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Non solo, gli storici moderni non hanno fatto molto per rimediare a questa

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Academic year: 2021

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‘La grande storia ha per lungo tempo ignorato l’allume, protagonista assai discreto delle vicende umane, così come ha lungamente trascurato il grano, l’olio e, in generale, tutto ciò che è indispensabile alla vita quotidiana: del resto è soltanto quando il fornaio non ha più il pane che si parla di lui.

Contadini, artigiani e operai sono più necessari alla vita degli uomini che non tutti i Carlo V, ma si tratta di gente modesta che non ama parlare di sé’ (Jean Delumeau, 1962, p. 301).

La storia della cultura materiale, quella che si occupa delle masse, dei grandi numeri, della lunga durata dei fenomeni produttivi, si sviluppa a partire da quello straordinario rinnovamento del pensiero scientifico che caratterizza il XIX secolo, quel materialismo storico cui il marxismo attribuisce tanta importanza.

Affrontare una ricerca incentrata sulla cultura materiale significa dunque partire dal basso, dalla base della piramide gerarchica, significa cioè procedere alla ricostruzione storica di come sono andate le cose dal punto di vista di chi le ha vissute senza poterle tramandare ai posteri se non, inconsapevolmente, con i propri resti materiali.

La bellissima riflessione di Jean Delumeau, calzante perfettamente con qualsiasi periodo storico, è in particolar modo riferita, nel discorso specifico dell’allume, all’età moderna, ma sarebbe, a mio parere, ancor più appropriata per l’età antica.

Se è vero che quelle classi sociali che hanno permesso a tutte le altre di esistere e di fare la storia al posto loro sono state poco considerate dalla storia di tutti i tempi, è anche vero che gli scrittori greci e romani sono stati i più inclementi.

Non solo, gli storici moderni non hanno fatto molto per rimediare a questa

noncuranza. Delumeau continua dicendo che ‘ da circa vent’anni molto si è

scritto su questo prodotto tanto indispensabile alle industrie dell’Ancien

Régime’. Di questi molti studi quasi nessuno si è occupato dell’allume o

dell’artigianato ad esso legato in età antica; l’attenzione degli studiosi si è invece

soffermata soprattutto su fenomeni più ampi come la Maona di Chio e l’allume

della Tolfa. In effetti la scoperta dell’allume della Tolfa ebbe importanza

politico-economica non indifferente, meritando pienamente l’attenzione degli

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storici. Rappresentò la rivincita del Papa sugli ‘infedeli’ Turchi e la fine della dipendenza dai loro mercati di allume, oltre che un’enorme fonte di profitto. Lo stesso vale per le famiglie della Maona di Chio che rifornivano di allume tutto l’Occidente prima della conquista turca. Per l’epoca medievale e post-medievale abbiamo testimonianze dirette dell’uso dell’allume in una serie di opere tecniche.

La frequenza con cui esso compare nelle ricette della Mappae Clavicula, di Teofilo o di Eraclio, la grande diffusione delle miniature, per le quali era indispensabile, l’affermazione di Biringuccio secondo la quale l’allume era ‘ non meno utile per i tintori che il pane per l’uomo’, lo spazio che Agricola dedica al minerale nella sua opera, sono tutti segni della reale importanza che l’allume ha assunto per secoli e secoli.

Purtroppo i contributi sull’allume della Tolfa, quello di Chio o sull’allume medievale in generale non sono pienamente utili per lo studio dell’allume antico.

L’allume medievale non è l’allume antico, ma un minerale che necessitava un lungo processo di lavorazione. Gli scritti di Vannuccio Biringuccio e Giorgio Agricola sarebbero ancora più preziosi se accennassero anche all’allume nativo, quello appunto usato dagli antichi.

Uno spazio più o meno approfondito dedicato a questo argomento si trova nel volume di Charles Singer (1948) che tratta dell’uso dell’allume dalle antiche popolazioni della Mesopotamia all’epoca industriale. Dopo di lui c’è uno hiatus enorme fino all’articolo di Walter Ciusa e Salvatore Lorusso (1978) sull’utilizzo dell’allume come ignifugo in età greco-romana e quello di Giuseppe Nenci (1982) sull’allume di Focea. Questi ultimi però non accennano ai differenti tipi di allume. E’ Borgard che con il suo lavoro ha dato una svolta alla questione, grazie soprattutto ai numerosi ritrovamenti di anfore e la scoperta della fornace di Portinenti che hanno permesso allo studioso francese di fornire questo grande contributo all’archeologia e alla storia dell’artigianato.

Nonostante la ‘parsimonia’ degli scrittori antichi nel parlare di attività artigianali

e di allume, come abbiamo potuto osservare nel capitolo II, spesso viene

sottolineata l’importanza di questo prodotto: inficiendis claro colore

lanis…utilissimus est (Plinio, XXXV, LII, 183); quanti sit momenti in coriis

lanisque perficiendis (Plinio, XXXV, LII, 190); alumen, quo infectores utuntur

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(Scribonio Largo, LVII); tinguendis vestibus tantum utilis (Isidoro di Siviglia, XVI, 9). Stupisce però che né Diodoro né Strabone, che tanto insistono sui

profitti enormi di Romani e Liparesi

( στυπτηριαò , εξ ηò λαµβανουσιν οι Λιπαραιοι και Ρωµαιοι µεγαλαò

προσοδουò; στυπτηριαò µεταλλον εµπροσοδον) non accennino minimante al perché l’allume fosse così richiesto ovvero a cosa servisse. E’ d’altro canto grazie anche alla loro testimonianza che si è potuto risalire al contenuto delle Richborough 527 una volta individuatane la provenienza.

Tutte queste piccole informazioni sono in fondo molto importanti: tintori, lanaioli

e pellai fanno parte di quella schiera di artigiani che avendo prodotto beni

deperibili sono destinati ad essere sottorappresentati fra le testimonianze

archeologiche. Un aiuto proviene dalle strutture rimaste in pochi fortunati casi

intatte o quasi, delle fulloniche, delle officine infectoriae e offectoriae di Pompei,

di Ercolano, di Ostia, e delle uniche due officine coriariae presenti in Italia,

quella della Regio I di Pompei e quella di Sepino. In campo artigianale non va

sottovalutato l’utilizzo dell’allume in metallurgia di cui non solo Plinio, pur

brevemente, dà testimonianza ma anche i ritrovamenti di Richborough 527 nelle

officine metallurgiche della Gallia romana. In questi contesti il contributo che le

anfore da allume hanno fornito è enorme e lo studio di tali contenitori va

necessariamente approfondito. Il mondo artigiano, per molti aspetti nell’ombra,

merita di ottenere il giusto riconoscimento per ciò che ha rappresentato

all’interno della società (in questo caso) antica. Le anfore sono uno dei mezzi

attraverso cui si può spiare una realtà troppo spesso dimenticata dagli antichi

perché la figura dell’artigiano o più in generale del bottegaio non godeva di

stima. Questi personaggi erano ritenuti disonesti, interessati solo al profitto

immediato e, soprattutto i pellai, malvisti per il cattivo odore provocato dalla

concia. E’ altrettanto noto, però, che molti dei loro prodotti erano spesso oggetto

di ampio mercato di esportazioni finanziate dagli stessi senatori e membri

dell’aristocrazia che ne disprezzavano l’attività. Ma essi sono stati dimenticati

anche dai contemporanei e non soltanto per la mancanza di informazioni. Non

sempre infatti si tiene a mente che in antichità lana e pelli erano prodotti di prima

necessità, forse perchè oggi vengono utilizzati soprattutto tessuti sintetici e i

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coloranti acrilici non hanno più bisogno di mordenti come l’allume per essere fissati alle fibre. Per conciare le pelli (quando non sono sostituite dalla cosiddetta

‘ecopelle’ che altro non è che petrolio!) viene oggi utilizzato il cromo che non soltanto rappresenta uno dei maggiori inquinanti, ma può provocare anche forti allergie. Insomma condurre uno studio sull’allume può invitare a riflettere su uno dei tanti passi indietro della società moderna, la quale dovrebbe trarre dal passato qualche insegnamento utile e invece si volge al solo profitto ignorando le conseguenze delle proprie azioni. Il caso dell’allume di Milo, preso in esame nel

§ II.4.1, la cui formazione è continua e inesauribile, potrebbe essere una valida alternativa all’uso, ad esempio, del cromo per la concia delle pelli, o utile al riutilizzo di coloranti naturali per i tessuti. E’ d’altra parte possibile che esso si formi in molte altre zone del pianeta.

Ciò che fin’ora non è stato possibile documentare attraverso le Richborough 527 è l’utilizzo di allume come medicinale e come ignifugo. Negli antichi trattati di medicina l’allume è praticamente onnipresente, tanto far sembrare che fosse questo il suo maggiore impiego. Nota era anche la proprietà dell’allume di estinguere le fiamme: turrem ligneam… ardere non quisse, quod alumine…

oblita fuisset (Aulo Gellio, XV, 1); materiae plures…unctae alumine diligenter, ut ignis in eas laberentur innoxius (Ammiano Marcellino, XXX, XX, 13). La ricerca di tracce materiali è in questo caso complessa poiché legata soprattutto a situazioni belliche e quindi itineranti, non legate cioè ad un’officina o ad una struttura particolare.

Lo studio di queste anfore ha dato poi un fondamentale contributo per la

conoscenza della Lipari romana. Le mie ricerche per il III capitolo di questo

lavoro hanno incontrato non poche difficoltà. Sulle fasi greche ma soprattutto

romane c’è un’incredibile carenza di informazioni, dovuta in parte alle difficoltà

nel condurre campagne archeologiche, in parte alle straordinarie testimonianze

prestoiriche che hanno attirato sempre maggiore attenzione da parte degli

studiosi rispetto alle epoche successive. Ora che la piccola isola è stata

riconosciuta come un gigante dei traffici mediterranei la sua storia ed economia

in età romana meritano ancora più attenzione. La così grande diffusione di

anfore e il progressivo miglioramento del rapporto capacità-peso dalle Lipari 1a

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alle Lipari 2b, dimostrano che la richiesta di allume continua a crescere, così come i proventi di Liparesi e Romani. Ciò che sorprende è quel periodo di stallo totale in cui non c’è traccia di alcuna produzione anforica liparota, che comprende i primi 30 anni della nostra era. Carenti sono le notizie su Lipari in questo periodo e non si trova una motivazione che possa spiegare una crisi tale da interrompere il lavoro dei ceramisti o le estrazioni di allume e zolfo. La ripresa della produzione direttamente con le Lipari 1b realizzate con un impasto nuovo, grezzo, è segno che l’argilla viene presa in una zona molto diversa dalle precedenti e si tratta di un’argilla che ha bisogno, al contrario delle precedenti, di una certa quantità di degrassanti. L’esatta provenienza di queste argille, da località siceliote non ancora identificate, sarebbe un’altra questione da approfondire.

Ulteriori esempi dell’utilità dello studio delle anfore da allume sono forniti dai singoli casi di studio. Il caso di Histonium è particolarmente significativo. Infatti sono stati rinvenuti solo pochissimi frammenti di anfore di Lipari al momento, sufficienti però a farmi porre dei quesiti sull’economia della città. Histonium è un municipio posto in posizione strategica mercantile sulle rotte adriatiche, attraversata da un tratturo esteso da L’Aquila a Foggia, su cui transitavano un considerevole numero di capi di bestiame. Sarebbe ovvio pensare che una delle maggiori risorse della città fosse legata alla produzione e al commercio di pelli e lane. Tuttavia nessuno finora ha preso in considerazione questo aspetto specifico dell’economia della città che doveva essere, a mio avviso, preponderante. Il più alto reddito di un allevamento transumante a lunga distanza, com’era quello dell’Italia centro-meridionale, doveva necessariamente essere legato alla lana, la fibra tessile più importante del mondo romano, e non mi pare possibile che un centro importante a livello commerciale come Histonium fosse tenuto fuori da questo traffico.

Come ho già detto quello di Histonium è solo un esempio di quante e quanto

grandi strade si possano aprire davanti alla scoperta anche di un solo frammento

di anfore da allume, per il loro contenuto decisamente fuori dal comune e così

legato, in tanti modi diversi, all’economia antica.

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