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Panoramica generale dell'economia e delle infrastrutture del Regno delle Due Sicilie

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Capitolo I.

Panoramica generale dell'economia e delle infrastrutture del Regno delle Due Sicilie

Da ormai molti anni, la storiografia ha definitivamente demolito l'immagine stereotipata del Regno delle Due Sicilie come di un mondo retrogrado, con una burocrazia lenta e una povertà diffusa, dove nessuna modernizzazione era possibile, né economica, né sociale. Pioniera il tal senso fu la rivista Meridiana, fondata nel 1987, di cui riporto alcune significative parti della Presentazione nel suo primo numero, che va inteso come un “manifesto d'intenti”:

... se non si concepisce lo sviluppo come un processo puramente lineare, ma come un sistema complesso e instabile di relazioni multipolari, allora la questione del Mezzogiorno non può essere posta in termini di pura e semplice arretratezza , di mero ritardo (che sono poi categorie dotate anche di una implicita carica moralistica), ma si deve porre piuttosto in termini di analisi

delle interdipendenze, dei sistemi di correlazione, delle connessioni tra una molteplicità di luoghi, interni ed esterni alla realtà meridionale.

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Al gruppo di studiosi che animò tale rivista, dunque, si deve il primo incisivo attacco al leit-motiv storiografico fondato sulla visione dualistica e separata del Mezzogiorno, che ruotava attorno al paradigma dell'arretratezza e dell'immobilismo rispetto al resto del Paese. Ma questo è un argomento che affronteremo nel capitolo successivo.

L'immagine di un'economia principalmente agricola, ovviamente, poggia su concreti dati di fatto. Eppure non per questo si devono ignorare gli svariati campi in cui molti imprenditori meridionali, grandi o piccoli, si impegnarono, né gli investimenti di imprenditori stranieri che crearono le basi dell'industria meridionale nel periodo preunitario. Un apparato industriale, però, non nasce dal nulla, ma necessita di un retroterra su cui crescere, che vede l'intreccio di diversi

1 Presentazione, Meridiana, n. 1, 1987, pp. 10-11

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campi: politico, finanziario e commerciale. In questo primo capitolo, faremo un veloce panoramica per vedere quali erano le attività produttive che caratterizzavano maggiormente il Regno, con particolare riguardo per il settore industriale e manifatturiero, sì da mettere in luce le differenze, anche rilevanti, che intercorrevano tra le provincie dello stesso.

Direttamente collegato con l'economia è il discorso delle infrastrutture che lo Stato borbonico metteva a disposizione dei suoi sudditi, sia materiali (strade, ferrovie, porti) che immateriali (banche, istituti di credito ecc.). Discorso che, come vedremo, è tutt'altro che univoco e lineare quanto a giudizi.

Breve cenno sull'agricoltura

Poiché nei successivi capitoli si parlerà dello sviluppo agricolo in Terra di Bari come necessaria premesse alla formazione di un più moderno sistema economico, si rende ora necessario tracciare un quadro molto veloce e generale della situazione vigente nelle campagne meridionali all'inizio dell'Ottocento; soprattutto, si prenderanno ad esempio due aree del Regno, Campania e Puglia, che costituivano due poli di sviluppo economico.

Prima ancora dell'abolizione della feudalità (1806), già dal XVIII secolo vi erano stati degli sviluppi che, almeno nella parte continentale del Regno, avevano di fatto modificato la struttura della rendita feudale suddivisa in una parte minore derivata dai diritti feudali ed una maggiore invece dai redditi delle aziende agricole. In sostanza

Il barone che riceveva il grosso delle sue rendite dalle terre tendeva sempre più a diventare, di fatto, un proprietario borghese: le leggi francesi […] vennero soltanto a costituire una sanzione giuridica.

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A. Lepre, Il mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Napoli, Società editrice napoletana, 1979, p. 109 . Per questo paragrafo

ho seguito l'impostazione di questo lavoro di Lepre, in quanto era mio interesse dare solo una panoramica delle trasformazioni avvenute nel periodo trattato da questo mio lavoro, piuttosto che una dettagliata descrizione sullo stato dell'agricoltura regnicola.

Chi volesse approfondire la questione, può consultare i lavori Problemi di storia delle campagne meridionali nell'età moderna e contemporanea, a cura di A. Massafra, Bari, Dedalo, 1981 e P. Bevilacqua Agricoltura e storia delle campagne nel Mezzogiorno d'Italia, in “Studi Storici”, anno 23, n. 3, 1982, pp. 671-682

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Ma questo, beninteso, non significa che i rapporti sociali andassero modificandosi, né che nelle campagne andassero sviluppandosi forme di produzione capitalistiche; difatti il rapporto dei contadini con la terra rimase in molte zone, soprattutto quelle più povere, immutato rispetto ai secoli precedenti, e i rapporti di produzione non avevano subito modifiche sostanziali.

Se dopo il 1806 i residui feudali (ovvero prelievo di surplus effettuato con una coercizione extra-economica) cessano di esistere, sopravvivendo solo nelle zone più arretrate, i modi di produzione precapitalistici perdureranno molto più a lungo, con particolare riferimento alla produzione artigiana e contadina, la cui diffusa presenza è ampiamente documentata. In molte zone del Regno, la grande diffusione del piccolo possesso (sull'intera popolazione agricola, almeno il 60% era costituito da possidenti) ritardò di molto l'applicazione di criteri di produzione più moderni, adatti per la conduzione di un fondo esteso, non certo per piccoli fazzoletti di terra. Nella stessa Terra di Bari, che pure era una delle province più floride del Regno, l'incidenza della piccola proprietà raggiungeva una media tra il 65 e il 71%, seguendo l'esempio di regioni più povere come Capitanata e Basilicata

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.

Dopo l'abolizione della feudalità, la piccola proprietà si diffuse più che mai, eppure ciò (se inizialmente diede luogo ad un aumento della produzione), non comportò un miglior grado di sviluppo delle forze di produzione. La spiegazione di questo fenomeno la fornisce Lepre

l'aumento del numero della proprietà particellare […] li lasciava (i contadini) pur sempre legati alle vicende delle stagioni, in un rapporto uomo-natura che era ancora quello dell'Antico Regime.

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Essi non rientravano quindi nel tipo di economia mercantile, in quanto la loro produzione era volta all'autoconsumo (idealmente, perché sovente le necessità derivanti dal pagamento dei tributi rendeva necessario un momentaneo ingresso nel mercato), sopratutto nelle zone interne e meno toccate dal mercato. Diversa storia valeva per l'olio, coltura specializzata a diretto contatto coi

3 Lepre, op. cit., p. 117 4 Ibidem, p. 119

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mercati in quanto coltivato in aree a forte inserimento nei mercati.

Per quel che riguarda le aziende agricole, invece, non pare che vi fossero usati metodi moderni di gestione (potremmo quasi dire capitalisti), sopratutto nel caso della cerealicoltura: i grandi proprietari davano le terre in affitto ai contadini in cambio di un terraggio

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in natura. Questi ultimi, detti “fittavoli”, si andarono sviluppando come strato sociale in concomitanza col Decennio francese ed erano di due tipi: il massaro, che coltivava estesi possedimenti apportandovi “le convenienti doti industriali: cioè “gl'istrumenti rurali, i buoi aratori, animali da trasporto, pecore per gli ingrassi e talvolta anche sementi”

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e il versuviero, ossia chi coltivava piccoli appezzamenti di terra con la sola forza delle sue braccia

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. Sopratutto nel primo caso ci si poteva avvicinare al tipo di fittavolo inglese, così come lo intendeva il Palmieri

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, rientrando nella categoria dei “fittavoli capitalisti”, che cioè possedevano i mezzi di produzione (strumenti da lavoro, animali ecc.).

Tuttavia anche nelle migliori delle situazioni, prendendo in esame le masserie di Puglia e Campania, la rendita aveva sempre un ruolo preponderante rispetto al profitto, in quanto la maggior parte dell'utile che veniva ricavato andava al proprietario del terreno, la cui quota rappresentava l'87% dell'utile, mentre al fittavolo andava solo il 13%

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.

Anche se spesso si è convinti del contrario, il Regno delle Due Sicilie non era un grosso esportatore di grano. Non producendo ingenti surplus, data la consistenza della popolazione del Mezzogiorno continentale (5 milioni di abitanti), per i quali si calcola fossero necessari 5 tomoli di grano ciascuno, e data la resa media che superava di poco la proporzione di 1:5, solo il ruolo dei succedanei e del frumentone (basi della dieta delle classi povere) permettevano al Regno di esportare grano, nella magra percentuale dello 0,6% di tutta la produzione, in quanto

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“Denominazione consuetudinaria (anche terratico, terraggio) dell’affitto di un terreno a coltivazione diretta con canone in natura, determinato in misura fissa, indipendentemente dai risultati della produzione; è un contratto in uso in territorî a coltivazione estensiva, che consente la messa a coltura di appezzamenti a rendimento marginale, ed è normalmente limitato alla durata della coltura (in genere, cereali) e comunque non supera l’annata agraria.” Da http://www.treccani.it/vocabolario/terraggeria/

6 Lepre, op. cit., p.127 7 Ivi

8 Lepre, op. cit., p. 127 9 ibidem, p. 129

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Il mercato importante era soltanto quello interno e in esso occupava un assoluto rilievo quello della capitale, che ogni anno aveva bisogno di 3 milioni di tomoli di grano.

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In alcune regioni era più che altro una maggiore disponibilità di terreni arabili che garantiva la formazione di un surplus granario. Certo questo non bastava , e bisogna abbinarvi la maggior fertilità dei terreni. Le province che disponevano di tale fortunato binomio erano 4 ed erano quelle che, da secoli, alimentavano il mercato interno: Terra d'Otranto, Capitanata, Basilicata e Abruzzo Ulteriore Primo. Ma date le premesse si può indicare che si era ancora a livelli antecedenti la rivoluzione agricola, in un regime di agricoltura estensiva. Unica piccola eccezione era la Terra di Lavoro, che pur avendo minori superfici coltivabili, riusciva anche ad esportare.

Le rese dei terreni variavano da zona a zona, a seconda della tipologia di terra presente, del clima e di numerose altre varianti. Ad esempio, in Puglia la resa di un terreno coltivato a grano era di 1:8, mentre in Campania un buon terreno concimato arrivava anche a 1:16; tuttavia va considerata la grande varietà di rese presenti anche all'interno di una stessa regione.

In complesso, per quanto riguarda il grano, la maggior parte del Regno sembra vicina ad un'economia di sussistenza, un terreno certo non adatto allo sviluppo del capitalismo agrario.

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Il margine d'utilizzo delle forze produttive (e le possibilità di reinvestimento) per un maggiore sviluppo in senso moderno e capitalistico delle campagne erano decisamente ristretti nel caso della cerealicoltura, che non a caso rimarrà a lungo la coltura più arretrata del Mezzogiorno, sia nel pre che nel post-unitario. Diversi i casi della vite e, ancora più, dell'olivo, che invece grazie alle migliori rese, prezzi migliori e maggiori libertà di commercio riuscirono a produrre utili tali da rendere conveniente ai proprietari dei terreni investirvi per ottenerne rese ancora più alte e dunque maggiori profitti. Caso emblematico è quello dell'olio per la provincia di Bari, di cui si tratterà più

10 Lepre, op. cit., pp. 132-33 11 Ibidem, p. 135

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tardi.

Un altro elemento di debolezza che connotava l'agricoltura meridionale, sopratutto nelle aree più povere e lontane dal mare, era l'arretratezza degli strumenti usati nel lavoro agricolo, tanto che in alcune zone “l'aratro è ancora […] quello di Columella”

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, mentre ancora irrilevante era il ricorso alla concimazione, a causa della mancata introduzione dei prati artificiali.

Occorre dire due parole di più sulla figura del contadino, spesso una figura indistinta, in quanto bracciante e possidente di un piccolo fazzoletto di terra al tempo stesso, la cui esistenza in questa forma era dovuta al fatto che “non c'è stata nel Mezzogiorno un'espropriazione generalizzata portata fino alle estreme conseguenze”

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, ovverosia non si era attuata la separazione del piccolo produttore dal mezzo di produzione (la terra), grazie alla diffusione di quei metodi di produzione pre-capitalisti cui abbiamo accennato, che consentivano la sopravvivenza di larghe fasce di bracciantato precario ed al contempo erano alla base di un un'economia basata sulla produzione estensiva. Fu questo il grave limite dell'agricoltura meridionale, un limite che pesò ancora a lungo sulle vicende del Mezzogiorno. Va detto anche che clima e terre, nel Mezzogiorno, sono due fattori non molto favorevoli all'agricoltura intensiva, data la durezza e secchezza dei terreni (poco adatti quindi alle macchine agricole usate nei più molli terreni del Nord Europa) e la scarsezza di precipitazioni, nonché le condizioni climatiche con il binomio inverno mite / estate arida.

Una migliore situazione presentavano invece le colture orticole, quelle si intensive, in Puglia e in Campania sopratutto, ma presenti anche in alcune zone particolarmente fertili della Calabria e della Sicilia (valga come esempio la Conca d'Oro palermitana). Dove il clima era particolarmente favorevole e l'acqua abbondante, furono possibili le coltivazioni di agrumi, mentre dove quest'ultima era più scarsa (come in Puglia, quasi del tutto priva di fiumi e mancante di abbondanti precipitazioni) furono introdotte con successo colture legnose adatte ai suoli aridi: fico, ciliegio, mandorlo, ulivo e vite

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.

12 Lepre, op. cit., p. 137 13 Ibidem, p. 148

14 M. Vocino, Primati del Regno di Napoli, Grimaldi Editori, Napoli, 2007, pp. 62-63

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Il panorama manifatturiero-industriale: l'agroalimentare

Nel Regno vi erano molti generi di manifatture che andavano dal semplice lavoro a domicilio sino ai grandi stabilimenti pubblici come Capodimonte o San Leucio. Tuttavia, non essendo questi direttamente collegati col tema di questo lavoro, ci concentreremo sul settore più variegato e diffuso in tutte le provincie del Regno, ossia quello di trasformazione dell'agro- alimentare, che presenta un curioso mix di imprese manifatturiere ed altre più propriamente industriali.

Tra le attività di trasformazione agro-alimentare più antiche del Regno c'erano i pastifici.

Già dal Settecento, infatti, i maccheroni erano diventati un vero e proprio piatto nazionale, tant'è che nella stessa cucina reale si rese necessaria l'installazione di una “maccheroneria” di proprietà reale, con macchine destinate alla produzione sin dal 1776

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. Proprio sulla scia di questa scelta, in quegli anni fu favorita la pubblicazione di una sorta di manuale per avviare un pastifico moderno (Novello e grande stabilimento di paste coll'uomo di bronzo per togliere l'uso abominevole di impastare coi piedi, costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà

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), in cui venivano indicate non solo le macchine e le attrezzature ritenute indispensabili, ma persino le norme necessarie per garantire l'igiene, la produttività e una proficua commercializzazione

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: un vero e proprio vademecum ad uso di quanti volessero investire in questo settore. Tale pubblicazione dovette

ottenere un certo successo, visto l'elevato numero di pastifici che si svilupparono da quel momento in poi, sopratutto nella zona di Gragnano. In molti casi, però, si trattava di aziende “artigianali” e molte lo rimasero sempre; e però, fu da questo nucleo che uscirono quelle aziende che divennero, nel tempo, capaci di meccanizzarsi e ammodernarsi tanto da passare nella categoria delle imprese industriali vere e proprie. L'alto numero di fabbriche presenti non sta certo a significare che tutte queste imprese fossero di grosse dimensioni, anzi la maggior parte erano abbastanza piccole e

15 G. De Crescenzo, Le industrie nel regno di Napoli, Grimaldi Editori, Napoli, 2012, p. 35

16 Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste coll'uomo di bronzo per togliere l'uso abominevole di impastare coi piedi, costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà, Napoli, 1853; da De Crescenzo, op. cit., p. 36

17 Gargiulo-Quintavalle, L'industria della pastificazione a Torre Annunziata e Gragnano, in “Manifatture in Campania”, Napoli, 1983, p.180; da De Crescenzo, op. cit., p. 36

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tradizionali. Tuttavia, i pastifici della provincia di Napoli raggiunsero degli ottimi risultati commerciali tanto in Italia, quanto all'estero, grazie sopratutto alla notevole presenza di mulini adibiti alla produzione per il mercato, per la tendenza a realizzare impianti a ciclo completo e grazie all'investimento di buoni capitali

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. A riprova di ciò, la produzione delle paste napoletane fu premiata all'esposizione universale di Parigi (1856), e non era certo un caso che questo riconoscimento arrivasse in un momento in cui la produzione si era diffusa in tutto il Regno: a Napoli e a Gragnano, dove c'erano “81 macchine per manifatture di maccheroni e 28 macchine per molire i cereali” (famosi e antichi gli stabilimenti di Emiddio di Nola e di Garofalo), a Torre Annunziata, a Ischia con una fabbrica per le paste lavorate che dava lavoro a 20 persone, a Rapolla presso Melfi con 40 operai; e dalle Puglie alle Calabrie, sopratutto nelle zone di Bari, Molfetta, Barletta, Crotone, Cosenza e Catanzaro

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. Il piccolo calibro di molte industrie non inficiava la presenza di punte di avanguardia, ed anzi su circa un centinaio di stabilimenti, in molti si erano oramai diffusi gli impianti azionati a vapore

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, col risultato che i maccheroni venivano esportati praticamente in tutto il mondo

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. Sempre in Campania, i settori maggiormente sviluppati erano la concia e quella conserviera, con la prima che vedeva un grosso numero di opifici meccanizzati di medie dimensioni concentrati in luoghi ben precisi, fatto dovuto dalla necessità di reperire fattori come disponibilità di acqua e scoli, oltre alle necessarie conoscenze tecniche, non reperibili ovunque con facilità. Maggior flessibilità nella localizzazione dell'attività avevano invece i settori della molitura e della conservazione, che garantiva loro la possibilità di stabilirsi quasi ovunque e, sopratutto, di creare grossi stabilimenti produttivi, pur se la micro-impresa familiare era diffusissima. Sopratutto per la lavorazione della pasta, è curioso notare come molte imprese nascessero in prossimità degli stabilimenti metalmeccanici, come a Torre Annunziata e Castellammare, forse per provvedersi dei macchinari necessari alla lavorazione e poterli riparare qualora vi fosse bisogno.

18 S. De Majo, Manifattura e Fabbrica, in Napoli, un destino industriale, a cura di A.Vitale – S. De Majo, Napoli, 1992, p.80 19 De Crescenzo, op. cit., p. 36

20 ibidem, p. 37 21 ivi

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Nel settore degli alcolici, nonostante fossero presenti birrifici e distillerie (sopratutto in Campania

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) era il vinicolo a farla da padrone, settore che ebbe un lento ma costante fenomeno di modernizzazione, pur se nella maggior parte dei casi si trattò di semplice crescita della produzione e non della produttività. Ciò detto, è innegabile la presenza di effettivi miglioramenti, per quanto graduali, che si rifacevano anche ad esperienze di altri paesi. Una delle esperienze più interessanti del settore vinicolo in questo senso, fu quella della Società Enologica, fondata su principi analoghi a quelli della sua “sorella” Toscana, attiva negli stessi anni, che nasceva

1° collo scopo di migliorare la manifattura di vini; 2° di avere uno Stabilimento di distillerie di acquavite, ed altri liquori; 3° di attivare il commercio di questi articoli con l'estero

e sopratutto di

estendere alla Toscana tutte le proprie operazioni, in modo che coloro i quali si dedicano alla coltura delle viti risentano generalmente i vantaggi che da questa istituzione deriveranno.

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Proprio come la sua omonima toscana, la Società napoletana si proponeva come obbiettivi l'incremento della produzione e della sua qualità. Era stata inoltre fondata dalla stessa Società una apposita rivista, col compito di raccogliere notizie sui siti e sull'estensione delle vigne, sulla quantità di vino che producevano, sul gusto e sul profumo che distinguevano un vino dall'altro, sui metodi di coltivazione e produzione, sulle ragioni che rendevano i vini più o meno pregiati, sui metodi di trasporto per mare e per terra, notizie e dati che poi si curava di pubblicare sul Giornale da lei gestito per approfondire gli stessi temi. Inoltre tale Società era anche un centro produttivo:

possedeva delle cantine in proprio per le sperimentazioni tra le vaste grotte di Posillipo e a Pozzuoli

22 De Crescenzo, op. cit., p. 37

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Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, Editori degli Annali Universitari, 1836, Milano

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con oltre 30.000 botti

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.

L'altro grosso settore dell'agricoltura volta al mercato, estero in buona parte, era quello dell'olio (sopratutto quello pugliese), che era una delle maggiori esportazioni del Regno, il che lo rendeva estremamente prezioso e remunerativo. Ciò spiega agevolmente come mai molti imprenditori (anche stranieri) investissero molto denaro nei trappeti, diffusi sopratutto in Puglia, che grazie ad apporti di capitale e conoscenze di imprenditori forestieri si cominciavano ad organizzare a livello industriale per sostenere il ritmo di un'esportazione diretta quasi in tutto il mondo: ogni anno si esportavano circa 200.000 salme di olio per un valore di 5 milioni di ducati. Per avvantaggiarsi nei confronti dell'olio prodotto nel Levante e nel Nord Africa, si sfruttava l'alternanza dei raccolti biennali di Puglia e Calabria, così che quando gli olivi pugliesi riposavano dopo un anno di carico, quelli calabresi davano frutti e viceversa. Ciò metteva così a disposizione un raccolto all'anno. Le vastissime esportazioni da Bari, Bisceglie, Gallipoli, Molfetta, Manfredonia, Mola, Gioia. Monopoli, Ortona, Reggio, Catanzaro, Procida, Castellammare e Napoli raggiungevano Genova, Venezia, Trieste, Amburgo, Liverpool, Marsiglia, New Orleans, New York, Pietroburgo, Istanbul, Buenos Aires e Rio de Janeiro. In particolare, il porto di Gallipoli deteneva il monopolio sull'esportazione dell'olio di qualità pregiata per le sue ottime cisterne tagliate nella roccia

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. Ma affronteremo questo argomento più approfonditamente in un'altra sezione di questo lavoro.

Pasta, olio e vino erano certi i settori principali, ma vi erano settori più limitati ed altrettanto interessanti, come le diverse fabbriche che lavoravano la liquirizia, sopratutto in Calabria (tra le più consistenti quella del barone Barraco) e in Puglia, che contavano diverse centinaia di addetti e un buon livello di esportazioni, sopratutto in America, verso la quale l'esportazione di liquirizia era aumentata, anche grazie alle nuove tecnologie utilizzate in fabbriche come quelle dei Carafa a Foggia, dove erano state introdotte molte migliorie: maggiore potenza di compressione, migliore

24 De Crescenzo, op. cit., p. 41 25 Ibidem, p. 43

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distillazione, raffinazione e cottura. Per questo settore, gli stabilimenti più produttivi erano quelli di Altilia, San Lorenzo di Vallo (39 addetti), Isola (Calabria) e di Silvi (presso Teramo) con 47 addetti.

Diverse attività si occupavano del settore della conservazione e la salagione del pesce, di insaccati, di miele (sopratutto a Macchie in Terra d'Otranto); buona la produzione di zucchero (con lo zuccherificio della Società Industriale Partenopea di Sarno), alla quale erano correlate numerose fabbriche di dolciumi e di cioccolato. Anche per i prodotti caseari, tradizionalmente prodotti nel Regno, si vide emergere intorno al 1850 alcune realtà artigianali che si trasformarono in piccole strutture industriali, sopratutto presso Caserta, nel Salento e presso L'Aquila

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.

Questo nuovo approccio all'agricoltura, che consentì nelle aree più ricche del Regno (limitate essenzialmente alle provincie campane di Napoli, Salerno e Terra di Lavoro da un lato e quelle di Terra di Bari e Terra d'Otranto dall'altro, con piccole isole in Abruzzo e Calabria) l'emergere di settori di trasformazione agro-alimentare o legati al commercio specializzato, è frutto dei tempi nuovi, con la rivoluzione del pensiero avvenuta nel XIX secolo e portata a conoscenza degli imprenditori napoletani e pugliesi dai loro contatti toscani, i primi ad applicare i principi dei pensatori economici francesi della “agricoltura come manifattura”

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. Ciò non deve stupire: Livorno era porto franco battutissimo dalle navi napoletane e legami tra imprenditoria toscana ed esponenti governativi, intellettuali ed economici del Regno avvenivano sin dai tempi di Antonio Genovesi.

Il polo industriale campano

Il settore trainante della seconda rivoluzione industriale fu certamente quello metallurgico, un settore che, lo vedremo, dette vita ad alcune delle migliori industrie napoletane. Tuttavia, ancor prima esistevano delle manifatture spesso legate al settore militare, che già lavoravano materiali ferrosi, ovvero le ferrerie, a mio parere ben giustamente considerate le precorritrici della successiva

26 De Crescenzo, op. cit., p. 45

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G. Biagioli, “Agricoltura come manifattura”: le condizioni per lo sviluppo agricolo, in G. Biagioli – R. Pazzagli (a cura di) Agricoltura come manifattura: Istruzione agraria, professionalizzazione e sviluppo agricolo nell’Ottocento, “L'Officina dello storico” vol. IV, Olschki, Firenze, 2004, pp. 69-80

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industria metalmeccanica che fiorirà in Campania grazie alla politica autonomista ed autarchica di Ferdinando II. Era la medesima politica che aveva in mente Carlo di Borbone quando creò una manifattura di fucili nelle famose ferriere di Stilo in Calabria e quando decise, nel 1743, di fondarne una seconda, che produceva fucili portatili, presso Torre Annunziata, sede di un'area demaniale manifatturiera molto vasta e ricca di acque utili per l'energia grazie alla vicinanza del canale artificiale del Sarno

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. Fatta questa premessa, passiamo ora a vedere come fosse strutturato il territorio identificabile come polo industriale campano.

Con polo industriale non si va solo a indicare un luogo geografico dove si concentrano lavorazioni industriali, ma anche un tessuto produttivo fortemente integrato nelle sue varie articolazioni. Un reticolo di aziende grandi, medie e talvolta piccole che danno vita a cicli produttivi integrati tra loro, talvolta le une in funzione delle altre. Questo è ravvisabile in Campania, dove grazie al sostegno regio ed agli incentivi economici offerti, si vennero delineando 3 “distretti industriali”, che insieme creano il polo vero e proprio: Napoli e dintorni, sede delle principali fabbriche metalmeccaniche e di alcune produzioni tessili, Salerno e Terra di Lavoro, specializzati nel tessile. Grazie al forte protezionismo doganale, nel corso dell'Ottocento preunitario nella Valle del Liri, a Piedimonte e nella Valle dell'Irno si verificò un processo di trasformazione dell'industria a domicilio in fabbrica, processo aiutato dalla disponibilità di energia idrica e dalla tradizione tessile della zona. Questi due fattori, unitamente al costo contenuto della manodopera ed al già citato protezionismo borbonico, incentivarono alcuni imprenditori svizzeri ad investire nel settore tessile, portando con loro capitali e manovalanza specializzata, così che in poco tempo sorsero i cotonifici meccanizzati di Piedimonte Matese, Salerno, Pellezzano, Angri e Scafati; mentre linifici e canapifici sorsero principalmente a Sarno. Minor fortuna ottenne il settore della seta, da tempo in lento declino, sicché l'unico setificio degno di nota era San Leucio.

Quasi nulla si trova a Napoli per il settore tessile, con l'eccezione di pochi nomi (Betz,

28 Rubino, La Real Fabbrica d'armi a Torre Annunziata e l'opera di Fuga, Sabatini e Vanvitelli, in “Manifatture in Campania”, Napoli, 1983, p.116; in De Crescenzo, op. cit., p. 93

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Maresca, Guarnieri ecc.) che disponevano di ampi locali concessi dallo Stato e a cui si aggiungerà, dopo gli anni '30 dell'Ottocento, la Società Industriale Partenopea. Escluse queste eccezioni, l'industria tessile napoletana vedeva il dominio della quantità sulla qualità della lavorazione, meccanizzazione quasi del tutto assente e una pletora di lavoratori non specializzati. Ben prima dell'Unità, che mise temporaneamente in crisi le fabbriche degli svizzeri esponendole alla competizione con le industrie del nord (non certo più tecnologiche, ma abituate a lavorare in regimi concorrenziali) e dell'industria estera, il settore tessile di basso spessore industriale fu messo in crisi dalla grandi fabbriche meccanizzate salernitane e di Terra di Lavoro, che comunque funsero da pungolo per la costituzione di piccole aziende ad esse collegate

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. Il più grosso polo conciario si trovava a Castellammare, vicino ai cantieri navali, per l'ovvia ragione che poteva usufruire di abbondanza di acque sorgive, della vicinanza del mare dove riversare le acque reflue dopo la lavorazione e della lontananza del centro abitato, che consentiva di praticare lavorazioni che emanavano pericolose esalazioni per la salute. Da quando due imprenditori francesi, Tesser e Haller, durante il decennio francese avevano creato stabilimenti con i più moderni e innovativi sistemi di lavorazione delle pelli (locali più grandi, ampiezza delle fosse dove praticare la macerazione e spanditoi dove far asciugare le pelli, meccanizzazione della macinazione delle cortecce per ricavare il tannino usando energia idraulica), si era andata formando una manodopera sempre più specializzata e, sopratutto, un'imprenditoria più moderna che aveva poi messo su proprie imprese, spingendo il governo a rivolgersi sempre più a queste invece che all'estero, incrementando così la produzione in un circolo virtuoso

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.

Stando a quanto sostenuto da De Majo, è impossibile tracciare un filo conduttore continuo e regolare per le industrie meridionali, in quanto convivevano settori fortemente arretrati con esperienze assolutamente moderne ed innovative. Oltre a ciò, la disorganica politica di protezione statale (frammentaria e spesso modificata) con le sue oscillazioni nelle politiche di sostegno, come

29 S. De Majo, Manifattura e Fabbrica, in A. Vitale- S. De Majo, op. cit., pp.68-71 30 Ibidem, pp. 80-81

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tariffe doganali e altri decreti, rende lo sviluppo delle stesse industrie incerto e legato ai favori sovrani, dato vero sopratutto per gli imprenditori napoletani. Non a caso, i momenti di maggiore espansione dell'industria sono quelli legati al Decennio e al biennio 1823-24: in entrambi casi, è il protezionismo (blocco continentale nel primo, emanazione di nuove tariffe doganali nel secondo caso) a fare da volano per lo sviluppo, pur se durante il decennio francese innegabili sono i meriti delle innovazioni del tessuto sociale e produttivo, con l'eversione della feudalità e l'introduzione da parte di imprenditori stranieri di nuove e più moderne tecniche di produzione. De Majo arriva anche alla rottura di uno schema interpretativo semplicistico “Unità d'Italia/Crisi industrie meridionali”

molto diffuso, asserendo che

non si verifica (con l'Unità) la fine di un acme e l'inizio di un irreversibile declino; sia perché l'espansione preunitaria è in fondo modesta, sia perché solo pochi settori particolarmente arretrati […] ricevono un colpo mortale; gli altri si limitano a qualche mese o anno di difficoltà, a cui fa seguito una buona ripresa e un ulteriore sviluppo.

31

Diverso il caso della metalmeccanica, che vive la sua espansione nel periodo 1845-46 (quando, cioè, le tariffe doganali erano state sensibilmente ribassate proprio per favorire l'importazione di materie prime necessarie al suo sviluppo), sopratutto grazie alle commesse pubbliche o alla diretta direzione statale, con tutte le fabbriche localizzate nella capitale, mentre per il settore tessile e del cuoio non ve n'è nemmeno una (salvo quella di Sava, poco meccanizzate e piena di operai non specializzati a bassissimo salario) a causa del fatto che non vi erano fonti idriche da sfruttare per ricavare energia. Facile dunque capire come la fine del Regno abbia condannato questo settore al declino.

Un grosso problema che peserà molto sullo sviluppo dell'industria meridionale è anche l'atteggiamento stesso della borghesia, abituata a investimenti poco rischiosi e redditizi, che

31 S. De Majo, Manifattura e Fabbrica, op. cit., p. 22

(15)

orientavano i proprio capitali verso commerci, assicurazioni e speculazioni finanziarie, come dimostra innegabilmente la scarsa partecipazione in società che si proponevano di sostenere l'industria (peraltro poche, rispetto a quelle di assicurazioni sorte tra 1818-1833). Fatti questi necessari preamboli, vediamo quali aziende formavano i due rami principali dell'industria napoletana, ossia la metalmeccanica e il tessile.

Il ramo dell'industria metalmeccanica, si diceva, era il settore più vitale dell'industria napoletana. Il comparto statale era promosso dal governo borbonico che perseguiva progetti di rafforzamento del suo esercito e della marina per tutelare la propria indipendenza e l'ordine al suo interno; ma anche il comparto privato deve la sua nascita e il suo sviluppo alle politiche borboniche che volevano avviare una poderosa modernizzazione del Regno tramite la costruzione di moderne infrastrutture quali ferrovie, nuovi porti ecc. Come si diceva in precedenza, le fabbriche metalmeccaniche sono quasi tutte collocate nei dintorni di Napoli (le statali praticamente esistono solo qui) e risultano essere ben meccanizzate, servite da motori a vapore, dotate di un notevole numero di operai e caratterizzate da un buon livello produttivo. Quattro sono i più antichi stabilimenti statali (Arsenale di artiglieria, Fonderia, Fabbrica d'armi e Real Montatura d'Armi)

32

, che conosceranno il loro apice negli anni '40 dell'Ottocento, quando verranno affiancati dal moderno opificio di Pietrarsa, unico stabilimento a non avere una produzione esclusivamente bellica ed anche il più tecnologicamente avanzato

33

, e produrranno anche per l'esportazione. Ma poiché lo scopo di Pietrarsa era affrancare il Regno dalla dipendenza dalla tecnologia straniera e raggiungere l'autarchia produttiva, esso venne condotto in modo troppo paternalistico ed antieconomico, tant'è che i suoi costi di produzione risultavano molto alti, talvolta anche 4 volte più alti di analoghe produzioni estere; ciò nonostante, è innegabile che le vadano tributati due grandi meriti: la riduzione del gap tecnologico con l'Inghilterra e la formazione di tecnici ed operai specializzati, senza contare l'indotto prodotto per altri opifici o attività collegate

34

. Voluto da

32 Montù, Storia dell'artiglieria italiana, Roma, 1938, Vol. V, pp. 2663-2667, 2671-2688; da De Majo, op. cit., p. 44

33 Si veda L. De Rosa, Iniziativa e capitale straniero nell'industria metalmeccanica del Mezzogiorno, Giannini Editore, Napoli, 1968

34 De Majo, Manifattura e fabbrica, op. cit., p. 46

(16)

Ferdinando II, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, a pochi km da Napoli, il Reale Opificio di Pietrarsa fu costruito nel 1842 sul suolo di una vecchia batteria a mare. Al momento dell'Unità, era la fabbrica metalmeccanica italiana che occupava più personale: nel giugno 1860 vi lavoravano 1050 persone, 820 “artefici paesani” e 230 “operai militari”. Pietrarsa fu un esempio imitato in seguito nel Regno (e vale la pena ricordare che la fabbrica fu ammirata persino all'estero). Vi si producevano caldaie, motrici e macchine a vapore di diversa potenza (per pirofregate come l'Ettore Fieramosca o per altre officine) e le locomotive complete con sistema Stephenson (fino al 1853 ne erano state costruite 6; 20 complessivamente fino al 1860)

35

. Si producevano poi anche torni, spianatrici, fucine portatili, magli a vapore, cesoie, foratrici, gru, affusti di cannone, apparecchiature telegrafiche o granate, bombe, pompe, fusioni in bronzo, ferri, laminati e trafilati o parti di ponti in ferro (napoletano era stato, del resto, il primo ponte in ferro costruito in Italia); 200 le cantaia di acciaio prodotte ogni giorno (5400 tonnellate l'anno); di oltre un milione di ducati gli investimenti complessivi. Numerose erano state le fusioni in bronzo anche per le statue di re e principi

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. Centrale il ruolo che ebbe nella promozione delle ferrovie: era a Pietrarsa che si producevano le rotaie (era l'unico stabilimento italiano a produrle), i carri-merci, i cuscinetti, i manufatti di acciaio e le ruote per locomotive che venivano utilizzate nel Regno; inoltre, alla fabbrica venne annessa, con decreto del 15 luglio 1845, la scuola per macchinisti e fuochisti, per mezzo della quale ci si voleva affrancare dalla dipendenza inglese e fu, probabilmente, voluta dal re dopo l'esperienza dei macchinisti inglesi che avevano minacciato di abbandonare le navi della marina militare napoletana durante le controversie sorte con l'Inghilterra sulla concessione degli zolfi siciliani. L'opificio importava frequentemente metalli e materie prime in franchigia, come era prevedibile data la scarsezza di risorse del sottosuolo meridionale.

Una parte molto attiva in quel periodo la ricoprono due industrie gestite dalla Marina militare, cioè il Cantiere di Castellammare e l'Arsenale di Napoli: nella prima si producono navi di

35 De Crescenzo, op.cit., p. 113 36 Ivi

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ottima qualità per la flotta borbonica (e talvolta anche per privati), mentre nel secondo generalmente si armavano le navi prodotte a Castellammare. A riprova della qualità raggiunta da queste produzioni, vale la pena sottolineare che il settore statale borbonico sopravvisse bene alla crisi unitaria sino agli esordi della prima guerra mondiale, tant'è che, studiando la loro attività nel periodo post unitaria, De Majo afferma che, sopratutto per Castellammare e Pietrarsa “pressoché inesistente è la crisi del passaggio nel 1860 tra le due amministrazioni statali (Regno delle Due Sicilie e Regno d'Italia)

37

”.

Come detto, Pietrarsa era nata per sottrarre il Regno dalla dipendenza tecnologica dai paesi industrializzati. Un tale desiderio si capisce appieno solo tenendo presente che il settore metalmeccanico privato napoletano era costituito quasi esclusivamente da imprenditori e capitali stranieri: negli anni '30-'40 vengono fondate la Zino&Henry, la Luigi Oomens, la Matherson & C.

ecc. Con l'eccezione del primo, nessuna di queste sopravvisse a lungo, poiché si trattava di piccoli opifici gestiti da modesti meccanici con scarse conoscenze scientifiche e pochi capitali. La Zino&Henry, invece, progredì sensibilmente sino ad arrivare a livelli di estensione sconosciuti ad altre imprese, impiegando molta manodopera qualificata e utilizzando grandi quantità di forza motrice per la lavorazione dei suoi prodotti

38

, tutto ciò reso possibile dall'entrata nella società del capitalista calabrese Gregorio Macry, uno dei pochi meridionali attivi nel settore in questo periodo.

Dalle fabbriche di Lorenzo Zino e Francesco Henry erano usciti, tra l'altro, la grande ruota meccanica per la fabbrica Reale di armi di Poggioreale, strettoi idraulici per l'olio e per lo zucchero, macchine per imballare i prodotti che si spedivano all'estero, torchi per coniare bottoni e medaglie.

I limiti tecnici riscontrati per queste prime fabbriche saranno superati con l'arrivo, nel 1842, di Pattison, dirigente dell'officina di riparazioni della società ferroviaria Bayard, e di Guppy, costruttore di navi, che fonderà col primo (nel 1853) un opificio metalmeccanico, il quale aveva introdotto nel Regno la lavorazione del ferro malleabile in barre e lamiere e produceva inizialmente

37 De Majo, Manifattura e fabbrica, op. cit., p. 49 38 Ibidem, p. 51

(18)

chiodi e manufatti di ferro e acciaio, ma successivamente allargò la produzione a macchine agricole innovative e caldaie a vapore per la marina, per l'esercito e per le ferrovie. 600 circa gli operai, per un investimento complessivo di 250.000 ducati

39

. La loro impresa ebbe talmente successo che in molti seguirono il loro esempio, con imprenditori provenienti da Francia, Inghilterra, Svizzera e Belgio, portando con loro capitali, progetti, ritrovati tecnici, analisi di mercato, contatti per l'affidamento di appalti e forniture che non era possibile reperire nel Regno. Ma la cosa più importante, fu che queste attività reinvestivano spesso in loco, divenendo dunque l'elemento estero un elemento costitutivo di primissimo piano nel panorama industriale del Mezzogiorno

40

.

L'altro settore in cui si svilupparono moderne fabbriche fu, come detto, il tessile. Anche in questo caso, i primi esordi si ebbero durante il decennio francese, quando Lambert installò una fabbrica di pannilana a Isola di Sora sostenuto dal Murat. Pur con tutte le concessione fatte, il lanificio visse una esistenza stentata a causa della scarsezza dei capitali a disposizione del Lambert, esponente di quell'imprenditoria provvista di pochi capitali e scarse conoscenze tecnico-scientifiche di inizio secolo cui accennavano precedentemente. Con la Restaurazione, il governo borbonico confermò il supporto alla fabbrica, ma l'inesperienza del Lambert faceva si che i suoi lavori fossero di poca qualità e alto prezzo, che li rendeva invendibili sia all'estero che nel Regno, aggravando la condizione di debito nei confronti della Corona, che aveva dispensato molte volte somme per consentire il proseguire della produzione

41

. Ancora nel 1817, dopo che gli furono concesse altre facilitazioni (preferenza nella vendita della lana merinos del gregge reale, collegamenti diretti col Ministero e la Soprintendenza, possibilità di fregiarsi del titolo di manifattura reale) il Lambert continuava a richiedere ulteriori aiuti, palesando bene quanto i primi passi dello sviluppo industriale moderno fosse estremamente difficoltoso nel Regno a causa delle sue peculiari situazioni economiche e politiche. La situazione, dopo una lieve ripresa delle fortune della fabbrica, precipitò nuovamente durante il moti del 1820-21, quando essa subì pesanti danni a causa dei saccheggi,

39 De Majo, op. cit., p. 51 40 Ivi

41 L. De Matteo, Governo, credito ed industria laniera nel Mezzogiorno, Napoli, 1984, Istituto per gli studi filosofici, pp.40-42

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costringendo il Lambert a costituire col Manna (concessionario anche lui di una reale manifattura privilegiata, sempre a Isola) una società al 50%, con cui si delegava al secondo l'apporto di capitali necessari al ripristino della capacità produttiva della fabbrica e anche la vendita del prodotto, mentre al primo rimaneva la sola direzione tecnica. Ma già nel 1825 il Lambert sottoscrisse un altro accordo col Sava, il più importante industriale laniero del Regno

42

, che la dice lunga sul perenne stato di difficoltà in cui versava il lanificio, dovuto anche al non felice momento economico che viveva il Regno e alla schiacciante superiorità delle merci estere, inglesi sopratutto. La quasi totale inattività della fabbrica spinse il Ministero delle Finanze a procedere contro Lambert e a rifiutargli la proroga delle facilitazioni concesse. Fu a questo punto che intervenne Giovanni Polsinelli, anch'egli fabbricante di pannilana di Arpino, che si mise in società col Lambert, creando nel 1830 una nuova ditta, la Polsinelli e CC.

43

, trasferendosi da Arpino ad Isola negli stabilimenti del Lambert, probabilmente a causa della scarsità d'acqua corrente necessaria a far muovere gli impianti nel luogo dove si trovava precedentemente la sua industria. In breve, la fabbrica divenne tra le più importanti del Regno, pur se il tentativo di competere con i prodotti fini esteri andarono sempre frustrati per una serie di ragioni (scarsa qualità della lana locale, costi di importazione materiale ecc.)

44

.

Nello stesso periodo operò il già citato Manna, che aveva avviato il suo lanificio di Arpino già nel 1810, ma solo nel 1816 il governo borbonico gli accordò alcune concessioni (come l'uso gratuito dei locali di un convento soppresso) che gli permisero di espandere la propria attività. Pur godendo di concessioni decisamente minori rispetto a quelle accordate al Lambert, il Manna dimostrò di essere un imprenditore capace, tant'è che dopo soli due anni la produzione dello stabilimento risultò quintuplicata

45

; alla vigilia della riforma tariffaria del 1823-24, fu in grado di espandere la sua attività acquisendo in società l'impresa del Lambert. Un'ulteriore allargamento dell'attività si fondava, però, sul presupposto di nuove concessioni da parte del governo, in

42 De Matteo, Governo, credito ed industria laniera, op. cit., pp. 40-42 43 Ibidem, p. 57

44 Ibidem, pp. 58-59 45 Ibidem, pp. 64 65

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particolare dell'esenzione daziaria, che però fu negata per le pressioni esercitate dai concorrenti del Manna, sostenendo che un'eventuale esenzione avrebbe avvantaggiato, a danno di tutti, una sola azienda. Il Ministero degli Interni prese atto di ciò e negò la concessione

46

. Ciò nonostante il lanificio Manna continuò a funzionare con regolarità e profitto, iniziando ad arrancare solo dopo le difficoltà aggravatesi con la crisi del 1848, in parte riassorbite nel 1850 dopo che Vincenzo, figlio di Gioacchino, sottoscrisse un accordo con lo svizzero Vonwiller, che avrebbe curato la commercializzazione dei suoi prodotti nelle piazze estere dove aveva contatti avviati. Ma anche così, la situazione economica della ditta andò lentamente deteriorandosi, sino alla definitiva crisi post-unitaria

47

.

Se gli esempi sin qui citati sono stati di imprese nate spontaneamente (anche se immediatamente sostenute dal governo), diverso è il caso dei lanifici Sava e Zino, che furono creati dietro diretto intervento del Medici, che stava portando avanti una politica di sostegno all'industrializzazione di quei settori, come il tessile, in profonda crisi dopo la fine delle guerre napoleoniche e del blocco continentale. Ma questo tipo di industrie dipendevano troppo dal governo (e difatti quando esso venne meno, di loro si persero le tracce); basti guardare ciò che il Sava chiese (ed ottenne) per avviare il suo lanificio, che sarà poi uno dei più grandi del Regno: la messa a disposizione dei locali e della manodopera necessaria, che fosse predisposto un regime doganale protettivo per l'industria laniera e l'accordo della privativa per la produzione del panni

48

. Ciò visto, non sorprende che il livello di meccanizzazione dello stabilimento fosse molto basso, data la disponibilità di manodopera quasi gratis (i reclusi del Real Albergo dei Poveri di Napoli) e della concessione di quasi tutti gli appalti governativi per la fornitura di materiali per l'esercito. Ed infatti, già dal 1824 la Giunta Generale dei contratti militari dispose di affidargli la produzione di panni e bottoni destinati ai Granatieri della Guardia Reale e, in pochi anni, grazie alla ricordate agevolazioni del governo, il Sava divenne “il fornitore più potente di articoli di lana delle amministrazioni civili e

46 De Matteo, Governo, credito ed industria laniera, op. cit., p. 70 47 Ibidem, pp. 93-102

48 Ibidem, pp. 105-109

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militari”

49

, visto che quei contratti fornivano, all'incirca, un introito annuale fisso notevole: ben 650.000 ducati per le forniture ai corpi militari nazionali e addirittura 1.200.000 ducati per le forniture ai corpi svizzeri

50

. Tuttavia, il lanificio Sava produceva, ancora nel 1834, solo panni ordinari per il mercato, mentre si avvaleva di altri imprenditori per rifornirsi di panni fini (ricordiamo il contratto che stipulò col Lambert) e solo dal 1836 iniziò a produrne in proprio.

L'altro lanificio avviato su proposta del Medici fu quello di Lorenzo Zino, tramite il quale si voleva promuovere l'esportazione dei pannilana del Regno nelle regioni baltiche, dove Zino (affermato operatore economico) aveva ottime relazioni commerciali. Esso godette di privilegi minori delle stabilimento Sava, ma anche questo ebbe, grazie ai buoni rapporti con gli ambienti governativi, un accesso al credito del Banco delle Due Sicilie praticamente sconosciuto (oltre che difficilissimo) ad altri imprenditori

51

. Tuttavia, il ricorso continuo e sempre più frequente al fido bancario per sostenere la propria fabbrica, sempre con beneplacito del ministero, portò ben presto il lanificio Zino a problemi di solvibilità

52

e solo i buoni servizi resi al governo aiutarono lo Zino a non sprofondare del tutto nel periodo compreso tra gli anni '30-'40. Inoltre, poiché era risultato da un'indagine che il lanificio godeva di buona salute ed era tecnicamente ben attrezzato, il Reggente del Banco, insieme ad altri nomi eccellenti del mondo finanziario napoletano, formulò una proposta volta a far si che lo stabilimento continuasse a produrre con successo i suoi prodotti, di modo che il Banco e l'amministrazione potessero a poco a poco recuperare i propri crediti: il governo avrebbe vigilato sull'andamento della fabbrica, Zino avrebbe soddisfatto il suo debito verso il Banco versando 12.000 ducati all'anno (depositando inoltre a ulteriore garanzia, un'adeguata fornitura di pannilana presso il commerciante napoletano Barlotta) e in cambio gli sarebbero stati accordati altri 15.000 ducati in prestito per espandere l'attività

53

. Nemmeno questo però riuscì a risollevare le sorti del lanificio e Zino si vide costretto a chiedere che

49 De Matteo, Governo, credito ed industria laniera, op. cit., p. 112 50 Ibidem, p. 113

51 Ibidem, p. 127-128 52 Ibidem, pp. 130-133 53 Ibidem, pp. 150-151

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fosse concessa ogni anno una commessa di un quantitativo di panno per l'armata di valore corrispondente alle quote annuali che essi avevano assunto l'obbligo di versare alle amministrazione creditrici.

54

Una tale proposta venne accordata solo dopo che la Compagnia Sebezia (una società per azioni promotrice delle industrie regnicole) tentò il salvataggio della fabbrica e, quando fallì, si cercò di venderla o di acquisire nuovi soci, in tutti i casi fallendo miseramente

55

, mostrando bene quanto l'imprenditoria napoletana non amasse l'investimento in attività industriali, giudicate pericolose e poco remunerative (e in un contesto come quelle delle Due Sicilie, è difficile dargli completamente torto, pur se essi erano parte integrante del problema).

Questi pochi esempi sono un'ottima cartina di tornasole che ben illustra tutte le serie di difficoltà che la nascente industria napoletana doveva spesso affrontare, con la sola eccezione degli svizzeri nel salernitano. Questi fondarono cotonifici meccanizzati a Piedimonte Matese, Salerno, Pellezzano, Angri e Scafati; ed anche linifici e canapifici presso Sarno. Nonostante i relativi benefici che vi apportarono quanto a formazione di manodopera qualificata e introduzione di moderni tecniche di produzione, anch'esse erano legate al protezionismo borbonico, tant'è che quando venne meno il Regno, una dopo l'altra lasciarono il campo, non trovandovi più conveniente investire i loro capitali.

Contrariamente alle imprese straniere del metalmeccanico, dunque, queste non generarono alcun tipo di indotto locale, riproponendo semplicemente il sistema già in uso nel commercio granario, in cui la ricchezza veniva tratta dalle province, scivolava nei porti ove venivano raccolti i prodotti ma non si fermavano sul territorio, generando crescita; al contrario, ne segnarono il continuo impoverimento

56

.

54 De Matteo, Governo, credito ed industria laniera, op. cit., p. 153 55 Ibidem, pp. 156-162

56 Per approfondire questo aspetto, vedi J. Davis, Società e imprenditori nel regno borbonico, Bari, Laterza, 1979, pp. 51-107

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La cantieristica nel Golfo di Napoli

È questo un paragrafo un po' particolare, poiché soltanto l'area compresa tra Napoli e Castellammare poteva vantare un'eccellente tradizione nel varo di navi di grosso tonnellaggio e all'avanguardia già dal secolo XVIII, grazie alle politiche perseguite da Carlo e Ferdinando IV di Borbone

57

, ed era pertanto l'unica zona atta a ospitare le necessarie trasformazioni per l'introduzione del vapore, mentre nel resto del Regno la situazione era molto più carente. Ma è sopratutto il periodo di 15 anni che va dalla fine del decennio agli anni '30 dell'Ottocento che fa registrare il più grosso salto qualitativo delle costruzioni navali napoletane, quando il governo lasciò ampio spazio all'iniziativa privata,stimolata dai diritti di costruzione (se ne parlerà in seguito), nel campo della navigazione commerciale a vapore e non e si misero a frutto il bagaglio di competenze tecniche delle maestranze formatesi nei cantieri navali voluti dai Borbone assieme alle novità introdotte dai francesi.

Partendo da una notevole base di manifatture proto-industriali tutte attorno alla capitale come la fabbrica d'armi di Torre Annunziata, la Real Fonderia ecc., il sovrano Ferdinando II migliorò e modernizzò la Marina militare con l'istituzione di una Scuola per Macchinisti, un Corpo del Personale di Pilotaggio e un Corpo Cannonieri e Marinai. Riorganizzata la Marina militare, bisognava ammodernarne le navi e, per tal ragione, il sovrano stabilì che a Castellammare

si realizzasse un grande arsenale in grado di costruire navi a vapore, mentre l'Arsenale di Napoli sarebbe stato destinato al solo armamento dei bastimenti ed alla produzione di piccole unità.

58

I lavori per l'ammodernamento dei cantieri navali durarono 10 anni (1840-1850) e costarono 340.000 ducati, i macchinari necessari al suo funzionamento furono acquistati già a partire dal 1846, quando trapani, piallatrici ed altri macchinari furono impiantati e messi in funzione. Anche il porto di Napoli, ovviamente, subì una trasformazione, che costò al governo altri 100.000 ducati,

57 Per maggiori informazioni sul periodo, A. Fratta, La fabbrica delle navi, Napoli, Grimaldi Editore, 1990, pp. 61-112 58 Fratta, op.cit., p.114

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anche qui stabilendo nuovi macchinari di provenienza estera. Questo connubio tra i due cantieri diede ottimi risultati: fu raggiunto un così alto livello di produzione da diventare, alla vigilia dell'Unità, il più grande e funzionale polo cantieristico in Italia, cosa che fu possibile perché il re inviò nel 1843 una commissione nei più moderni cantieri europei, affinché li studiassero e fossero in grado di riprodurne il funzionamento e l'organizzazione in quello di Castellammare. Queste visite misero in evidenza la necessità per il Regno di dotarsi di una moderna industria metalmeccanica e ciò dette impulso all'opificio di Pietrarsa di cui abbiamo parlato, che divenne parte integrante ed insostituibile per il funzionamento del polo cantieristico regnicolo. Dopo un periodo di “pratica”, in cui gli operai montavano semplicemente le macchine acquistate all'estero, nel 1850-51, visti i buoni risultati raggiunti con le fusioni, si tentò la produzione della prima macchina a vapore napoletana, che venne montata sulla pirofregata Ettore Fieramosca. Il tentativo deve aver dato i frutti sperati, visto che da quel momento tutte le unità a vapore della Marina militare furono frutto del lavoro dell'opificio napoletano

59

.

A concludere il quadro di ammodernamento del polo cantieristico napoletano, va ricordato che nel 1850, nel porto di Napoli vennero avviati i lavori per un'altra importantissima struttura, concepita tanto per usi militari che civili: il Bacino di Raddobbo in muratura, il primo mai costruito in Italia. Esso si rendeva necessario per effettuare la pulizia o la riparazione delle carene delle navi senza tirarle a secco (cosa che, con l'avvento delle navi a vapore, diveniva impossibile). Fu inaugurato nel 1852

60

.

L'irrisolto nodo del trasporto terrestre: strade e ferrovie

Le vie di comunicazione terrestri sono state sempre uno dei punti deboli nell'economia del Regno, nonostante periodicamente si tornasse sull'argomento tentando di risolvere la cosa. Sin dal

59 Fratta, op.cit., p. 118 60 Ibidem, p. 119

(25)

periodo napoleonico, infatti, le consolari d'Abruzzo e di Puglia, le due principali vie di comunicazione tra le province e la capitale, vennero prolungate. Di pari importanza erano altre quattro strade, due regie e due provinciali: le prime due, a carico dello Stato, collegavano Napoli a Caserta, sede della reggia più importante del Regno, e con l'enclave di Benevento; mentre le due strade provinciali, anche se costruite solo in parte a carico dello Stato, avrebbero dovuto svolgere un ruolo strategico nei trasporti del Regno. La Sannitica, la più importante del Regno, dotò il Molise di un doppio sbocco al mare: sul Tirreno, a Napoli, dove si consumavano e da dove si esportavano la maggior parte dei grani prodotti nella provincia; sull'Adriatico, a Termoli, per il consumo locale, per l'esportazione verso Trieste ed i porti del levante. Oltre alle due citate, vi era un'altra strada provinciale di interesse nazionale che fu in parte costruita alla fine del Settecento, dietro pressione del marchese della Valva, che seppe sfruttare le ampie vedute del Palmieri per avvantaggiare le sue terre, quando questi rivestì la carica di Soprintendente delle strade. La nuova infrastruttura avrebbe messo in comunicazione il vasto entroterra lucano con gli sbocchi al mare del Tirreno e dello Ionio.

Ciò per quanto riguarda i tracciati principali. Vi erano poi ovviamente altre strade, costruite e mantenute a spese statali, che però erano di minore importanza: i Cammini Reali, aperti anche al pubblico, erano le strade che il re utilizzava per i suoi spostamenti e per la sua attività venatoria; o ancora vi erano strade che erano di vitale importanza per la sola capitale, in quanto necessarie al suo approvvigionamento alimentare (e infatti su esse fu sparso brecciame a spese dello Stato). Tutte queste strade però, si trovavano solo nelle province di Napoli e Terra di Lavoro ed avevano dunque una utilità generale assai limitata, in quanto garantivano rapidi spostamenti da e per Napoli, ma non collegavano quasi per nulla comuni vicini tra loro, rendendo molto oneroso il trasporto merci per luoghi che non fossero Napoli.

Passando al quadro generale di tutte le province del Regno, i collegamenti tra le principali

strade del Regno (la maggior parte dei quali si trovava nelle vicinanze di Napoli), avvenivano in

vicinanza di alcuni grossi centri agricoli periferici che erano attraversati dalle strade principali,

(26)

consentendo così rapidi cambi di direzione senza l'obbligo di giungere a Napoli. Collegamenti di questo tipo tra le principali strade del Regno vi erano anche in comuni più lontani dalla capitale, specialmente quando i tracciati delle suddette grandi strade si avvicinavano. Vediamone i percorsi.

La consolare degli Abruzzi aveva numerose diramazioni, distribuite quasi uniformemente su tutto il suo percorso, eccetto per la zona all'estremo nord del Regno tra il Tirreno e gli Appennini, dove si infittivano poiché lì il territorio era più sguarnito di strade statali. In questa zona, collegata a una traversa della consolare degli Abruzzi, si era formato un sistema di strade abbastanza articolato:

il collegamento era assicurato da un tratto della Casilina, che era stato opportunamente restaurato;

invece partendo dallo Spartimento di Capua, la strada giungeva a Vairano e costituiva il primo tratto della Consolare degli Abruzzi, che, dopo Vairano, piegava a est per raggiungere Venafro e quindi Isernia, mentre la Casilina proseguiva invece per Cassino, come traversa della consolare degli Abruzzi, fino ad Arce dove piegava a ovest. Detta traversa proseguiva per Isola del Liri e Sora fino ai confini del Regno, poi tornava indietro per Vicalvi e Atina, formando un ellissi che si chiudeva a Cassino. La strada era collegata ad Avezzano e alle strade abruzzesi del versante adriatico, che era praticamente l'unico collegamento di un'ampia zona ai confini del Regno, oltre che una via più comoda della consolare delle Puglie per congiungere Adriatico e Tirreno.

Dopo l'Abruzzo, l'altro grosso nodo stradale si trovava in Puglia. Le diramazioni della

consolare delle Puglie, infatti, da sole uguagliavano quasi il numero di km di quelle che si

staccavano da tutte le altre strade principali. Il sistema viario pugliese sarà oggetto di approfondita

descrizione in altri capitoli di questo lavoro, per cui non ne daremo conto qui; ci limiteremo a

sottolineare la sua importanza accennando al fatto che la Basilicata costruì, a spese della provincia e

dei comuni, alcune strade per il collegamento con questo sistema, preferendolo a quello con Napoli,

che si sarebbe dovuto imperniare sulla consolare delle Calabrie. Era sin dalla fine del Settecento che

la Basilicata aveva stretto i suoi legami con la vicina regione, per ragioni prevalentemente

commerciali (le sole, all'epoca, che contassero), quando fu costruito il primo innesto con la

(27)

consolare delle Puglie, attuato ad Eboli e che fu poi condotta a Lavello, ai confini con la Puglia

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, dopo essere giunta a Potenza, e che tuttavia rappresentò solo una tappa di una strada che si voleva condurre in altri luoghi e che non fu concepita solo per il collegamento con Napoli: la strada si inerpicò sui monti, attraversando la provincia per giungere ad Atella e poi a Rionero in Vulture, Barile, Rapolla e quindi a Melfi e a Lavello, paesi (questi ultimi due) che nel XIX secolo facevano parte amministrativamente della Terra di Bari. L'idea di base era farle svolgere lo stesso ruolo di volano di sviluppo che aveva la strada Mediterranea in Puglia (lo vedremo in seguito) e, per tale ragione, questa strada fu condotta in Basilicata per luoghi apparentemente inaccessibili, dotandola di numerose traverse, come la Avigliano-Gravina di Puglia e la stessa strada provinciale Potenza- Matera.

Conviene ora fare un primo abbozzo di una situazione che, in seguito, verrà meglio approfondita in ragione degli interessi del versante pugliese. I modelli di sviluppo stradale del Regno sono sostanzialmente due: il primo è quello napoletano, fortemente influenzato dalle necessità della corte e della capitale e, quindi, ideato e sostenuto finanziariamente dallo Stato; il secondo, invece, è quello pugliese, più rispondente alle necessità economiche locali e quindi quasi esclusivamente a carico dei comuni e delle provincie interessate. Salta, infatti, immediatamente agli occhi che, mentre il sistema imperniato su Napoli era costituito da strade costruite e mantenute dallo Stato per diversi scopi e motivi, il sistema pugliese invece, ideato e costruito dalle amministrazioni locali, era fortemente diramato, raggiungeva quasi tutto il versante adriatico e ionico della provincia con un unico scopo: il trasporto delle derrate alimentari dai centri agricoli interni verso il mare, per facilitare l'esportazione e forse per sfuggire al monopolio commerciale dei grandi mercanti napoletani. Si trattava di un sistema molto più potente di quello napoletano e, difatti, la maggior parte dell'estensione di tutte le strade del Regno gravitava sul versante adriatico

62

.

Nella fascia tirrenica il centro delle comunicazioni è, ovviamente, Napoli; invece altri grossi

61

N. Ostuni, Le comunicazioni stradali, in Il Mezzogiorno preunitario, P. Malanima - N. Ostuni (a cura di), pp. 53-56 62 Ostuni, op. cit., pp. 51-63

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centri come Avellino e Salerno sono attraversati soltanto dalle consolari dirette verso le province più lontane. E' sempre intorno alla capitale che si possono individuare numerose strade la cui densità si stempera allontanandosi dalla stessa e ciascuna traversa collega alle strade principali uno o pochissimi paesi; è raro, infatti, che una traversa ne collegasse di più per sfociare in un'altra e incrementare così la sua utilità, cosa che conferisce alla rete stradale tirrenica un aspetto scarsamente organico, quasi di una serie di collegamenti, numerosi ma dettati da tante e diverse necessità, talvolta occasionali, come la scelta del re di un determinato luogo per periodiche battute di caccia.

Ben diverso il caso della fascia adriatica, un sistema potente, organizzato e capillare; l'esatta antitesi di quanto osservato per la fascia tirrenica: tutto il territorio appare ben collegato ai vari assi stradali con una maglia che s'infittisce all'approssimarsi dei centri di maggiore importanza, ma che non lascia sguarnito il resto del territorio. Con il sistema stradale lucano, ad esso collegato, quello pugliese è testimone del felice intervento delle amministrazioni locali per sfuggire all'isolamento causato dall'inerzia governativa

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e della necessità degli agricoltori e dei commercianti locali di svincolarsi dal monopolio esercitato dalle ditte esportatrici napoletane, che Palmieri sin dal XVIII secolo

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aveva individuato come freno allo sviluppo delle aree del Regno più dinamicamente votate all'agricoltura

65

. Ma come già detto, approfondiremo questo aspetto altrove.

Se già il sistema viario lascia ampio spazio alle critiche, in quanto lasciava scoperte molte zone del Regno (sopratutto le più interne), ancor di più ne lascia il trasporto ferroviario, vera occasione mancata del governo borbonico, che ne ritardò la costruzione. Non si può certo dire che mancassero i progetti e gli imprenditori, regnicoli o esteri, disposti ad imbarcarsi nell'impresa. Anzi, negli anni 1834-35 il mondo finanziario napoletano, che usciva da una grave crisi economica e borsistica distruttiva per i numerosi capitali e sopratutto i soldi dei piccoli risparmiatori

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, era

63

G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, Laterza, Bari, 1998, p. 96

64 G. Palmieri, Della ricchezza nazionale, Napoli, 1792, pp. 145-46; in Ostuni, Le comunicazioni, op. cit., p. 62

65

Per ulteriori approfondimenti si veda A. Massafra, En Italie Méridionale: déséquilibres régionaux et reseaux de transport du mlieu du XVIII° siècle a l'Unité italienne, da “Annales”, settembre-ottobre, 1988, n. 5, pp. 1056-1077

66 L.Bianchini, Storia delle finanze del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1839; edizione a cura di L. De Rosa, Napoli, ESI, 1971, p.

640

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nuovamente in fermento. L'esperienza del 1831-34 aveva dimostrato che a Napoli era possibile reperire capitali, anche se in misura limitata ed emettendo azioni a basso valore unitario, ma il capitale rastrellato non riuscendo a trovare uno sbocco economicamente e finanziariamente produttivo, finiva coll'essere divorato dalla speculazione; e quindi, se si voleva allontanare il risparmio disponibile dalla rendita pubblica verso cui di solito affluiva, occorreva assicurargli la possibilità di un impiego in investimenti produttivi, sopratutto visto che i possessori di piccoli capitali non disdegnavano un tale tipo di investimento. E che lo spirito d'associazione esistesse anche a Napoli è provato dal fatto che, nonostante i reiterati e gravi fallimenti del 1834, nel 1835 erano state create altre società

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. Una tale situazione poteva essere la base favorevole per imprese di costruzione ferroviaria, come non mancarono di notare i numerosi proponenti di progetti, tra cui il primo (in ordine cronologico) di una società napoletana, che però non ebbe buon esito

68

.

Vediamo nello specifico l'unico caso in cui uno di questi progetti venne effettivamente realizzato. Nel 1836 un ingegnere francese, Armando Bayard de la Vingtrie, nel mese di gennaio del 1836 espose un suo progetto ferroviario al ministro degli Interni Nicola Santangelo. Il piano del francese era allettante: egli intendeva costruire una linea ferrata a proprie spese, in cambio della concessione della gestione per 99 anni. La strada ferrata avrebbe collegato Napoli con Nocera, con una diramazione per Castellammare. Il ministro Santangelo sottopose la proposta al Re, che approvò la concessione per l'intera linea Napoli-Nocera con diramazione per Castellammare con decreto del 19 giugno 1836, dietro versamento di una cauzione di 100.000 ducati

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. Seguirono altri due decreti, uno del 3 febbraio 1838, che rimodulava la durata della concessione ad 80 anni ed un altro definitivo del 19 aprile 1838 che sanciva il diritto di proprietà dello Stato dopo 80 anni di gestione e stabiliva le tariffe dei prezzi per il trasporto sia dei viaggiatori che delle mercanzie. La prima ferrovia d'Italia fu un primato che non divenne però il punto di partenza di un maggiore progresso e sviluppo in materia di infrastrutture ferroviarie, come invece accadeva in Francia,

67 Bianchini, op. cit., p. 641

68 Ostuni, Iniziativa privata e ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, Giannini, Napoli, 1980, p. 10 69 Ostuni, op. cit., p. 45

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