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CAPITOLO 2

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CAPITOLO 2

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ARTICOLO 138COST.:

“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

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2.1 INTRODUZIONE

La Costituzione, come ogni complesso di norme su cui si fonda la legalità di un determinato ordinamento giuridico, si preoccupa di garantire, attraverso la propria autoconservazione ed autotutela, la stabilità dell’ordinamento stesso. L’autoconservazione, tuttavia, non equivale ad una assoluta impossibilità di apportare modifiche, bensì a una “modificabilità relativa”. In ogni ordinamento, dotato di una propria Costituzione rigida, per la revisione del testo costituzionale, dovranno essere seguite delle specifiche regole che, introducendo una serie di aggravamenti, prevedono un particolare procedimento di revisione costituzionale, rendendo così la Costituzione modificabile, ma solo in modo relativo, e quindi entro certi limiti e solamente a determinate condizioni.

Inoltre, come dimostrano le scelte effettuate dai vari ordinamenti giuridici, esistono varie tipologie di aggravamenti da poter introdurre nell’ambito della procedura per l'adozione delle leggi costituzionali:

Negli Stati Federali, ne sono un classico esempio gli Stati Uniti, sono coinvolte nel procedimento di approvazione le assemblee legislative degli Stati membri. In tali ipotesi, la legge costituzionale dovrà essere approvata, oltre che dal Parlamento federale, anche da una certa quota dei Parlamenti degli Stati Federati ( negli Usa si richiede l’approvazione di almeno tre quarti delle assemblee degli Stati).

Si può richiedere per l'approvazione della legge costituzionale una maggioranza parlamentare superiore a quella richiesta per le leggi ordinarie (come una maggioranza qualificata dei 2/3 o dei 3/4);

Si può richiedere che la legge costituzionale sia approvata dal Parlamento due o più volte, separate da un determinato intervallo di tempo (proprio come avviene in Italia, dove l’intervallo previsto tra la prima e la seconda approvazione della stessa Camera è di tre mesi);

Può essere prevista la partecipazione del corpo elettorale al procedimento. Tale partecipazione può avvenire o in modo diretto, quando è previsto che la legge costituzionale possa o debba essere sottoposta a referendum popolare; o in modo indiretto, quando è previsto che la legge costituzionale, non solo debba essere approvata due volte dal Parlamento, ma che la seconda approvazione debba intervenire solo dopo che si sono svolte le elezioni per il suo rinnovo e quindi in una legislatura successiva, sulla base del principio per cui l’assemblea che propone la modifica non può essere la stessa che approva il nuovo testo.

Ci sono poi casi molto particolati, come ad esempio quello della Svizzera, dove si distingue in modo netto la disciplina relativa alla revisione totale da quella prevista per la revisione parziale.

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Questi aggravamenti, inoltre, possono essere previsti sia in modo cumulativo (come negli Stati Uniti, dove è richiesta tanto la maggioranza qualificata dei 2/3 nel Congresso Federale, quanto l'approvazione degli Stati membri) sia in modo alternativo (come in Italia, dove in caso mancato raggiungimento della maggioranza qualificata, la legge può essere sottoposta a referendum popolare). Per quanto riguarda il nostro ordinamento, le norme costituzionali possono essere modificate attraverso il particolare procedimento previsto dall’art. 138Cost. Tale procedura introdotta per la revisione costituzionale si innesta sulla struttura e sui principi del procedimento legislativo ordinario disciplinato dagli art.70 e ss. Cost., dal quale, però, si viene ovviamente a distinguere per una serie di particolari aggravamenti.

In particolare, i Costituenti optarono per l’introduzione di due tipi di aggravamenti, prevedendone alcuni sempre necessari ed altri, al contrario, eventuali: i primi si risolvono, in particolare, nel raddoppio dell’iter procedimentale, con la richiesta di quattro approvazioni parlamentari (due per ciascuna Camera) e nella necessità di conseguire come minimo la maggioranza assoluta in sede di seconda deliberazione; quelli eventuali consistono nella possibilità di ricorrere, ma solo a determinate condizioni14, ad un referendum costituzionale,

permettendo quindi al corpo elettorale di esprimere la propria volontà riguardo alla proposta di revisione costituzionale.

Gli aggravamenti previsti svolgono, dunque, una vera e propria funzione di garanzia, comportando una procedura solenne, disciplinata in modo tale da imporre tempi adeguati, al fine di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e, soprattutto, delle stesse Camere, sulle ragioni e sulla necessità delle riforme proposte15.

In primo luogo, dunque, tali aggravamenti si reggono sulla ratio di concedere maggiore tempo16 alle assemblee legislative, le quali sono

invitate ad operare con particolare ponderazione e riflessione, permettendo loro, da un lato, di evitare affrettate approvazioni di leggi costituzionali e, dall’altro, di operare solo nel caso vi sia un consistente consenso. In secondo luogo, il procedimento di revisione, prevedendo una piena ed adeguata pubblicità, assicura una completa informazione verso l’opinione pubblica, la cui volontà dovrebbe essere sempre tenuta di conto dalle Camere al momento di un così delicato intervento, quale è, appunto, quello di revisione costituzionale.

14 Non sempre è possibile ricorrere al referendum costituzionale. L'art. 138Cost. prevede delle precise condizioni, e solo al verificarsi di queste sarà possibile il ricorso alla consultazione referendaria. Per approfondimenti: Cap. 2.3.7.2. Pag. 77 e ss.

15 Questo, in particolare, è il senso della ripetizione della deliberazione sullo stesso oggetto «ad intervallo non minore di tre mesi», in ciascuna delle due Camere.

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2.2 LE SCELTE DELL’ASSEMBLEA

COSTITUENTE

Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, la questione relativa alla revisione costituzionale fu affrontata in modo singolare. L’argomento relativo alla scelta della rigidità costituzionale, infatti, non fu affrontata dalle sue radici: due punti si davano già assolutamente per scontati, quali la superiorità della Costituzione sulle altre fonti e la necessità di un procedimento di revisione più complesso rispetto al procedimento legislativo ordinario17. L’unico punto su cui i Costituenti

si trovarono a dover dibattere fu esclusivamente quello relativo alla procedura di revisione da seguire. E sin da subito, ai Costituenti stessi, fu ben presente la necessità di bilanciare, da un lato, la scelta della rigidità della Costituzione e, dall’altro, la possibilità di apportare, senza eccessive difficoltà, quelle modifiche che, con il tempo, si sarebbero inevitabilmente rese necessarie, ovviamente tenendo conto anche della convinzione, condivisa da tutti, di dover evitare il pericolo delle revisioni “incaute”.

La Costituzione italiana del 1947, come le altre Costituzioni del XX secolo, è considerata il risultato di un accordo tra forze politiche e sociali, al fine di dettare, attraverso tale accordo, un disegno economico e sociale complessivo. Tali Costituzioni hanno come principale scopo quello della consacrazione dei valori condivisi da tutta la società: vi sono, infatti, iscritti quei principi che si vogliono mettere al riparo dalla volontà delle varie future maggioranze politiche e dalla stessa dialettica democratica, ossia quei principi in cui ciascuna delle forze partecipanti all’elaborazione della Costituzione può riconoscersi, in quanto rappresentano il frutto di un processo nel quale ciascuna parte ha rinunciato a sostenere ciò che la divide dalle altre, in favore di ciò che le accomuna.

Proprio per questi caratteri la Costituzione tipica dello stato pluralista è sottratta ad ogni semplice modifica unilaterale, e le modalità necessarie per il suo mutamento dipendono così dalla volontà dei protagonisti dell’accordo costituente.

Ecco perché in ognuna di queste Costituzioni si riscontrano procedimenti di revisione che richiedono il consenso di maggioranze parlamentari particolarmente ampie e, in molti casi, e secondo differenti modalità, anche l’intervento del corpo elettorale. Proprio Aldo Moro, durante la discussione generale sul progetto, si dimostrò a favore di questa impostazione affermando che “fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato”.

17 La scelta in favore di una Costituzione rigida appare già compiuta da parte delle forze politiche nel periodo precedente alla Costituente, come testimoniano sia i programmi elettorali dei partiti che i lavori della Commissione Forti. Ovviamente la ragione di fondo di tale scelta pare radicarsi nell’idea che l’avvento del fascismo fosse stato particolarmente agevolato proprio dalla flessibilità dello Statuto Albertino. – “La revisione della Costituzione – Commento all’art. 138” di T. Groppi.

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Tali principi, una volta posti nella Costituzione, sono “superiori alla legge ordinaria e inattaccabili da essa, e ciò significa stabilire la superiorità delle determinazioni della Costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari”.

Come detto, nel dibattito sulla formula di revisione costituzionale è indubbia la scelta della rigidità, intesa come supremazia della Costituzione rispetto alle altre fonti del diritto e principalmente alla legge del Parlamento: la relazione di Conti (relatore della seconda sottocommissione) collega la superiorità della Costituzione sulla legge ordinaria a due ordini di esigenze:

a) assicurare la stabilità dell’ordinamento costituzionale e che le relative modificazioni siano realizzate attraverso un procedimento speciale adeguato all’importanza della materia; b) assicurare che i principi enunciati nella Costituzione a tutela

dei cittadini siano muniti di effettiva efficacia giuridica, anche consentendo di annullare le leggi ordinarie contrastanti.

Il dibattito fu dunque dedicato interamente alla procedura da seguire e alla ricerca di una formula che, come sosteneva Paolo Rossi, relatore sulla revisione costituzionale, permettesse di conciliare “le opposte istanze di certezza e costanza della legge costituzionale e di adattabilità al tempo che preme con le sue continue mutevoli esigenze”. Sempre in sede di scelta della formule da introdurre per la revisione costituzionale, lo stesso Rossi si rese protagonista di un’altra celebre affermazione: “la Costituzione non deve essere un masso di granito che non si può plasmare e che si scheggia; e non deve essere nemmeno un giunco flessibile che si piega ad ogni alito di vento. Deve essere, dovrebbe essere, vorrebbe essere, una specie di duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l’azione del fuoco e sotto l’azione del martello di un operaio forte e consapevole!”

Sia in commissione, sia soprattutto in Assemblea, fu in molte occasioni ribadita la principale necessità di assicurare la partecipazione e l’intervento del popolo nel procedimento di revisione costituzionale. Inizialmente proprio per il fine di realizzare tale finalità, dopo aver scartato l’ipotesi di una approvazione della legge di revisione attraverso un referendum confermativo, la seconda sottocommissione della “Commissione dei 75”, seguendo un orientamento già emerso nella Commissione Forti18, si orientò verso una particolare formula

18 Il 21 novembre 1945 fu istituita la “Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato”, sotto la presidenza di Ugo Forti, docente di diritto amministrativo all'Università di Napoli e già in precedenza chiamato a presiedere la “Commissione per la riforma dell'Amministrazione”, istituita dal Presidente del Consiglio pro tempore Bonomi. La Commissione, formata da tecnici, e da esperti designati dai partiti, si suddivise in cinque Sottocommissioni (problemi costituzionali; organizzazione dello Stato; autonomie locali; enti pubblici non territoriali e organizzazione sanitaria) e, proprio all'inizio dei propri lavori si pose il quesito sulla possibilità di redigere una bozza di Costituzione.

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ispirata al modello belga: all’approvazione a maggioranza assoluta del progetto, avrebbe dovuto far seguito lo scioglimento delle camere che avevano approvato la riforma; dopodiché, il nuovo Parlamento eletto avrebbe dovuto confermare la legge di revisione, ponendo, al centro della campagna elettorale e dei programmi delle forze politiche, proprio il tema della conferma o meno della riforma approvata dalle precedenti Assemblee, consentendo così al corpo elettorale di incidere, indirettamente, sull’esito della riforma. Il primo atto delle nuove Camere sarebbe quindi dovuto essere proprio la votazione, senza emendamenti e a maggioranza semplice, del testo già approvato dalle precedenti.

A questa proposta del relatore Rossi, si contrappose fin dall’inizio quella di Perassi, basata invece su una doppia lettura da parte delle Camere e sul ricorso all’istituto del referendum popolare.

Il dibattito in seconda sottocommissione si infiamma proprio sulla questione del ruolo da assegnare al corpo elettorale, e quindi sulla preferibilità o meno di un sistema che preveda il referendum piuttosto che nuove elezioni. Furono molti gli interventi, soprattutto a favore della seconda proposta: ad esempio Piccioni fa rilevare che, seguendo la formula belga, l’attenzione dell’opinione pubblica potrebbe non concentrarsi sulla riforma, in quanto al momento dell’elezione potrebbe prevalere la considerazione che si sta eleggendo un nuovo Parlamento chiamato a legiferare per tutta la successiva legislatura. Inoltre, Tosato pone in evidenza un altro fondamentale problema, in quanto seguendo il modello belga, verrebbe meno qualsiasi forma di garanzia per le minoranze, trattandosi di un’approvazione a maggioranza semplice: “con tale sistema si viene a perdere quella garanzia che la Costituzione, per la funzione specifica che ha, deve offrire alle minoranze, la cui manifestazione di volontà deve essere tenuta presente in particolar modo in tali occasioni”. Nell’evolversi delle attività dell’Assemblea saranno molti altri gli inconvenienti, relativi al modello belga, che verranno progressivamente fatti presente, sia sul piano istituzionale (carattere eccessivo dello scioglimento, in caso di riforme di scarso rilievo politico o contraddittorietà dell’appello al popolo per poi riconoscere alle nuove Camere il potere di approvare o respingere la riforma e non quello di emendarla) sia su quello pratico (il timore che il Parlamento non avrebbe fatto riforme per non decretare la propria fine, o le avrebbe fatte solo al termine della legislatura o ancora che quello della revisione sarebbe divenuto solo uno dei vari temi in discussione nella campagna elettorale).

Per tutta questa serie di motivi, la prima sezione della seconda sottocommissione, dopo aver approvato in un primo momento, il 15 gennaio 1947, il modello belga, ritornò sulla sua decisione il giorno seguente, optando per la proposta di Perassi, sulla cui base si delineò l’art.130 del progetto, che con pochi ritocchi, molti dei quali propiziati dallo stesso Perassi, sarà poi assunto in via definitiva nell’art. 138Cost.

Il progetto una volta giunto in Assemblea plenaria non fu oggetto di particolari discussioni: come fece rilevare anche Rossi, in sede di

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discussione generale, nessuno dei pochi interventi sui titoli IV e VI della Costituzione, se non quello di Martino, si riferirono all’art.130, il che fa certamente presumere l’esistenza di un generale consenso sul meccanismo messo a punto dalla “Commissione dei 75”.

Martino con il suo intervento, cercò di esporre i vari passaggi della procedura, coi relativi vantaggi di ognuno di questi e il fine ultimo dell’introduzione di questo procedimento: il fine era quello di rendere la Costituzione modificabile attraverso un procedimento in grado, da una parte di consentire l’approvazione delle sole modifiche sufficientemente meditate e, dall’altra, di sottrarre alle minoranze il potere di veto (diversamente da quanto sarebbe avvenuto se si fosse richiesta in ogni caso una maggioranza dei due terzi o dei tre quinti). Per quanto riguarda i passaggi, le due letture da parte di entrambe le Camere avrebbero dovuto evitare gli impulsi momentanei o demagogici; la maggioranza assoluta avrebbe eliminato il pericolo di colpi di mano minoritari; il referendum avrebbe rappresentato una garanzia per le minoranze, per le quali, infatti resta in ogni caso aperta la via dell’appello al popolo.

2.3. LE FASI DELL’ARTICOLO 138COST.

Il modello di revisione costituzionale introdotto dall’art. 138Cost. prevede una doppia deliberazione delle due Camere, intervallata da un periodo non inferiore a tre mesi, seguita da un eventuale referendum popolare. In prima deliberazione, sia alla Camera sia al Senato, è sufficiente la maggioranza semplice (o dei presenti). A quel punto debbono decorrere almeno tre mesi affinché ciascuna Camera si pronunci una seconda volta:

a) se nella seconda votazione la legge costituzionale è stata approvata da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti, essa sarà promulgata dal Presidente della Repubblica e quindi pubblicata in Gazzetta Ufficiale.

b) se nella seconda votazione la legge costituzionale è stata approvata da almeno una delle due Camere a maggioranza assoluta, si aprirà un termine di tre mesi, nel quale è possibile che un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli Regionali chiedano il ricordo al referendum popolare. Se il referendum non viene chiesto, la legge costituzionale potrà essere promulgata; ove invece vi sia la richiesta, e questa sia considerata legittima, sarà il corpo elettorale a decidere se approvare o meno la riforma.

2.3.1 L’INIZIATIVA

La prima fase del procedimento di formazione della legge costituzionale è quella dell’iniziativa legislativa, consistente nella presentazione ad una delle due Camere di un progetto di legge

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costituzionale. Nei vari ordinamenti sono previste diverse modalità per l’esercizio di tale istituto: in alcuni casi, competente per l’iniziativa è il solo Governo, in altri le sole Camere, e in altri ancora sia l’uno che l’altro; ci sono casi in cui si attribuisce tale competenza al Capo dello Stato o in cui si riconosce il potere d’iniziativa al popolo; infine, è addirittura possibile che sia la stessa Costituzione a prendere l’iniziativa della propria revisione, stabilendo che vi si proceda ad intervalli periodici prestabiliti, ad esempio, ogni dieci anni.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, a differenza di quanto previsto per tutte le altre fasi del procedimento di revisione costituzionale, quella dell’iniziativa non si distingue da quella prevista per il procedimento legislativo ordinario, così come anche la stessa Corte Costituzionale ha più volte riconosciuto. Per questo motivo, anche per il procedimento di revisione delle norme costituzionali, sono applicabili gli artt. 71, 99 comma III, 121 comma II Cost. In virtù di tali disposizioni sono dunque legittimati a presentare disegni di legge costituzionale il Governo, ciascun parlamentare, il popolo attraverso la raccolta di cinquantamila firme, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e per le materie di interesse delle Regioni, almeno cinque Consigli Regionali.

L’Assemblea Costituente inizialmente aveva effettuato una scelta differente in tema di iniziativa: il primo comma dell’art.130 del progetto di Costituzione stabiliva, infatti, che questa, in tema di revisione costituzionale, spettasse esclusivamente al Governo e alle Camere. L’origine di tale disposizione si rintraccia nel dibattito svoltosi nella prima sezione della seconda sottocommissione, dove si decise di escludere l’iniziativa popolare in materia di leggi costituzionali, in quanto ritenuta a rischio di strumentalizzazioni, mentre non ebbe seguito la proposta di Piccioni, volta a vietare l’iniziativa governativa, in base all’assunto che il Governo “rappresenta il potere esecutivo e non riflette le esigenze del paese”. Tale disposizione, tuttavia, scomparve dalla riformulazione dell’articolo, avvenuta attraverso l’emendamento Perassi, approvato dall’Assemblea Costituente il 3 dicembre 1947, senza però che sia possibile ricavare dai lavori preparatori le ragioni di tale eliminazione, e proprio in virtù della mancanza di un’esplicita disciplina in tema di iniziativa, da allora si ritengono possibili, oltre all’iniziativa governativa e a quella parlamentare, anche quella popolare, delle regioni, del CNEL, nonché degli organi ed enti ai quali tale potere sia conferito attraverso un’apposita legge costituzionale.

Si noti, infine, che, a tutti i soggetti titolari del potere d’iniziativa costituzionale, spetta anche il potere di ritiro, da esercitarsi nella stessa forma dell’atto d’iniziativa ed entro il termine costituito dall’approvazione in prima deliberazione da parte della Camera adita per prima.

Iniziativa Governativa. In tema di iniziativa, quella governativa è senza dubbio la più rilevante, soprattutto perché i progetti di legge presentati dal Governo (tecnicamente definiti “disegni di legge”) hanno maggiori probabilità d’essere approvati, potendo di regola esso contare

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sul voto favorevole della maggioranza dei parlamentari, della quale è espressione19.

Il procedimento interno per la formazione dell’atto d’iniziativa costituzionale del Governo è lo stesso di quello seguito per la formazione degli atti d’iniziativa legislativa ordinaria:

 Acquisizione eventuale di pareri, i quali, invece, se obbligatori, devono essere previamente formulati;

 Redazione del testo da parte degli uffici legislativi dei vari Ministeri competenti per materia, ovvero da parte di un’apposita commissione ministeriale;

 Deliberazione del Consiglio dei Ministri (art. 3, lett. B, L.400/1988);

 Emanazione del decreto d’autorizzazione del Presidente della Repubblica alla presentazione del disegno di legge alle Camere (art. 87 comma IV Cost.);

 Presentazione ad una delle Camere del disegno di legge ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 5, lett. e, L.400/1988)20.

Qualche problema di interpretazione può sorgere circa l’intervento del Presidente della Repubblica, essendo controverso, già in sede di atti d’iniziativa legislativa ordinaria, quali poteri esso abbia e quali limiti si pongano alla sua azione nell’ambito di tale intervento.

La dottrina è sostanzialmente unanime nell’ammettere il dovere del Capo dello Stato di rifiutare in via assoluta l’autorizzazione, quando l’atto d’iniziativa manchi dei requisiti essenziali per la sua stessa esistenza ovvero presenti carattere delittuoso, concretando esso le fattispecie dell’attentato alla Costituzione o dell’alto tradimento. Si noti che mentre nel primo caso non è necessario nemmeno un atto positivo di rifiuto, bastando una mera inattività da parte del Capo dello Stato, in quanto manca un presupposto valido per un suo qualsiasi intervento, l’atto positivo di rifiuto è invece necessario nel secondo caso, poiché con tale provvedimento, il Presidente della Repubblica, chiarendo le ragioni della propria decisione, scinde la propria responsabilità da quella del Governo.

La dottrina si ritrovata sostanzialmente unanime pure nel negare, al Presidente della Repubblica, ogni potere di richiesta di riesame dell’atto d’iniziativa da parte del Governo e, a fortiori, ogni facoltà di rifiuto assoluto dell’autorizzazione, quando vengano in rilievo solo motivazioni di merito. Infatti, posto che le leggi costituzionali implicano sempre e necessariamente una forte dose di scelte politiche (a differenza delle leggi ordinarie, che spesso rispondono soltanto ad obiettive esigenze tecniche), i motivi di merito che il Presidente della Repubblica dovrebbe considerare sarebbero, in realtà, sempre motivi di opportunità politica.

19 P. Giocoli Nacci, “Appunti sulle fonti normative”, Bari, 1992, Pag. 47; T. Martines, “Diritto Costituzionale”, Roma, 1994, Pag. 330.

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Ebbene, poiché l’art. 71Cost. attribuisce tassativamente il potere d’iniziativa delle leggi al Governo, e, poiché gli atti d’esercizio di tale potere, ed in particolare gli atti d’iniziativa delle leggi costituzionali, per la politicità che implicano, devono considerarsi come atti d’esecuzione dell’indirizzo politico del Governo, appare inammissibile la possibilità d’intervento del Capo dello Stato in sede di autorizzazione, neanche nella forma di una mera richiesta di riesame. Un secondo problema, dipendente, non dalla forma nella quale l’iniziativa governativa si svolge, bensì dall’effettiva capacità dello stesso organo astrattamente titolare del potere d’iniziativa, si pone circa l’ammissibilità dell’esercizio del potere d’iniziativa da parte di un Governo dimissionario ovvero ancora in attesa della fiducia. Il limite del “disbrigo degli affari correnti”21, che grava su un Governo

dimissionario o in attesa della fiducia, non consente, infatti, per la sua genericità, d’individuare con certezza i singoli atti consentiti ad un Governo che versi in una di queste situazioni.

Ad una soluzione positiva di tale problema giungono coloro i quali, sulla base della considerazione che il limite del “disbrigo degli affari correnti” svolge principalmente la funzione di tutelare il principio secondo cui nel nostro ordinamento il Governo dev’essere espressione della maggioranza parlamentare, affermano essere assolutamente vietati per un Governo carente della fiducia soltanto quegli atti che producono immediatamente effetti definitivi indipendentemente dall’intervento parlamentare. Ebbene, tali non possono essere considerati gli atti d’iniziativa legislativa, che, avendo invece il valore di mero impulso procedimentale, lasciano alla maggioranza parlamentare il pieno controllo del successivo iter del disegno di legge presentato da un Governo carente della fiducia22.

Altra parte della dottrina, invece, nega fermamente che un Governo dimissionario, ovvero ancora in attesa della fiducia, possa presentare un disegno di legge costituzionale. Questa dottrina giunge ad una soluzione di questo tipo applicando agli atti d’iniziativa delle leggi costituzionali i criteri elaborati al fine di legittimare, ricorrendone i presupposti, gli atti d’iniziativa legislativa ordinaria di un Governo carente della fiducia.

Non conduce, infatti, a risultati positivi l’applicazione del criterio che condiziona l’esercizio del potere d’iniziativa legislativa da parte di un Governo carente della fiducia al carattere dell’urgenza, in quanto la complessità e la lunghezza del procedimento previsto dall’art. 138Cost. di per sé escludono che un disegno di legge costituzionale, anche se effettivamente urgente, non possa tollerare l’intervallo temporale necessario per il conferimento della fiducia al Governo

21 Ad oggi, non esiste una definizione normativa di “disbrigo degli affari correnti”, né esiste una norma che preveda espressamente che il Governo dimissionario debba limitarsi agli “affari correnti”. L’espressione, dunque, è il frutto di una prassi costituzionale, ripetutasi senza significative eccezioni in tutti i comunicati del Capo dello Stato con cui egli ha accettato le dimissioni dei vari Capi di Governo.

22 V. Crisafulli, “Il Governo tra nomina e fiducia, in Foro amministrativo”, 1957, Pag. 11; P. Virga, “La crisi e le dimissioni del Gabinetto”, Milano 1948, Pag. 84.

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All’identica soluzione negativa si giunge con il criterio che ammette soltanto gli atti d’iniziativa “obbligatori”, poiché nessuna legge di revisione costituzionale può considerarsi obbligatoria. Né a diversa conclusione si perviene adottando il principio della “materia politicamente neutra”, in virtù del quale sono ammessi soltanto atti d’iniziativa “neutri”, che non tendano cioè all’attuazione di un particolare programma politico: è indiscutibile, infatti, che gli atti d’iniziativa delle leggi costituzionali implichino sempre una scelta politica.

Iniziativa Parlamentare. L’esercizio di tale potere è disciplinato in modo molto semplice: l’iniziativa può essere esercitata individualmente da ciascun membro delle Camere, attraverso la presentazione del progetto di legge all’Assemblea di appartenenza. L’aver riconosciuto in capo a ciascun deputato o senatore il potere d’iniziativa rientra nell’ambito di un principio generalmente accolto per gli organi collegiali ed è altresì diretto ad investire i soggetti titolari della funzione legislativa del connaturale potere di promuoverla.

È possibile, ovviamente, che un progetto di legge sia presentato congiuntamente da più membri di ciascuna Camera: in tal caso, tuttavia, l’atto non acquista un valore giuridico particolare, perché l’atto collettivo equivale ad una pluralità di atti individuali, conservando l’efficacia propria di quest’ultimi. In altri termini, realizzandosi la detta ipotesi, si sarà in presenza di più atti singoli contenuti in un documento formalmente unico.

Iniziativa del CNEL. L’articolo 99 comma III della Costituzione attribuisce al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro l’iniziativa legislativa in genere. Tuttavia per alcuni anni, tale competenza fu tassativamente esclusa attraverso l’art.10 comma II della L. 33/1957, la legge istitutiva del CNEL, della cui legittimità costituzionale si è a lungo discusso.

Da un lato si negava tale legittimità, sostenendo innanzitutto che la norma in questione fosse in contrasto con l’art. 71Cost., il quale, stabilendo tassativamente che soltanto con legge costituzionale nuovi organi ed enti possono essere investiti del potere d’iniziativa legislativa, avrebbe escluso che con una legge ordinaria si potessero privare del suddetto potere soggetti titolari di esso (la L. n. 33/57, difatti, era una legge ordinaria).

In secondo luogo, si affermava il contrasto dell’articolo 10 comma II della citata legge con l’art. 99 comma III della Costituzione, che attribuisce, senza distinzione alcuna, l’iniziativa legislativa al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

Dall’altro lato, tuttavia, in molti erano coloro che si battevano per l’affermazione della legittimità costituzionale dell’articolo 10 comma II. Questi fondavano la loro tesi principalmente sul già accennato argomento per cui il terzo comma dell’art. 99Cost. rimetterebbe alla legge ordinaria (“secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge”) non solo la disciplina del contributo del C.N.E.L.

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all’elaborazione della legislazione economica e sociale, ma anche la disciplina dell’iniziativa legislativa.

Partendo da tale premessa, e dall’altra secondo cui il vincolo che l’art. 99 comma III Cost. porrebbe alla legge ordinaria sarebbe soltanto quello di non poter eliminare in toto il potere d’iniziativa del C.N.E.L., tale dottrina concludeva per l’indubbia legittimità costituzionale dell’art. 10 comma II, limitandosi esso a circoscrivere l’ambito d’applicazione di tale potere, nel senso di escludervi, tra l’altro, l’iniziativa delle leggi costituzionali.

Questa disputa dottrinaria, protrattasi per anni, è stata finalmente risolta da un successivo intervento del legislatore con cui si andò a ripristinare la piena corrispondenza tra iniziativa legislativa ordinaria e iniziativa legislativa costituzionale: attraverso la riforma dell’organo in questione, attuata con la L. 936/1986, venne riconosciuto pieno potere di iniziativa al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, potere che, a differenza di quanto precedentemente disposto, non incontrava così, alcuna limitazione. In altri termini, il C.N.E.L. è oggi titolare anche del potere d’iniziativa legislativa costituzionale, ovviamente, come, comunemente si ritiene per la sua stessa iniziativa legislativa ordinaria, date la composizione dell’organo e le specifiche funzioni ad esso attribuite, soltanto nel campo economico e sociale. Un breve accenno va fatto, infine, al macchinoso procedimento attraverso il quale si svolge l’iniziativa legislativa del C.N.E.L., disciplinato dall’art. 38 del D.P.R. 21/5/1958 (regolamento interno del Consiglio): si prevede anzitutto la presentazione al Presidente dell’organo di uno schema di progetto di legge, redatto in articoli, da parte di commissioni o singoli consiglieri; dopodiché la presa in considerazione del Consiglio a maggioranza assoluta dei suoi componenti in carica e l’assegnazione dello schema stesso ad una commissione o ad un apposito comitato perché lo esaminino e ne riferiscano in assemblea; segue l’approvazione del testo ed infine il successivo invio al Presidente del Consiglio dei Ministri per la presentazione ad uno dei due rami del Parlamento. La proposta di legge del C.N.E.L. assume, così, la veste di disegno di legge governativo.

Iniziativa Regionale. Sulla base dell’art. 121 comma II della Costituzione, che attribuisce alle Regioni il potere d’iniziativa legislativa ordinaria, è da ritenersi, in applicazione del principio della generale fungibilità del potere d’iniziativa legislativa ordinaria nei confronti delle leggi costituzionali, che ad esse spetti anche il correlativo potere d’iniziativa per la revisione costituzionale. In realtà per lungo tempo, il riconoscimento di tale potere alle Regioni è stato messo in discussione, tanto che, più volte, è dovuta intervenire la Corte Costituzionale: prima con la Sentenza 256/1989, relativa in particolare ad una regione a statuto speciale, la Sardegna, e, successivamente, in modo più diretto e motivato, con la Sentenza 470/1992. Qui la Corte interviene contro una posizione del Governo che in tale occasione aveva negato che nell’iniziativa di cui parla l’art.

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121Cost. potesse ritenersi compresa anche l’iniziativa relativa ad una legge costituzionale. La Corte, allora, è intervenuta precisando, con tale Sentenza, e con la successiva 496/2000, che alla Regione spetta la disciplina del procedimento, completamente interno all’ordinamento regionale, che conduce alla formalizzazione dell’atto di iniziativa, aggiungendo inoltre che la Regione non possa sottoporre la proposta di iniziativa a referendum regionale, in quanto il popolo, in sede di revisione costituzionale, può intervenire soltanto come istanza ultima di decisione e nella sua totalità. Ad ammettere il contrario, si darebbe al corpo elettorale regionale l’opportunità di una doppia pronuncia sul medesimo quesito di revisione: una prima volta, preventivamente, come parte scorporata dal resto del corpo elettorale nazionale, in fase consultiva, ed una seconda volta, eventuale e successiva, come componente dell’unitario corpo elettorale nazionale, in fase di decisione costituzionale.

Il potere di iniziativa regionale, che, dunque, è in concreto esercitato dal Consiglio Regionale, incontra lo stesso limite sostanziale che vale per gli atti d’iniziativa legislativa ordinaria, espressamente stabilito soltanto da alcuni Statuti delle Regioni ad autonomia speciale23, ma

analogicamente valido, secondo una tesi largamente riconosciuta, anche per le Regioni a statuto ordinario24: l’oggetto della proposta deve

riguardare materie che interessano direttamente la singola Regione, trattandosi peraltro di un limite che non di rado è stato violato, non fosse altro per la stessa difficoltà d’individuare e circoscrivere l’ambito delle materie d’interesse regionale.

Si noti, infine, che due Regioni a statuto speciale, specificatamente il Friuli-Venezia Giulia ed il Trentino-Alto Adige, incontrano poi un ulteriore limite quando esercitano il loro potere d’iniziativa legislativa, un limite questa volta di carattere procedurale e non sostanziale. A norma degli artt. 26 comma II e 35 dei rispettivi Statuti, infatti, le proposte di legge di tali enti regionali debbono essere necessariamente inviate dal Presidente della Giunta Regionale al Governo per la presentazione alle Camere, non potendo essere presentate direttamente a queste, come invece accade per tutte le altre Regioni, ivi comprese le rimanenti ad autonomia speciale.

La rilevanza di tale limite procedimentale è, tuttavia, solo formale. Né il Governo potrebbe legittimamente ergersi a garante del rispetto, da parte delle suddette Regioni, del limite sostanziale dell’ “interesse regionale” o della stessa opportunità della presentazione di un dato progetto di legge, ad esempio al fine di evitare che le Camere siano investite di una quantità eccessiva di proposte legislative.

23 Cfr. art. 51 St. Sardegna; art. 18 St. Sicilia; art. 26 St. Friuli-Venezia Giulia; art. 35 St. Trent-Alto Adige.

24 C. Mortati,” Istituzioni di diritto pubblico”, Cedam, 1991, Pag. 611, secondo il quale sarebbe assurdo che Regioni con autonomia minore possano avere, in ordine al potere d’iniziativa legislativa, competenze più vaste di quelle Regioni con autonomia maggiore;

P. Giocoli Nacci, “Appunti sulle fonti normative”, Bari, 1992, Pag. 49-50, secondo il quale sarebbe incongruo ritenere che gli enti regionali possano proporre leggi statali su argomenti estranei ai loro interessi.

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Da un lato, infatti, tali controlli spettano sempre e soltanto al Parlamento, sicché un eventuale intervento governativo in materia costituirebbe nella sostanza un limite, quantomeno discutibile, alla stessa autonomia regionale. Dall’altro, soprattutto, non si spiegherebbe come mai tale disciplina sia stata prevista per le sole Regioni del Friuli-Venezia Giulia e del Trentino-Alto Adige, creandosi così un’ingiustificabile disparità di trattamento non soltanto tra Regioni ordinarie e speciali, ma anche nell’ambito delle stesse Regioni a statuto speciale.

Iniziativa Popolare. Molto problematica è infine la questione relativa all’iniziativa popolare. Questo particolare istituto è regolato attualmente dalla L. 352/1970, che inoltre si occupa anche della disciplina relativa all’istituto del referendum. A lungo ci si è domandati se in base a tale legge, l’iniziativa popolare rappresentasse o meno uno strumento per avviare la procedura di revisione costituzionale, ed ancora oggi i pareri a riguardo sono molto contrastanti. Tra le file dei sostenitori per una soluzione positiva, troviamo quella dell’esperto costituzionalista E. Bettinelli25: egli in

primis fa notare che anche il comitato promotore di un’iniziativa popolare potrebbe avvalersi della competenza di esperti di prim’ordine, così come fanno gli altri organi titolari del potere d’iniziativa. Per le stesse ragioni, sottolineando in modo particolare il principio della sovranità popolare, i cittadini possono con l’iniziativa legislativa dare inizio anche al procedimento di revisione costituzionale. Inoltre fa notare come nella Costituzione stessa non esiste alcun limite formale e sostanziale in tal senso. Bettinelli sottolinea ancora che la relazione della I commissione permanente della Camera dei Deputati (affari costituzionali) presentata in Assemblea, onde illustrare il disegno di legge, poi approvato come L. 352/70, affermava espressamente “con l’iniziativa popolare è possibile dare inizio al procedimento di revisione costituzionale”.

A conferma della posizione di Bettinelli, cercando tra le innumerevoli proposte di iniziativa popolare presentate nel passato al Parlamento, si possono rinvenire almeno tre particolari precedenti, in cui attraverso l’iniziativa popolare si chiese, seppur senza alcun seguito, un intervento di revisione costituzionale:

1. Proposta per la modifica alla Parte II, Titolo V, della Costituzione in materia di autonomie provinciali e locali per l’attribuzione alla provincia di Treviso dello statuto di autonomia provinciale.

25 Ernesto Bettinelli, nato a Cremona il 12 maggio 1946, è un professore di diritto costituzionale. Si è laureato in Giurisprudenza nel 1969, presso l'Università di Pavia. Ha insegnato alle facoltà di Giurisprudenza di Genova e soprattutto di Pavia. Ha aderito al Partito Radicale. Ha anche ricoperto numerosi incarichi istituzionali a livello nazionale, in particolare è stato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri del primo Governo Prodi. Nel corso della sua attività scientifica e pubblicistica, si è occupato di diritti civili e politici, diritti dell'uomo e comunità internazionale, democrazia diretta, sistemi elettorali, riforme istituzionali,

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2. Proposta per la modifica al Titolo V della Costituzione in materia di autonomie provinciali e locali per l’attribuzione alla provincia di Bergamo e ad altre provincie dello statuto di autonomia provinciale.

3. Proposta di legge di iniziativa popolare per la creazione del Parlamento della “Padania”.

Proprio grazie a tali particolari richieste si ha dunque la conferma che l’esercizio del potere di iniziativa popolare può essere utilizzato anche per dare avvio al procedimento previsto dall’art. 138Cost.

Per quanto riguarda la disciplina da seguire, l’iniziativa popolare è esercitata, ai sensi dell’art. 71 comma II Cost., mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli. Dopo che il requisito della redazione del progetto di legge in articoli è stato in pratica esteso ad ogni iniziativa legislativa, da qualunque organo provenga, a caratterizzare l’iniziativa del popolo è rimasta soltanto la sua natura collettiva, riferibile cioè necessariamente ad una molteplicità d’individui. Al fine di garantire il rispetto di quest’essenziale carattere, la L. 352/1970 dispone, attraverso il combinato disposto degli artt. 7, 8, e 49, che le firme dei proponenti debbono essere raccolte su fogli contenenti l’indicazione della proposta e debbono essere autenticate da un pubblico ufficiale (notaio, cancelliere, segretario comunale, giudice conciliatore).

2.3.2 LA FASE DAVANTI ALLE CAMERE

Una volta esercitato, il potere di iniziativa, qualunque sia il soggetto ad essersi attivato in tal senso, comporta necessariamente l’avvio del procedimento legislativo, obbligando il Parlamento a provvedere, e quindi a prendere in esame la proposta presentata. La presentazione di un progetto di revisione, effettuata indifferentemente verso una delle due Camere, implica sempre la successiva fase del procedimento di formazione della legge, ovvero quella costitutiva.

Questa seconda fase si svolge interamente dinanzi all’organo titolare del potere legislativo26 e si apre, all’interno della Camera adita, con

un’attività di controllo sul medesimo atto da parte del Presidente dell’Assemblea e da parte di quest’ultima.

L’intervento del Presidente si deve limitare al sindacato sugli eventuali vizi di forma dell’atto, potendo egli rifiutare l’accettazione dei progetti di legge presentati, solo se redatti in termini sconvenienti od oltraggiosi ovvero carenti dei requisiti formali indispensabili per la loro stessa esistenza (si pensi ad un atto d’iniziativa popolare non sottoscritto dal previsto numero di cinquantamila firme).

26 C. Mortati, “Istituzioni di diritto pubblico”, Padova 1962. L’iniziativa comporta l’obbligo per l’organo cui è rivolta di esaminare il progetto, ma non già quello di deliberare su di esso, a differenza di quant’accade per altri procedimenti, quali quello giudiziario ed amministrativo, relativi a diritti o interessi dei singoli: molte proposte rimangono, infatti, negli archivi delle commissioni fino al momento della chiusura della legislatura, che ne determina la decadenza.

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All’assemblea spetta invece il sindacato sui vizi di sostanza, limitando l’Ufficio di Presidenza ad accertare e far rilevare il vizio: così l’Assemblea potrebbe, ad esempio, deliberare la non accettazione di un atto d’iniziativa che intendesse modificare la forma repubblicana in contrasto con l’art. 139 della Costituzione.

Ed è proprio in relazione alle fasi successive che si presentano le maggiori differenze tra il procedimento legislativo ordinario ed il procedimento “aggravato” di revisione costituzionale di cui all’art. 138Cost.

La “riserva di legge d’Assemblea” prevista dall’art 72Cost.

L’ultimo comma dell’articolo 72 della Costituzione prevede il primo importante aggravamento per la procedura di revisione costituzionale. L’articolo determina, infatti, che “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali , di approvazione di bilanci e consuntivi.”

La Costituzione per il procedimento legislativo ordinario prevede tre diversi metodi di azione, che prevedono l’intervento di una commissione in seno all’Assemblea, permettendo a seconda delle necessità di modificare e snellire il procedimento stesso.

Di questi tre diversi tipi di procedimento previsti per l’approvazione legislativa, dunque, in virtù di quanto sancito dal quarto comma dell’art. 72Cost. per tutta una serie di delicate materie, tra le quali spicca proprio quella relativa alla revisione della Costituzione, potrà essere applicato esclusivamente il c.d. “procedimento ordinario”, disciplinato dal primo comma dello stesso art. 72Cost.

Secondo questo modello, il progetto di legge presentato viene preliminarmente esaminato e discusso dalla commissione legislativa competente per la materia alla quale il progetto si riferisce: la commissione è chiamata a svolgere fondamentalmente una funzione istruttoria del progetto, ma può anche proporre modifiche al testo originario, operando essa “in sede referente”.

La commissione, una volta esaurito il proprio esame, dovrà trasmettere all’Assemblea il progetto di legge, che sarà anzitutto discusso nelle sue linee generali al fine di accertare se l’Assemblea stessa sia o meno favorevole allo progetto. La discussione generale si chiude, con la presentazione e la votazione degli ordini del giorno: qualora sia approvato un ordine del giorno di non passaggio agli articoli, il procedimento si dovrà arrestare; qualora, invece, l’Assemblea si sia dimostrata favorevole al progetto, si passerà alla discussione ed all’approvazione dello stesso, dapprima articolo per articolo e poi con votazione finale sul suo complesso. In virtù di tale espressa riserva all’Assemblea sancita dal quarto comma dell’art. 72Cost., la deliberazione di tali leggi di revisione non può essere neppure delegata al Governo, come invece può avvenire per i testi legislativi rientranti nella legislazione ordinaria

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L’art. 72Cost. ammettendo, in modo espresso, il solo procedimento “ordinario”, comporta automaticamente l’impossibilità di adottare per i progetti di revisione costituzionale gli altri due procedimenti d’approvazione ammessi per il procedimento legislativo ordinario: -Il procedimento c.d. “decentrato”, disciplinato dall’art. 72 comma III Cost. e dai Regolamenti Parlamentari cui la suddetta norma rinvia, nel quale la competente commissione legislativa non si limita ad esaminare e ad istruire il progetto di legge, ma si sostituisce all’Assemblea anche nella sua approvazione. Si dice in tal caso che la commissione opera nella c.d. “sede deliberante”.

-Il procedimento c.d. “misto”, differentemente disciplinato per Camera e Senato rispettivamente dagli artt. 96 R.C.D. e 36 R.S., in cui la competente commissione legislativa, oltre ad esaminare e ad istruire il progetto di legge, provvede anche alla formulazione, ovvero, nel caso del solo Senato, alla deliberazione dei suoi singoli articoli, ferma restando comunque la necessità della deliberazione finale da parte dell’Assemblea sul progetto di legge nel suo complesso. La commissione opera, in tal caso, “in sede redigente”27.

La ratio di quanto sancito attraverso l’art. 72 u.c. Cost. è piuttosto evidente e va ricercata nel fatto che, essendo le leggi di revisione della Costituzione attinenti all’indirizzo politico, al pari delle altre indicate nella norma in questione, in virtù anche della particolare delicatezza di queste materie, si è voluto fare in modo che il loro esame e la loro approvazione fossero effettuate da parte dell’intera Assemblea, attraverso una procedura che, oltre ad offrire ampie garanzie alle minoranze, è la sola a consentire la partecipazione di tutti i parlamentari al procedimento legislativo.

Il procedimento c.d. “abbreviato” ex artt. 72 comma II e 73 comma II La dottrina maggioritaria, oggi, ritiene possibile la richiesta di applicazione dei termini abbreviati sanciti dagli artt.72 comma II e 73 comma II Cost. In particolare il secondo comma dell’articolo 72Cost. delega ai Regolamenti Parlamentari il potere di stabilire “procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza”. Avvalendosi del potere ad essi conferito, sia il Regolamento della Camera dei Deputati sia il Regolamento del Senato hanno previsto e disciplinato un procedimento abbreviato per l’approvazione dei vari progetti di legge (artt. 69 comma I-II R.C.D. e 77 comma I R.S.).

Secondo il regolamento della Camera dei Deputati, la richiesta relativa alla dichiarazione d’urgenza di un progetto di legge può essere presentata alla Camera da parte del Governo, dal presidente di un gruppo o da almeno dieci deputati; al Senato invece può essere chiesta dal proponente, dal presidente della commissione competente o da almeno otto senatori. Sulla richiesta di dichiarazione d’urgenza, l’Assemblea delibera per alzata di mano, ed in caso di voto favorevole

27 P. Barile, “La revisione della Costituzione”, in “Commentario sistematico alla Costituzione italiana” diretto da P. Calamandrei e A. Levi, Firenze 1950, II, Pag. 490-491; P. Giocoli Nacci, “Appunti sulle fonti normative”, Bari, 1992, Pag. 37 e 54.

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a maggioranza semplice, al Senato tutti i termini verranno ridotti alla metà, mentre alla Camera si determineranno riduzioni diverse caso per caso.

I termini ridotti sono anzitutto quelli relativi alla presentazione della relazione da parte della commissione referente e quelli previsti per l’espressione dei pareri da parte di altre commissioni: tale previsione appare, per sua natura, applicabile unicamente alla prima deliberazione, e ben si coniuga con l’impostazione relativa a tutta questa fase, nella quale si segue la “procedura normale di esame e di approvazione sancita dall’art.72 comma IV.

Possono poi essere ridotti, ai sensi dell’art. 73 comma II, quelli relativi alla promulgazione, da deliberare a maggioranza assoluta dalle due Camere. Ovviamente, in tale circostanza, non si fa più riferimento alla fase della prima deliberazione, bensì a quella della seconda deliberazione, in cui appunto la legge costituzionale è oggetto di promulgazione, in questo caso con i termini ridotti previsti dalla legge stessa.

In passato, proprio riguardo alla possibilità di applicare al procedimento di formazione delle leggi di revisione costituzionale la descritta procedura d’urgenza, si è discusso a lungo. In particolare, si è insistito sull’argomento secondo cui, poiché l’Assemblea Costituente ha previsto un lasso di tempo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione col duplice scopo di garantire un’adeguata ponderazione nell’approvazione delle leggi costituzionali e di evitare che esse possano risultare l’espressione di maggioranze temporanee ed occasionali, tali finalità sarebbero state snaturate se, pur nel rispetto dell’intervallo previsto in Costituzione, se ne eludesse lo spirito abbreviando i tempi tecnici necessari a ciascuna Camera per giungere all’approvazione della legge.

Tuttavia, come già detto, la prevalente dottrina ha sempre affermato la legittimità del ricorso alla procedura d’urgenza ex art. 72 Cost. anche in relazione al procedimento di formazione delle leggi costituzionali, respingendo sempre con forza la tesi restrittiva e le argomentazioni sulle quali questa veniva di volta in volta fatta poggiare: anzitutto si osservava che l’art. 138Cost. stabilisce un limite temporale esterno, e quindi con tale disposizione non intende affatto riferirsi al procedimento che si svolge all’interno di ciascuna Camera, disciplinato dai rispettivi Regolamenti Parlamentari. In secondo luogo, si è poi voluto affermare che i procedimenti d’urgenza, disciplinati su delega dell’art. 72 comma II della Costituzione dagli artt. 69 co. I-II R.C.D. e 77 co. I R.S., non rappresentano assolutamente una tipologia di procedimento distinta da quello “ordinario” di cui al primo comma dello stesso articolo 72Cost., essendo essi caratterizzati soltanto da una semplice abbreviazione dei suoi termini interni e non già da una modifica o da un alterazione delle sue fasi28.

28 C. Mortati, “Istituzioni di diritto pubblico”, Cedam, 1991, Pag. 618; T. Martines, “Diritto costituzionale”, Giuffrè, Pag. 337; S.M. Cicconetti, “La revisione della Costituzione”,1972, Pag. 46;

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2.3.3 LA DOPPIA DELIBERAZIONE

L’istituto della doppia deliberazione da parte delle due Camere, rappresenta sicuramente il più importante aggravamento introdotto dai Costituenti, andando nettamente a distinguere il procedimento di revisione costituzionale rispetto al procedimento di formazione della legge ordinaria. Tale previsione, prevista dalla prima parte del primo comma dell’art. 138Cost., in forza della quale “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi”, realizza una fase essenziale e necessaria del procedimento stesso, distinguendolo dall’altro importante aggravamento, rappresentato dal referendum popolare di cui all’art. 138 comma II, il quale ricopre un ruolo “secondario”, dato il suo carattere eventuale connesso, da un lato, alla maggioranza con cui la legge è stata approvata in seconda votazione e, dall’altro, alla presentazione della richiesta che deve essere effettuata dai soggetti legittimati nel termine previsto29.

Come già detto, è evidente la ratio della previsione di tale doppia deliberazione e va ricercata nell’esigenza di permettere alle Camere di esaminare le proposte di leggi costituzionali, data la loro indubbia maggiore rilevanza rispetto alle leggi ordinarie, con maggiore attenzione: da un lato, per garantire un’adeguata ponderazione dei loro effetti, ivi comprese le reazioni eventualmente suscitate nell’opinione pubblica nazionale dalla modifica costituzionale proposta, e dall’altro, per evitare che esse possano risultare l’espressione di maggioranze temporanee ed occasionali.

Per determinare con precisione l’intervallo di tempo previsto tra le due deliberazioni, oltre al dovuto richiamo alla disciplina generale dell’art. 2963 C.C. in tema di computo del tempo, si fa ricorso ad alcune regole specifiche dettate dagli artt. 98 R.C.D. e 122 R.S. Secondo tali disposizioni il “dies a quo”, ovvero il termine iniziale dal quale comincia a decorrere l’intervallo di tre mesi per ciascuna Camera, è quello della prima deliberazione definitiva della stessa Camera30.

Nell’ipotesi, cioè, in cui ci si trovi di fronte non ad una sola “prima deliberazione” di ciascuna Camera, bensì a due o più “prime deliberazioni” a causa di emendamenti apportati al progetto di legge, sempre in prima deliberazione, presso la seconda Camera, il termine iniziale per il computo dei tre mesi decorrerà per ciascuna Camera dal momento della rispettiva “ultima” prima deliberazione.

Ciò lo si deduce, con estrema chiarezza, dal testo dell’art. 122 R.S., a norma del quale “La seconda deliberazione, prevista dall’art. 138 della Costituzione, può essere adottata soltanto dopo che siano decorsi tre mesi dall’approvazione del disegno di legge nello stesso testo trasmesso o successivamente approvato dalla Camera dei deputati”.

29 P. Giocoli Nacci, “Il tempo nella Costituzione”, in “Riforme e attuazione costituzionale”; Collana diretta da P. Giocoli Nacci e A. Loiodice, Padova 1984, Pag. 395.

30 Trattandosi di un termine mensile, si segue anzitutto il criterio “ex nominatione” e non “ex numeratione dierum” (il termine scade nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale) ed inoltre la regola per cui, trattandosi di un termine ordinatorio che assume come punto di riferimento un evento a carattere istantaneo (prima deliberazione di ciascuna Camera), il dies a quo non va computato, mentre va invece computato il “dies ad quem”.

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L’art. 122 R.S., infatti, da un lato parla genericamente di “approvazione” da parte del Senato, e non invece di

“prima approvazione”, dall’altro, subordina la decorrenza del termine da tale approvazione del Senato alla condizione che quest’ultima si riferisca allo “stesso testo trasmesso o successivamente approvato dalla Camera dei deputati”.

Si rende necessario, infine, un ultimo chiarimento. Quando l’art. 138Cost. fa richiamo a “due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi”, va precisato che tale termine esplica i suoi effetti soltanto in riferimento alla seconda “deliberazione” di ciascuna Camera, non potendo questa intervenire, com’è noto, prima che il suddetto intervallo temporale sia decorso. Se da un lato l’art 138Cost. esclude, quindi, in termini assoluti la seconda deliberazione prima che questo intervallo sia trascorso, non vuol dire però, che con tale disposizione si voglia impedire che l’esame in commissione del progetto di legge costituzionale, o anche la sua stessa discussione in aula, possa iniziarsi prima della scadenza dei tre mesi, ferma restando, ovviamente, l’impossibilità di giungere ad una “seconda deliberazione”. Prima della scadenza di tale intervallo, pur non potendo giungere ad una votazione, si potrà dunque avviare l’esame e la discussione sul progetto di legge costituzionale.

L’interpretazione dell’Art. 138Cost., e in particolare della sua prima parte, inizialmente definita come pacifica dai primi commentatori, non si è rivelata tale, ed anzi ha ingenerato una delle più delicate questioni in materia di revisione costituzionale. L’interrogativo postosi, già nella I legislatura repubblicana, in occasione dell’elaborazione della prima legge costituzionale approvata dalle Camere31, ovvero la L.Cost. 1/1953, ha riguardato la forma della

doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera. Data infatti la genericità e l’imprecisione della formulazione di tale disposizione, da subito è sorta la questione se la doppia deliberazione avesse dovuto assumere forma “consecutiva” ovvero “alternativa”.

Secondo la prima formula, la Camera inizialmente adita avrebbe dovuto effettuare la prima deliberazione e dopo l’intervallo di tre mesi la propria seconda deliberazione; solo a questo punto il testimone sarebbe passato alla seconda Camera per le proprie due deliberazioni consecutive, anch’esse intervallate da almeno tre mesi. Nel secondo caso, invece, alla prima deliberazione di ciascuna delle due Camere deve seguire, trascorso l’intervallo di tre mesi, la seconda deliberazione da parte di entrambe.

Né i lavori preparatori della Costituzione, né i regolamenti parlamentari, che inizialmente rimanevano in silenzio, offrirono elementi chiarificatori sulla questione per la risoluzione di tale arduo problema32.

31 Le precedenti leggi costituzionali del 1948, erano, infatti, state approvato tutte dall’Assemblea costituente.

32 P. Giocoli Nacci, “Il tempo nella Costituzione”, in “Riforme e attuazione costituzionale”; Collana diretta da P. Giocoli Nacci e A. Loiodice, 3, Padova 1984, Pag. 396

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Anche la prassi parlamentare fu discordante nell’applicazione della norma facendo ricorso talvolta ad un principio, talvolta all’altro. Originariamente prevalse la tesi della consecutività, quando nel 1952 la Camera approvò tale principio attraverso l’art. 107 del proprio regolamento allora vigente, il quale disponeva: “Per i progetti di legge costituzionali o di revisione della Costituzione, di iniziativa governativa o parlamentare, le due deliberazioni previste dall’art. 138 della Costituzione hanno luogo consecutivamente, a distanza di tempo non inferiore a tre mesi, compresi i periodi di aggiornamento”. Il Senato, a differenza di quanto avvenuto nell’altra Camera, pur adottando di fatto la stessa procedura, non codificò nel proprio regolamento tale principio.

Da allora, però, cominciarono a susseguirsi molte e autorevoli critiche verso questa lettura, fondata sulla ratio stessa della doppia deliberazione, che implicherebbe un vero e proprio doppio procedimento legislativo, conformemente a quel modello belga scelto in origine dall’Assemblea Costituente, poi abbandonato a favore del procedimento sancito con l’art. 138Cost.

Ma ciò che più spinse a mutare impostazione, facendo quindi prevalere la tesi dell’alternatività, è stato il dato pratico, ovvero l’eccessiva lunghezza della procedura: infatti dopo le due deliberazioni da parte di una Camera, le eventuali modifiche al testo previste dall’altra, chiamata anch’essa a due deliberazioni, avrebbero comportato di nuovo due deliberazioni della prima, il tutto, naturalmente, nel rispetto degli intervalli di tre mesi provocando un’estrema lungaggine, a cui tra l’altro fu imputato proprio il fallimento, negli anni cinquanta, di molti progetti di legge costituzionale.

Per questi motivi, dopo una nutrita serie di discussioni, durante la II legislatura, la Camera modificò la disciplina prevista, ma limitandosi ad abolire nel proprio Regolamento il richiamo all’istituto della consecutività, senza tuttavia adottare espressamente il principio opposto.

La questione fu risolta soltanto nella III legislatura, quando finalmente si riuscì a pervenire ad una formulazione concorde dei regolamenti parlamentari: stavolta però entrambe le Camere optarono per la tesi della alternatività in quanto sia il R.C.D. del 1957 sia il R.S. del 1958 concordemente adottarono il principio delle deliberazioni alterne.

Tale principio viene sancito anche dai Regolamenti Parlamentari attualmente vigenti, sia quello della Camera dei Deputati (artt. 97 e 98) sia quello del Senato (artt. 121 e 122), entrambi entrati in vigore dal 1971. Con disposizioni sostanzialmente speculari, i due Regolamenti affermano che, dopo l’approvazione in sede di prima deliberazione da parte di una Camera, il progetto di legge va trasmesso all’altra affinché questa effettui la propria prima deliberazione. Se il progetto di legge è emendato da parte della seconda Camera, la prima è chiamata ad una nuova prima deliberazione sul testo modificato. Nel caso in cui il progetto di legge costituzionale non subisca invece emendamenti da parte della seconda Camera, si procede, una volta trascorso l’intervallo di tre mesi previsto dall’art. 138Cost., alla seconda deliberazione da parte di ciascuna delle due Camere.

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Bisogna tuttavia concludere, facendo presente che, nonostante i Regolamenti Parlamentari siano ormai intervenuti risolvendo definitivamente il problema della consecutività o dell’alternatività della doppia deliberazione, lo stesso fatto che i due principi siano stati di volta in volta recepiti dalle diverse disposizioni degli stessi regolamenti succedutesi nel tempo, unitamente all’impossibilità d’attribuire a questi il carattere di interpretazione autentica, ancora oggi la dottrina è letteralmente spaccata sulla questione, tra coloro che si battono per il principio della consecutività, coloro che sostengono la tesi contraria della prevalenza del principio dell’alternatività, e infine, coloro che si pongono in una posizione intermedia, affermando indifferentemente la legittimità dell’uno o dell’altro principio, posto che da un lato, l’art. 138Cost. non risolve espressamente il problema, e quindi sarebbe artificioso “immettere” in quell’articolo più di quel che esso esprima, e dall’altro, che tutte quelle esigenze a cui vuole rispondere lo stesso art. 138Cost., risultano comunque soddisfatte tanto attraverso l’approvazione alternata quanto quella consecutiva.

2.3.4 LA PRIMA DELIBERAZIONE

Tra la prima e la seconda deliberazione, a cui ciascuna delle due Camere deve necessariamente giungere per portare a compimento il lungo procedimento previsto per la revisione costituzionale, si possono elencare alcune significative differenze, in relazione soprattutto alle procedure da seguire, alle maggioranze richieste ed infine anche alle fasi che rispettivamente seguono le due necessarie deliberazioni. Circa la disciplina da applicare al momento di tale prima deliberazione di ciascuna Camera, è opportuno ricordare, come già esaminato, che gli artt. 97 comma I R.C.D. e 121 comma I R.S. stabiliscono che dovrà essere seguita la procedura prevista dagli stessi regolamenti relativa ai progetti di legge ordinaria, facendo ovviamente salva la riserva di legge d’Assemblea di cui all’art. 72 u.c. Cost., cosicché risulteranno in concreto applicabili soltanto le disposizioni regolamentari che disciplinano il c.d. procedimento “ordinario” di approvazione e non già quelle relative ai procedimenti “decentrato” e “misto”.

Il progetto di legge costituzionale, presentato indifferentemente ad una delle due Camere, verrà anzitutto sottoposto all’attività di controllo che su di esso è chiamato a svolgere il Presidente di Assemblea. Terminato con esito positivo tale controllo, lo stesso progetto di legge è da questi assegnato alla Commissione legislativa competente per materia, con l’ulteriore possibilità che vengano richiesti pareri alle altre Commissioni interessate dal progetto in virtù delle materie di loro competenza. Giunti a tale punto, la Commissione si limita, sulla base di quanto espresso dall’ultimo comma dell’art. 72Cost., ad esercitare nella c.d. “sede referente”, dunque esaminando ed istruendo il progetto, per poi trasmetterlo all’Assemblea, unitamente alla propria relazione.

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