sistema nervoso e da quello endocrino.

Tutto questo è ciò che s'intende quando si parla di "struttura modulare". È vero che il concetto di struttura caratterizza anche il mondo inorganico, ma solo in quello organico è agli ordini di una funzione, che è la sopravvivenza; nel primo caso la struttura è fissa, mentre nel secondo è dinamica, perché muta, soprattutto durante lo sviluppo individuale e l'evoluzione della specie22. Poiché struttura e organizzazione sono trasmessi attraverso l'informazione, si ribadisce in tal modo l'importanza di quest'ultima per la materia organica.

Le cellule di uno stesso organismo, nonostante abbiano tutte un identico genoma, sono diverse tra loro, perché si differenziano sia per tessuto – muscolare, ghiandolare, nervoso, etc. - che per linea di appartenenza – germinale o somatica (ma esiste anche il caso tutto particolare della cellula uovo fecondata) - . Com'è possibile, dal momento che si originano tutte da un'unica cellula?

È prima di tutto la continua proliferazione che determina di per sé un inevitabile differenziamento, perché non c'è proliferazione che non comporti anche delle mutazioni, perché gli errori sono

20 Come risulta dagli esperimenti di Libet di cui parlerò a pag. 130. 21 Pag. 30 di "Prima lezione di biologia".

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ineliminabili (se la proliferazione provoca il differenziamento, si può forse dire che la quantità si trasforma talvolta in qualità mediante l'emergere di nuove proprietà). Il differenziamento è poi dettato in primo luogo dal DNA, ma, come sappiamo, anche da segnali esterni, provenienti da altre cellule, recepiti attraverso i recettori della membrana.

Tale continua proliferazione è una caratteristica della vita, ma anche della malattia in generale e soprattutto di quella temutissima malattia che è il cancro, che spesso consiste in una duplicazione che non si riesce più ad arrestare. Esiste da sempre, tanto che ce ne sono tracce nell'homo erectus e nelle mummie egizie, anche se la sua incidenza è recentemente cresciuta in quanto è aumentata la longevità. Forse esiste perché esiste la vita e potrebbe dunque essere ineliminabile. Soltanto dagli anni '70 del novecento sappiamo esattamente di cosa si tratta23. Esiste in molte forme, che sono certamente genetiche e monofattoriali (vale a dire determinate da un unico gene) quando si manifestano nei bambini o nei giovani, ma che più spesso sono multifattoriali, come quando si manifestano negli adulti e negli anziani, in cui, anche laddove esiste una predisposizione genetica, è lo stile di vita che decide lo sviluppo o meno della malattia. Perché ci si ammali occorre infatti la mutazione non di uno solo gene ma di molteplici geni.

La terapia da cui Boncinelli si aspetta il contributo maggiore in proposito è stata studiata nel 2010, è sperimentale e si chiama "interferenza da piccoli RNA", i quali legandosi all'RNA messaggero lo inattivano; se confermata potrebbe rivelarsi la via maestra per debellare il cancro.

Qualsiasi malattia in realtà esiste in quanto esiste la vita, perché le mutazioni che sono all'origine dell'evoluzione sono all'origine anche di moltissime patologie e della stessa vecchiaia, in quanto sono provocate da errori di trascrizione, assolutamente casuali, dal DNA all'RNA e alle proteine. Vale a dire che non c'è vita senza malattia e senza morte. Abbiamo visto che è proprio la definizione di vita che prevede una limitazione temporale e dunque la morte.

In questo caso, come in altri che vedremo, Boncinelli concepisce la realtà come un continuum, in cui soltanto la quantità è il discrimine tra ciò che riteniamo positivo e

ciò che invece per noi è negativo, e ciò accade perfino tra vita, malattia e morte. Non ci sono dunque differenze oggettive, ma solo differenze soggettive, relative e di misura: tutto quanto fa parte di un'unica fiamma.

L'INFORMAZIONE ORGANICA

L'informazione è una proprietà che è emersa dalla materia e che sempre più si è andata separando da questa durante la sua storia, finendo per assumere una certa autonomia, che vede il suo apice nell'uomo e nella sua evoluzione culturale. Il DNA può apparire come un "principio ordinatore immateriale", e – afferma Boncinelli nelle sue ultime opere - è ciò che più assomiglia al concetto di anima24. Se dunque l'informazione è una proprietà emergente, io posso immaginare che anche l'anima – se esiste – lo sia.

L'aspetto basilare dell'evoluzione è dato da omogeneità e continuità, dovute ad un DNA che è grosso modo lo stesso in tutti i viventi e che differisce soltanto per la parte che non si sa ancora a cosa serva. Infatti il DNA del vivente è fondamentalmente omogeneo e si conserva più o meno identico a se stesso; quello umano in particolare, esattamente come il cervello dell'uomo e il suo intuito, è praticamente invariato da 150.000 anni. In particolare ha sorpreso scoprire che le stesse famiglie di geni regolatori controllano organi e forma del corpo nell'uomo come nel moscerino, nel

23 Pag. 144 di "Genoma. Il grande libro dell'uomo". 24 "Quel che resta dell'anima", pag. 12.

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ranocchio e nell'aragosta; è soltanto dal 1953 che Watson e Crick hanno scoperto la struttura del DNA ed è solo dal 1985 che si parla di piano strutturale o Bauplan operato da poche famiglie

geniche in tutti gli organismi a simmetria bilaterale, ma tale ipotesi è ormai consolidata. Osserviamo che le specie il cui genoma si rassomiglia di più sono quelle che più recentemente si sono separate. Le differenze tra specie non derivano dai geni regolatori (detti anche selettori), che sono i più importanti gerarchicamente e che sono simili in tutte le specie, ma da quelli esecutori, che invece differiscono di specie in specie, e soprattutto dai differenti tempi della loro attivazione, che variano fortemente di caso in caso. A fare la differenza tra le specie potrebbe essere anche quella parte di DNA ancora poco nota, non codificante, che non serve cioè a produrre proteine e che per ora sappiamo solo utilizzare come traccia per individuare una persona specifica.

Il Progetto Genoma è nato nel 1990 come collaborazione internazionale per mettere a disposizione di tutti i ricercatori l'intero genoma, che è così lungo che non basta una vita per leggerlo tutto, per cui ciascuno può occuparsi solo di un frammento. È stato completato nel giugno del 2000, in anticipo di cinque anni sulle previsioni; sarà presto possibile che i vari ricercatori di tutto il mondo attraverso il computer vi abbiano accesso e ciò darà l'avvio alla futura genomica. Mentre la genetica studia i singoli geni, la genomica studierà l'intero genoma e le sue interrelazioni. Le caratteristiche specifiche del nostro essere umani certamente non dipendono dai geni, che sono più o meno uguali in tutti gli organismi, ma potrebbero anche dipendere dal genoma nel suo insieme, cioè dalle interrelazioni tra geni25.

È sulla base della permanenza ed omogeneità di fondo del genoma, che rimane pressappoco uguale a se stesso, che s'inseriscono i meccanismi di mutazione e di ricombinazione (la quale ultima consiste nella mescolanza dei cromosomi paterni e di quelli materni, così casuale da essere paragonata al mescolare un mazzo di carte), che sono caratterizzati entrambi in modo sostanziale dal caso e che creano l'evoluzione. Sono questi meccanismi i veri creatori delle novità, anche se successivamente gli organismi che ne derivano devono passare al vaglio della selezione naturale, che generalmente non li premia, ma in qualche caso sì, attribuendo loro una riproduzione

differenziale. Alla base dell'evoluzione c'è dunque la casualità su cui si basano mutazioni, ricombinazioni e splicing, che creano il cambiamento, che se accettato dalla selezione entra nei meccanismi della ripetizione e diventa a sua volta necessità.

Mentre il caso da solo sarebbe l'artefice della pura disorganizzazione, quindi del caos, della disgregazione e della morte26 (vale a dire dell'entropia), in combinazione con gli elementi permanenti crea l'evoluzione. Viceversa regolarità e ripetizione senza il caso caratterizzano l'inorganico e escludono la vita.

Un altro concetto-chiave per capire la vita in generale è quello di “genotipo” e di “fenotipo”. Il fatto è che i nostri geni, eccezion fatta per le cellule riproduttive, sono contenuti tutti quanti in "doppia copia", così come i cromosomi, e uno proviene dal padre e l'altro dalla madre. In ognuna di queste coppie i geni non sono necessariamente uguali; là dove lo sono, l'individuo è definito

omozigote per quel gene o eterozigote nel caso opposto.

Tra tali due geni quello che si esprime nell'organismo in maniera evidente, visibile o tangibile – cioè nel fenotipo - è quello dominante, se ce n'è uno solo, o uno qualsiasi dei due diversamente; l'altro rimane silente, ma può venire ereditato da eventuali figli.

Il genotipo, o natura genomica di un organismo, è dato da tutte quante le copie dei geni; comprende cioè i geni fenotipici, evidenti e dominanti, come quelli recessivi o silenti. Rappresenta dunque anche la parte in ombra, inespressa, carica di tutte le potenzialità di ogni organismo, ed è più ampio del fenotipo, che invece è dato soltanto dai geni che si esprimono e di cui è la palese attuazione. Soltanto il fenotipo risente delle influenze ambientali e può essere premiato o meno dalla selezione

25 "Genoma: il grande libro dell'uomo, pag. 109. 26 "Verso l'immortalità", pag. 103

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naturale. Ancora una volta troviamo riformulata la differenza tra potenza e atto ed il concetto che ciò che si realizza è sempre per esclusione delle rimanenti possibilità. Ma forse qui si adombra già la distinzione tra conscio e inconscio, consapevole e inconsapevole: il genotipo sembra rappresentare i retaggi che ci portiamo dietro inconsapevolmente e che in qualunque momento possono venir fuori.

Il segreto della vita sta proprio in questa "doppia storia" di competenza ed esecuzione. Il

genotipo garantisce la continuità e la permanenza, è ciò che si eredita e che cambia molto poco, mentre il fenotipo permette la vita e il cambiamento. Questo è un altro modo di definire l'evoluzione, ripetendo il concetto della separazione tra cellule germinali e somatiche, tra forma e materia. Per quanto il genotipo si evolva, rispetto al fenotipo è un invariante27 e quindi la differenza fondamentale è data dai loro rispettivi tempi di mutazione.

Il sistema nervoso degli organismi è organizzato in modo “discreto” e non continuo, attraverso un'informazione che viaggia come se fosse frantumata e che ricorda una tecnologia che noi abbiamo inventato solo di recente: quella “digitale”. Scompone cioè lo stimolo in una molteplicità di

parametri quantitativi, e ciò permette di evitare l'ambiguità e la dispersione, immancabili in un sistema analogico. In modo analogo lavora la corteccia cerebrale e altrettanto fa il genoma,

articolato soltanto su quattro elementi di base. Ma tutto ciò avviene anche in modo “parallelo”, cioè contemporaneamente su molti livelli.

Il DNA in generale è dunque ciò che garantisce dal punto di vista biologico la continuità e la permanenza della vita e costituisce il “libretto d'istruzioni” per vivere. È costituito da "pochissima materia e nessuna energia"; si tratta quasi di pura informazione. Tutte le cellule di un organismo contengono le medesime istruzioni, cioè lo stesso DNA; non sappiamo perché sia così, ma forse ciò deriva dalla nostra primitiva origine da esseri unicellulari28 (ciò è vero sia in senso

filogenetico che di sviluppo individuale) e permette un'armonia, una sincronizzazione nell'autonomia, su cui poi torneremo.

Patrimonio genetico, genoma e DNA sono quasi sinonimi, ma quando si parla del primo s'intende prevalentemente il suo contenuto informativo, mentre se parliamo di DNA o di genoma intendiamo anche il suo supporto materiale29.

Si tratta di un filamento di una ventina di metri, e il fatto che sia contenuto in ogni cellula permette agli organismi vegetali di riprodursi per talea e a quelli animali di essere "clonati"30, come con la pecora Dolly (nata da una cellula giovane denucleata in cui è stato inserito il nucleo di una pecora adulta che s'intendeva "clonare"). Il DNA è composto dai nucleotìdi, che a loro volta sono formati da uno scheletro di fosfato, uno zucchero e una base azotata, la quale decide l'identità del

nucleotìde, cioè se si tratterà di un A, di un T, di un C o di un G31.

Il genoma è spesso definito da Boncinelli come il "riassunto delle puntate precedenti"32, nel senso che ci racconta la storia evolutiva, cioè filogenetica dell'organismo a cui appartiene attraverso le rotture di simmetria che l'hanno portato alla sua forma attuale.

27 "Tempo delle cose, tempo della vita, tempo dell'anima", pag. 70. 28 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 75.

29 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 32.

30 Il termine clonazione è messo tra virgolette perché secondo Boncinelli viene qui usato in maniera impropria. Propriamente la clonazione è solo quella cellulare e non di un intero organismo.

31 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 81.

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Le istruzioni del genoma sono un "a priori" per quell'organismo33, nel senso che saranno pressapoco immutabili per lui, benché siano modificabili nei tempi lunghi della vita della specie, tanto che proprio la storia di tali mutazioni costituisce l'evoluzione. In ogni caso il genoma, come sappiamo, può cambiare ma sempre e solo dall'interno; gli agenti esterni possono indurre mutazioni,

aumentandone la frequenza, ma non le dirigono mai e non ne stabiliscono la direzione. Certe parti del genoma cambiano più velocemente di altre; per esempio i geni del cromosoma y sono ben più mutevoli di quelli del cromosoma x. Questo "a priori" in Boncinelli, oltre a rappresentare la forma, rappresenta anche la parte stabile, fondante e permanente della vita, intorno a cui ruota tutto il resto – errori, esperienza e caso - generando gli infiniti cambiamenti e variazioni sul tema. Perciò non si capisce la vita e a maggior ragione l'uomo se non se ne capisce prima di tutto la permanenza e dunque il suo genoma. Il DNA si limita a dare istruzioni semplici, ripetitive e non dettagliate come in un origami (come dire: “taglia qui, piega lì”; si tratta di un paragone coniato dal biologo Lewis Wolpert); eppure ciò genera costruzioni complesse perché esclude e delega il lavoro nei particolari. Queste istruzioni sono di due tipi: 1) istologiche e 2) posizionali. Le prime indicano alle cellule il tipo di tessuto da costituire, le seconde in quale parte del corpo dovranno migrare. A tali istruzioni collaborano anche, fin dall'inizio dello sviluppo, come abbiamo visto, segnali intercellulari34 attraverso il meccanismo del riconoscimento, tanto che senza induzione non ci può essere sviluppo35. E naturalmente vi collabora il caso, fin dai primissimi eventi molecolari36.

Geni simili per funzione sono simili anche quanto a struttura; talvolta la somiglianza è solo per una parte del gene, perché questo – come la proteina – è una specie di mosaico le cui varie parti si agganciano a molecole differenti. Il fatto che esistano "famiglie geniche" significa che i geni primordiali da cui discendono sono le stesse e che la selezione avendoli trovati particolarmente efficienti li ha usati, riusati, riciclati con continue variazioni in modo da adattarli ai diversi casi. Un gene si lega ad un altro spontaneamente quando gli è strutturalmente simile in tutto o in parte e ciò ha permesso di utilizzarlo come sonda, attraverso un procedimento chiamato "ibridazione molecolare", per trovarne di simili in tutto o in parte. Per esempio geni di pollo sono stati utilizzati come sonda per trovare geni corrispondenti nell'uomo e anche Boncinelli ha usato i geni della drosofila per trovare quelli dell'uomo. Anche alla base di questa tecnica mi sembra forse che ci sia un meccanismo di riconoscimento.

Molti caratteri biologici sono del tipo definito "quantitativo", come l'altezza, il peso, la lunghezza del naso, la pressione sanguigna, etc, perché derivano non da un unico gene, ma dalla concertazione di una molteplicità di geni, sono cioè poligenetici, e ciò che fa la differenza è la quantità.

Di conseguenza sono anche multifattoriali e quindi influenzabili dall'ambiente, perché quando nessun gene è determinante di per sé è l'ambiente (o il caso) che può incidere fortemente. La multifattorialità attenua dunque il dictat dei geni, liberandoci dal determinismo genetico ed aprendo all'influenza ambientale, proprio come abbiamo visto a proposito della molteplicità delle cause che produce un primo spazio di libertà, allargando le chances. Tra l'altro, questo requisito di multifattorialità rende di fatto improbabile ogni tentativo di

eugenetica, perché non è certo semplice pervenire artificialmente e volontariamente ad un carattere alla cui costruzione partecipano tantissime componenti che facilmente possono sfuggirci.

33 Pag. 24 di "Perché non possiamo non dirci darwinisti". 34 "L'etica della vita", pag. 21.

35 "L'etica della vita", pagg. 65/6.

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Esistono anche caratteri multifattoriali non quantitativi, definiti "a soglia", che cioè esistono solo al di sopra di un certo quantitativo, come accade per il diabete o la schizofrenia.

Multifattorialità e incidenza dell'ambiente provocano anche l'introduzione di infinite piccole variazioni in questi caratteri, che finiscono quindi per essere distribuiti in maniera continua e sfumata all'interno della popolazione, arricchendo la varietà genetica.

I caratteri ereditari dominanti possono determinare, in effetti, alcune malattie monofattoriali e

deficit cognitivi, di cui adesso conosciamo, quasi in tutti i casi, la diagnosi genetica, nonostante che

sia solo dagli anni '70 che abbiamo cominciato ad isolare e studiare i singoli geni. Costituiscono soltanto il 2% delle malattie ereditarie, ma rappresentano una vera e propria predestinazione, contro la quale si è pressappoco impotenti, e sulle quali l'ambiente incide poco37. Per queste malattie si può davvero parlare di determinismo, considerando però che si tratta dell'esigua minoranza della popolazione, mentre per la stragrande maggioranza per fortuna non è così.

La maggior parte delle nostre malattie e delle nostre caratteristiche, e soprattutto di quelle positive come per esempio l'intelligenza, sono infatti di tipo multifattoriale. Sono ben più difficili e

complesse da studiare, vista la molteplicità delle componenti. Qui non si deve più parlare di predestinazione ma di “predisposizione”, che è un concetto probabilistico38 che ben si adatta alla contingenza della vita; su tali caratteristiche l'ambiente esercita un'influenza importante, così che il destino anziché "segnato" dai geni è tutto da giocare e dipende in larga misura dallo stile di vita. Ognuno si sceglie o è capace di cambiare, salvo casi estremi, il proprio futuro.

Molte volte Boncinelli ripete infatti che "genetico non significa ineluttabile". I geni contano molto soltanto nei grandi talenti ma ancora di più nei grandi imbecilli, perché quando sono sbagliati la persona diventa irrecuperabile, mentre quando sono giusti, bisogna poi vedere come intervengono e incidono tutti gli altri fattori.

Qui sta dunque una prima forma di libertà; la multifattorialità, come la molteplicità delle cause di cui non è che un esempio, sembra essere alla base della libertà e del libero arbitrio, perché apre alle influenze dell'ambiente, dell'apprendimento e del caso facendoci diventare artefici del nostro destino. Il determinismo non viene negato, ma è un concetto quantitativamente variabile: ce ne può essere tantissimo oppure meno, anche se in parte non può mai mancare.

Ciò che è innato o genetico può manifestarsi fin dalla nascita, ma non è detto. Esistono alcune malattie genetiche che si manifestano ad un'età determinata e fanno come i geni della barba, che si attivano solo ad una certa età. Ci sono anche geni con un comportamento definito ad "U", che dapprima si accendono, "come se fosse una prova generale", poi si spengono ed infine si

riaccendono definitivamente. Alcuni geni possono perfino non esprimersi mai, per quanto presenti, come accade ai geni del latte delle mammelle negli uomini o a quelli della barba nelle donne. Abbiamo già detto che il patrimonio genetico è fondamentale e davvero determinante durante la parte iniziale dello sviluppo organico, in quanto vi compare come attore pressocché unico, mentre nelle fasi successive è sempre più oggetto di contrattazione rispetto all'ambiente39 sia interno che esterno. Lo studio delle molteplici segnalazioni che arrivano al DNA è l'epigenetica. Quanto più lunga è l'esistenza di una persona, tanto maggiore sarà l'influsso su di lei dell'ambiente e

dell'esperienza40.

Gli esseri umani sono quindi il prodotto di un "progetto", dato dal genoma, che rappresenta i

37 Tuttavia per queste patologie la terapia genica sta avendo ottimi risultati sostituendo i geni malati con geni sani, come afferma a pag. 84 de "I nostri geni".

38 Pag. 123 de "Il genoma: il grande libro dell'uomo". 39 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 75. 40 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 112-113.

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nostri a-priori, e di due forze: l'ambiente e il caso. Infatti il DNA viene orientato dai segnali provenienti dalle altre cellule e dall'ambiente, che portano con loro una "memoria recente", che si salda alla "memoria antica " di cui il genoma è il rappresentante; c'è dunque un confronto continuo tra il tempo passato e il tempo presente. Quest'argomento anticipa forse quello

dell'”aspettativa”, che è un concetto fondamentale nel funzionamento del nostro sistema nervoso: la nostra vita, e come vedremo la stessa nostra coscienza, non è che il susseguirsi dei confronti tra la memoria, consapevole o meno, delle nostre esperienze e conoscenze (innate o acquisite), che ci creano aspettative congruenti (anch'esse non necessariamente consapevoli), e l'esperienza che ci si para davanti, al fine d'inquadrarla e di assumere il comportamento più adeguato ai nostri scopi pratici. Alla base dell'aspettativa sembra esserci dunque quest'originaria

distinzione tra genetico e appreso e il loro continuo confronto.

Abbiamo già detto che alcuni geni non sappiamo ancora a cosa servano, tanto che qualcuno li ha definiti "DNA spazzatura". Ma si tratta di una parte consistente, vale a dire del 60-65 o forse 70% del DNA41! A differenza della parte codificante42, che interviene nella produzione delle proteine, questa parte del genoma cambia moltissimo di specie in specie. Contiene sequenze che si ripetono frequentemente ed in base alle quali possiamo venir identificati nella nostra identità molto meglio che con le impronte digitali. Tale DNA non incide sui fenotipi, ma è importante nel distinguere una specie dall'altra, perché muta quando le popolazioni si separano dando luogo a speciazioni, che come abbiamo detto sono irreversibili, visto che le unioni miste risultano infertili.

Può anche darsi che in futuro questi geni verranno riconosciuti all'origine della nostra specificità di esseri umani43 o addirittura che siano alla base del nostro linguaggio44.

Anche la lunghezza della vita è regolata in parte dai geni, in particolare dai cosiddetti telòmeri, che sono meccanismi marca-tempo posizionati ai margini dei cromosomi e che si scorciano

irreversibilmente ad ogni divisione cellulare; ma anche le condizioni di vita e l'ambiente vi incidono fortemente, a dimostrazione che neanche la durata della nostra vita individuale è un destino segnato. I telòmeri computano dunque, come i contatori, il tempo lineare della nostra vita, mentre il ritmo circadiano (che è propriamente di venticinque più che di ventiquattro ore), che detta l'alternanza del sonno e della veglia e i tempi della riproduzione cellulare, ne segna, come un oscillatore, il tempo circolare.

Mentre gli alleli, cioè le forme mutate di un gene, quando sono dominanti e dannosi vengono subito espulsi mediante la selezione naturale, che impedisce la riproduzione o provoca la morte, quelli recessivi e magari solamente un po' nocivi o scarsamente presenti nella popolazione sono ben più persistenti e duri a morire, perché soggetti a "fluttuazione casuale", specie se eterozigoti e appartenenti a fenotipi normali. Forse ciò dipende dal fatto che se non sono deleteri possono rappresentare una risorsa vantaggiosa per altri versi. Abbiamo scoperto ad esempio che individui eterozigoti per la talassemia si dimostrano più resistenti alla malaria, così che la selezione naturale non solo non li elimina ma li avvantaggia nei paesi in cui questa malattia è diffusa. Altrettanto si può dire per il favismo che protegge anch'esso dalla malaria, per la fibrosi cistica che protegge dal tifo, per il diabete e l'ipercolesterolemia che protegge dai lunghi periodi di digiuno.

Che un allele recessivo, purché non letale, sia considerato positivo o negativo dalla selezione è

41 Esattamente, parla del 60-65% in "Perché non possiamo non dirci darwinisti" a pag. 23 e del 70% in "La scienza non ha bisogno di Dio" a pag. 98.

42 Propriamente, soltanto il 3% della parte codificante è costituita da geni, mentre il resto – dunque un 27%- serve ad attivare tali geni.

43 "Genoma: il grande libro dell'uomo", pag. 112. 44 "La scienza non ha bisogno di Dio", pag. 102.

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dunque un fatto variabile che dipende dalle condizioni ambientali, e anche da ciò Boncinelli deduce che la natura opera con criteri suoi propri e con valutazioni ben diverse dalle nostre45.

Abbiamo visto che gli organismi viventi, pur mantenendo la loro forma pressappoco identica a sé stessa, sopravvivono grazie ad una continua produzione e sostituzione della loro materia, che avviene ad opera delle proteine, secondo le istruzioni che il DNA dà a ritmo continuo. Questo meccanismo, insieme con la riproduzione, permette al genoma di non subire le alterazioni altrimenti inevitabili per via dell'usura che la vita provoca. Affinché il genoma rimanga il più possibile

inalterato, ogni duplicazione avviene attraverso l'intermediazione dell'RNA, che ne rappresenta quasi una controfigura. Quest'ultimo è forse la forma più antica di patrimonio genetico e consiste in una copia del DNA su supporto di tipo diverso, che esce dal nucleo al suo posto e lavora in sua vece per la codificazione proteica, lasciando il DNA originale al riparo da possibili mutazioni dentro al suo nucleo (anche questo meccanismo di protezione mi sembra affine a quello che distingue le cellule della via germinale da quelle della via somatica).

Le proteine che vengono codificate sono in parte "strutturali", cioè costituiscono la massa del nostro corpo, quindi la materia di cui siamo fatti, in parte sono "enzimatiche", perché presiedono ogni possibile reazione chimica, in parte infine sono "regolative", perché controllano la produzione di tutti e tre i tipi di proteine attraverso il controllo genico, cioè attraverso l'accensione e lo

spengimento dei geni e sono in tal caso anche chiamate "fattori di trascrizione".

Le proteine enzimatiche o enzimi sono catalizzatori organici, indispensabili affinché le reazioni chimiche si producano velocemente, in tempo utile cioè per la vita. Senza gli enzimi tali reazioni sarebbero infatti più lente dei tempi di riproduzione cellulare. Ogni enzima lavora in base al meccanismo del riconoscimento, perché opera esclusivamente con uno specifico substrato, dato dalle molecole che deve fare reagire, tenendole l'una vicinissima all'altra, e provoca una sola reazione chimica tra le molte possibili.

Il DNA è composto da una doppia elica paragonabile ad una cerniera lampo46 i cui denti sulle due diverse sponde sono costituiti da uno dei quattro possibili nucleotìdi o basi azotate (A, G, T, C). Mentre nel senso della lunghezza di questa specie di cerniera tali basi si susseguono in maniera casuale, nel senso della larghezza ogni dente si associa al dirimpettaio secondo regole precise: esclusivamente le A (adenina) con le T (timina), e le G (guanina) con le C (citosina). (Caso e necessità sembrano dunque presenti fin dall'organizzazione interna del DNA!) Quindi ognuna delle due catene, cioè delle due metà della lampo, è perfettamente ricostruibile a partire dall'altra metà, di cui è complementare. Infatti il DNA si replica proprio in questo modo: immaginiamo che ognuna delle due parti della cerniera venga immersa in una specie di brodo in cui fluttuano molti "denti liberi". Questi andranno ad agganciarsi alla mezza cerniera esattamente nell'ordine previsto, cioè in base ad un preciso riconoscimento biologico: le A con le T e le G con le C, costruendo una nuova catena complementare.

Invece nel senso della lunghezza di questa cerniera non esiste nessuna regola nella successione, che risulta dunque arbitraria; ed è proprio qui che l'organismo opera la sua lettura al fine di produrre una proteina, leggendo tali nucleotìdi a gruppi di tre, chiamate triplette (o codoni). Sono dunque

possibili sessantaquattro (4³) triplette, ed è dunque fondamentale, come in ogni linguaggio articolato, l'ordine in cui si susseguono sia i singoli nucleotìdi che le triplette che ne derivano. (Occorrono circa tre miliardi di nucleotìdi per ottenere una molecola di DNA!).

Ognuna di queste triplette va a codificare uno ed un solo aminoacido (escluse tre che segnalano la fine di un messaggio e dunque della produzione di quella catena), che è la componente di base delle

45 "Perché non possiamo non dirci darwinisti", pag. 73.

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proteine che costituiscono il nostro corpo. Il codice genetico consiste proprio in questa

corrispondenza, vale a dire in questa traduzione del linguaggio del DNA in quello delle proteine. La successione di nucleotìdi nel gene determina dunque la successione degli aminoacidi della catena proteica. Ogni proteina è infatti composta da una o più catene, codificate da altrettanti geni, i quali possono anche stare su cromosomi differenti. Un unico gene codifica talvolta un'intera proteina, più spesso solo una sua parte o catena, dunque è più corretto dire che codifica una catena proteica.

In totale esistono vénti aminoacidi, ognuno dei quali può essere specificato da più di una tripletta (si dice, per esprimere tale concetto, che si tratta di un codice "degenerato"). Questo fatto protegge gli organismi dalle mutazioni, perché quando un nucleotìde si trasforma, alterando il gene e dando luogo ad una mutazione, la corrispondente tripletta può modificarsi in un'altra, talvolta senza che cambi la proteina codificata, e ciò costituisce una cosiddetta mutazione sinonima o silente, che cioè non ha effetti visibili nel fenotipo.

Al contrario però, ogni tripletta codifica, come abbiamo detto, un solo aminoacido, e ciò impedisce l'ambiguità e i corrispondenti errori di codificazione. L'ordine degli elementi è essenziale, basti pensare che le proteine sono trecento o quattrocento di contro ai soli vénti aminoacidi.

Questa corrispondenza tra triplette e aminoacidi, che costituisce il codice genetico, è casuale e gratuita, perché non c'è nessuna necessità che sia proprio così, cioè che le corrispondenze siano quelle che sono. Non c'è nessuna ragione perché una specifica tripletta codifichi un particolare aminoacido e non un altro. Eppure nessun organismo esistente a noi noto utilizza un codice genetico differente47, a dimostrazione della comune origine di tutti i viventi e a riprova della teoria

evoluzionistica. Se d'altra parte, anche in un altro pianeta del cosmo fosse nata la vita, in maniera autonoma dalla nostra, la corrispondenza tra triplette e aminoacidi dovrebbe risultare ben diversa da questa, se è vero che l'origine è puramente casuale.

Quando per la prima volta tale corrispondenza si stabilì, venne fissata per sempre, costituendo uno di quegli incidenti congelati che sono alla base della vita e che, diversamente da quanto il termine sembra suggerire, non sono affatto errori, perché se lo fossero sarebbero stati subito stroncati dalla selezione. Forse si potrebbe esprimere meglio questo concetto dicendo che gli errori finché sono piccoli rappresentano una possibile risorsa. Proprio il codice genetico, che pure imprime omogeneità e ripetizione, e che Boncinelli arriva a definire

"progetto", vediamo che ha un'origine casuale ed arbitraria! In questo meccanismo di traduzione in cui il DNA, vale a dire l'informazione, genera le proteine, vale a dire la materia (le proteine strutturali sono infatti i mattoni del nostro corpo), assistiamo - mi pare -alla trasformazione dell'informazione in materia, che compie la stessa alchimia della famosa formula con cui Einstein ha dimostrato la trasformazione della materia in energia e viceversa.

Le mutazioni avvengono durante le replicazioni del DNA, e avvengono, come si è detto, quasi esclusivamente dall'interno48 senza nessuna influenza ambientale. Non procedono in maniera continua, ma "a salti", hanno quindi effetti discreti; sono irreversibili; mutazioni di geni diversi vengono ereditate separatamente49. Consistono in errori di trascrizione paragonabili in media a

47 Anche se il DNA mitocondriale, che viene oltretutto tramandato per via materna, è leggermente diverso, perché probabilmente deriva, secondo la teoria endosimbiotica, da ancestrali batteri inglobati da cellule eucariote. Inoltre, recentemente è stato individuato un archeobatterio il cui DNA può essere a base di arsenico invece che di fosforo (vedi in Science del 27.7.2012 “Absence of Detectable Arsenate in DNA from Arsenate-Grown gfaj-1 Cells”di Reaves, Sinha, Rabinowitz, Kruglyak, Redfield.)

48 Pag. 39 di "Io sono, tu sei". 49 Pag. 31-2 de "I nostri geni"

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quelli di una bravissima dattilografa che sbagli soltanto un carattere ogni miliardo! Però le trascrizioni nella vita di un organismo sono continue e dunque anche questi errori avvengono frequentemente e inevitabilmente. In alcuni casi possono esistere alcuni fattori - biologici, fisici o più spesso chimici - definiti mutàgeni, che possono aumentarne anche di gran lunga il numero, ma come abbiamo detto è escluso che l'ambiente possa dirigerle determinandone il tipo (almeno per le cellule della linea germinale, che vengono ereditate da un eventuale figlio, e che potrebbero dar luogo a malattie genetiche).

Le mutazioni sono inoltre di moltissimi tipi, che vanno dalla sostituzione puntiforme o soppressione di un solo nucleotìde alla delezione, che è la soppressione di un intero gene; possono essere

dominanti oppure recessive, a seconda che siano visibili o no nel fenotipo. Spesso una mutazione produce effetti solo quando si somma ad una mutazione di un altro gene. Non sempre le mutazioni sono dannose o provocano malattie; gli svariati gruppi sanguigni si sono ad esempio originati proprio per differenti mutazioni all'interno della popolazione. Le mutazioni, e il caso che ne sta alla base, spiegano dunque la straordinaria varietà genetica e l'intera evoluzione.

LO SVILUPPO EMBRIONALE

Boncinelli definisce lo sviluppo embrionale come un viaggio dall'incoscienza alla coscienza ed alla memoria, evidentemente perché alla fine e all'apice dell'evoluzione troviamo appunto coscienza e memoria, che ne segnano il coronamento. Durante questo processo

individuale, che avviene per successive rotture di simmetria, emergono infatti qualità, come appunto coscienza e memoria, che non erano contenute nelle componenti iniziali e che sono talmente diverse dalla materia da apparire come immateriali50.

Tale sviluppo è pilotato da uno specifico "programma"51 contenuto nel DNA insieme con molteplici altri programmi, ma le cui istruzioni non sono certamente rigide come quelle presenti in un

computer. Innanzitutto, le istruzioni genomiche hanno vari tipi di necessità e non sempre sono stringenti, tanto che a volte somigliano a "semplici consigli", che è possibile disattendere. Inoltre, come sappiamo, più passa il tempo, più l'organismo cresce, più tale programma, deve venire a patti con altri due elementi: l'ambiente e il caso.

In tutti gli organismi pluricellulari si parte da un'unica cellula, che è la cellula-uovo fecondata o zigote, e si assiste ad una crescita (che significa aumento di volume mediante produzione o incorporazione di sostanze) e ad una proliferazione cellulare che avviene per divisione. Tali divisioni sono controllate da ormoni e da cellule che sono esterni e i cui messaggi vengono

riconosciuti e recepiti attraverso i recettori della membrana. Questa li invia al nucleo, che risponde codificando proteine, tra cui quelle chiamate fattori di trascrizione, perché stimolano o reprimono la trascrizione del DNA che determina la nascita di nuove cellule.

La velocità con cui la proliferazione cellulare avviene è spesso alla base della forma, perché provoca espansioni quando è alta e strozzature quando è bassa.

La proliferazione è anche alla base del differenziamento, come abbiamo già osservato, perché le cellule che nascono per divisione cellulare non sono mai identiche alla cellula-madre. Anche quando appaiono identiche è diverso il loro “destino”, perché dovranno formare tessuti diversi o essere inviate a zone differenti del corpo o rimanere staminali oppure sono state programmate per l'apoptòsi . Dunque ancor prima che due cellule siano differenziate, esse sono predisposte a diventare quel che diventeranno e tale predisposizione aumenterà sempre di più, per mezzo dell'accensione e dello spegnimento dei geni, in un processo di determinazione continuo e

progressivo che non risulta nel fenotipo. Tale determinazione, che comporta una progressiva perdita

50 Boncinelli parla a questo proposito di “transmateriale” a pag. 186 de “Lo scimmione intelligente” 51 Pag. 107 di "La scienza non ha bisogno di Dio".

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di potenzialità, è stabile ma spesso è reversibile, così che il destino di una cellula (nonostante il nome) può essere cambiato, come sappiamo bene dalle moderne tecniche di riprogrammazione cellulare. Ad un certo momento però tale determinazione può diventare irreversibile e in tal modo conduce al differenziamento.

Il differenziamento avviene per differente espressione genica, perché i geni sono sempre gli stessi e semplicemente si accendono – vale a dire si attivano - o si spengono in maniera diversa52. Alcuni geni, definiti ubiquitari, non possono che essere sempre accesi, mentre altri possono esserlo o non esserlo o possono essere accesi in tempi diversi. Abbiamo infatti detto che i geni sono dappertutto gli stessi entro uno stesso organismo e sono estremamente simili negli organismi di una stessa specie, e se poi si tratta di geni master sono simili perfino in specie diverse; tutto ciò che cambia è dunque soprattutto la loro regolazione spazio-temporale. Questo è ciò che s'intende quando si parla di "paradigma molecolare" della moderna biologia, che per quanto celebre rappresenta soltanto una, per quanto utilissima, "ipotesi di lavoro"(working hypothesis), che non cerca di spiegare il perché, ma si limita soltanto a descrivere il come di ciò che avviene, così come deve fare ogni teoria scientifica.

In questa progressiva segregazione dell'informazione accade che nella maggior parte degli organismi pluricellulari - esclusi alcuni vegetali e funghi - le cellule germinali, che saranno

ereditate dai figli, vengono separate fin dall'inizio dello sviluppo embrionale dalle altre cellule della linea somatica, come già sappiamo. Leo Buss osserva che l'”individualità” nasce proprio allorché avviene questa precoce separazione, perché, finché questa manca, l'organismo somiglia a

federazioni di cellule che combattono l'una contro l'altra per tramandare il loro corredo genetico. L'evoluzione è infatti storia anche di progressiva individuazione. Dunque anche il

coordinamento e l'armonia delle varie parti dell'organismo nascono forse grazie a tale separazione e all'individualità che essa rende possibile.

"Lo sviluppo non è altro che uno svolgimento ordinato di eventi che si succedono nel tempo e in seguito alla loro successione temporale i loro effetti si vanno poi a collocare nello spazio. Possiamo raffigurarci nel modo seguente l'azione dei geni appartenenti ai complessi HOX53: in una regione specifica del nucleo delle nostre cellule si trova un gruppo di geni che

costituiscono nel loro complesso una microrappresentazione del nostro corpo o, per meglio dire, del succedersi delle parti principali del nostro corpo, una sorta di homunculus assopito lungo il cromosoma"54. Dunque, l'ordine dei geni nei cromosomi riproduce l'ordine dei

corrispondenti segmenti corporei (mi colpisce che tempo e spazio, proprio come quelli di Einstein, appaiano nel nostro corpo e nella vita come qualcosa di unitario).

Lo sviluppo viene quindi determinato in primo luogo dal genoma, che è un a priori rispetto al corpo, perché ha origine prima di questo e contiene un'immagine del corpo prima ancora che questo esista e lo modella secondo questa immagine. L'homunculus cromosomico rappresenta bene questo a priori che precede e

determina il corpo. Non a caso anche nel cervello, come vedremo, esiste qualcosa di simile perché il cervello, come il cromosoma, conosce il corpo in maniera innata

52 Per quanto riguarda il differenziamento delle cellule del muscolo scheletrico, nel 1987 si è scoperto che è operato da uno specifico gene: myoD. Vedi pag. 48 e seguenti di "Biologia dello sviluppo".

53 Si tratta di quei geni omeotici che decidono l'ordine delle varie regioni del corpo, altrimenti detti "architetto". I geni regolatori sono infatti di tre tipi: materni, della segmentazione, omeotici. Tra questi ultimi ci sono i geni della famiglia HOX, che stabiliscono l'ordine delle varie parti del corpo con una corrispondenza topografica, che è chiamata colinearità, ma che si attivano anche temporalmente con lo stesso ordine, cioè con una colinearità temporale. Nei mammiferi appartengono alla famiglia dei geni omeotici, oltre agli HOX, i geni della famiglia OTX e EMX, che rispettivamente si occupano di cervello e corteccia.

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e anzi lo costruisce e lo dirige. Come ho già detto, il genoma si mantiene pressocché stabile e identico a se stesso nella vita dell'individuo, ma è mutevole nella lunga storia dell'evoluzione, per cui si deve dire che è a priori55 per l'individuo ma a posteriori per la specie.

Durante lo sviluppo possiamo osservare che certe zone del corpo che a noi sembrano scollegate si formano stranamente assieme, come ad esempio avviene per il pollice e l'alluce, mentre altre che ci sembrano strettamente collegate, perché fanno ad esempio parte di uno stesso organo, si formano mediante processi differenti. Ciò deriva dal fatto che uno stesso gene presiede a parti o organi separati, di cui noi non capiamo il collegamento, e ciò fa dire a Boncinelli che "l'embrione vede se stesso in modo diverso da come lo vediamo noi" e che questa diversa logica e questa difficoltà di comprensione dovrebbero insegnarci ad essere più umili.

Oltre al differenziamento, che stabilisce un differente destino tessutale delle singole cellule, c'è anche un'importante informazione genetica, che è di tipo posizionale, vale a dire di organizzazione spaziale, regionale e locale ( la prima indicazione posizionale che arriva all'organismo in

formazione è quella degli assi corporei, della polarità testa-coda prima di tutto). Le istruzioni posizionali, la cui rilevanza è stata capita solo negli anni '70 del novecento, derivano anch'esse sia dall'ascendenza cellulare o genetica che dall'influenza dei tessuti circostanti.

Abbiamo detto che l'evoluzionismo è una scienza storica e ciò vuol dire che nell'analisi dello sviluppo di un organismo, proprio per raccontarne la storia, occorre evidenziare quei piccoli eventi, che ne rappresentano le tappe e che sono queste "rotture di simmetria" ad origine casuale.

Ogni cellula-uovo è asimmetrica e non omogenea, perché il materiale che contiene è distribuito diversamente; è perciò molto importante come esso viene diviso. In qualsiasi embrione la prima rottura di simmetria sancisce la polarità testa-coda (o antero-posteriore), che ne determina una volta per tutte l'orientamento, ma che deriva da un fatto puramente fortuito, diverso da specie a specie. Ad esempio per i polli è dovuto alla rotazione dell'uovo nell'ovidotto, per i ranocchi dipende da dove è entrato lo spermatozoo; per i mammiferi non si sa ancora da cosa dipenda, ma solo che avviene durante la gastrulazione. Nell'uomo essa avviene nella cosiddetta fase della individuazione. Tale prima rottura, per quanto casuale, provoca poi una serie di effetti a cascata che sono invece rigidamente determinati56. Nello sviluppo embrionale le rotture di simmetria si succedono infatti con un ordine perfetto e deterministico57, che di contro alla casualità dell'origine s'impone con necessità.

Un altro esempio di come un incidente congelato, casuale in origine sia poi diventato esclusivo è rappresentato dal fatto che il nostro corpo è predisposto a produrre ed accettare soltanto le forme levogire delle proteine; specifici meccanismi di riconoscimento infatti ignorano ed escludono quelle destrogire, che possono venir sintetizzate nell'identico modo in laboratorio ma non dal nostro corpo (salvo casi di mutazione specifici). Vediamo qui che gli stessi meccanismi di

riconoscimento, che in biologia sono fondamentali nel determinare l'organismo in base alle influenze interne e esterne, adotterebbero criteri scelti in origine in modo casuale.

55 In Boncinelli occorre osservare che mentre “a priori” va inteso come ciò che precede l'esperienza, l'”a posteriori”non deriva da questa, perché l'esperienza non può entrare nel genoma. Per spiegare come possa diventare a priori per l'individuo ciò che è a posteriori per la specie senza entrare nel genoma, devo ricorrere al ragionamento che già abbiamo visto a proposito dell'intuitività: ciò che, essendo nato per caso in qualche individuo si rivela poi utile, viene ripagato dalla selezione con una riproduzione differenziale, che lo affermerà nelle generazioni successive. Questo stesso ragionamento lo affronterò anche a pag. 88. 56 Pag. 258 di "Biologia dello sviluppo"

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Così come nella storia del cosmo Boncinelli postula un'origine simmetrica carica di tutte le logiche potenzialità, che mano a mano vengono perdute attraverso

successive casuali rotture di simmetria, anche nella storia dello sviluppo embrionale assistiamo ad una progressiva perdita di potenzialità parallela alle cadute di simmetria, in cui il caso gioca il ruolo principale.

Durante lo sviluppo, infatti, lo zigote si trasforma passando via via dall'indifferenziato al sempre più differenziato. Ad esempio gli otto blastomeri dello stadio preembrionale sono totipotenti, in quanto ognuno di essi potrebbe generare qualsiasi tessuto e addirittura un intero individuo (e di fatto lo genera quando si ricorre alla diagnosi pre-impianto, mediante la fecondazione in vitro). Lo stadio successivo, quello dell'embrioblasto, entro il quattordicesimo giorno di gestazione, è leggermente meno potente ed è definito pluripotente; può ancora dar luogo a più individui, in questo caso

gemelli, ma non più a tutti i tessuti embrionali. Quest'ultimo è lo stadio da cui si possono ricavare le cellule staminali embrionali (ES).

Quanto al ruolo del caso, questo è già presente fin dalla fecondazione, quando si decide l'incontro tra la cellula-uovo e uno solo tra i 280 milioni di spermatozoi presenti in ogni

concepimento; che vinca l'uno o l'altro di essi non è infatti questione di forza, velocità o altro, ma di puro caso58. Nonostante che ai livelli precoci dello sviluppo il genoma abbia un potere enorme, vediamo che il caso vi esercita già un'influenza straordinaria. Se la vita è un evento unico come una fiamma, la nascita di un individuo non consiste nell'ereditare un'unica fiammella, ma nel mescolarne due, perché è dall'incontro di due persone che nasce lo zigote; la riproduzione sessuata è dunque un'altra fonte importante di varietà e di casualità 59.

Ciò che passa dai genitori ai figli, vale a dire ciò che viene ereditato, non sono i singoli geni ma l'intero genoma o meglio interi spezzoni di cromosomi, che di geni ne contengono tanti.

Nella "ricombinazione" questi pezzi di cromosomi, in parte del padre e in parte della madre, si mescolano e si riattaccano in modo assolutamente casuale, così che figli diversi dei medesimi genitori possono non somigliarsi affatto, perché hanno genomi ben diversi. È dunque questa la fonte principale, dopo la mutazione, di variabilità genetica casuale, ed è solo sul materiale che ne deriva che lavora la selezione naturale.

Ma c'è una terza fonte di variabilità ad origine casuale, oltre a mutazione e ricombinazione. I geni a loro volta non sono strutture unitarie, ma sono simili a mosaici, composti da tanti pezzi, tra cui gli introni, che non si sa ancora bene a cosa servano e non sono codificanti, cioè non servono a produrre proteine, e gli esoni. Durante la trascrizione dal DNA all'RNA vengono dapprima copiati per intero entrambi, nel cosiddetto trascritto primario, ma poi, per ottenere l'RNA messaggero, in un processo chiamato splicing, vengono distinti a caso gli uni dagli altri e gli introni di solito

tralasciati mentre i secondi conservati, ma non sempre nello stesso ordine di partenza, così che uno stesso gene sottoposto a differenti splicing può perfino codificare proteine diverse.

Lo sviluppo degli organismi man mano più complessi dipende dalla combinazione di un numero via via crescente di componenti, così che si parla di "sviluppo regolativo" per contrapporlo a quello "a mosaico", tipico di organismi più elementari come molluschi e tunicati. Nel primo caso

l'ascendenza, quindi il DNA, è meno determinante, perché intervengono fattori come l'induzione da parte di altre cellule, dunque il dictat del genoma si allenta sempre più aprendo alle influenze esterne. Alcune sostanze induttive riescono perfino a cambiare il destino di una cellula,

trasformandola per esempio da epiteliale a muscolare. Ciò che permette alle cellule di interagire è, come abbiamo detto, la loro capacità di riconoscimento, attraverso segnali di tipo diverso. Il destino di una cellula è dunque in parte genetico, cioè ereditario e "mappabile"(e dunque prevedibile pur se riprogrammabile) ed in parte dipende dalle interazioni cellulari. Ma quanto più un

58 "L'etica della vita", pagg. 19-20.

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organismo è complesso, tanto meno sarà determinato rigidamente dal DNA, perché sarà più

facilmente influenzabile dall'esterno. L'incidenza del caso aumenta dunque sia con l'avanzare dello sviluppo del singolo organismo, con la sua crescita e con l'aumento della sua età, sia con la

complessità evolutiva. Esaminiamo dunque questo concetto di complessità.

COMPLESSITÁ, INDETERMINAZIONE BIOLOGICA, LA NASCITA DEL MENTALE Oltre ad escludere dall'evoluzione la presenza di qualsiasi finalismo, cioè di una progettualità secondo un'intenzione, Boncinelli nega anche l'esistenza di un progresso biologico.

Intanto, se si pensa che il progresso sia misurabile con l'aumento quantitativo del genoma, vediamo che questo di solito aumenta man mano che si sale verso gli organismi superiori, ma non sempre, tanto che il genoma umano è più piccolo di quello di certe piante, come il fagiolo, e di alcuni anfibi. In ogni caso l'informazione che esso contiene è pressappoco la stessa in tutti gli organismi,

indipendentemente dalla grandezza60.

È però vero, limitatamente agli animali superiori e all'uomo, che si riscontra un aumento progressivo di complessità, vale a dire un accumulo di ordine e di negherentropia, che sembra contraddire il Secondo Principio della Termodinamica61, tant'è che l'uomo infatti, in particolare il suo cervello o meglio ancora la sua corteccia e quindi la razionalità, per Boncinelli rappresentano l'apice dell'intera evoluzione: "in cima in cima all'evoluzione biologica, io come tanti altri (ma non poi così tanti in Italia) penso che vi sia l'uomo."62

L'aumento di complessità del resto pare caratterizzare per lui, come già abbiamo visto, l'intera storia del cosmo e non solo la vita, anche se nella vita vi assume una rilevanza enorme, pilotata com'è dalla selezione63

. La complessità è per Boncinelli così importante che egli ne fa, come vedremo, uno dei tre criteri fondamentali di distinzione della materia, accanto a quello tra animato e inanimato e tra uomo e altri animali, preferendolo perfino alla distinzione tra regno vegetale e animale. Nonostante la constatazione di questo aumento oggettivo di complessità, ciò per lui non significa, a differenza che per l'illustre zoologo Ernst Mayr, che ci sia progresso. Infatti la Terra è colonizzata fondamentalmente dai batteri, che sono così elementari da non avere neanche una distinzione tra nucleo e membrana, ma sono i veri vincitori della vita sul nostro pianeta, visto che formano la biomassa più rilevante.

L'evoluzione infatti è caratterizzata tanto da progressi che da regressi, e più spesso ancora da eventi che non sono né l'una né l'altra cosa, perché si tratta di un processo opportunistico, di un gioco alla cieca che talvolta imbocca sentieri che non portano a niente e che talvolta conserva, in maniera assolutamente miope, solo ciò che serve al momento. Se per esempio è temporaneamente utile, una specie può regredire diventando parassitaria oppure diventa cieca allorché va a vivere al buio. I virus, che di certo non possono essere nati prima della vita in quanto la presuppongono, poiché si replicano soltanto all'interno delle cellule, sono la dimostrazione lampante che l'evoluzione qualche volta è un regresso anziché un progresso64.

Tutto ciò attesta che la direzione dell'evoluzione è imprevedibile65 e aperta, "a differenza di quel che succede nei miti". (Riassumendo con le mie parole, che l'evoluzione è aperta significa che non ha direzioni logiche o prestabilite, che non è prevedibile neanche quanto a logica o linea di tendenza, perché non segue le stringenti leggi della causalità, la quale c'è, ma è di tipo contingente). Se ne può dedurre che una

60 Pagg. 143-144 di "Perché non possiamo non dirci darwinisti".

61 Il collegamento tra complessità e negherentropia è esplicito solo in "Prodigi quotidiani" da pag. 114. 62 "Prodigi quotidiani", pag. 94.

63 “Verso l'immortalità”, pagg. 82-83.

64 "Lettera a un bambino che vivrà 100 anni", pag. 126.

65 Pag. 27 di “La teoria dell'evoluzione oggi”. Si tratta però di un'affermazione che attualmente Boncinelli non sottoscrive, come risulta dalla mia intervista.

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