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CAPITOLO 2 Colonizzazione agricola ed emigrazione

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CAPITOLO 2

Colonizzazione agricola ed emigrazione

2.1 Legislazioni nazionali sulla colonizzazione agricola

La colonizzazione agricola ebbe un intenso sviluppo nelle terre dell’America Latina (in prevalenza in Brasile e in Argentina, ma in dimensioni più contenute fu presente anche in altri Paesi, tra cui l’Uruguay e il Perù) e fu favorita dalla costante mancanza di forza lavoro.

Nel 1888 in Brasile venne abolita la schiavitù, evento storico che apriva le porte all’immigrazione di massa di agricoltori provenienti da varie località dell’Europa, che speravano di trovare negli stati latinoamericani opportunità di lavoro maggiori rispetto a quanto era loro concesso nei luoghi di origine.162 Tale opportunità era resa possibile dalla sterminata estensione delle terre vergini, in parte ancora abitate dagli indios, dove i governi federali brasiliani e argentini offrivano agli immigrati la possibilità di costituire nuove colonie. Successivamente, riscattando le terre coltivate, l’abitazione e gli strumenti da lavoro, l’agricoltore straniero poteva compiere il passaggio a piccolo proprietario terriero, anche se già la condizione di colono era migliore non solo da un punto di vista economico, ma anche per la posizione occupata nella società ospitante, rispetto ai ruoli di semplice affittuario e bracciante.

Così piemontesi, veneti e lombardi furono tra i primi italiani ad attraversare l’oceano per dissodare e coltivare ampi territori fin dalla metà dell’Ottocento e dagli anni settanta dello stesso secolo, con l’incremento della colonizzazione, iniziarono a giungere in consistente numero anche gli emigranti provenienti dalla montagna toscana.163

162 E. FRANZINA, Gli italiani al Nuovo Mondo. L’emigrazione italiana in America 1492-1942, Milano, Mondadori, 1995, pp. 260-261; il testo può essere integrato con le immagini dell’enorme affollamento sulle banchine degli scali portuali, come i codici 49 e 50 (MEGT) per il porto di Buenos Aires datati 1912, i codici 51 e 52 (MEGT) di primo Novecento per il porto di Montevideo e i codici 53 e 54 (MEGT) in cui appare l’imponenza di Castle Garden, l’edificio principale di Ellis Island. Sono testimonianze della grande affluenza di immigrati nei paesi in cui era praticata la colonizzazione.

163 C RAPETTI, L’emigrazione nella Toscana Occidentale: la Lunigiana e la costa Apuana, in Quaderni

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Il modello di occupazione territoriale che con consistente impegno organizzativo ed elevati incentivi economici fu promosso dai governi del Sud America si rifaceva, anche per l’aspetto legislativo, al processo di dissodamento delle terre incolte adottato nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti, prima che il Brasile e l’Argentina abolissero la schiavitù, rendendolo un sistema di notevole diffusione allo scopo di accrescere la totalità delle aree coltivate, nell’ottica della preservazione di un’agricoltura estensiva.164

Il contributo dato dagli immigrati italiani allo sviluppo dei Paesi dell’America Latina attraverso la colonizzazione, a cui seguì lo spostamento di alcuni agricoltori nelle aree urbane per impiegarsi nel commercio e nell’industria con lo scopo di conseguire un ulteriore avanzamento economico, fu considerevole sia in termini di crescita demografica, sia per quanto riguardava gli influssi culturali. In particolare in Argentina, malgrado la convivenza con gli autoctoni portasse in alcuni casi ad aperte ostilità, l’italiano rimase sempre lo straniero che godeva di piena fiducia, stimato per la sua costanza nell’ambiente di lavoro, un privilegio che favoriva i matrimoni tra gli emigranti e le donne del luogo di destinazione, mentre era più raro che avvenisse l’inverso.165

Tale condizione rese possibile il trasferimento di una parte della società rurale italiana, nel periodo storico compreso tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, nelle terre vergini americane; le tabelle che seguono dimostrano per il periodo compreso tra il 1916 e il 1925 la prevalenza degli agricoltori tra la massa dei partenti legati a professioni di diverso genere (sono stati depennati per la loro poca rilevanza statistica gli anni della Grande Guerra). Solo in parte, infatti, i coloni diventavano proprietari terrieri, anche se la percentuale di questi ultimi fu sempre abbastanza numerosa (alla fine degli anni venti nello stato del Paranà gli italiani erano al quinto posto per le colonie straniere nel numero degli stabilimenti, al terzo nella quantità totale di terreno e al primo posto nel valore

164 E. FRANZINA, Gli italiani al Nuovo Mondo. L’emigrazione italiana in America 1492-1942, cit., p. 238. 165 Cfr. E. FRANZINA, Il problema storico della presenza italiana in Argentina, in «Il Veltro. Rivista della civiltà italiana», n. 3-4, anno XXXIV, maggio-agosto 1990, pp. 228-235.

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economico dei loro possedimenti).166 Nel 1920, sempre in Brasile, gli stati dove i piccoli proprietari terrieri italiani si presentavano in numero maggiore erano Rio Grande Do Sul con 13810 colonie, San Paolo con 11825 colonie, Espirito Santo con 3045 colonie, Minas Geraes con 2193 colonie e il Paranà con 1318 colonie.167

Argentina e Uruguay

1916 1920 1921 1922 1923 1924 1925 Addetti ai lavori campestri 637 8.337 18.249 30.298 40.329 30.547 22.669 Braccianti, terrazzieri ed edili 262 3.165 4.307 6.913 16.851 9.990 6.484 Operai specializzati e artigiani 433 4.328 4.918 6.068 13.452 9.046 7.095 Professioni liberali, artisti e religiosi 39 388 463 437 857 736 717 Droghieri e albergatori 36 577 643 857 1.735 1.371 1.092 Commercianti e trasportatori 139 797 1.017 1.683 2.644 1.537 1.666 Domestici e mestieri ignoti 632 4.679 4.139 4.758 7.817 7.173 6.785

Brasile

1916 1920 1921 1922 1923 1924 1925 Addetti ai lavori campestri 154 1.906 3.536 3.086 5.415 3.748 2.720 Braccianti, terrazzieri ed edili 132 869 720 728 1.805 1.172 611 Operai specializzati e artigiani 234 1.043 1.141 1.141 1.643 1.148 938 Professioni liberali, artisti e religiosi 15 199 158 158 236 239 203 Droghieri e albergatori 22 176 116 116 182 111 115 Commercianti e trasportatori 70 318 335 335 337 317 356 Domestici e mestieri ignoti 258 1.443 1.197 1.197 1.370 1.320 1.194

166 E. MALESANI, Brasile. Condizioni naturali ed economiche, Roma, Editrice Mantegazza, 1929, p. 446. 167 Ivi, p. 448, dove l’autore, oltre al numero delle colonie, specifica il valore medio per stabilimento e la superficie totale di terreno occupata dalle piccole proprietà degli italiani.

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Stati Uniti

1916 1920 1921 1922 1923 1924 1925 Addetti ai lavori campestri 11.863 40.604 38.137 17.674 20.283 9.576 9.673 Braccianti, terrazzieri ed edili 4.627 18.625 18.228 6.945 1 1.874 6.344 7.608 Operai specializzati e artigiani 4.508 17.395 18.160 6.345 9.947 5.742 6.259 Professioni liberali, artisti e religiosi 44 595 488 337 624 590 536 Droghieri e albergatori 155 1.902 1.877 848 1.438 993 940 Commercianti e trasportatori 292 1.421 1.887 1.125 1.521 1.291 1.616 Domestici e mestieri ignoti 10.472 43.889 35.434 9.389 10.408 8.496 7.669

Fonte: Annuario statistico dell’emigrazione italiana, cit., pp. 530-532

I dati dimostrano che l’unico gruppo professionale che in alcuni momenti

eguagliava in numero gli “addetti ai lavori campestri” erano “gli addetti alle cure domestiche (dove la presenza femminile era prevalente) e mestieri ignoti”, ma al fine di una valutazione adeguata delle statistiche è necessario tenere presente la particolare composizione di quest’ultima categoria. Si trattava di un insieme ampio, costituito da tutti coloro di cui, per varie ragioni, non era stato indicato il mestiere praticato nel luogo di origine, che da un punto di vista numerico era ancora più rilevante se assommato ai migranti impegnati nei lavori domestici (forse già in patria queste persone si adeguavano a varie mansioni pur di racimolare un po’ di denaro, ma nessuna di tali attività era da loro svolta con continuità). Eppure, malgrado la loro eterogeneità, le due categorie superarono gli agricoltori solo in Brasile nel 1916, in piena guerra mondiale con la grande massa di uomini arruolati al fronte, e negli Stati Uniti nel 1920. Per gli anni restanti la predominanza degli “addetti ai lavori campestri” rimase costante, arrivando in Argentina agli inizi degli anni venti a essere superiore di alcune volte non solo agli “addetti ai lavori domestici e mestieri ignoti”, ma anche agli “operai specializzati e agli artigiani” che erano l’altro gruppo numeroso.

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Per intensificare l’immigrazione agricola i governi federali dell’Argentina168 e del Brasile169, avvalendosi della collaborazione delle amministrazioni pubbliche dei vari stati interessati alla colonizzazione, prevedevano una serie di interventi legislativi che favorivano l’arrivo e la sistemazione dei contadini stranieri attraverso incentivi, anche di natura economica, indispensabili ad accelerare la loro integrazione sociale. In Brasile i maggiori risultati furono conseguiti nell’area meridionale, con condizioni ambientali simili al clima mediterraneo. Già al tempo, però, erano diffusi testi170 e testimonianze epistolari che sottolineavano come i contratti riservati ai coloni in realtà fossero meno vantaggiosi di quanto gli agenti di emigrazione volevano far credere, perché di frequente le condizioni di abitazione e di lavoro offerte agli agricoltori stranieri erano peggiori di quelle che avevano lasciato in patria. Antonio Franceschini spiega che per queste ragioni molti italiani preferivano prendere le terre in affitto o stipulare contratti mezzadrili.171

Il console italiano a Buones Aires, illustrando la legge approvata il 22 novembre 1887, sosteneva che: “…si concedono al colono, oltre all’abitazione, animali da lavoro e da razza, utensili e sementi fino al primo raccolto, e per dieci anni l’esonero da ogni imposta e contribuzione.”172 Alcuni anni prima, nel 1882, era stata varata una legge che prevedeva l’assegnazione gratuita di appezzamenti delle dimensioni di venticinque ettari ai nuclei familiari di immigrati, ma la riforma che aveva reso possibile la crescita della colonizzazione era arrivata dal 1876, quando era stato previsto, come poi di solito avvenne anche in Brasile, che l’emigrante potesse riscattare ratealmente le terre a partire dal secondo anno dal

168 Sulla presenza degli agricoltori italiani in Argentina vedere R. F. FOESTER, The italian emigration of our

times, New York, Arno Press and The New York Times, 1969, pp. 223-251.

169 Sulla colonizzazione italiana in Brasile A. TRENTO, In Brasile, in Storia dell’emigrazione italiana, cit., in particolare le pagine 7-9.

170 Sul argomento vedere A. COLOCCI, La crisi argentina e l’emigrazione italiana nel Sud America, Milano, Tip. Centrale E. Balzaretti, 1892, pp. 79-82, ma tutto il volume è un punto di riferimento per lo studio dell’emigrazione agricola italiana in Argentina durante la crisi di fine Ottocento.

171 A. FRANCESCHINI, L’emigrazione italiana in America del Sud: studi sull’espansione coloniale

transatlantica, Roma, Forzani e C., 1908, p. 420.

172 La citazione è presa da P. BEVILACQUA, Emigrazione transoceanica e mutamenti della alimentazione

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suo arrivo all’estero, accettando l’unico obbligo di coltivarle e di risiedervi in modo stabile.173

Tali opportunità erano rese note con l’impiego degli stessi canali attraverso cui si diffondevano in generale le informazioni sui movimenti migratori. Agli agenti delle compagnie di navigazione si aggiungevano, in molti casi con effetti ancora più efficaci, i resoconti in forma scritta e orale degli emigranti vissuti per lungo tempo a contatto delle comunità estere. I primi, invece, tenevano i contatti tra l’Italia e il continente americano e si spostavano all’interno delle comunità rurali della penisola per promuovere i viaggi transoceanici, con l’intento di arricchirsi sfruttando la necessità della popolazione meno abbiente di trovare sistemazioni lavorative convenienti lontano dal luogo di origine.174

All’agricoltore veniva inizialmente anticipato il costo del biglietto di viaggio, un’opportunità importante poiché per un contadino di fine Ottocento le spese indispensabili per compiere la traversata oceanica rappresentavano un impegno economico difficile da sostenere. Spesso l’emigrante era costretto a indebitarsi e alcune volte a vendere i possedimenti agricoli nel luogo di origine (anche se in realtà quest’ultimo caso estremo sembra che fosse meno ricorrente), investendo tutto il patrimonio messo da parte dalla famiglia con gli spostamenti degli anni passati a livello continentale, nella speranza di riuscire a raggiungere un miglioramento del tenore di vita.175

Giunto a destinazione presso uno dei porti di riferimento per la navigazione verso il Sud America, il nuovo arrivato poteva sostare alcuni giorni (fino di solito a un massimo di dieci) in grandi strutture di accoglienza sovvenzionate a spese dei governi esteri, affinché gli fosse consentito un primo avvicinamento

173 Vedere L’emigrazione in Argentina, dal sito www.argentina.it, e M. CRESTANI, Italiani d’Argentina, contributo pubblicato sul sito www.storiain.net/arret/num159/artic3.asp.

174 Sui documenti epistolari vedere A. SBOLCI, Amore di terra lontana. Storie di emigranti attraverso le loro

lettere (1946-1970), Firenze, Le Lettere, 2001, pp. 73-75, mentre sugli agenti delle compagnie di navigazione si

possono consultare A. MOLINARI, Traversate. Vite e viaggi dell’emigrazione transoceanica italiana, Milano, Selene Edizioni, 2005, p. 13 e A. MARTELLINI, Il commercio dell’emigrazione: intermediari e agenti, in AA. VV., Storia dell’emigrazione italiana, cit., pp. 293-308.

175 P. BEVILACQUA, Società rurale e emigrazione, in AA. VV., Storia dell’emigrazione italiana, cit., p 109, dove l’autore specifica che da inizio Novecento per la popolazione rurale l’emigrazione era diventata una “…impresa di lavoro”.

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alla realtà sociale e ambientale a cui avrebbe dovuto in breve tempo adeguarsi. Spesso il processo di prima integrazione era agevolato da presentazioni durante cui venivano illustrate le caratteristiche biologiche della colture principali e gli attrezzi agricoli caratteristici dell’agricoltura latinoamericana.176 Le strutture di maggiori dimensioni e con la migliore organizzazione, considerando che le amministrazioni pubbliche sudamericane ponevano dei rigidi limiti al loro impegno economico, erano gli Hotel de Inmigrantes situati presso i porti di Buones Aires e di Santos a San Paolo e, sempre in Brasile, l’Hotel di Ilha dos Flores di Rio de Janeiro.177

Successivamente gli stranieri venivano condotti dai convogli nelle zone a loro destinate, un viaggio nella maggior parte dei casi che prevedeva spostamenti a lunga distanza a volte anche di oltre mille chilometri, durante cui si rischiava di contrarre patologie che potevano rivelarsi mortali, la cui diffusione era favorita dalla forte condizione di stress fisico e mentale.

Arrivati a destinazione, i coloni si trasferivano presso i loro lotti (con questo termine si indicavano gli appezzamenti di terra assegnati ai singoli nuclei familiari) dove potevano trovare condizioni di abitazione e di coltivazione più o meno soddisfacenti, sia per quanto interessava la presenza di infrastrutture per gli spostamenti nelle aree urbane, che si trovavano sempre a distanze elevate, sia per le attrezzature da lavoro e per lo stato degli edifici. Di frequente i lotti si presentavano in condizioni che rendevano difficile la colonizzazione: gli agricoltori potevano essere inseriti in contesti ambientali privi di ogni forma di civilizzazione, in territori inadatti all’insediamento, bisognosi di interventi che richiedevano talmente tanto tempo per essere portati a termine, da consentire solo dopo diversi anni di poter cogliere il beneficio dei lavori svolti.178

176 Le brevi conferenze che si tenevano negli Hotel de Inmigrantes vengono citate in M. R. OSTUNI, Belle foto, in AA. VV., Un filo tra due mondi, a cura di Umberto Baldocchi, Maria Rosaria Ostuni e Marinella Mazzanti, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2004, p. 202.

177 Sono conservate due immagini dell’Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires, catalogate con i codici 540 e 541 (MEGT), datate 1912.

178 AA. VV. Emigrazione agricola al Brasile, a cura di G. Pieraccini, Bologna, Editori Berti U. & C., 1912, pp. 214-216: la necessità in Brasile di migliorare la precaria situazione igienico-sanitaria delle colonie viene sottolineata da Pieraccini nella conclusione del suo primo intervento, pp. 197-199.

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I fondi indispensabili per realizzare in un primo momento le vie di comunicazione e, successivamente, gli edifici pubblici erano concessi dalle amministrazioni statali, che per incrementare le loro capacità finanziarie si avvalevano del sostegno economico del governo federale;179 in alcuni casi gli immigrati erano impiegati nella costruzione delle infrastrutture, affinché avessero un’occupazione fin dai primi giorni di residenza.

Ogni lavoro finalizzato a rendere il lotto abitabile e coltivabile non eseguito dai coloni aveva un costo da dover ricoprire ratealmente in un periodo di tempo di circa dieci anni, e avevano un prezzo anche le abitazioni e le attrezzature; una volta pagato il suo debito il migrante diveniva proprietario dell’appezzamento, che poteva rivendere o estendere attraverso l’acquisto di altra terra. Questo genere di contrattazione tra amministrazione federale e governi statali da una parte e agricoltori dall’altra andò avanti a lungo, fino alla metà del XX secolo, quando ancora continuava a essere praticata la colonizzazione delle aree vergini nel Sud America e molti italiani erano disposti a seguire l’esempio dei loro predecessori, che erano riusciti con il trascorrere degli anni a raggiungere un soddisfacente tenore di vita nelle terre disboscate, dissodate e urbanizzate. Nei primi anni cinquanta nelle località di Bateia-Itirussù e di Jaguaquara nello stato di Bahia, dove la Cooperativa S.C.L.A.P.I.B. organizzò l’occupazioni dei territori incolti, ogni colono riceveva lotti rispettivamente di circa 40 e 30 ettari. Nello specifico, l’agricoltore straniero a Bateia-Itirussù doveva spendere in totale 48500 crs (con questa sigla si indicavano i cruzeiros) per poter riscattare il lotto su cui viveva, pagando 30000 crs l’abitazione, 5000 crs la baracca, 2000 crs il forno e 11500 crs il terreno. Per quanto, invece, riguardavano le spese di preparazione delle aree coltivate, gli interventi nelle parti boschive risultavano i più onerosi: l’abbattimento degli alberi di grosse dimensioni costava 1000 crs a ettaro e il dicioccamento (sradicamento della parte bassa dei fusti rimasta dopo il

179 Un passo avanti significativo per migliorare la condizione dei lotti in Brasile fu compiuto con la legge del 3 novembre 1911 numero 9081, in cui si ribadiva che il Ministero dell’Agricoltura doveva provvedere a dare una sistemazione adeguata agli immigrati.

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taglio) poteva avere un prezzo anche di 4500 crs ad ettaro, contro i 500 crs a ettaro richiesti per lo stesso servizio nei terreni solo parzialmente ricoperti dall’alta vegetazione,180 dove per l’aratura e il passaggio dell’erpice erano indispensabili 250 crs a ettaro. Sempre nelle parti boschive erano previsti 600 crs a ettaro per tagliare il sottobosco e altrettanto denaro per eseguire la ripulitura attraverso la bruciatura degli sterpi.181

Per Jaguaquara i costi di costruzione degli spazi abitativi e di preparazione del terreno lievitavano sensibilmente, malgrado la località fosse collocata in un’area di natura eterogenea e le tecniche di lavorazione agricola fossero più arretrate rispetto a Bateia-Itirussù; probabilmente il dislivello economico era dovuto al fatto che la seconda colonia fosse regolata dal decreto federale 6117 del 16 dicembre 1943, mentre nella prima prevaleva l’influenza dell’amministrazione dello stato di Bahia.182 Si richiedevano 18000 crs per il riscatto della terra, 30000 crs per l’acquisto della casa e 10000 crs per le baracche e il forno, per un totale di 58000 crs, a cui si aggiungevano 5000 crs in media per il dissodamento di un ettaro di terreno. Il pagamento dei beni immobili doveva iniziare dal quinto anno di residenza e concludersi, come di consueto, in un periodo di dieci anni, quindi in totale dopo quindici anni dall’arrivo a Jaguaquara.

In ambedue i casi il riscatto era favorito da buone prospettive di guadagno; sempre per Jaguaquara erano previsti incassi lordi per il periodo compreso tra il marzo del 1951 e il febbraio 1952 di circa 97200 crs, a cui era necessario sottrarre 45000 crs per le spesse complessive di coltivazione del terreno e, al rimanente di 52200 crs, si dovevano ancora togliere 24000 crs per il mantenimento della famiglia, con un guadagno netto durante l’anno di 28200 crs.183 La migliore natura del terreno non consentiva di prevedere maggiori possibilità di guadagno per Bateia-Itirussù.

180 ISTITUTO NAZIONALE DI CREDITO PER IL LAVORO, Emigrazione e colonizzazione agricola in Cile, Firenze, Tip. Vallecchi, 1952, pp. 88-89, dove si specifica che la maggior parte del territorio di Bateia-Itirussù agli inizi degli anni cinquanta era stato quasi completamente disboscato.

181 Per ulteriori informazioni sulla colonia ivi, pp. 77-111. 182 Ivi, p.112.

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Oltre alla costruzione delle strutture abitative e alla preparazione delle terre alla coltivazione, potevano insorgere altri problemi di adattamento alla nuova condizione di vita nei lotti che confinavano con le zone agricole destinate agli indios, in cui venivano prodotte canna da zucchero, tabacco e radici di manioca per la produzione di farina; frequenti, infatti, erano gli scontri tra gli europei e le comunità autoctone indigene che mal sopportavano la presenza degli stranieri. Il difficile rapporto tra emigranti italiani e nativi è stato studiato da Piero Brunello184, che ha sottolineato come la totale incomprensione rendesse difficile ogni relazione tra le due parti. Non raramente il clima teso portava a scontri violenti e in una condizione del genere la legge finiva per non aver alcun valore, con la conseguenza che i coloni imparavano in breve tempo a farsi giustizia per non essere le vittime dei nativi, a cui avevano dato il nome di Bulgari, termine che fin dal Medioevo in Italia aveva il significato di eretico, vizioso e selvaggio. In Brasile durante la prima metà del Novecento le terre dissodate venivano catalogate185 in base all’origine dei finanziamenti pubblici: esistevano le aree agricole unitarie, interamente finanziate dal governo federale, e le colonie governative, dove le spese per la realizzazione delle infrastrutture e dei servizi erano sostenute sempre dal governo federale, ma i costi previsti per le singole abitazioni erano ricoperti dai vari stati. Questi ultimi avevano interesse quanto l’amministrazione centrale a promuovere l’incremento di aree abitate presso le terre vergini, importanti non solo per favorire lo sviluppo economico e sociale del Paese, ma anche per una maggiore diffusione dell’urbanizzazione.

Una terza soluzione, in realtà utopistica considerando il livello di istruzione e le conoscenze in campo politico di queste comunità rurali, era stata avanzata nel 1912 dal ministro brasiliano dell’agricoltura Pedro de Toledo: si trattava della

184 P. BRUNELLO, Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Roma, Donzelli, 1994, pp. 21-56. Il testo può essere integrate con E. FRANZINA, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei

contadini veneti in America Latina, Verona, Edizioni Cierre, 2000, pp. 106-107, dove l’autore, commentando la

lettera di Leonardo Placereano del 9 luglio 1880, sottolinea che già nella prima fase di sviluppo della colonizzazione agricola i migranti dovevano sopportare difficili condizioni di convivenza con gli autoctoni, sia indios che argentini.

185Emigrazione agricola al Brasile, a cura di G. Pieraccini, cit., pp. 218-222; nello stesso volume si elencano le colonie in base alla loro ubicazione geografica e alla produzione agricola alle pp. 244-249.

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possibilità di organizzare le colonie come comunità interamente amministrate dagli agricoltori, a iniziare dalla selezione dei lotti e dalla loro sistemazione. Senza esagerare nell’interpretare il pensiero di questo uomo politico che al tempo ebbe notevole influenza, de Toledo alludeva a una sorta di comunismo agrario che potesse essere inserito nel sistema produttivo in costante sviluppo dell’agricoltura brasiliana e, volendo estendere l’iniziativa, di tutta l’America Meridionale.186 Tale proposta, palesemente volta verso l’affermarsi di un clima liberale nelle colonie, non casualmente venne avanzata nei primi anni del XX secolo, quando ormai l’immigrazione e l’incremento economico in Brasile e in Argentina erano giunti al loro apice, dopo la prima fase di crescita di fine Ottocento, e gli arrivi dall’Europa toccavano le quote più elevate.

Dello stesso periodo era anche la già ricordata legge numero 9081 del 3 novembre 1911187 emanata dal governo federale brasiliano, finalizzata a migliorare il tenore di vita dei coloni e a favorire lo sviluppo di un’agricoltura produttiva, anche se tecnologicamente non avanzata. Vi fece seguito la legge numero 1299 del 27 dicembre dello stesso anno, che prevedeva un adeguato servizio sanitario e una dignitosa condizione igienica sia nelle aree comuni che nei singoli lotti, oltre alla possibilità di assicurare alla popolazione minorile l’istruzione primaria.188 La pulizia di scuole, di infermerie e di edifici pubblici e privati era la principale necessità delle colonie in Brasile e per renderla possibile le personalità politiche schierate a favore degli emigranti lottarono a lungo contro i governi federali e le amministrazioni statali. I provvedimenti legislativi ricordati chiudevano un lungo ciclo di riforme a favore degli agricoltori stranieri iniziato il 18 settembre 1850 con la “Lei de terras” numero 601,189 la prima norma in tema di colonizzazione che già prevedeva la possibilità di riscattare le

186 Nei primi anni novanta del XIX secolo un esperimento di comunismo agrario fu messo in pratica nella colonia Cecilia dello stato del Paranà. Sull’argomento vedere la testimonianza del 1893 del medico pisano Giovanni Rossi, che visse solo un breve periodo nella colonia, ma in seguito venne a conoscenza dei problemi amministrativi e degli egoismi che determinarono la fine di questa cominità anarchica, in M. R. OSTUNI, Storia,

storie dell’emigrazione toscana nel mondo, Lucca, Tipografia Tommasi, 2006, pp. 55-58.

187 Si fa riferimento alla nota a piè di pagina numero 109.

188 In tali disposizioni legislative risultano interessanti gli articoli 1 e 15 della legge 1299; in particolare nell’articolo 15 sono specificati i servizi che devono essere presenti nelle colonie.

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terre, permettendo al coltivatore di divenire un piccolo proprietario e di acquisire la cittadinanza trascorsi due anni dalla sua sistemazione sul lotto.

Una prima legislazione indirizzata a regolare le migrazioni verso le terre vergini e a favorire l’integrazione degli agricoltori stranieri risaliva alla metà del XIX secolo anche in Argentina. In un periodo poco successivo furono istituite la “Commissione per l’emigrazione” e la “Società a protezione dell’emigrazione”, organi statali impegnati a trovare un’occupazione ai contadini stranieri, che erano l’unica soluzione alla costante mancanza di forza lavoro e consentivano di promuovere lo sviluppo del settore agricolo.

Dopo la già ampia occupazione a metà Ottocento della regione della Plata, l’immigrazione europea si diresse verso Cordoba, Santa Fè, Buenos Aires e Entre Rios; nel 1890 le colonie italiane in Argentina erano le più numerose dell’America Latina (i dati indicano una media di cinque sesti del totale) e una parte degli agricoltori che le aveva riscattate riuscì a raggiungere una condizione economica e sociale pienamente soddisfacente. In maggioranza, però, il destino di questi piccoli proprietari era quello di mantenere un tenore di vita limitato, anche se quasi sempre migliore rispetto alle possibilità del luogo di origine. La fortuna economica dipendeva da una serie di fattori determinati sia dal comportamento dei singoli (i più avveduti avevano superiori possibilità di rendere produttivi i propri lotti), sia dalle condizioni economiche e ambientali (quando il raccolto veniva compromesso dalle piogge abbondanti o dalla siccità, come accadde tra 1900 e 1902, i coloni erano in grande difficoltà).190

Si andò creando, quindi, un sensibile dislivello tra i relativamente pochi che erano riusciti a inserirsi nel ciclo di sviluppo economico con consistenti possibilità di investimento di denaro e la massa dei migranti ancora legati a un’agricoltura poco produttiva, che nel momento in cui compresero i limiti delle attività legate al settore primario si trasferirono nelle località urbane, dove nel

190 A. FRANCESCHINI, L’emigrazione italiana in America del Sud: studi sull’espansione coloniale

transatlantica, cit., p. 420-421. L’autore affronta l’argomento descrivendo i miglioramenti professionali previsti

per passare dalla condizione di colono o anche di semplice bracciante nei primi anni di vita in Sud America, a quella di piccolo proprietario terriero.

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1910, con la crisi occupazionale, gli italiani in difficoltà finirono per protestare anche contro i datori di lavoro loro connazionali, che avevano imparato dagli imprenditori autoctoni a sfruttare i dipendenti di ogni nazionalità.191

Alcune personalità della politica e del mondo accademico impegnate per vari motivi nell’emigrazione promossero l’unione degli agricoltori italiani in cooperative per rivendicare, attraverso efficaci azioni di protesta, i propri diritti. Non era sufficiente attendere passivamente gli aiuti degli stati latinoamericani: se si desiderava raggiungere il benessere economico e la stabilità sociale era necessario lottare senza avere esitazioni contro i latifondisti, interessati a inglobare nelle loro estese proprietà anche i lotti in cui si erano insediati gli stranieri per accrescere il proprio potere.

Agli agricoltori delle fazendas,192 messi in una posizione ancora più difficile rispetto ai coloni perché in realtà ridotti a una condizione di semischiavitù, si ricordava che i grandi proprietari terrieri a differenza dei loro dipendenti avevano istituito una struttura cooperativa, in grado di difendere i propri privilegi ed era a tale associazionismo che era necessario opporsi.193 Un messaggio, però, troppo difficile da recepire per un gruppo sociale ancora costituito da contadini per la maggioranza semianalfabeti.

Alle origini del processo di colonizzazione nel continente americano, che era iniziato negli Stati Uniti verso gli anni quaranta del XIX secolo, erano stati sempre i latifondisti a limitare lo sviluppo della piccola proprietà attraverso il riscatto dei lotti. I primi coloni statunitensi furono gli Squatters, ritenuti usurpatori delle proprietà pubbliche che, malgrado compissero la loro opera in modo totalmente illecito, si impegnavano con costanza a rendere coltivabili i territori occupati, situati nelle aree selvagge del West. Le loro fatiche furono riconosciute dal presidente Jackson, che con il Preemption Act del 4 settembre

191 Sulle proteste della comunità italiana in Argentina per i diritti dei lavoratori vedere E. FRANZINA, Il

problema storico della presenza italiana in Argentina, cit., p. 249.

192 Con questo termine erano chiamate le grandi fattorie in cui venivano assunti gli emigranti con una sorta di contratto di affitto.

193 Una posizione favorevole all’associazionismo tra coloni e braccianti agricoli delle fazendas fu assunta anche dal dottor Gaetano Pieraccini, curatore del volume Emigrazione agricola al Brasile, cit, e dai suoi assistenti.

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1841 aveva cercato di regolarizzare l’occupazione degli Squatters per consentire una colonizzazione legalmente riconosciuta,194 a cui seguì nel 1844 l’associazione Free-soliers per la concessione gratuita delle terre vergini. La legge che consentiva la cessione dei lotti ai coloni fu approvata nel 1854, ma entrò in vigore solo nel 1862 con l’avvento di Lincoln e in modo limitato agli stati del Nord; il nuovo presidente era il padre di questo importante documento, che fu denominato la “Magna Charta del colono”, esteso nel 1866 ai territori meridionali, dove cercarono inutilmente di avvantaggiarsene anche i contadini di colore. Il provvedimento decretava che ogni capofamiglia maggiorenne, quindi che aveva compiuto il ventunesimo anno d’età, aveva facoltà di impadronirsi di un lotto di un’estensione massima di 160 acri; per quanto riguardava gli stranieri potevano richiedere anche la naturalizzazione, ma solo se erano giunti negli Stati Uniti in modo regolare.

Tale disposizione legislativa, però, non impedì ai proprietari terrieri più abbienti e alle compagnie volte all’investimento di acquistare una larga parte delle terre vergini, con il risultato che la colonizzazione iniziata attraverso gli Squatters andò a esaurirsi, fagocitata dal costante affermarsi dei latifondisti. Questi ultimi, a differenza di quanto accadde nel Sud America, furono agevolati dallo scarso interesse dei governi statunitensi della seconda metà dell’Ottocento per la sistemazione degli agricoltori migranti, atteggiamento che portò alla mancanza da parte del governo federale e delle amministrazioni statali di un solido piano di sostegno economico che potesse accelerare il processo di estensione della piccola proprietà terriera.195

All’inizio del XX secolo per i coloni italiani la situazione non era migliorata: nel 1909 il regio addetto all’emigrazione Gerolamo Moroni, senza fare alcun riferimento alla possibilità di elargire finanziamenti pubblici, sosteneva che per

194 Vedere M. FANNO, La teoria economica della colonizzazione, Torino, Edizioni Scientifiche Einaudi, 1952, in particolare le pp. 255-256, dove si spiega che gli Squatters, associati agli operai meccanici, furono tra i fondatori del partito democratico.

195 E. FRANZINA, Gli italiani al Nuovo Mondo. L’emigrazione italiana in America 1492-1942, cit., pp. 239-240, ma sullo stesso argomento si può vedere anche D. CINEL, From Italy to San Francisco the immigrant

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avere Homesteads (colonie) in Texas si doveva possedere una discreta somma di denaro (circa mille dollari da spendere per acquistare il terreno e per il mantenimento della propria famiglia nei primi mesi) ed essere disposti a vivere inizialmente in condizioni di accampamento, per poi lavorare a lungo alla messa a coltura delle terre.196 Si andava definitivamente a chiudere l’era dei piccoli proprietari;197 per i coloni costretti a svolgere il ruolo di salariati nelle aziende agricole non rimaneva che abbandonare le aree rurali e cercare l’affermazione economica trasferendosi nelle città.

Fu il destino anche di tanti agricoltori migranti che, senza pensare alla colonizzazione, si erano impiegati fin dai primi giorni all’estero nelle grandi fattorie statunitensi. Questi braccianti con il passare del tempo furono costretti a rinunciare al mestiere precedentemente svolto nel luogo di origine per le scarse retribuzioni e a dedicarsi nelle aree urbane a varie professioni per le quali non possedevano alcuna abilità. Da quel momento entravano a far parte della massa di manodopera non qualificata dei contadini mediterranei inseriti in contesti economici e sociali a loro sconosciuti, che potevano fare affidamento soltanto sulla capacità di adattarsi in breve tempo alle più disparate condizioni di abitazione e di lavoro pur di riuscire a sopravvivere.198

Pietro Lorenzini, docente di Storia Moderna all’Elgin College dell’Università dell’Illinois, ha ricostruito le vicende della sua famiglia originaria di Agnino di Fivizzano ed emigrata in California.199 Tra i predecessori dell’autore i primi a raggiungere il continente americano furono Paolo Lorenzini e Gregorio Gregori (i discendenti Rosina Gregori e Domenico Lorenzini si unirono in matrimonio nel 1948) e ambedue lavorarono per alcuni anni nelle fattorie di Santa Rosa,

196 Il Texas e l’emigrazione italiana, da un rapporto del regio addetto all’emigrazione a New Orleans conte Gerolamo Moroni, in «Bollettino dell’emigrazione», VIII, 1909, pp. 54-55.

197 C. FUMIAN, L’agricoltura-miniera. Note sulla crisi agraria e l’America, in Istituto A. Cervi, Annali 14-15, 1992-1993, pp. 359-386.

198 Ministero degli Affari Esteri e Commissariato dell’Emigrazione, Emigrazione e colonie: raccolta dei regi

agenti diplomatici e consolari, cit., vol. III, pp. 50-51: come è già stato detto nel primo capitolo, gli autori

sostengono che nel 1908 gli italiani emigrati nelle metropoli americane arrivarono a svolgere ventitré tipi di professioni tra loro molto diverse.

199 P. LORENZINI, Rapporti a distanza: uno studio preliminare dell’emigrazione dalla Lunigiana verso gli Stati

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iniziando come tanti italiani la loro vita da emigranti da una professione agricola. Ma a causa delle difficoltà economiche incontrate dalla manodopera straniera occupata in ambito rurale, a inizio Novecento i due contadini lunigianesi decisero di spostarsi nelle grandi città statunitensi, una volta che l’area presso cui avevano progettato di trasferirsi era stata ricostruita in seguito al terremoto del 1906. Lorenzini andò a vivere a San Francisco, mentre Gregori preferì emigrare a Chicago, dove trovò un impiego nell’amministrazione pubblica come addetto ai controlli per l’efficienza dell’illuminazione cittadina; il figlio Pietro Alberto,200invece, riuscì a ottenere la nomina di supervisore della zona sud della città.

Dal racconto si deduce che, malgrado gli anni vissuti all’estero dalle famiglie Gregori e Lorenzini siano stati caratterizzati dall’alternanza di condizioni economiche più o meno favorevoli, questi emigranti non avrebbero mai potuto godere di un tenore di vita soddisfacente e, tanto meno, non avrebbero mai raggiunto un buon livello di integrazione nella società che li ospitava se fossero rimasti legati a una professione del settore primario.

2.2 Brevi cenni sull’emigrazione agricola in Australia

Per una ricostruzione completa della storia delle migrazioni della popolazione rurale è indispensabile concludere con un breve riferimento all’Australia, l’unico Paese non appartenente al continente americano dove il processo di occupazione delle terre vergini si manifestò attraverso modalità simili a quanto avvenne nei territori argentini e brasiliani.

La prima emigrazione di massa di contadini di origine italiana in Oceania risaliva al 1891, anno in cui giunsero sulle terre di Queensland in seguito a un’iniziativa pianificata trecento stranieri che, sul modello della colonizzazione in Sud America, dovevano sostituire la manodopera degli uomini di colore, di

200 L’articolo, scritto in buona parte sulla base di interviste risalenti ai primi anni settanta ai discendenti di Gregorio Gregori e Paolo Lorenzini, è corredato dai ritratti delle persone interpellate dall’autore e di altri emigranti lunigianesi che avevano frequenti contatti con le famiglie di cui viene ricostruita la storia.

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cui i latifondisti si erano serviti fino al tramontare del secolo.201 I lavoratori che erano venuti a mancare per le grandi estensioni agricole ammontavano a sessantamila unità, una perdita ingente per la coltivazione della canna da zucchero, portata avanti da braccianti disposti a sopportare ritmi di lavoro sostenuti. Gli italiani furono tra i gruppi etnici ritenuti dagli autoctoni adatti a ricoprire la perdita di manodopera, poiché apparivano ai loro occhi stranieri di carattere “docile”: con tale termine si voleva designare l’atteggiamento del buon dipendente, attento nello svolgimento delle proprie mansioni e non interessato a presentare rimostranze al datore di lavoro.202 Con il trascorrere del tempo, tali qualità permisero agli italiani di seconda generazione di raggiungere un soddisfacente livello di integrazione nella società australiana, malgrado inizialmente nei loro confronti avesse prevalso la xenofobia, fino in alcuni casi a raggiungere l’ambito passaggio da bracciante a piccolo proprietario terriero attraverso la colonizzazione.

L’emigrazione italiana in Australia, però, rimaneva ancora minoritaria rispetto a quanto accadeva per gli esodi diretti nelle Americhe, malgrado da tutta la penisola e anche dalla Toscana tra il 1876 e il 1900 e tra il 1901 e il 1915 le partenze fossero rimaste costanti (290111 nel primo periodo e 473045 nel secondo).203 A scapito dei viaggi verso l’Oceania andavano le prestazioni insoddisfacenti dei mezzi di navigazione impiegati per le distanze più elevate, che prevedevano tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo traversate di una durata ancora eccessiva per convincere la grande massa degli emigranti contadini a preferire le terre vergini del Queensland alle colonie del Brasile, dell’Argentina o di qualsiasi altro stato sudamericano.

201 Sul sito www.italianlegacy.com/italian-migration-to-australia.html è stata pubblicata una scala cronologica con testo a fianco in lingua inglese, dove vengono elencati i momenti fondamentali dell’emigrazione italiana in Australia, dal passaggio di Magellano alla seconda metà del XX secolo.

202 AA. VV., War, internment and mass migration the italo-australian experience, a cura di R. Bosworth e R. Ugulini, Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1992, in particolare i capitoli di W. A. Douglass, Images and

adeges: anglo-australian perceptions of italians in Queensland e di D. Dignam, The internement of italians in Queensland.

203 Da www.emigrazione.it: nel sito è riportata in due tabelle relative ai periodi storici presi in esame la rielaborazione dei dati ISTAT effettuata da GIANFAUSTO ROSOLI, Un secolo di emigrazione italiana

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L’Australia iniziò ad essere considerata una metà sempre più avvicinabile solo dai primi anni venti, quando entrarono in vigore alcune norme legislative che limitavano negli stati americani la presenza degli immigrati europei e asiatici, stabilendo quote di ingresso troppo basse per soddisfare la grande offerta dei Paesi di ormai ricorrente emigrazione.204 Ma con il crollo della borsa di Wall Street e la depressione economica che colpì tutte le nazioni dell’Occidente industrializzato, anche gli arrivi in Australia subirono un repentino declino seguendo le sorti dei movimenti migratori diretti verso le Americhe, che all’inizio degli anni trenta raggiunsero i minimi storici. Gli stati più evoluti, o tanto meno in grado di offrire le maggiori opportunità di impiego in ambito agricolo, tendevano a chiudere le porte alla manodopera straniera, adesso che non c’era più la necessità di assumere quest’ultima nei mestieri faticosi a livello fisico in seguito alla recessione delle attività produttive.205

All’incirca in questo periodo Pio Masini, originario di Capannori, si trovava in una località rurale in pieno sviluppo nei pressi della città di Perth, lungo il corso del fiume Swan. Dell’emigrante è stato conservato un ritratto datato 1930206 in compagnia della moglie, che tiene in braccio il figlio Rino appena nato; una delle tante coppie trasferite sul suolo australiano, che non differenziavano dai nuclei familiari in precedenza e ancora negli anni venti indirizzati verso i porti di Buenos Aires e San Paolo. Sullo sfondo della foto si notano una vettura (simbolo delle opportunità economiche offerte ai Masini in terra straniera) e, ancora più in lontananza, una pianura coltivata tra le foreste, sempre in gran parte da rendere abitabile. L’immagine doveva comunicare ai destinatari le speranze coltivate dalla famiglia, rimasta legata al luogo di arrivo malgrado le condizioni critiche che assunse l’economica internazionale, e la volontà di continuare a lavorare per un tenore di vita migliore.

204 AA. VV., Italo-australiani. La popolazione di origine italiana in Australia, a cura di S. Castles, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1992, pp. 33-49.

205 A. BONCOMPAGNI, In Australia, in AA. VV., Storia dell’emigrazione italiana, cit., pagina 114 CAMBIA. Il breve contributo riassume i momenti più importanti della storia dell’emigrazione italiana in Australia, facendo riferimento ad alcuni testi dove si possono approfondire gli argomenti trattati dall’autore.

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Le partenze dall’area mediterranea e in particolare dalla penisola italiana verso l’Australia tornarono a essere numerose solo negli anni cinquanta e negli anni sessanta raggiunsero i loro massimi storici, anche se la deportazione di 18432 prigionieri negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale207 rappresentò già una nuova affermazione della presenza degli stranieri in Oceania.

2.3 Il caso di Villa Regina come modello di sviluppo della colonizzazione in Sud America

A circa metà degli anni venti del Novecento un gruppo di quattrocentoventisei famiglie di coloni, per il novanta per cento di nazionalità italiana, raggiunse una vasta area deserta delle dimensioni di 5000 ettari di proprietà della “Compagnia Italo-Argentina di colonizzazione”, posta nel canyon del Rio Negro nel territorio della Patagonia, distante milleduecento chilometri da Buenos Aires e a oltre metà del tragitto previsto per arrivare al confine con il Cile.208 Fin dai primi mesi apparve numerosa la presenza dei migranti provenienti dal Friuli Venezia Giulia, ma fu consistente anche la partecipazione degli agricoltori toscani.

Fu su queste terre vergini che nacque la Colonia Regina (oggi Villa Regina), destina a divenire un centro agricolo sviluppato e moderno nella produzione di frutta,209 intitolata a Regina Pacini, moglie dell’allora presidente argentino Marcelo Torcuato de Alvear, che in un ritratto ovale degli anni venti appare con un raffinato abito bianco e un vistoso cappello.210

Francesco Munguai fu tra i primi abitanti di Villa Regina: originario della montagna pistoiese, ha lasciato una testimonianza della sua presenza all’estero attraverso numerose fonti fotografiche raccolte dalla figlia Liliana Mungai, oggi proprietaria dell’azienda agricola rilevata dall’attività del padre, che lavorava a livello internazionale nell’esportazione di frutta verso gli Stati Uniti.

207 A. R. STIASSI, Gli italiani in Australia, Bologna, Patron, 1979, p. 82.

208 La mappa datata 1926 con l’ubicazione di Villa Regina è archiviata con il codice 449 (MEGT).

209 Sull’argomento vedere GROSSUTTI J., L’emigrazione dal Friuli Venezia Giulia in Argentina e in Uruguay, dal sito www.ammer-fvg.org. Nell’articolo l’autore dedica alcune pagine alla storia di Villa Regina come esempio del processo di colonizzazione agricola italiana in Sud America.

210 La fotografia è catalogata con il codice 390 (MEGT). Altre informazioni su Regina Pacini sono disponibili sul sito http://es.wikipedia.org/wiki/Regina_Pacini.

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La signora Mungai dal padre aveva appreso che inizialmente dalle montagne pistoiesi partirono per raggiungere le terre bagnate dal Rio Negro gli uomini in giovane età, tra i venti e i quarant’anni, i quali, una volta riusciti a trovare una prima sistemazione anche adattandosi all’inospitale natura del luogo, chiamarono le mogli e le fidanzate a raggiungerli.211 Presso Villa Regina si ripropose, quindi, il modello di popolamento frequente nella colonizzazione in Sud America, dove gli emigranti si prestavano a vivere per un periodo iniziale, di durata variabile a seconda dei casi, in condizioni di estremo disagio pur di riuscire a organizzare una comunità agricola autosufficiente.

La faticosa opera di bonifica e dissodamento indispensabile per rendere questi luoghi coltivabili e realizzata grazie alle attrezzature che in un primo momento furono messe a disposizione dalla compagnia fondatrice, venne svolta con il costante aiuto delle donne, che si affiancarono agli uomini nei lavori più pesanti e il loro impegno si ripropose anche nel momento in cui fu necessario riscattare la colonia acquistandone le terre. Come di frequente accadeva per favorire l’estendersi dei latifondi a scapito della piccola proprietà, fu indetta un’asta a cui parteciparono acquirenti che avevano possibilità di investimento di gran lunga superiori rispetto agli emigranti. Nel caso di Villa Regina, però, nel momento in cui i più abbienti avrebbero potuto far lievitare i prezzi con le loro offerte, le mogli e le fidanzate dei coloni intervennero in modo inaspettato: si posero alle spalle dei latifondisti e li percossero ripetutamente con borse, scarpe e altri oggetti che avevano sottomano affinché non rilanciassero, consentendo agli agricoltori di acquistare i lotti che avevano reso coltivabili.212

Le condizioni di vita precarie sopportate dai primi emigranti toscani di Villa Regina sono possibili da intuire osservando le immagini delle abitazioni datate metà anni venti, come nella foto in cui viene ripresa una fase avanzata della

211 L’intervista a Liliana Mungai è riportata nell’opera in dvd Donne lontane, emigrazione femminile dalla

Toscana, a cura della Comunità montana della Lunigiana e della Regione Toscana, Gruppo Uovoquadrato

Eliogabalo, 2006.

212 Ibidem: le vicende raccontate dalla signora Mungai, oltre a integrare le informazioni che si possono trarre dal materiale iconografico lasciato dal padre, danno la possibilità di comprendere meglio attraverso quali strategie i grandi investitori agricoli si affermassero ai danni della piccola proprietà terriera.

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costruzione della residenza di un agricoltore. Una struttura di piccole dimensioni in mattoni, realizzata in modo talmente semplice da assomigliare a una sorta di baracca murata; al lato una tettoia in paglia consentiva di ricavare uno spazio limitato da adibire a magazzino per il raccolto e la conservazione di alcuni prodotti di prima necessità. Era in generale questo l’aspetto degli edifici che stavano sorgendo nell’area studiata nel primo insediamento, condizione che viene testimoniata anche nella fonte dove appare un classico ritratto213 di una famiglia patriarcale, con il padre e la madre seduti al centro e intorno i figli e gli zii; alle spalle dei soggetti si intravede la parete malsicura della loro abitazione. Un’ulteriore prova del livello di sviluppo di Villa Regina tra gli ultimi anni venti e i primi anni trenta è offerta da una fotografia inviata ai parenti residenti sulla montagna pistoiese da Benedetta Cipolletti,214 che si faceva fotografare sulla sponda del Rio Negro con il figlio, un bambino di circa cinque anni; si suppone che l’autore del documento fosse il marito dell’emigrata, anche se l’intestazione non dà informazioni al riguardo. Alle spalle dei soggetti si estende una natura ancora selvaggia, che necessita di un’impegnativa e costante opera di dissodamento del territorio per renderne possibile la coltivazione.

In un’immagine della metà degli anni venti, invece, è raffigurata una delle prime costruzioni di grandi dimensioni di Villa Regina, simbolo dello sviluppo urbanistico, lento ma costante, che la comunità stava effettuando. Si trattava del forno della “Alemanni hermanos” (almeno per quanto si riesce a leggere dall’insegna posta a una certa distanza dall’obiettivo) inquadrato in lontananza allo scopo di rappresentare l’edificio in tutta la sua imponenza.215 Nei paraggi continuavano ad apparire abitazioni di bassa fabbricazione.

213 L’immagine dell’abitazione in costruzione porta il codice 387 (MEGT), mentre la fonte citata di seguito è archiviata con il codice 388 (MEGT). Non solo dalle abitazioni, ma anche dall’aspetto dei coloni ritratti, si comprende che il loro tenore di vita è molto limitato.

214 Codice 385 (MEGT); l’emigrata si trova sulla sponda del Rio Negro in un punto dove appare un’isola fluviale. Dalla posa composta e dagli abiti curati si deduce che aveva l’interesse a farsi fare un ritratto adatto a dimostrare ai parenti ancora residenti in patria di aver trovato una sistemazione all’estero accettabile, nella speranza che in un futuro non troppo lontano le sue condizioni migliorassero.

215 Codice 389 (MEGT), ma è interessante anche la fonte 364 (MEGT), dove un gruppo di coloni toscani si concede una pausa durante la loro abituale routine di lavoro. Dagli abiti dei soggetti si deduce che si tratta di una

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La limitata condizione economica e sociale dei coloni di Villa Regina nei primi anni di vita in Argentina emerge anche in alcuni ritratti inviati ai congiunti ancora residenti sulla montagna toscana, in cui si nota la necessità di non mostrare riferimenti ai luoghi in cui gli emigranti vivevano per evitare di deludere i destinatari, a differenza di quanto aveva preferito fare la signora Cipolletti. Sono testimonianze indirette, ma significative quanto le fonti precedentemente citate, a patto di saper comprendere le ragioni prese in considerazione dai mittenti nel momento di scegliere gli ambienti che dovevano fare da scenografia alle loro fotografie.

Nei documenti iconografici di Francesco Mungai appare un giovane vestito in modo elegante con giacca e cravatta, che si era fatto ritrarre nello studio di un fotografo posizionato di tre quarti in due pose, una intera e l’altra a mezzo busto, con uno sfondo alle spalle costituito da tende di seta.216 Nelle intestazioni delle fonti non viene specificato se, come spesso accadeva, alle foto erano allegate delle lettere in cui l’emigrante spiegava le difficoltà che lui e gli altri coloni stavano incontrando a Villa Regina, ma se queste immagini prese come unico riferimento non ci possono dire niente sulle condizioni di vita all’estero del soggetto, indirettamente consentono di intuire che quest’ultimo abbia preferito evitare di fotografare il luogo in cui si trovava perché diverso dalle aspettative coltivate al momento della partenza.

È possibile interpretare allo stesso modo una fotografia leggermente posteriore (inizio anni trenta) della moglie di Mungai, Olanda Serravalle, di origine friulana, che si unì in matrimonio con l’agricoltore toscano nel 1931. Nella fonte appare una giovane donna con una bella pettinatura e una camicetta elegante, inquadrata con il volto rivolto di tre quarti e posta su uno sfondo scuro che non consente di intuire in quale il luogo fosse stata scattata l’immagine, anche se,

foto scattata per rappresentare la vita quotidiana di Villa Regina, per dare una prova dell’operosità che manifestarono questi emigranti nei primi anni di vita all’estero.

216 I ritratti di Francesco Mungai da giovane sono catalogati ai codici 370 e 371 (MEGT). Nell’intestazione del primo documento si ricorda che Mungai fu tra i fondatori della Colonia Regina, che era localizzata nella provincia di Cordoba.

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con buone probabilità, si trovava nello studio di un professionista. Anche in questo caso emerge la necessità di evitare una fotografia dove fosse visibile la zona in cui la migrante si era trasferita.217

L’immagine del “Circolo italiano” di Villa Regina è contemporanea alle fonti citate. Fondato nel 1926, anno in cui un gruppo di coloni veniva ritratto di fronte alla sede, il centro ricreativo era collocato in un edificio di grandi dimensioni completamente costruito in mattoni218 e rappresentava un punto di ritrovo, dove gli agricoltori si incontravano per discutere di politica e passare il tempo libero. FAI (Forza, Amore, Intelletto) era il nome che gli abitanti della colonia avevano scelto per il circolo, con un palese riferimento ai centri di aggregazioni promossi dal regime fascista per impegnare la popolazione in attività ludiche e culturali che potessero uniformare i modelli di comportamento e accrescere l’orgoglio nazionalistico. Franzina219 sostiene che la consapevolezza tra gli italiani di una stessa origine nazionale si è consolidata con largo anticipo all’estero rispetto a quanto è accaduto in patria. Così quando nella società italiana prevalevano ancora le distinzioni culturali a livello delle molteplici realtà regionali, nei Paesi dove gli arrivi erano più frequenti parallelamente alle abitudini locali, che sono sopravvissute a lungo e si possono notare ancora oggi nelle comunità composte da migranti italiani, si manifestavano avvicinamenti tra gruppi provenienti da diverse aree della penisola.220

La struttura voluta da Francesco Mungai e dagli altri fondatori consentiva di praticare alcune attività sportive come il calcio e le bocce, ma offriva anche uno schermo per il cinema, per non trascurare attività prettamente culturali, e rimase un punto di riferimento anche quando la colonia raggiunse verso la metà del XX

217 Si fa riferimento ai codici 373 e 374 (MEGT).

141 Oltre alla foto citata, catalogata con il codice 362 (MEGT), è interessante un’immagine degli anni trenta con il codice 375 (MEGT), in cui si ritraggono di fronte alla sede del Circolo Italiano i cinque soci fondatori (di cui non sono indicati i nomi), tra i quali compare sicuramente anche Francesco Mungai.

219 E. FRANZINA, Identità regionale, identità nazionale ed emigrazione all’estero, in AA. VV., L’identità

italiana: emigrazione, immigrazione e conflitti etnici, a cura di E. Bartocci e V. Cotesta, Roma, Editrice Lavoro,

1999, pp. 29-45.

220 Per affrontare il tema dell’identità nazionale da un punto di vista sociologico vedere M. A. TOSCANO, Prove

di società. Come uscire dallo stile pubblico «all’italiana», Roma, Donzelli Editore, 2011, in particolare le pp.

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secolo il pieno sviluppo con la costruzione di abitazioni moderne e la fondazione di aziende agricole all’avanguardia. In una foto degli anni cinquanta un nutrito gruppo di soci si faceva immortalare nella sala principale del circolo221 in occasione di uno dei numerosi momenti di aggregazione di cui si è parlato, che consentivano anche dopo vari anni di vita all’estero di riscoprire nelle attività da svolgere nel tempo libero le proprie radici culturali.

Altre occasioni di aggregazione sociale rappresentate nelle fonti iconografiche sono riferite alle cerimonie religiose222 e alle feste popolari, come le ricorrenze storiche a cui non partecipavano soltanto gli uomini, ma anche la popolazione femminile e, in alcuni casi, i bambini.

In un’immagine sempre datata 1926 la comunità di Villa Regina è raccolta di fronte alla facciata della chiesa disposta a ferro di cavallo per festeggiare in modo solenne, quindi dopo una celebrazione religiosa, la ricorrenza del XX settembre della Breccia di Porta Pia.223 Un appassionato di fotografia come Francesco Mungai non avrebbe documentato l’evento, se non avesse saputo che i suoi connazionali lo ritenevano uno dei giorni dell’anno più significativi per riscoprire le proprie origini storiche.

In una fonte successiva datata anni cinquanta si testimonia un momento della festa avvenuta presso la cooperativa “Unidad Agraria”, ancora un’occasione di aggregazione sociale in questo caso finalizzata a ricordare fino a quale risultato aveva portato a livello economico e produttivo il lungo e costante impegno degli agricoltori di Villa Regina.224

Un gruppo di foto appartenenti alla famiglia Mungai ancora degli anni cinquanta (purtroppo non sono riportate le date esatte in cui sono state realizzate

221 Si tratta della foto con il codice 363 (MEGT).

222 Un esempio per l’emigrazione lucchese sulla prosecuzione all’estero dei culti religiosi radicati nelle località di origine fin dal Medioevo è in D. ROVAI, Lucchesia terra di emigrazione, cit., pp. 9-10, dove si spiega che già nell’XI secolo il culto del Volto Santo era diffuso in varie città dell’Europa Occidentale e l’effige del crocifisso si poteva trovare sulle monete. Guglielmo II re d’Inghilterra era solito giurare per il Sanctum Vultum e il duca di Baviera intorno al 1100 mandava doni al crocifisso di Lucca.

223 L’immagine è catalogata con il codice 365 (MEGT). Si notano le dimensioni ridotte della chiesa della colonia, la cui facciata presenta un ampio portale.

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le fonti) può essere preso a modello per comprendere la trasformazione avvenuta nella colonia argentina in un periodo di circa tre decenni.

Francesco Mungai nacque a Pistoia nel 1904 da Michelangelo Mungai e Zefferina Tasselli, commercianti all’ingrosso di fiori e gestori di una bottega dove vendevano farina, tabacco e sale. Avuto l’esonero dal servizio militare, l’emigrante partì per l’Argentina nel 1923, lo stesso anno in cui a Buenos Aires la CIAC (Compagnia Italo-Argentina di Colonizzazione) acquistava le terre della Colonia Regina grazie all’opera di mediatore dell’ambasciatore italiano e al sostegno economico della Banca d’Italia, della Banca di Rio de la Plata e della Banca Francese-Italiana per l’America del Sud. Era un investimento volto a incrementare la colonizzazione in un territorio fertile, che rientrava tra le numerose iniziative promosse dal governo argentino in collaborazione con i vari enti interessati a favorire lo sviluppo agricolo e la crescita economica del Paese. Francesco Mungai, che aveva trovato sistemazione come bracciante a General Rocha e abitava presso i Bonacchi (una famiglia di toscani proprietari di un albergo), fu tra i primi agricoltori pronti ad aderire al programma della CIAC, affiancandosi ai fondatori della nuova colonia.225

I lavori di dissodamento del territorio, inizialmente volti alla realizzazione di un canale per l’irrigazione che doveva estendersi su tutta l’area da civilizzare, presero il via il 23 ottobre 1924 con gli strumenti forniti dalla compagnia che aveva promosso l’iniziativa.226 Dopo alcuni anni Villa Regina stava ormai assumendo la fisionomia di un centro agricolo in costante sviluppo; le condizioni di vita dei suoi abitanti erano migliorate e l’emigrante pistoiese si rese conto di avere l’opportunità di allargare la sua attività agricola impiantando una vasta coltivazione di frutteti.

da alcune bambine che hanno il ruolo di damigelle, ma nell’intestazione si rende noto il contesto in cui è avvenuta la manifestazione.

225 Le notizie sulla vita di Francesco Mungai e sulle origini di Villa Regina sono state prese dal sito internet

http://museogenteditoscana.it.

226 L’immagine catalogata con il codice 372 (MEGT) rappresenta un momento dei lavori di dissodamento delle terre della Colonia Regina, in cui si notano alcuni cavalli che tirano degli aratri in un territorio deserto e arido. In lontananza appare una piccola struttura murata simile agli edifici descritti nella parte iniziale del paragrafo, ma al

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A lui si unì Sabatino Incrocci, il socio insieme a cui riuscì a fondare non molto tempo dopo una ditta di esportazione di frutta negli Stati Uniti investendo i risultati economici del suo lavoro; un’azienda destinata, malgrado le grosse difficoltà iniziali, ad espandersi negli anni quaranta e cinquanta grazie alla costruzione di una segheria a essa collegata per la produzione delle cassette in legno in cui veniva riposta la merce e all’acquisto della “Regina 1”, una barca utilizzata per il trasporto della frutta a lunghe distanze.227 Francesco Mungai continuò a lavorare con costanza nel suo settore fino alla morte, sopraggiunta nel 1965 in seguito a una grave malattia.

L’agricoltore migrante trascorse l’infanzia all’interno di un ambiente sociale strettamente legato al lavoro della terra e i suoi genitori, che necessitavano di frequenti contatti con i floricoltori pistoiesi, portavano avanti un’attività commerciale simile all’azienda di esportazione che il figlio fondò in Argentina, anche se di dimensioni più ridotte. Tali considerazioni lasciano intuire che il colono abbandonò il luogo d’origine non solo per il sostentamento economico indispensabile alla sopravvivenza, come faceva la maggior parte dei partenti italiani tra XIX e XX secolo, ma anche con la speranza di mettere a frutto le proprie capacità lavorative e commerciali in una nazione dove i settori produttivi erano in piena crescita, comportamento che ricorreva tra gli italiani all’estero in possesso di capacità professionali.

Un’immagine ritrae al completo la famiglia di Mungai, ormai giunto in età avanzata, con la moglie Olanda, le figlie Ceferina, Angel e Liliana, il figlio Francesco e la nipote Lady (figlia di Liliana).228 Alle loro spalle appare un’abitazione di recente costruzione, con un elegante ingresso a forma di piccolo loggiato quadrangolare e un aspetto rustico, dovuto alla muratura in parte di mattoni e alla copertura sotto cui si intravedono i travicelli in legno. La casa è circondata da un ampio giardino di cui si nota solo la parte iniziale posta sulla

di là dei particolari paesaggisti, la datazione anni venti conferma che si tratta di una foto scattata nel periodo iniziale di sistemazione dei migranti nella colonia.

227 Vedere l’intervista a Liliana Mungai riportata sul dvd Donne lontane…, cit. 228 Vedere il codice 366 (MEGT).

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sinistra della foto, un altro particolare che consente di intuire l’apprezzabile tenore di vita dei proprietari.

Osservando gli abiti dei soggetti si giunge alla stessa conclusione, ma solo se si è in grado di spingersi oltre le apparenze, valutando attentamente ogni singolo particolare. I vestiti sono sicuramente di buona fattura, ma non sono stati scelti per l’occasione come accadeva nei ritratti sopra citatati di Francesco e Olanda da giovani, che avevano l’unico interesse di mandare una bella immagine per i destinatari. I componenti della famiglia Mungai appaiono in un momento qualunque della loro giornata; indossano abiti leggeri e, anche se non sono proprio quelli che usavano abitualmente (infatti appaiono di una certa eleganza), si capisce dalla posa spontanea dei soggetti che erano soliti sfoggiare indumenti di buon livello, a differenza di quanto si nota in altre foto di gruppi familiari dove i migranti indossano vestiti noleggiati o che usavano assai di rado.229

Da tutti i ritratti archiviati nel Museo dell’Emigrazione della Gente di Toscana, sia nelle immagini fatte negli studi fotografici, sia nelle foto scattate nei luoghi di residenza all’estero, emerge questa estrema cura nello scegliere i vestiti adatti all’occasione della foto ricordo, accorgimento che si estendeva anche ai bambini. Questi ultimi hanno sempre gli indumenti migliori previsti dalla moda del tempo: per le ragazzine, anche le più piccole, sono ricorrenti gli abiti bianchi con la gonna sotto le ginocchia, mentre i maschi spesso presentano un abbigliamento molto simile a quello degli adulti, tranne per i calzoncini.230 Negli anni cinquanta Francesco Mungai non aveva più bisogno di noleggiare gli abiti per il ritratto da fare in uno studio fotografico, dove un professionista lo sistemava su uno sfondo dipinto affinché non dovesse mostrare ai parenti

229 Sulle tecniche di osservazione dei ritratti e in generale del materiale iconografico si rimanda a M. R. OSTUNI, Belle foto, in AA. VV., Un filo tra due mondi, percorsi didattici sulla storia dell’emigrazione, cit. pp. 201-219.

230 Alcune fonti testimoniano il perdurare di un’estrema cura nello scegliere l’abbigliamento per il ritratto durante tutta la prima metà del XX secolo, come il codice 231 (MEGT) con cui è archiviata l’immagine (in realtà un fotomontaggio) del 1910 della famiglia di Roberto Fenocchi di Grondola, emigrato più volte negli Stati Uniti. Ma sono altrettanto interessanti il codice 237 (MEGT) del 1928 con la famiglia di Agostino Signorini, emigrato a Mato Grasso in Brasile da Gavinana, il codice 276 (MEGT) del 1935 dove appare Giovanni Tonelli con la moglie e le figlie, partito da Succisa per gli Stati Uniti e il codice 221 (MEGT) con l’immagine di due famiglie di Sassalbo emigrate negli anni sessanta in Australia.

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