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2. IL TEMA DELLA SICUREZZA NELLA ROBOTICA

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Academic year: 2021

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(1)

1. INTRODUZIONE...2

2. IL TEMA DELLA SICUREZZA NELLA ROBOTICA...4

3. LE SOLUZIONI CHE GARANTISCONO LA SICUREZZA...10

3.1 I PRINCIPALI CONTRIBUTI ALLA VALUTAZIONE DEL DANNO...11

3.2 LA cedevolezza nella trasmissione ...12

3.3 Attuatori a cedevolezza variabile...17

4. L’ ATTUATORE VSA...26

4.1 Disegno e componenti...26

4.2 Modellazione dinamica del vsa...43

5. SISTEMA DI CONTROLLO DEL VSA ...52

5.1 obbiettivi da raggiungere e schema principale...52

5.2 Pianificazione di traiettoria e rigidezza...54

5.2.1 Il controllo ottimo in tempo minimo...54

5.2.2 Prestazioni degli attuatori a cedevolezza variabile ...64

5.3 generare i riferimenti per i motori...69

5.4 risultati delle simulazioni di impatto...74

6. COSTRUZIONE E CONTROLLO DEL PROTOTIPO VSA ...76

6.1 IL SISTEMA MECCANICO...76

6.2 IL CONTROLLO...82

6.3 LA MISURA DELLA RIGIDEZZA ...84

6.4 MIGLIORAMENTI AL SISTEMA DI CONTROLLO ...90

7. CONSCLUSIONI ...93

7.1 RISULTATI RAGGIUNTI E SVILUPPI FUTURI ...93

7.2 RINGRAZIAMENTI ...94

APPENDICE...95

CALCOLO DELLA RIGIDEZZA ANGOLARE ...95

(2)

1. INTRODUZIONE

Le motivazioni di questo lavoro di tesi trovano riscontro nelle problematiche riguardo la garanzia della sicurezza nella vita comune. In particolare, l’attenzione è posta su quei dispositivi meccanici che sono pensati per l’interazione con l’essere umano. In senso lato, la robotica abbraccia l’argomento “sicurezza”, sebbene solo negli ultimi dieci anni probabilmente abbia cominciato a proporre soluzioni accettabili. Il passato dell’automazione industriale ha visto “i robot” relegati in ambienti inaccessibili agli uomini, per la salvaguardia dell’incolumità degli uni e degli altri. Con l’avanzare della tecnologia e con il possesso di potenti strumenti teorici e matematici si affaccia nel presente la possibilità di un’interazione diretta e più produttiva tra uomo e macchine.

La ricerca svolta al centro interdipartimentale di ricerca “E. Piaggio”, dunque, si sforza di fare luce in un campo ancora tutto da indagare: la cooperazione sicura tra un operatore e un “robot” potenzialmente pericoloso.

Generalmente un robot è considerato potenzialmente pericoloso se la sua struttura meccanica è pesante e se i suoi azionamenti lo rendono tanto agile e veloce da renderne il movimento quasi imprevedibile. Di conseguenza, lo stereotipo di un automa intrinsecamente sicuro risponde ad alcuni elementari requisiti sulla struttura meccanica e sulla modalità di controllo degli attuatori.

Gli attuatori generalmente utilizzati in robotica sfruttano trasmissioni rigide, secondo il principio che a maggiore rigidezza del giunto corrisponde una maggiore precisione di posizionamento, trasferendo così l’effetto dell’intera inerzia (motori e link) sull’impatto.

Un manipolatore può essere realizzato in modo da renderlo ad inerzia variabile (V.I., Variable Inertia), dove per inerzia si intende quella riflessa durante l’urto, e quindi più adatto all’interazione con l’ambiente esterno. Esistono varie possibilità di realizzare un robot VI. La prima è quella di azionare i giunti (i punti nei quali si realizza la movimentazione) con elementi elastici a caratteristica variabile. Un’altra ancora in via di sperimentazione, ad esempio, utilizza elementi a smorzamento variabile.

La prima e suddetta modalità di realizzazione si identifica con la sigla VST (Variable Stiffness Transmission). Studi in simulazione dimostrano l’efficacia di tale approccio nel conciliare prestazioni e sicurezza di un sistema meccanico ma, inevitabilmente, per approfondire la ricerca è doveroso sollevarsi dal piano teorico per abbracciare quello concreto della realizzazione pratica.

(3)

Come lavoro di tesi, dunque, si sono acquisiti e approfonditi i concetti più importanti sul tema della sicurezza nella robotica, trattato nella letteratura specializzata. Si è studiato poi il modello statico e dinamico di un attuatore a cedevolezza variabile (VSA, Variable Stiffness Actuator) realizzato al centro “E. Piaggio”, partecipando con un contributo attivo alla messa a punto dei parametri di progetto e alla soluzione dei problemi costruttivi. Si è verificata infine la validità del lavoro svolto confrontando i risultati di prove sperimentali con quelli previsti.

(4)

2. IL TEMA DELLA SICUREZZA NELLA ROBOTICA

Il progetto di un attuatore e di un sistema di controllo che garantisca un certo livello di sicurezza implica necessariamente la ricerca di un metodo che permetta di valutare numericamente quest’ultima. L’obbiettivo è infatti quello di inseguire una traiettoria mantenendosi costantemente al di sopra di un certo grado di sicurezza, che deve essere valutato secondo un criterio ben definito. Purtroppo la ricerca in questo campo è poco sviluppata, soprattutto a causa della difficoltà di ottenere dati sperimentali che riguardano i danni fisici a persone. Il concetto di sicurezza è di per sé un concetto vago e i metodi per quantificarla variano a seconda dei ricercatori; è quindi difficile trovare un criterio generale. Poiché si vuole minimizzare il danno prodotto da una collisione di un braccio meccanico con un umano si può ipotizzare che la quantità da minimizzare sia proporzionale alla massima forza raggiunta durante l’impatto, ma oltre alla difficoltà di misurarla rimane il problema di come valutare quei valori della forza che effettivamente provocano dei danni seri.

Il grado di sicurezza si potrebbe scrivere come:

Fc

= F

α (2.1)

dove F è la massima forza tollerabile. Nel caso più generale bisognerebbe prendere c in considerazione anche la forma del braccio robotico e la deformabilità del corpo umano, ma la valutazione del grado di sicurezza diventerebbe molto più complicata se non impossibile; è logico pensare che un robot sicuro abbia delle superfici quanto più possibile prive di spigoli, quindi il contributo dato dalla forma non verrà preso in considerazione. Una volta ipotizzato quindi che le superfici che vengono a contatto siano due piani bisogna calcolare la forza d’impatto tramite un modello semplificato che permetta di vedere quali sono i parametri che la determinano. Il modello più semplice per rappresentare l’urto è quello massa-molla raffigurato in figura 2-1.

(5)

Figura 2-1 Modello dell’impatto

La massa M rappresenta il braccio del robot che all’istante in cui avviene l’urto procede con velocità v, mentre l’interfaccia tra il robot e l’operatore che viene a contatto con esso è rappresentata da una molla di costante elastica K. In questo modello, una volta avvenuto il contatto la molla continua a comprimersi fino a che l’energia cinetica della massa M non si esaurisce:

1 M V2 = 2

1 K xmax2

2

(2.2) da questa si ricava:

=

xmax V M

K (2.3)

e quindi:

=

F V K M (2.4)

dove F è la forza massima che viene raggiunta durante l’urto. Come si può vedere questa dipende dalla velocità iniziale e dalla massa dell’oggetto urtante, inoltre aumenta all’aumentare della rigidezza di interfaccia che dipende molto dall’eventuale rivestimento del robot. La (2.1) diventa quindi:

=

α V K M

Fc (2.5)

M

v K

x

(6)

Come già spiegato in precedenza la ricerca di un valore da assegnare a F rimane un c problema di difficile soluzione. In [1] viene scelto un valore di 490 N, considerato come il 10% della forza che la testa di un uomo può sopportare senza avere danni; viene così introdotto un fattore di sicurezza 10 sul valore della forza massima sopportabile, che è indice di un forte grado di incertezza. Il valore di F in realtà cambia a seconda c dell’età, del sesso, e della parte del corpo che subisce l’impatto, ma per avere un criterio generale si può scegliere un valore cautelativo.

In [2] invece, per confrontare tra loro diversi robot e diverse strategie di sicurezza è stato scelto il criterio dell’ HIC ( Head Injury Criterion). Questo criterio è nato per la valutazione dei danni alle persone negli incidenti automobilistici e ha il vantaggio di essere stato molto utilizzato in vari altri campi ( per la progettazione di caschi per l’

Hockey o per il football) e di essere correlato ad una scala del danno ricavata sulla base di dati sperimentali. Purtroppo le pubblicazioni che riguardano l’HIC e il modo in cui si calcola sono discordanti tra di loro. In [3] questo indice viene utilizzato per valutare le conseguenze dovute all’esplosione di una mina e viene data una spiegazione abbastanza dettagliata su come deve essere calcolato. In seguito all’impatto la testa assume un’accelerazione il cui profilo nel tempo presenta in generale uno o più picchi; la formula che permette di calcolare l’indice HIC è :

} ] ) ) (

( )[ 1 max{(

2

1

5 . 2 1

2 1

2

=

t

t

dt t t a

t t t HIC

(2.6)

dove

t

2 e

t

1sono i valori finale e iniziale dell’intervallo di tempo per cui l’HIC raggiunge il valore massimo, e

a (t )

è l’accelerazione risultante del centro di massa della testa misurata in g. Di solito viene utilizzato l’HIC in cui il massimo intervallo tra 15

t

1e

t

2 è di 15 ms. Integrando l’accelerazione su di uno specifico intervallo di tempo, questo criterio ha il vantaggio di prendere in considerazione la durata dell’impulso di accelerazione e inoltre, imponendo la condizione di massimo, viene presa in considerazione solo la durata dell’impulso che effettivamente interessa.

Il caso di un urto è facilmente modellabile come un sistema masse-molle a due gradi di libertà, come si vede in Figura 2.2.

(7)

Figura 2-2 Modello dell’impatto

Le equazioni che descrivono questo sistema sono:

0 ) (

0 ) (

1 2 2

2 1 1

=

− +

=

− +

x x k x M

x x k x M

head rob

&&

&&

(2.7)

La posizione della testa nel tempo è data da:

= x2

⎜⎜⎜⎜

⎜⎜⎜⎜

⎟⎟⎟⎟

⎟⎟⎟⎟

k Mrob Mhead t + Mrob Mhead

⎜⎜⎜⎜

⎜⎜⎜⎜

⎟⎟⎟⎟

⎟⎟⎟⎟

sin 1 k

⎜⎜

⎟⎟

1

2 (Mrob Mhead + )

⎜⎜

⎟⎟

1 2 t Mrob

⎜⎜

⎟⎟

1

2 Mhead

⎜⎜

⎟⎟

1 2

Mrob V

k

⎜⎜

⎟⎟

1

2 (Mrob Mhead + )

⎜⎜

⎟⎟

3 2

(2.8)

mentre la velocità si può ottenere derivando la precedente espressione:

= v2

Mrob V

⎝⎜⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟⎟

⎛ −

⎝⎜⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟⎟

cos k Mrob Mhead t +

Mrob Mhead 1

+

Mrob Mhead (2.9)

Per poter esprimere l’indice HIC come funzione della velocità V che il braccio robotico possiede al momento dell’impatto possiamo riscrivere la (2.6):

M rob

v K

X2

Mhead

X1

(8)

} )]

) ( ( )[ 1

max{( v

2

t

2.5

t t

HIC =

(2.10)

dove

v

2è quella calcolata nella (2.9). In questo modo si pone

t

1=0 e il massimo dell’HIC viene calcolato al variare di

t

2. In realtà questo modo di calcolare l’HIC non ci assicura di prendere il valore massimo, perché si fa variare solo un estremo dell’intervallo di tempo, ma ci consente di poter scrivere l’indice come funzione della velocità iniziale del robot, cosa che, come vedremo più avanti, risulterà molto utile.

Per collegare i valori dell’HIC alla probabilità di danno esistono le curve di Prasad/Mertz.

Figura 2-3 Curve di Prasad/Mertz

Queste curve si basano sul principio che per ogni particolare valore di HIC esiste un valore di probabilità di ricadere in ognuno dei sei livelli di danno della scala MAIS.

Il significato di ciascuno dei valori di questa scala è spiegato in tabella 2-1.

(9)

MAIS Categoria Danno

1 lieve Danni leggeri al cervello con mal di testa, vertigini, nessuna perdita di conoscenza, contusioni

2 moderato Commozione con o senza frattura del cranio, meno di 15 minuti di incoscienza, distacco della retina, frattura del viso o del naso.

3 serio Commozione con o senza frattura del cranio, più di 15 minuti di incoscienza senza gravi danni neurologici, frattura scomposta del cranio, perdita della vista, frattura scomposta del viso, frattura cervicale senza danno alla spina dorsale.

4 grave Frattura scomposta del cranio con gravi danni neurologici.

5 critico Commozione con o senza frattura del cranio con più di 12 ore di incoscienza, emorragia nel cranio e situazione neurologica critica.

6 rischio di sopravvivenza

Morte, frattura cervicale con danni alla spina dorsale.

(10)

3. LE SOLUZIONI CHE GARANTISCONO LA SICUREZZA

Nel capitolo precedente si è visto come il danno provocato dall’impatto di un robot contro una persona dipenda fortemente dai seguenti fattori: la velocità posseduta dal robot al momento dell’impatto, la sua inerzia, e la rigidezza di interfaccia robot-umano.

Questo è evidente osservando la (2.4) ed utilizzando il criterio della forza massima ma si può vedere anche dalla (2.10) utilizzando il criterio dell’HIC.

E’ logico quindi che qualsiasi metodo si adotti per diminuire l’indice di pericolosità debba tendere a diminuire il valore di ciascuno di questi tre fattori.

Una prima strategia consiste nel diminuire la rigidezza di interfaccia: per raggiungere quest’obbiettivo è necessario dotare il robot di un rivestimento che assicuri la cedevolezza desiderata; bisogna però tener presente che lo spessore di materiale cedevole necessario per ridurre la forza di impatto ad un livello sicuro può essere notevole. In [2] viene calcolato che per assicurare un valore massimo di 100 dell’HIC15

per un robot PUMA che ha una velocità di impatto di 1 m/s sarebbe necessario un rivestimento di 125 mm; in condizioni normali per il PUMA 560 un urto alla velocità di 1 m/s produce un valore dell’HIC più che sufficiente per fare danni.

Figura 3-1 HIC come funzione dell’inerzia effettiva e della rigidezza di interfaccia

Utilizzare un rivestimento è quindi un espediente che sicuramente può aiutare, ma non elimina il problema alla radice.

(11)

3.1 I PRINCIPALI CONTRIBUTI ALLA VALUTAZIONE DEL DANNO

Per ridurre di molto la forza di impatto sarebbe infatti necessario eliminarne la causa principale ovvero l’inerzia del manipolatore. Per ridurre al minimo quest’ultima bisognerebbe innanzitutto costruire il manipolatore con materiali leggeri e con una struttura che permetta di sfruttare al meglio il materiale utilizzandone il meno possibile.

Inoltre uno dei fattori che fa aumentare parecchio l’inerzia di un braccio robotico è la presenza dei motori che contribuiscono in due modi: aumentando la massa complessiva del braccio ed aumentando l’inerzia rotazionale complessiva. La soluzione per il primo problema è quella di spostare i motori verso la base del manipolatore quanto più è possibile; questo viene generalmente realizzato utilizzando trasmissioni a cavi che però non permettono di avere delle alte prestazioni a causa della loro flessibilità, che limita la massima frequenza di coppia controllabile. In [4] vengono studiate delle strategie volte alla realizzazione di trasmissioni a cavi ad elevate prestazioni, anche se i componenti e i materiali richiesti risultano abbastanza costosi.

Rimarrebbe comunque da risolvere il secondo problema, ovvero il contributo dell’inerzia rotazionale dei motori a quella del manipolatore; la trasmissione a cavi infatti, è una trasmissione rigida, che fa sì che l’inerzia dell’attuatore sia accoppiata con quella del link mosso dallo stesso. Inoltre l’inerzia del motore viene amplificata a causa della presenza di un rapporto di trasmissione; indicando con Mm la coppia motrice e con Mr la coppia resistente all’asse del motore possiamo scrivere:

m m r

m

M J

M − = ϑ &&

(3.1)

dove Jm è l’inerzia del motore, mentre ϑ&& è l’accelerazione angolare del suo asse. m Ipotizzando per semplicità di realizzare il rapporto di trasmissione con una sola coppia di ruote possiamo scrivere l’equazione per la ruota condotta:

r r e

r

M J

NM − = ϑ &&

(3.2)

in cui si è indicato con N il rapporto di trasmissione e con Me il momento esterno agente sulla ruota condotta. Ricavando Mr dalla (3.1) e sostituendolo nella (3.2) otteniamo :

(12)

m m r

r e

m

M J NJ

NM − = ϑ && + ϑ &&

(3.3)

Considerando poi che ϑ&& =m Nϑ&&r possiamo riscrivere la (3.3) come:

(

r m

)

r

e

m

M J N J

NM − = +

2

ϑ &&

(3.4)

Come risulta evidente dalla (3.4) nell’equazione dinamica complessiva l’inerzia totale è composta dalla somma di due termini: l’inerzia dell’elemento condotto (nel nostro caso il link del robot) e l’inerzia del motore, quest’ultima amplificata del rapporto di trasmissione al quadrato. Gli attuatori più leggeri, e soprattutto più semplici da controllare sono i motori elettrici a corrente continua, che trovano largo impiego nel campo della robotica. Il difetto principale che questo tipo di attuatore presenta è però quello di poter esercitare coppie molto basse a velocità molto alte: questo implica la necessità di dover utilizzare un alto rapporto di trasmissione, che viene in genere ottenuto mediante l’uso di riduttori epicicloidali. La conseguenza principale di ciò consiste nel fornire un apporto molto grande all’inerzia rotazionale complessiva, come si vede dalla (3.4), che si avrebbe anche se i motori fossero collocati alla base del manipolatore.

3.2 LA CEDEVOLEZZA NELLA TRASMISSIONE

L’unico modo per eliminare il problema dell’inerzia dei motori, vista la necessità di avere un rapporto di trasmissione elevato, è quello di avere una determinata cedevolezza a valle del riduttore, che si ottiene mediante l’inserimento di elementi elastici nella trasmissione. In genere nel progetto di un manipolatore si persegue l’obbiettivo opposto, ovvero si cerca di rendere la trasmissione più rigida possibile:

questo infatti assicura una maggiore precisione di posizionamento. In effetti la giusta quantità di cedevolezza da inserire è il risultato del superamento di un trade-off tra la precisione di posizionamento e la diminuzione della forza di impatto. Un semplice modello massa-molla può chiarire meglio la situazione:

(13)

Figura 3-2 Modello di una trasmissione elastica

In questo schema la massa M rappresenta l’oggetto di cui si vuole controllare la posizione mentre F e X1 rappresentano la forza e la posizione data da un attuatore ideale. Supponendo per semplicità che il sistema sia privo di smorzamento, si può calcolare la risposta della massa M ad un eccitazione di tipo sinusoidale con frequenza

ω

: l’andamento di X2 è sinusoidale con la stessa frequenza ed ampiezza data da:

) 1

(

2

2 2

n

K X F

ω

− ω

=

(3.5)

dove

F = KX

1è l’ampiezza della forza eccitatrice e

M K

n

=

ω

è la frequenza

propria del sistema. In figura 3-3 viene riportato l’andamento del rapporto tra le ampiezze, indicato con y, al variare di

n

r ω

= ω :

X2

M X1

K F

(14)

Figura 3-3 Andamento del rapporto fra le ampiezze x2 e x1 al variare di r

Come si vede in figura all’aumentare del rapporto tra la frequenza di eccitazione e la frequenza propria del sistema l’ampiezza delle oscillazioni diminuisce asintoticamente, se si è al di sopra della frequenza propria. La molla agisce quindi come filtro per i carichi d’impatto ma limita anche la massima frequenza ottenibile in uscita; maggiore è la costante di elasticità della trasmissione, maggiori sono le frequenze raggiungibili in uscita pur rimanendo al di sotto della frequenza propria. Inoltre il controllo risulta complicato dal fatto che per la retroazione bisognerebbe misurare la posizione del link e non direttamente quella dell’attuatore, con la conseguenza di avere un controllo meno preciso. In [5] viene descritto il progetto di un attuatore a trasmissione elastica, noto come SEA (Series Elastic Actuator) che viene utilizzato per muovere il braccio del robot umanoide COG sviluppato al Massachussets Institute of Technnology.

(15)

Figura 3-4 Attuatore a trasmissione elastica ( SEA ) costruito al M.I.T.

Questo attuatore è composto da un motore elettrico accoppiato ad una molla torsionale, ed è stato costruito per sfruttare un altro grande vantaggio offerto dalla trasmissione elastica: il miglioramento del controllo di forza. Infatti i vari compiti che un manipolatore deve svolgere implicano la necessità di esercitare, e quindi controllare, forze sull’ambiente circostante. La rigidezza però rende il controllo di forza molto difficile: se infatti con un piccolo spostamento del giunto è possibile esercitare delle forze molto grandi ad un piccolo errore nel controllo di posizione corrisponde un grande errore nella forza esercitata. Per ovviare a questo inconveniente la soluzione spesso adottata consiste nell’introdurre una cedevolezza “attiva”, che si distingue da quella

“passiva” perché realizzata attraverso il controllo; è un metodo che ha il vantaggio di poter essere utilizzato nei robot tradizionali senza bisogno di modificarne la struttura meccanica. Attraverso i segnali provenienti dai sensori di forza/coppia collocati sull’end effector o sui giunti il controllore riconosce l’entità della forza esterna applicata e produce una cedevolezza simulata. Le prestazioni sono in questo caso limitate dalla presenza di non linearità come le caratteristiche dei sensori e dalla velocità del sistema di controllo. Soprattutto quest’ultimo aspetto non permette di adottare il metodo attivo ai fini della sicurezza; una collisione inaspettata è un fenomeno che non permette al sistema controllore-attuatore di agire in tempo per limitare i danni. Il metodo passivo elimina questi problemi introducendo la cedevolezza nella struttura meccanica, non dipendente quindi dal controllo. La trasmissione elastica permette inoltre di trasformare il problema del controllo di forza in controllo di posizione, poiché la forza in uscita è proporzionale alla deformazione della molla, che nel caso del SEA viene misurata

(16)

tramite uno strain gauge collocato su di essa; vengono così risolti i problemi riguardanti il controllo di forza propri di un manipolatore rigido.

In [6] viene illustrato lo studio di un giunto elastico, chiamato PCJ ( Passive Compliant Joint ) che utilizza un damper, ovvero un dispositivo che aggiunge uno smorzamento viscoso al sistema, che permette di limitare il problema delle vibrazioni presenti nel sistema massa-molla. La viscosità è ottenuta in questo caso tramite i fluidi magneto- reologici, sospensioni di particelle in un fluido vettore, che presentano cambiamenti della viscosità e della tensione di snervamento al variare del campo magnetico ad essi applicato.

Un metodo interessante usato per migliorare le prestazioni del SEA è quello descritto in [2], denominato DECMMA ( Distributed Elastically Coupled Macro Mini Actuation ).

Figura 3-5 Manipolatore con attuazione DECMMA

Ogni giunto in questo sistema viene mosso da due attuatori: uno collocato alla base e l’altro posizionato sul giunto stesso. Quello alla base è un attuatore SEA, collegato al giunto attraverso una trasmissione a cavi e può generare le coppie più elevate, mentre quello posizionato sul giunto è più leggero e meno potente. Lo schema di funzionamento è illustrato in figura 3-6.

(17)

Figura 3-6 Schema di funzionamento dell’attuazione DECMMA

La coppia in uscita dall’attuatore di base viene misurata e confrontata con la coppia desiderata producendo il segnale di riferimento in ingresso ad entrambi gli attuatori. Il motore più leggero serve così a compensare le coppie ad alta frequenza che il SEA non riesce a generare. Le prestazioni di questo sistema sono limitate essenzialmente dalla massima coppia che il motore sul giunto riesce a generare; il buon funzionamento del manipolatore si basa infatti sull’ipotesi che le coppie ad alta frequenza richieste abbiano un valore molto più basso rispetto a quelle a bassa frequenza.

3.3 ATTUATORI A CEDEVOLEZZA VARIABILE

Un modo per superare i limiti di prestazione dati del SEA consiste nel poter controllare la rigidezza del giunto: questo permetterebbe al manipolatore di avere un comportamento simile a quello del braccio umano. I muscoli umani infatti sono infatti in grado di variare la loro cedevolezza a seconda del compito da svolgere, e dell’ambiente circostante ( sia esso conosciuto o sconosciuto ). Proprio per questo vari tipi di attuatori a cedevolezza variabile sono stati studiati e costruiti per muovere dei robot umanoidi, che devono interagire non solo con un ambiente inanimato ma anche con persone. Un fattore molto importante da tener presente è che controllare la

(18)

cedevolezza indipendentemente dalla posizione equivale dal punto di vista del numero di attuatori ad avere due gradi di libertà per ogni giunto.

Un attuatore che sembra avere prestazioni straordinarie è il MIA ( Mechanical Impedance Adjuster ).

Figura 3-7 Mechanical Impedance Adjuster

Il MIA è stato inizialmente pensato e costruito per muovere le dita di una mano e successivamente è stato adattato al giunto di un braccio [7]. L’attuatore è composto da due parti: una parte, collegata mediante un rapporto di trasmissione ad un motore elettrico, si muove secondo il riferimento di posizione dato, mentre la seconda parte è collegata alla prima attraverso una molla a lamina ( leaf spring ). Questa lamina è incastrata su una delle due parti ed è collegata all’altra tramite un cursore ( slider ).

Variando la posizione del cursore con un sistema vite-madrevite, che permette di trasformare il moto rotatorio in moto traslatorio, è possibile cambiare la rigidezza della molla a lamina.

Schematizzando la lamina come una trave incastrata ( figura 3-8 ) si calcola facilmente la deformazione U dovuta all’applicazione di un carico F ad una distanza L

(19)

dall’incastro:

EJ U FL

3

= 3 , dove ovviamente E è il modulo di elasticità del materiale e J il

momento di inerzia della sezione rispetto all’asse perpendicolare al disegno.

Figura 3-8 Trave incastrata che schematizza la leaf spring

Poiché il rapporto fra F e U corrisponde alla rigidezza lineare K si può scrivere:

3

3 L

K = EJ . Lo slider permette quindi di variare la rigidezza modificando la distanza L del punto di applicazione della forza dall’incastro; più il cursore si avvicina ad esso, maggiore risulterà la rigidezza. Questo dispositivo permette di variare la rigidezza torsionale da 30 Nm/rad a 950 Nm/rad in 1.5 secondi.

Un sistema usato in diversi dispositivi che consentono di variare la cedevolezza consiste nell’impiego di due attuatori in configurazione antagonista collegati al medesimo giunto attraverso elementi elastici.

Figura 3-9 Schema degli attuatori in configurazione antagonista

F

L

q1

q2

(20)

Variando le posizioni angolari ϑ1 e ϑ2 dei motori è possibile controllare indipendentemente la posizione q della puleggia di uscita ( figura 3-9 ), solidale al link del robot, e la rigidezza torsionale

q

= ∆τ

σ , indicando con τ la coppia trasmessa dalla ruota di uscita verso l’esterno. L’espressione della coppia, prendendo come valori nulli di q, ϑ1, ϑ2 quelli corrispondenti alle lunghezze a riposo delle molle è:

=

τ R k1 ( r θ1 R q − ) − R k2 ( r θ2 Rq + )

(3.6)

in cui R è il raggio della ruota condotta e r è il raggio delle ruote conduttrici. Derivando la (3.6) rispetto a q otteniamo l’espressione della rigidezza σ:

∂ =

q τ − R

2

( k1 k2 + ) + R ⎛

⎝ ⎜⎜ ⎞

⎠ ⎟⎟

⎛ −

⎝ ⎜⎜ ⎞

⎠ ⎟⎟

q k1 ( r θ1 R q − ) ⎛

⎝ ⎜⎜ ⎞

⎠ ⎟⎟

q k2 ( r θ2 R q + )

(3.7)

dalla (3.7) si osserva che, se le molle utilizzate nella trasmissione sono lineari ( k costante con la deformazione ), il secondo termine della (3.7) in cui compaiono ∂

q k1

e ∂∂

qk2 diventa nullo. L’espressione (3.7) diventa allora:

∂ =

q τ −R

2

( k1 k2 + )

(3.8) Nella (3.8) non compaiono le posizioni angolari dei due motori: questo significa che nella configurazione rappresentata in figura 3-9 non è possibile controllare la rigidezza utilizzando molle lineari. E’ necessario quindi impiegare degli elementi elastici non lineari affinché la 3.7 vari al variare degli angoli dei motori. Ipotizzando di avere delle molle quadratiche, ovvero con k1=k(r

ϑ

1−Rq) e k2=k(r

ϑ

2+Rq) e sostituendo queste espressioni nella (3.7) :

(21)

∂ =

qτ −R2(rθ1 R q r θ2 R q − + + ) + R (R (rθ1 R q − ) − R (rθ2 R q + ))

(3.9)

semplificando otteniamo:

∂ =

qτ −R2(rθ1 r θ2 + )

(3.10)

mentre la posizione q di equilibrio:

=

q r (θ1 θ2 − ) 2 R

(3.11) La (3.11) non dipende dal particolare comportamento delle molle scelte ma solo dalla simmetria del sistema. Osservando la figura 3-9 risulta infatti evidente che imponendo ai motori degli spostamenti angolari ϑ uguali ed opposti nulla accade alla rigidezza e la posizione di equilibrio diventa: ϑ

R

q= r . Se invece si impongono degli spostamenti

angolari qualsiasi, per simmetria la configurazione di equilibrio è quella in cui le molle hanno la medesima estensione, ovvero in cui:

=

r θ1 qRr θ2 qR +

(3.12)

da cui si ottiene facilmente la (3.11).

Osservando la (3.10) ci si rende facilmente conto del vantaggio offerto dalle molle quadratiche: esse non solo consentono di variare la rigidezza ma anche di mantenerla costante con q. Si può approssimare l’andamento quadratico mediante l’utilizzo di molle coniche; a differenza delle comuni molle cilindriche il filo di acciaio è avvolto su di una superficie conica ( figura 3-10 ). Questo tipo di molle ha la caratteristica di irrigidirsi all’aumentare della deformazione. L’espressione che fornisce la rigidezza delle molle cilindriche è:

k Gd3

4

= (3.13)

(22)

In cui G è il modulo di elasticità tangenziale, d e D sono rispettivamente il diametro del filo e il diametro delle spire, mentre N è il numero di quest’ultime. Si può vedere la molla conica come tante molle cilindriche poste in serie. Si osserva dalla (3.13) che all’aumentare del diametro D la rigidezza diminuisce molto: questo significa che caricando la molla le spire di raggio maggiore, più cedevoli, si chiudono “a pacchetto”

diventando inattive. Man mano che le spire più grandi smettono di partecipare al carico complessivo rimangono attive meno spire, e con un diametro minore: entrambi questi fattori, come risulta evidente dalla (3.13), provocano un irrigidimento della molla.

Figura 3-10 Molla conica

La rigidezza della molla conica risulta quindi costante per un certo valore di deformazione minimo, superato il quale assume un andamento che possiamo approssimare come lineare. In un precedente studio svolto al Centro E. Piaggio dell’

Università di Pisa sono state dimensionate delle molle coniche per muovere, attraverso il sistema rappresentato in figura (3.9) un manipolatore a due gradi di libertà. E’ stato trovato che, per ottenere una rigidezza torsionale al giunto che potesse variare da 20 a 60 Nm/rad le molle dovevano avere il diametro minore di 5 mm, quello maggiore di 60 mm ed una lunghezza di 200 mm, dimensioni che scoraggiavano la costruzione del manipolatore con tali molle.

(23)

In [8] viene descritta la realizzazione di un attuatore secondo uno schema molto simile a quello di figura 3.9, che in questo caso viene chiamato PPI ( Progammable Passive Impedance ). Le molle di questo sistema sono state realizzate studiando una forma opportuna che permettesse di avere un comportamento quadratico, mantenendo allo stesso tempo una facilità di esecuzione e soprattutto dimensioni che rendessero l’attuatore sufficientemente compatto.

Figura 3-11 Molla per dispositivo PPI realizzata alla Northwestern University

Gli unici attuatori che sono stati utilizzati con un certo successo per controllare dei giunti in configurazione antagonista sono i muscoli pneumatici di McKibben, così chiamati per l’analogia con i muscoli che muovono gli arti umani, disposti anch’essi a coppie agenti in opposizione.

(24)

Figura 3-12 Attuatore di McKibben

I muscoli pneumatici sono dei cilindri a doppio strato: lo strato interno è una camera d’aria di gomma chiusa alle estremità da due tappi, che possono essere fatti di alluminio, di acciaio o altri materiali. Uno dei due tappi serve per chiudere ermeticamente il cilindro, mentre l’altro serve per introdurre l’aria all’interno. Attorno allo strato interno di gomma è presente un rivestimento esterno flessibile costituito da una maglia di fibre di nylon intrecciate. La copertura esterna serve da protezione per la camera d’aria. Per capire cosa succede quando si immette l’aria all’interno basta osservare la figura 3-13.

Figura 3-13 Funzionamento dei muscoli pneumatici

La pressione dell’aria agisce sia sulle estremità, provocando una forza di espansione ( Fexp ), sia sulla superficie cilindrica la quale, allargandosi, provoca una forza di contrazione ( Fcont ) in senso assiale; la forza risultante, che serve a muovere il giunto, è data dalla differenza fra le due:

F

exp

F

F =

cont

(3.14)

(25)

Un’ approssimazione della relazione tra la forza esercitata e l’angolo delle fibre che compongono la maglia esterna è stata fornita nel 1996 da Chou e Hannaford [9]:

) 1 cos

3 4 (

2 2

0

=

π

PD

ϑ

F (3.15) dove:

P pressione fornita dal compressore;

q angolo tra le fibre della maglia;

D0 diametro massimo teorico del muscolo per q=90°.

La (3.15) può essere riscritta come:

P L L k

F = ( 22min) (3.16)

in cui k e Lmin sono parametri che dipendono da dettagli costruttivi.

(26)

4. L’ ATTUATORE VSA

4.1 DISEGNO E COMPONENTI

L’attuatore VSA ( Variable Stiffness Actuator ) disegnato e costruito al centro E.

Piaggio è rappresentato in figura 4-1:

Figura 4-1 Attuatore VSA

Il funzionamento è basato sostanzialmente sullo stesso schema di figura 3-9, ovvero una coppia di motori antagonisti che azionano un giunto. Dalla figura 4-2 si osserva più chiaramente il funzionamento del sistema:

(27)

Figura 4-2 Disegno schematico del VSA

Gli elementi principali che caratterizzano il VSA sono: due motori brushless a corrente continua, una cinghia, e tre molle. Muovendo i motori nello stesso verso di un angolo ϑ , come spiegato nel paragrafo 3.3, la posizione di equilibrio del link si muove dello stesso angolo, dal momento che il rapporto di trasmissione tra le ruote dentate è 1. Se si ipotizza il movimento come una successione di configurazioni di equilibrio, per ogni posizione delle tre ruote l’estensione delle molle rimane la stessa. Se invece si muovono i motori dello stesso angolo in versi opposti nulla accade alla posizione del link, ma le molle si comprimono variando così la rigidezza torsionale del link, come dimostrato in seguito. E’ quindi possibile muovendo i motori nello stesso verso ma a velocità diverse fra loro, cambiare dinamicamente la posizione di equilibrio del link e la rigidezza della trasmissione contemporaneamente. In seguito verrà descritto come si può realizzare una funzione che abbia in ingresso la posizione e la rigidezza torsionale desiderate del link, e come uscita i riferimenti di posizione da fare inseguire ai motori.

Per fare questo è necessario conoscere la relazione che lega la rigidezza agli angoli dei motori.

(28)

Figura 4-3 Schema geometrico della trasmissione cedevole

La figura 4-3 è una schematizzazione geometrica semplice del sottosistema ruota motrice-ruota condotta che approssima il sistema reale sotto l’ipotesi che la cinghia sia sempre tesa, in modo che essa possa essere semplicemente approssimata da due rette tangenti ai cerchi che rappresentano le ruote del meccanismo. Il cerchio di raggio

ρ rappresenta la rotella collegata alla molla. per calcolare come varia la rigidezza angolare della ruota di uscita dell’attuatore è necessario avere la relazione che lega la distanza l1 tra la retta tangente ai due rotori e il centro della rotella in contatto con la cinghia agli spostamenti angolari del motore e della ruota di uscita:

+ − + =

l1 ρcos(α1) r1 r1cos(α1)

− −

d r1sin(α1) ρsin(α1) tan(α1)

(4.1) dove α è l’angolo compreso tra la retta tangente le due ruote e la cinghia. 1

da questa equazione possiamo ricavare alpha in funzione di l1; per ρ =5 mm, r1=15 mm e d=60mm otteniamo:

P1 P2

(29)

α1 arctan 2 3

1

60l1 (40 l1 600 60 + + l1230 l1 725 + ) + −

1125 l12 30 l1 +

⎜⎜⎜⎜⎜

:=

1 4

40 l1 600 60 + + l1230 l1 725 + + −

1125 l12 30 l1

− 1

2

40 l1 600 60 + + l1230 l1 725 + + −

1125 l12 30 l1 ,

⎟⎟⎟⎟⎟

(4.2)

La lunghezza della porzione di cinghia compresa tra i punti P1 e P2 è:

:=

lunghezzacinghia1 2 rα1 + 2 (d r − sin(α1) − ρsin(α1)) +

( )

cos α1 2ρ α1

(4.3)

La variazione di questa lunghezza è legata agli spostamenti angolari del motore e della ruota condotta:

= −

lunghezzacinghia0 lunghezzacinghia1 r thetamotore1 r − − θ lunghezzacinghia1 t1

A E (4.4)

dove lunghezzacinghia0 è la lunghezza della parte di cinghia compresa tra P1 e P2 quando la differenza tra gli angoli dei due motori è nulla. Per semplicità il valore scelto per questa lunghezza è quello che si ottiene per l1 pari alla lunghezza a riposo della molla. Con t1 si è indicata la forza che esercita la cinghia tesa, mentre con A e E rispettivamente la sezione resistente e il modulo elastico. Data la presenza della molla che permette variazioni di l1 relativamente grandi se confrontate con le deformazioni elastiche della cinghia possiamo considerare quest’ultima come un elemento rigido.

Possiamo quindi scrivere:

= −

lunghezzacinghia0 lunghezzacinghia1 r thetamotore1 r − θ (4.5)

La (4.5) è stata scritta trascurando le deformazioni elastiche della molla: si può notare come, a differenza della relazione precedente questa sia puramente geometrica.

Indicando con k la costante elastica della molla e con l0 la sua lunghezza a riposo, possiamo scrivere, sotto l’ipotesi di essere in condizioni statiche:

(30)

k (l0 l1 − ) = 2 t1sin(α1 (4.6) ) Scrivendo relazioni analoghe per il tratto di cinghia che collega la seconda ruota motrice a quella condotta, si può ottenere il momento trasmesso dai motori:

= M r (t1 t2 (4.7) − )

e quindi la rigidezza angolare a motori fermi:

∂ =

θ M( )θ r ⎛

⎝⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟

⎛ −

⎝⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟

θt1( )θ ⎛

⎝⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟

∂ θt2( )θ

(4.8)

per calcolare la derivata di t1 rispetto a theta si può ricavare theta in funzione di alpha sostituendo la (4.3) nella (4.5). Poiché questa funzione è monotona si può ottenere la derivata di alpha rispetto a theta invertendo la derivata di theta rispetto ad alpha e si può quindi scrivere:

=

θ t1( )θ ⎛

⎝⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟

α1t1(α1 ⎛)

⎝⎜⎜ ⎞

⎠⎟⎟

θα1 θ( )

(4.9)

ovvero:

∂ =

θt1( )θ ∂

α1t1(α1)

α1θ α1( )

(4.10)

Scrivendo relazioni analoghe per l’altro tratto di cinghia si ottiene infine la rigidezza angolare in funzione di alpha1 e alpha2. Poiché si ipotizza che i motori siano fermi in una posizione, ad ogni valore dell’angolo theta corrisponde un valore di alpha1 e di alpha2 ricavabili risolvendo numericamente la (4.5). In questo modo è possibile tracciare dei grafici che rappresentano l’andamento della rigidezza in funzione dell’angolo della ruota condotta, per vari valori della costante elastica delle molle K e

(31)

della loro lunghezza a riposo l0. Per avere dei risultati confrontabili è necessario posizionare i motori in modo da avere sempre la stessa rigidezza per theta=0: infatti al variare dei parametri k e l0 l’angolo in cui posizionare i motori per ottenere la medesima rigidezza è diverso.

L’angolo è espresso in radianti mentre la rigidezza è espressa in Nmm/rad. Per studiare l’andamento è stato scelto un valore della rigidezza a 0 radianti di 20000 Nmm/rad.

Figura 4-4 Rigidezza angolare per l0=2 mm e k=1 N/mm

(32)

Figura 4-5 Rigidezza angolare per l0=2 mm e k=3 N/mm

Figura 4-6 Rigidezza angolare per l0=2 mm e k=5 N/mm

(33)

Dalle figure 4-4, 4-5 e 4-6 si osserva che la rigidezza non solo non è costante al variare della posizione della ruota condotta, ma varia con andamento sempre più ripido all’avvicinarsi del valore di ϑ che si ottiene ipotizzando di tendere la cinghia al massimo, cioè quando α =0. La rigidezza è infatti fortemente influenzata da fattori geometrici, come si intuisce facilmente osservando la figura 4-3 e l’espressione (4.6):

al tendere di α a 0 la forza t1 esercitata dalla cinghia tende a infinito. 1

Figura 4-7 Andamento della forza esercitata dalla cinghia rispetto ad alpha

Questo comportamento è quindi ben lontano da quello che si avrebbe nel caso ideale, descritto nel capitolo precedente, di molle quadratiche. Una volta fissate le dimensioni delle ruote e la distanza tra gli assi di quest’ultime, si è cercato inizialmente di capire come si potesse aumentare l’intervallo, intorno alla posizione di equilibrio, per cui le variazioni della rigidezza angolare sono contenute. Dalle figure 4-4, 4-5, 4-6 si osserva come all’aumentare della costante di elasticità delle molle questo intervallo angolare aumenti. Infatti si vede che partendo da una rigidezza per ϑ =0 di 20000 Nmm/rad, nel caso di k=1 N/mm si arriva ad avere una rigidezza di 70000 Nmm/rad già per ϑ = 50. °, mentre per k=5 N/mm si raggiunge lo stesso valore per ϑ = 3°.

(34)

Figura 4-8 Rigidezza angolare per l0=5 mm e k=1 N/mm

Figura 4-9 Rigidezza angolare per l0=5 mm e k=5 N/mm

(35)

Dalle figure 4-8 e 4-9 si osserva come cambia l’andamento della rigidezza al variare della lunghezza a riposo delle molle: per l0=5 mm e k=5 N/mm il valore di 70000 Nmm/rad viene raggiunto ad un angolo ϑ = 53. °. Dunque il range dell’angolo ϑ per il quale non ci sono variazioni eccessive di cedevolezza aumenta all’aumentare di l0.

Si potrebbe quindi pensare di massimizzare questo range, utilizzando molle molto rigide e disposte in modo da ottenere un alto valore di l0 ( compatibilmente con i limiti dimensionali che si vogliono imporre al sistema ).

Figura 4-10 Rigidezza angolare per l0=10 mm e k=5 N/mm

Aumentando l0 fino a 10 mm otteniamo che il valore di rigidezza di 70000 Nmm/rad viene raggiunto per ϑ = 5°.

Si è quindi capito come dimensionare i parametri del sistema in modo da avere una rigidezza che vari il meno possibile con la posizione della ruota condotta, ma questo non è l’unico criterio da seguire per rispettare tutte le condizioni che garantiscano un buon funzionamento del VSA, che presenti cioè le caratteristiche desiderate.

(36)

Vediamo quali sono queste caratteristiche:

1. La coppia che i motori devono esercitare per raggiungere la massima rigidezza deve essere la minima possibile.

2. La cedevolezza deve poter essere controllata con precisione.

3. Il range di valori della rigidezza che si può ottenere deve essere il più ampio possibile.

La prima condizione è strettamente connessa al valore massimo della coppia che i motori possono esercitare. Per esercitare coppie elevate sono necessari motori più potenti e quindi più grossi e pesanti. La massima rigidezza è quella che si ottiene tendendo i due tratti di cinghia, corrispondenti ai due motori, in modo tale che i momenti dovuti alle forze t1 e t2 ( uguali se la ruota condotta è in equilibrio) eguaglino le massime coppie motrici. Fissando un valore desiderato per la rigidezza raggiungibile, che dipende dalla terza condizione, si possono dimensionare i parametri in modo da ottenere questo valore sforzando i motori il meno possibile.

Figura 4-11 Andamento della rigidezza angolare in funzione della forza sulla cinghia e del k della molla per l0=5 mm

(37)

In figura 4-11 si può vedere come varia la relazione tra la forza esercitata dalla cinghia e la rigidezza angolare in ϑ =0 al variare della costante elastica delle molle. Come si poteva intuire, aumentando k, le forze t1 e t2 ( e quindi le coppie che devono esercitare i motori) necessarie per ottenere un determinato valore della rigidezza aumentano anch’esse.

Figura 4-12 Andamento della rigidezza angolare in funzione della forza sulla cinghia per valori di l0=2 ( in verde) e l0=10 ( in rosso) e per k=3 N/mm

In figura 4-12 vediamo invece come varia la funzione che lega la forza t1 alla rigidezza al variare della lunghezza a riposo l0. Si può notare come a valori bassi della lunghezza a riposo delle molle corrispondano, a parità di rigidezza, valori bassi delle forze sulla cinghia; ne segue che sono richieste ai motori coppie di minore entità per raggiungere lo stesso livello di rigidezza. Le considerazioni fatte conducono a scegliere valori molto bassi per la costante di elasticità delle molle e la lunghezza l0; ma come è stato precedentemente dimostrato, queste scelte modificano l’andamento della rigidezza con la posizione angolare facendo in modo che essa raggiunga valori molto alti già ad angoli molto piccoli.

(38)

La seconda condizione riguarda la sensibilità della rigidezza alle variazioni degli angoli dei motori. Se infatti a piccole variazioni della posizione angolare delle ruote motrici corrispondessero intervalli di cedevolezza relativamente grandi, il controllo di posizione dei motori dovrebbe essere più preciso, e quindi più difficile da realizzare.

Figura 4-13 Andamento della rigidezza angolare in funzione della posizione dei motori e di l0 per k=3 N/mm

Dalla figura 4-13 si vede come varia la relazione tra la rigidezza e l’angolo del motore cambiando l0. Per bassi valori di l0 l’intervallo di posizioni angolari per cui la rigidezza arriva ai valori massimi è abbastanza ridotto, mentre per alti valori di l0 questo intervallo è molto più ampio. Una differenza di quasi 10° nell’intervallo di posizioni dei motori per uno stesso intervallo di rigidezze è già sufficiente a giustificare la necessità di una maggiore precisione nel controllo, ma oltre a ciò la situazione è peggiorata dal fatto che il legame tra rigidezza e angolo dei motori è fortemente non lineare.

(39)

Figura 4-14 Andamento della rigidezza angolare in funzione della posizione dei motori per k=3 N/mm e l0=2 mm ( rosso), l0=5 mm ( verde), e l0=10 mm ( nero)

Si vede infatti in figura 4-14 e osservando la 4.6 come le curve rigidezza-angolo motore presentino un asintoto in corrispondenza del valore di ϑ che permetterebbe di tendere 1 la cinghia. L’asintoto si sposta verso valori più alti al crescere di l0, inoltre la curva della rigidezza è meno ripida, come risulta più evidente dal grafico della derivata della rigidezza rispetto a ϑ ( figura 4-15). Sempre nella stessa figura si nota come il divario 1 fra gli andamenti delle derivate cresca all’aumentare della rigidezza. Nel caso invece di un aumento della costante elastica delle molle l’asintoto si sposta verso valori più bassi dell’angolo del motore; come si vede in figura 4-16, se si sceglie un valore di rigidezza, questo viene raggiunto mediante valori più bassi delle posizioni angolari dei motori al crescere di k. Tuttavia, scelti due valori di rigidezza diversi, l’intervallo angolare corrispondente aumenta all’aumentare di k. Per rendersene conto basta osservare la figura 4-17 in cui è riportata la derivata della rigidezza per tre valori diversi di k: a k maggiori corrispondono derivate minori.

(40)

Figura 4-15 Andamento della derivata della rigidezza angolare in funzione della posizione dei motori per k=3 N/mm e l0=2 mm ( nero), l0=5 mm ( rosso), e l0=10 mm ( verde)

Figura 4-16 Andamento della rigidezza angolare in funzione della posizione dei motori per l0=5 mm e k=1 N/mm ( nero), k=3 N/mm ( rosso), k=5 N/mm ( verde)

(41)

Figura 4-17 Andamento della derivata della rigidezza angolare in funzione della posizione dei motori per l0=5 mm e k=1 N/mm ( nero), k=3 N/mm ( rosso), k=5 N/mm ( verde)

Per rispettare la seconda condizione quindi, è necessario scegliere i parametri l0 e k di valore il più possibile elevato. Il grafico di figura 4-17 suggerisce di evitare valori troppo bassi per la costante elastica delle molle, poiché, a parità di rigidezza, la variazione di quest’ultima con l’angolo potrebbe essere elevata.

La terza condizione è legata a quanto detto precedentemente a proposito del controllo in tempo minimo: è necessario avere un intervallo di rigidezza che sia il più possibile ampio, ma bisogna cercare di minimizzare la coppia motrice necessaria per ottenerlo.

In tabella 4-1 vengono riportati alcuni risultati teorici calcolati come visto sopra.

L’intervallo di rigidezza scelto per riportare i dati va da 10 Nm/rad a 700 Nm/rad ed è simile a quello che è possibile ottenere con il MIA ( Mechanical Impedance Adjuster), di cui si è scritto nel paragrafo 3.3.

(42)

l0 (mm) k (N/mm) Forza (N) Angolo motore (rad) Angolo motore (rad) Intervallo per rigidezza=700 Nm/rad per rigidezza=700 Nm/rad per rigidezza=10 Nm/rad angolare (°)

2 1 90 0.111 0.076 2

2 136 0.111 0.054 3.3

3 173 0.111 0.036 4.3

4 205 0.108 0.02 5

5 232 0.107 0.006 5.8

5 1 118 0.231 0.186 2.6

2 181 0.229 0.159 4

3 232 0.228 0.136 5.2

4 276 0.226 0.115 6.3

5 315 0.225 0.09 7.7

10 1 159 0.524 0.466 3.3

2 247 0.522 0.43 5.2

3 318 0.52 0.4 6.9

4 380 0.519 0.37 8.5

5 436 0.517 0.349 9.6

Tabella 4-1

Si può verificare che, una volta scelto un valore di k si può variare l0 per avere le caratteristiche desiderate, e si trova una configurazione equivalente per le suddette caratteristiche trovando l’opportuno valore di l0 per ogni k scelto. Si è deciso quindi di scegliere un k ( che corrisponde alla costruzione di un solo tipo di molla), e di variare solo l0 per cambiare le caratteristiche del sistema: a livello pratico infatti, è più facile effettuare modifiche di l0 che di k, perché altrimenti bisognerebbe costruire tante molle diverse per ogni modifica da effettuare.

Nel nostro caso il valore scelto per k è 3 N/mm, che è il valore medio tra 1 e 5, rispettivamente il minimo e il massimo presi in considerazione. Valori superiori a 5 N/mm infatti sono inaccettabili dal punto di vista dello sforzo richiesto ai motori per raggiungere un’elevata rigidezza. Come verrà spiegato in seguito, sull’attuatore costruito al Centro E. Piaggio sono state effettuate le prove sul controllo di rigidezza con l0=10 e k=3 N/mm.

(43)

4.2 MODELLAZIONE DINAMICA DEL VSA

Figura 4-18 Disegno rappresentativo della dinamica del VSA

Il sistema dinamico che prendiamo in considerazione è caratterizzato da sei stati, ovvero le posizioni e le velocità angolari delle due ruote motrici e della ruota condotta.

E’ necessario quindi scrivere il sistema in forma di stato e ricavare la relazione, non lineare, che lega la derivata del vettore di stato allo stato stesso:

) , ( u x f

x & =

(4.11)

Nella (4.11) x è il vettore che rappresenta lo stato del sistema, ovvero in questo caso:

q

t1 t2

q1 q2

M M

M

(44)

⎥⎥

⎥⎥

⎥⎥

⎥⎥

⎢⎢

⎢⎢

⎢⎢

⎢⎢

=

ϑ ϑ ϑ ϑ ϑ ϑ

&

&

&

2 2 1 1

x (4.12)

mentre u è il vettore degli ingressi:

⎥⎥

⎢⎢

= Me

v v

u 2

1

(4.13)

v1 e v2 rappresentano i riferimenti di tensione in ingresso ai due motori, Me è il momento esterno agente sulla ruota condotta. Per studiare il moto del sistema bisogna quindi ricavare l’equazione dinamica (4.11) e integrarla nel tempo.

Le relazioni 4.1 e 4.3, ricavate nel capitolo precedente in condizioni statiche, sono ancora valide nel caso dinamico, poiché sono puramente geometriche. Anche la 4.5 è ancora valida, sempre sotto l’ipotesi che la deformazione della cinghia sia trascurabile.

Nel paragrafo precedente queste relazioni sono state ricavate nel caso di una sola ruota motrice e della ruota condotta. La 4.1 e la 4.3 si possono riscrivere per la seconda ruota motrice semplicemente sostituendo l2 a l1 e α a 2 α . La 4.5 va riscritta 1 invece diversamente nei due casi, rispettando le convenzioni sui segni.

Si deve quindi scrivere, per la ruota motrice1:

lunghezzacinghia0 − lunghezzacinghia1α1( ) = r1θ1 r θ (4.14)

Mentre, per la ruota motrice2:

lunghezzacinghia0 − lunghezzacinghia2(α2) = rθ r2 θ2 (4.15)

(45)

La 4.6 va invece riscritta per tenere conto della presenza di una massa M solidale ad ognuna delle molle:

) 1 ( ) 1 ( ) 1 0 ( ) 1 sin(

1

2t α +k ll =M l&& +µ l&

− (4.16)

in cui l1 e l0 hanno lo stesso significato visto in figura 4-3. La massa M solidale alla molla viene indicata in figura 4-18. Il coefficiente µ è stato inserito in modo da aggiungere uno smorzatore viscoso al modello, che non è in realtà presente nel dispositivo VSA che è stato poi costruito al centro E. Piaggio. L’attrito viscoso è stato inserito per sopperire alla mancanza nel modello di attrito statico, che avrebbe complicato ed appesantito eccessivamente il modello senza poter essere valutato con sufficiente precisione. La presenza di uno smorzatore permette di effettuare simulazioni di controllo in cui non siano presenti troppe oscillazioni. La stessa relazione (4.16) può essere scritta sostituendo a t1, l1, α , i corrispondenti valori t2, l2 e 1 α . 2 L’equazione dinamica della ruota condotta è:

) 2 1 (t t R M

J

ϑ

&&e = − (4.17)

in cui M è il momento esterno agente sulla ruota, e J è il momento di inerzia di e quest’ultima. Per risolvere l’equazione differenziale (4.17) è necessario scrivere t1 e t2 in funzione degli stati del sistema, ovvero le posizioni e le velocità angolari di tutte e tre le ruote. Questo si ottiene sostituendo la (4.2) nella (4.3) e la (4.3) nella (4.14). Una volta sostituite queste espressioni nella (4.14), si può da questa ricavare l1 come funzione di ϑ e ϑ . Otteniamo quindi: 1

l1= f(

ϑ

,

ϑ

1) (4.18)

Derivando la (4.18) due volte rispetto al tempo otteniamo:

l&1= f(

ϑ

,

ϑ

&,

ϑ

1,

ϑ

&1) (4.19) l&&1= f(

ϑ

,

ϑ

&,

ϑ

&&,

ϑ

1,

ϑ

&1,

ϑ

&&1) (4.20)

(46)

Per ottenere la (4.18) ci si è affidati al calcolo numerico: noti gli stati che caratterizzano il sistema è possibile ottenere l1 risolvendo numericamente la (4.14).

La stessa equazione (4.14) può essere quindi derivata due volte rispetto al tempo per ottenere due nuove equazioni dalle quali, esplicitando l&1 e l&&1 si ricavano le funzioni:

) 1 , , (

1 f 1 l

l& =

ϑ

&

ϑ

& (4.21)

l&&1= f(

ϑ

&&,

ϑ

&&1,l1,l1&) (4.22)

Le espressioni complete delle (4.21) e (4.22), ottenute tramite l’utilizzo del programma MAPLE, sono riportate in appendice. Una volta risolta numericamente la (4.14), si inserisce il valore così ottenuto di l1 nella (4.21), che fornisce direttamente il valore di

1

l& se sono noti ϑ& e ϑ& . Questo viene poi sostituito nella (4.22) insieme a l1 per 1 ottenere l&&1 come funzione di ϑ&& e ϑ&& . La (4.16) può dunque essere riscritta 1 esplicitando t1:

1 sin 2

) 1 ( ) 1 ( ) 1 0 1 (

α

µ l l

M l l

t = k − − && − & (4.23)

in cui α viene considerato come funzione di l1, ricavabile dalla (4.2). 1

La (4.22) scritta come funzione di ϑ&& e 1ϑ&& , la cui espressione completa è riportata in appendice, è lineare per entrambe le variabili. Sostituendola insieme alla (4.21) nella (4.23), quest’ultima può essere riscritta:

f z a

t1=

ϑ

&&+

ϑ

&&1+ (4.24)

In cui a, z, f sono dei coefficienti che dipendono oltre che dai parametri del sistema anche dagli stati. Nello stesso modo si arriva a scrivere un’espressione analoga per la forza t2: basta infatti sostituire nelle (4.21), (4.22), (4.23) α al posto di 2 α e l2 al 1

(47)

posto di l1. Per ottenere la relazione analoga alla (4.18), che lega l2 alla posizione angolare della ruota condotta e della seconda ruota motrice, bisogna invece risolvere la (4.15), le cui differenze rispetto alla (4.14) sono costituite dai segni degli angoli che, come si vede in figura 4-18, sono sempre considerati positivi in senso antiorario.

Si perviene dunque alla relazione, analoga alla (4.24):

h g

c

t2=

ϑ

&&+

ϑ

&&2+ (4.25)

I coefficienti c, g, h dipendono, come quelli della (4.24), sia dai parametri del sistema che dagli stati. Quando si esegue l’integrazione numerica dell’equazione dinamica (4.11) gli stati sono noti ad ogni intervallo di campionamento e dunque anche i coefficienti delle (4.24) e (4.25) sono noti. Le funzioni t1 e t2 possono essere considerate quindi come funzioni lineari delle accelerazioni angolari, e possono essere sostituite nella (4.17) per ottenere:

Me

J h g

c f z a

r(

ϑ

&&+

ϑ

&&1+ −

ϑ

&&

ϑ

&&2− )=

ϑ

&&− (4.26)

Esplicitando l’accelerazione angolare della ruota condotta otteniamo:

J a c r

M h g

f z

r e

+

+

= +

) (

) 2 1

(

ϑ ϑ

ϑ

&& && && (4.27)

Nella (4.27) compaiono le accelerazioni angolari dei motori, che possono essere determinate modellando i sottosistemi costituiti dai motori stessi.

I motori sono due brushless a corrente continua a commutazione elettronica il cui schema è illustrato in figura 4-19. In questa figura è in realtà rappresentata la configurazione classica del motore a corrente continua, in cui il circuito di armatura è avvolto sul rotore e connesso alla sorgente di alimentazione tramite spazzole, mentre il campo magnetico viene generato dal circuito statorico. Nei motori brushless invece il circuito di armatura è statorico, mentre il campo magnetico è generato da un rotore a magneti permanenti. Tuttavia le equazioni che descrivono il funzionamento dei due tipi di motore sono le stesse.

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