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QUADERNI FIORENTINI

per la storia del pensiero giuridico moderno

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(2018)

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ALLA FINE DEL MANDATO DI

GIUDICE COSTITUZIONALE DI PAOLO GROSSI E AL SUO RITORNO AGLI STUDI UNIVERSITARI (*)

Forse lei ricorda, caro e illustre professor Grossi, l’incontro a Palazzo Strozzi che, nove anni fa, i suoi allievi fiorentini promossero per festeggiare il suo passaggio dalla prestigiosa cattedra universitaria da lei illustrata per tanti anni alle responsabilità di giudice della Corte costi- tuzionale che l’avrebbero impegnata per nove anni fino a oggi. Ricorda forse anche che ci compiacemmo di appartenere, con lei e con i suoi allievi, anzi anche grazie a lei e ai suoi allievi, alla cerchia di quanti, accomunati da un certo modo d’intendere la vita accademica, vi trovano ancora, pur tutto considerato, il luogo più congeniale per coltivare in libertà la scienza come loro propria vocazione. Ci si chiese, allora, come e quanto la sua visione del diritto, antica e allo stesso tempo nuovissima, la visione alla quale lei ha dedicato tanti studi e tanti affinamenti, si sarebbe potuta amalgamare con quella degli altri componenti di quella che è la nostra Corte costituzionale. La domanda era legittima allora, e ora, essendo possibile almeno iniziare a impostare un bilancio, si può forse cercare una risposta.

1. (contro il diritto come sovrastruttura astratta, politicamente concretissima) Ci interroghiamo con tanto più interesse in quanto sia vera (e io credo che sia verissima) la convinzione che Paolo Grossi manifesta « in tutta sincerità », ancorché in forma di dubbio garbato, che i « giuristi positivi » di oggi sono per lo più affezionati a una visione del diritto ch’egli considera legata a un tempo che non c’è più e che sopravvive solo per pigrizia e vischiosità delle ideologie. Quest’annota- zione ne richiama alla mente una analoga di Palmiro Togliatti alla Assemblea Costituente: non avere avuto l’aiuto necessario al nuovo spirito costituzionale da parte dei giuristi, come se questi fossero

(*) Intervento tenuto in occasione della presentazione del volume di Paolo GROSSI, L’invenzione del diritto (Roma-Bari, Laterza, 2017) — Roma — Sala Koch — Palazzo Madama — il 22 febbraio 2018.

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ancorati a idee che la nuova stagione aveva rinsecchite. Sembrava allora e sembra oggi che, per essere « giuristi positivi », sia necessario accet- tare di sottomettersi interamente ai dogmi, Grossi dice « mitologie »,

« legocentrismo » e « legolatria », che dominano ancora nella forma- zione dei giuristi e, da lì, si espandono nelle professioni giuridiche, quella giudiziaria compresa. Nel libro che siamo qui riuniti per com- mentare, è insistente, anzi ne fornisce l’ossatura, la polemica contro la concezione del diritto propria dello Stato legislativo dell’Ottocento, funzionale al progetto di dominio della borghesia attraverso l’annichi- limento della rete delle organizzazioni sociali sotto la sola legge generale e astratta che, nella tessitura dei suoi elementi, avvolge e irretisce la società presumendo di poterne modellare, in realtà spegnere, la spon- taneità. Il diritto come comando sovrano, o come insieme sovrano di norme che discendono dall’alto « monarchicamente » su individui che si pretende si presentino soli e, per così dire, spogli « davanti alla legge »; la loro totale malleabilità per mezzo del diritto artificialmente posto, la riduzione delle persone a « persone giuridiche », dotate delle sole connotazioni che la legge riconosce loro fingendo che l’irreale astrazione ugualizzante del diritto cancelli la concretezza differenziante della vita reale.

Passando dalla concezione del diritto alla visione dei compiti dei giuristi e dei giudici specialmente, tra le mitologie di quel tempo c’è l’idea dell’interpretazione-applicazione come mero ricorso alla volontà, all’intenzione del legislatore, attraverso l’esegesi delle formule nelle quali la sua volontà si è espressa. Questo appare oggi l’ideale d’un positivismo giuridico primitivo che è largamente superato nella co- scienza di chi opera secondo il diritto. Esso è stato soppiantato dal cosiddetto positivismo critico che considera il diritto non come insieme di atti di volontà del legislatore, ma come ambito di normatività oggettiva e autosufficiente che vive nella sfera ideale dell’ordinamento giuridico, inteso come edificio di leggi coerenti, ordinate, complete che, se non esce già di per sé con queste caratteristiche dalla testa e dalla volontà del legislatore, è rimesso come compito ricostruttivo ai giuristi, agli interpreti. Anche con questo spostamento, dalla volontà del legi- slatore alla razionalità dell’ordinamento legislativo, resta ferma, anzi si conferma l’idea che il giurista abbia da tenere lo sguardo puntato soltanto in alto, sulle alture del tessuto delle norme poste e sovrapposte.

Il disegno che spetta ai giuristi di tracciare deve emergere senza interferenze da parte di altre dimensioni normative extra-legislative, in particolare senza che le bassure che salgono su dalle strutture materiali della vita sociale contaminino la loro astratta scienza delle norme.

Dalla critica radicale a queste premesse e conclusioni, ch’io mi sono preso il rischio di sintetizzare nel modo che ho detto, proviene nelle pagine di L’invenzione del diritto l’indicazione a favore d’un ruolo diverso, costruttivo, « inventivo » per l’appunto, dei giuristi. Si tratta d’un vero e proprio manifesto dell’orgoglio della loro professione,

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contro la depressione ch’essi in maggioranza hanno accettato e di cui si sono perfino fatti vanto nel corso di due secoli e che continuano, per pigrizia e forza d’inerzia, ad accettare.

2. Nel libro che commentiamo ricorrono con frequenza due espressioni immaginifiche che in sintesi racchiudono la concezione del diritto di Paolo Grossi. Lo storico del diritto, se non è semplicemente un cultore di antiquitates, sta in una posizione intermedia privilegiata, tra i filosofi e i pratici: è simile ai primi, avendo a che fare con idee generali senza le quali potrebbe solo fornire descrizioni di nudi fatti senza poterne dare interpretazioni al fine ultimo della loro compren- sione; è vicino ai pratici perché la materia della sua scienza gli è fornita dall’opera di costoro, legislatori, giudici, amministratori e, in generale, tutti coloro che, a qualunque titolo operano secondo il diritto. Po- tremmo dire che la storiografia è filosofia della concretezza. Mi piace- rebbe sapere se il professor Grossi si riconosce in questa espressione.

Le due formule cui ho fatto cenno e alle quali egli mostra di attribuire un particolare valore esplicativo del suo punto di vista sul diritto del tempo presente sono « valvola respiratoria » e « carnalità del diritto »: due concetti che si integrano, l’uno implicando l’altro. Ripe- tendole quasi in ogni pagina, si vuol dire ch’esse esprimono in modo particolarmente pregnante i caratteri della scienza giuridica ai quali Paolo Grossi è approdato nella sua vita di scienziato del diritto.

3. (valvola e carnalità) L’invito che viene da questo libro è di non consumarsi nell’asfissia d’un legalismo gretto e anacronistico che si traduce, alla fine, nella forzatura violentatrice delle « libertà sociali », concetto ricco di significati che ha trovato ingresso nella giurisprudenza costituzionale. Si parla della Corte come di un eminente e « autentico polmone respiratorio per l’intiero ordinamento giuridico nella sua costante attenzione verso il continente parzialmente sommerso dei valori, un ‘ordine ordinante’ percorso da una perenne dinamica e munito di una forte carica incisiva »: autentico polmone, ma non esclusivo poiché ad aerare il complesso delle leggi positive collaborano, devono collaborare, tutti i giuristi, « uomini di scienza e di prassi », cioè dottrina e giurisprudenza di ogni ordine giudiziario, a fianco dei legislatori.

Qui, incontriamo lo spunto per una vera e propria dottrina della costituzione che si distanzia, anzi ne rovescia il presupposto, il punto di partenza. Dal rovesciamento deriva la sostituzione dell’idea della costi- tuzione come legge suprema, consueta nella dottrina costituzionalistica, con quella della costituzione come norma fondamentale o, per meglio dire, « basica ». Legge suprema e norma fondamentale sono due espres- sioni che ricorrono spesso indifferentemente nei discorsi dei costituzio- nalisti, senza che se ne percepisca l’opposto significato. La costituzione, nella concezione di Paolo Grossi, non è volontà o forza sovrana messa

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nella forma della legge più alta, da cui poi tutto discende secondo il principio della gerarchia delle fonti. La Costituzione è, invece, la ricognizione di quell’ordine ordinante — espressione presa a prestito dagli scritti di Franco Modugno —, ordine che talora è indicato come

« costituzione materiale ». Questa formula è impiegata in un senso più ampio di quello che risulta dagli scritti di Costantino Mortati che ne elaborò il concetto con riguardo alle forze politiche in senso stretto: il partito unico prima, la pluralità dei partiti poi. In Grossi si tratta di un concetto che allude a un « vasto continente sommerso » di realtà socio-culturali « inespresse ma non per questo meno viventi », presenze costituzionali sentite e vissute nella dinamica sociale di ogni popolo, aventi quali primari interpreti il ceto dei giuristi di cui fanno parte i giudici, quando sono consapevoli del proprio ruolo « inventivo ». Que- sto riferimento al sommerso e all’emerso della realtà del diritto mi fa affiorare alla mente qualcosa di analogo, l’immagine del giurista come nuotatore che, diversi anni fa, utilizzai nella presentazione degli Studi di diritto costituzionale. 1958-1966 di Leopoldo Elia (Milano, Giuffrè, 2005), Elia il mio amato Professore che certamente avrebbe molto da dire sui temi che stiamo qui discutendo: il nuotatore procede guar- dando in basso, il fondo delle cose, e di tempo in tempo solleva la testa per respirare e guardare dove sta andando nel mondo di superficie. Il fondo, o il fondamento è la cultura. Dando a questa parola il significato ampio di insieme di interpretazioni, concezioni, punti di vista effetti- vamente operanti nella dinamica sociale, si potrebbe sostituire la costi- tuzione materiale o la carnalità del diritto con l’espressione cultura costituzionale, nel senso non di quella cosa rarefatta che sta nelle teste (sempre più scarse di numero, del resto) dei dotti ma che opera e modella le dinamiche sociali e, a sua volta, ne è modellata.

La repulsione della grande maggioranza dei costituzionalisti a sollevare il velo sul contesto sostanziale o culturale in cui, per così dire, galleggiano le norme formulate in testi costituzionali; il ribrezzo ad accettare di guardarne l’aspetto carnale, se non per giudicarlo come materia inerte, è conseguenza della concezione dello Stato costituzio- nale come prosecuzione o completamento dello Stato di diritto legisla- tivo che proviene da un’epoca che non è più la nostra. I « positivisti della costituzione », cioè i prosecutori del positivismo legalistico che si applicano alla costituzione, non vedono difficoltà ad applicare i loro concetti allo Stato costituzionale, poiché ritengono ch’esso non sia altro che un completamento dello Stato di diritto legislativo per mezzo d’una legge tra le leggi, sia pure una legge superiore. Essi ritengono che tra le leggi e la Costituzione vi sia solo una differenza di rango e non una differenza di natura: l’attico delle leggi, si potrebbe dire, ma legge anch’essa. I positivisti della costituzione, così ragionando, non hanno difficoltà a proseguire sulla strada consueta, semplicemente allargando lo sguardo dalle leggi ordinarie alle norme costituzionali, sistemandole

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secondo il più tradizionale criterio ordinatore delle norme giuridiche, la gerarchia.

4. (la costituzione non è una legge) Qui ci imbattiamo nella novità, ovvia ma rivoluzionaria per i positivisti della costituzione: la costitu- zione non è una legge. Non stiamo parlando della costituzione secondo un concetto astratto, ciò che, del resto, avrebbe poco senso se è vero che ogni concetto del diritto, come ogni concetto della politica, ha un senso solo se concepito storicamente. Stiamo parlando delle costituzioni del tempo post-weimariano e delle società democratiche e pluraliste, tra le quali la nostra costituzione occupa un posto di rilievo. Come è nata la nostra costituzione? Considerando l’opera svolta dall’Assemblea costi- tuente, Grossi non ha difficoltà a cogliere la natura del prodotto, ch’egli denomina non creazione, ma invenzione della costituzione o « lettura » non di un insieme di astratti principi ma di concrete istanze sociali. I Padri costituenti, in due anni di formidabile lavoro collegiale, — dice — hanno compiuto una lettura del tessuto della società italiana in rinno- vamento, per individuarvi valori e interessi diffusi e condivisi e per trasformarli in principii e assumerli a trama della Carta fondamentale.

Tali principi, concepiti come punti di emersione del grande continente sommerso della socialità, non solo per la loro struttura semantica che si esprime con proposizioni affermative (il verbo essere) e non con proposizioni imperative (il verbo dovere), non possono essere confusi con i comandi di cui parla la dottrina del positivismo legalistico antico o con le norme ipotetiche del positivismo critico moderno. Sono, piuttosto, delle esplicitazioni o allusioni che spetta agli « inventori » del diritto riempire di contenuti: recipienti che non esauriscono mai le proprie capacità ricettive, prestandosi agli interpreti come vie attraverso le quali le dinamiche sociali possono salire su e affiorare nel diritto formalizzato, secondo il volgersi della loro storia.

5. (le basi d’una dottrina dell’interpretazione giuridica) Nel tempo della modernità che è quello della sovranità della legge generale e astratta e, potremmo dire, dello schiacciamento della realtà sociale sotto il peso dei precetti legislativi, « il giudice — dice il professor Grossi — doveva adattare il fatto alla norma, una norma pensata come premessa maggiore di un procedimento sillogistico, un procedimento squisita- mente logico-deduttivo. Oggi, in questo nostro tempo giuridico pos- moderno, il giudice, attraverso operazioni squisitamente valutative, deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto della vita, individuandone la più adeguata disciplina ». Questa è l’interpre- tazione, che si traduce nella « invenzione » del diritto, « che è un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di loico, ma soprattutto qualità di intuizione-percezione-comprensione, tutte se- gnate sul piano assiologico ».

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È chiaro che queste proposizioni sono esplicite aperture di cre- dito all’interpretazione come ermeneutica, dottrina alla quale, del resto, qua e là si fa riferimento in termini decisamente adesivi. Quando il giudice siede in giudizio non ha di fronte a sé, primariamente, la rete delle norme giuridiche, indossando le quali, come suoi occhiali, guar- dare il mondo che scorre sotto di sé. Al contrario, ha di fronte a sé, primariamente, casi della vita. Solo dopo che li ha valutati nel loro — possiamo dire — bisogno di diritto, egli si rivolgerà alle norme positive per cercarvi adeguate soluzioni: adeguate tanto al caso quanto al diritto, diceva Luigi Mengoni, un giurista il cui pensiero per molti aspetti è in sintonia con quello dell’Autore del nostro libro e che avrebbe avuto certamente, anch’egli, molto da dire sui temi alla nostra attenzione.

Nella « invenzione » delle soluzioni adeguate rispetto ai due lati del- l’interpretazione, formale e materiale, sta il successo dell’interprete;

nell’impossibilità o nell’incapacità di invenirle, sta il suo fallimento.

6. (la forza dell’esperienza) Spero di non avere forzato le posizioni del professor Grossi e di non averle sfigurate. Se è così, risorge la domanda che ponevo all’inizio. Queste posizioni sono anni-luce lontane dalle convinzioni della maggioranza dei giuristi del nostro Paese, così tanto ancora imbevute di dottrine gius-positivistiche che provengono dal passato e ch’essi professano come ineludibili e invariabili pilastri della nostra civiltà del diritto. Come è possibile l’amalgama nel lavoro quotidiano comune d’un collegio che comprendente certamente giudici che, esplicitamente o implicitamente, aderiscono a concezioni diverse se non opposte della materia di cui è fatto il loro lavoro?

Non so dare altra spiegazione che questa: la forza delle cose, di fronte alla quale cede la forza di qualsiasi astratta dottrina. Ricordo — se mi è possibile un riferimento personale — che su questo argomento, un tempo, si è ragionato insieme con un caro e illustre ex-giudice della Corte: se interrogati teoricamente sulla rispettiva concezione del diritto, ci saremmo divisi; ma l’attività pratica e le sue esigenze facevano sì che si operasse quasi sempre in intesa profonda. La stessa cosa, presumo che si possa dire per Paolo Grossi giudice costituzionale.

La Corte come organo respiratorio è il prodotto della forza delle cose. Essa si avvale di strumenti di decisione che un tempo, quando furono introdotti, suscitarono critiche e perplessità ma che oggi nes- suno ormai contesta (al più, se ne può criticare l’uso in concreto).

« Nessuno », in verità, non è esatto dire, perché ogni tanto qualche effervescente riformatore della giustizia costituzionale, ponendosi l’o- biettivo di porre limiti o addirittura divieti a quello che gli pare improprio protagonismo giudiziario, vorrebbe vietarli. Mi riferisco alle sentenze interpretative, alle sentenze di accoglimento « nella parte in cui » e perfino « nella parte in cui non »: in generale alle sentenze manipolative, fino alle sentenze di accoglimento « di principio » una recente delle quali, di particolare importanza (in tema di parto ano-

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nimo, diritto del figlio di promuovere azione per conoscere l’identità della madre e diritto di quest’ultima di mantenere l’anonimato), è dovuta alla scrittura di Paolo Grossi. Con le decisioni di questo ultimo tipo, si annullano regole legislative, si richiama il legislatore al suo compito di legiferazione e, contestualmente, si toglie di mezzo la difficoltà (la norma di legge annullata) che impediva ai giudici di invenire il diritto adeguato alla decisione del caso, secondo i principi.

Come si vede, un’operazione audace che non ha mancato di suscitare critiche dei giuristi della tradizione moderna. Queste decisioni di annullamento di principio stanno a significare che il legislatore ha fallito nell’opera d’invenzione del diritto attraverso norme generali e astratte (donde, l’annullamento della legge) e, a fronte di questo fallimento, che il giudice è chiamato a sua volta a compierla, con riguardo al caso particolare da decidere.

Questa fiorente varietà di strumenti di decisione difficilmente è comprensibile alla luce d’una concezione della validità delle leggi come mero rapporto gerarchico tra norme, norma costituzionale e norma legislativa, un rapporto semplice, anzi semplicistico: accoglimento- rigetto della questione; eliminazione della legge-mantenimento della legge così com’è. È un’alternativa che, pur essendo a prima vista sancita dalla costituzione e dalle leggi che ne danno attuazione, non ha retto di fronte alla forza dell’esperienza giuridica.

C’è un altro elemento di esperienza giurisprudenziale che si è fatto strada passo a passo a partire dalla seconda metà degli anni ’90, riflettendo sul quale appare con evidenza il passaggio da una conce- zione del diritto a un’altra. È costituito dalla serie ormai numerose di decisioni, diffuse ormai in ogni parte dell’ordinamento giuridico (con l’eccezione parziale del diritto penale e processuale) con le quali leggi sono annullate non per quello che prescrivono, ma perché prescrivono tassativamente, senza lasciare spazio alla discrezionalità del giudice necessaria per apprezzare le caratteristiche specifiche dei casi concreti, sacrificate dalla generalità e dall’astrattezza della legge. Si tratta delle decisioni di annullamento dei cosiddetti « automatismi legislativi ».

Troppo vari sono i casi in materie come la bioetica, la famiglia, i rapporti tra genitori e figli naturali o adottivi, le misure restrittive della libertà; troppo intrecciate sono le esigenze multiple che devono bilan- ciarsi, da poter essere sempre semplificate con norme che operano come il regolo dell’isola di Lesbo. La legge, in questi casi, è dichiarata incostituzionale precisamente a causa di quelle caratteristiche (la gene- ralità e l’astrattezza) che si sono considerate non solo sue caratteristiche, per così dire, naturali, ma anche suoi titoli di nobiltà. Anche qui, una vera rivoluzione.

A questi dati della giustizia, e della giustizia costituzionale in particolare, dati che, con Grossi, diremmo post-moderni (ma, in verità, antichissimi) possiamo aggiungere, infine, il controllo sulla ragionevo- lezza delle leggi. Si è da ultimo cercato d’irrigidire il procedimento

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logico da seguire in questo tipo di giudizio, imitando piuttosto artifi- ciosamente schemi che in altre giurisprudenze hanno trovato il nome di giudizio di « proporzionalità ». Ma, alla fin fine, che cosa è la legge irragionevole se non quella che contraddice e forza oltre la misura di ciò che si può giustificare le esigenze della dinamica sociale? L’apprezza- mento di queste esigenze si può davvero immaginare di restringere nel letto di Procuste di ragionamenti scanditi da passi uno dopo l’altro? Il controllo sulla ragionevolezza tira in ballo criteri di decisione che (diversamente dal controllo di razionalità) inevitabilmente sono estranei al puro gioco di compatibilità-incompatibilità tra norme positivamente poste, costituzionali e ordinarie, e non è formalizzabile in schemi di ragionamento predeterminati. Si tratta dell’applicazione di criteri, direi, di « giustezza » tratti dalla dinamica sociale che scardinano dalle fon- damenta il vecchio principio del positivismo giuridico ita lex e dura lex sed lex e conferiscono un certo primato (almeno nei casi di « manifesta irragionevolezza ») alle ragioni che stanno nella vita del diritto rispetto a quelle che stanno nelle righe delle leggi, dei codici, in generale nelle parole d’un legislatore che credesse di poter trasformare in diritto ogni cosa ch’egli vuole, semplicemente rivestendola della forma legislativa.

Nello Stato costituzionale attuale non è più vero che la forza della legge segua incondizionatamente alla forma di legge. C’è qualcosa d’altro, cioè l’apertura dello sguardo dei giuristi a ciò che vive, cambia, talora ribolle sotto lo strato delle leggi.

7. (alcune domande) Distinguendo le teorie dalle dottrine — le prime, comprensioni ordinate dei dati di realtà; le seconde, prescrizioni ordinate di oggetti di desiderio — si può forse dire che la visione del diritto del professor Grossi è al tempo stesso teoria e dottrina. È teoria, in quanto rappresenta e spiega ciò che effettivamente accade nel mondo del diritto del nostro tempo. Aggiungo, per quel che può valere, che ciò, a mio parere, fa in modo incontrovertibile. È, anche, dottrina, in quanto quella rappresentazione e quella spiegazione sono presentati anche come modelli non solo da accettare per la forza della realtà storica, ma anche per la loro desiderabilità. Valvola respiratoria e carnalità sono, infatti, modi di dire che mirano a una sorta di riabilitazione del concetto autentico del diritto, e contengono un appello alla dignità di coloro che a ogni possibile titolo fanno del diritto la loro professione, dopo due secoli di umiliazioni legalistiche o legolatriche. Mirano cioè ad additare un modello. Nel libro che commentiamo mi pare che la teoria sorregga inscindibilmente la dottrina e, a sua volta, la dottrina avvalori la teoria.

Ma questa teoria che si fa dottrina, nell’impatto con le condizioni concrete della vita del diritto nel nostro tempo, mi pare che sollevi problemi sui quali vale la pena soffermarsi.

Ecco la prima domanda. La « carnalità dell’esistenza » in cui il popolo trova la sua sostanza storico-concreta e in cui il diritto affonda le sue radici dalle quali i giuristi devono trarre la linfa del loro lavoro,

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non è a sua volta un’idea astratta? Per essere fonte ultima del diritto dovrebbe presentarsi come realtà sociale collettiva almeno tendenzial- mente ordinata — ordo ordinans, si è detto — se non proprio come compatta realtà organica. Ora, se rivolgiamo lo sguardo a quella che ancora chiamiamo « società », che cosa vediamo? Vediamo frantuma- zioni e solitudini di individui in competizione tra loro che stanno sempre solo provvisoriamente gli uni accanto agli altri, ma sempre meno vivono insieme condividendo valori, interessi, progetti comuni.

Politici, psicologi sociali e sociologi, del resto, hanno non da ora proclamato la « fine delle società ». In queste nostre, chiamiamole

« post-società », dove stanno i « fatti normativi », le consuetudini che la visione del diritto come « invenzione » valorizza come fonte ultima che legittima il diritto formale? Non più esistono ideologie generalmente condivise che propongano « visioni del mondo »; nemmeno più la fede religiosa, estrema risorsa, è capace di esercitare un’efficace funzione sociale aggregante. La prima guerra mondiale, tra le varie cose, aveva mandato in frantumi buona parte dei legami sociali esistenti senza sostituirli con altri nuovi, spianando anzi la strada al secolo della forza assoluta o, come s’è detto, dello Stato di delitto. Se, poi, alla tragedia della seconda mondiale è seguito un tempo di solidarietà nello sforzo della « ricostruzione » (di cui la Costituzione è un glorioso prodotto), la ricomposizione è durata fino a quando non è stata sconfitta non in una battaglia campale tra idee politiche, ma dalla pervasività d’una visione pratica della vita, efficacissima nemica dei legami sociali, insinuante, seducente e continuativa. Non sono qui da indagare le cause di questo sfaldamento odierno che opera nelle coscienze e nei comportamenti, cioè appunto nella carnalità. In tale contesto, la legislazione non è allora forse un’ultima possibilità di tenuta? Che dire, poi, delle questioni che dovrebbero interpellare la cosiddetta « coscienza sociale », come quelle riguardanti il « bio-diritto »: i dilemmi che riguardano modi di conce- pimento della vita, limiti dei trattamenti medicali, modalità della morte?

Che dire, inoltre, quando si devono affrontare temi su cui, nella società composita del nostro tempo, si affrontano diverse culture, diverse concezioni del mondo sociale?

Si può stabilire una proporzione di questo genere: tante più leggi, quanti meno legami materiali; tanta meno spontaneità, quanta più artificiale forza di legge. D’altra parte, non è forse vero che quasi sempre quando i giudici, Corte costituzionale in testa, attingono le loro ragioni da valori materiali pre-positivi (la « coscienza sociale », per l’appunto), per esempio quando la « ragionevolezza » si contrappone alle « ragioni » del legislatore, c’è sempre qualcuno che dice trattarsi di

« invenzione » non nel senso dell’« invenire », ma in quello dell’« in- ventare » e dell’imporre?

La seconda domanda. Il mondo della disgregazione sociale in cui viviamo è tuttavia tenuto insieme da « fatti normativi » che costitui- scono quella gabbia che si denomina « dittatura del presente » imposta

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dalle ferree leggi della finanza globalizzata e dallo sviluppo illimitato, incontrollato e pervasivo, della tecnica alimentata dall’economia. Sono fatti normativi anch’essi, dotati della massima potenza, ma privi di qualunque legame anche solo lontanamente riconducibile a una qua- lunque nozione di socialità imparentata con la solidarietà. La legittimità del diritto può radicarsi in questo genere di fatti normativi? Se si aspira a qualche cosa di diverso, non si deve sperare di poter fare conto sul valore riformatore della legge? Ogni riforma operata con mezzi giuridici è, per definizione, un atto di autonomia della legge dalla realtà sociale sottostante. In sintesi: la sottovalutazione delle potenzialità riformatrici della legislazione non ci consegna impotenti alla fattualità, anche quando essa ci appaia repulsiva? Nell’epoca post-moderna, dobbiamo accantonare l’idea della legge come fattore di riforma sociale? Quando si parla di nichilismo giuridico, non si indica forse il tempo in cui viviamo, il tempo in cui il diritto rinuncia a un proprio universo di valori politici e si consegna impotente ai fatti normativi dominanti che, oggi, sono quelli or ora detti, per diventarne funzione conseguente e ser- vente? Ma, oltre a questa funzione riformatrice della legge, credo che tutti noi attribuiamo alla legge anche una funzione, per così dire,

« resistenziale », contro le involuzioni culturali che nel momento attuale sono in agguato. Involuzioni che giustificano, anzi nobilitano, le disu- guaglianze, motivano le discriminazioni e perfino si colorano di razzi- smo. Sono tutte cose rispetto alle quali la resistenza potrebbe (almeno fino a un certo punto: le radici, infatti, non sono giuridiche ma culturali) ricorrere alla legge. Saremmo disposti, in questi casi, a esporre la forza della legge alla forza di fatti normativi di questa natura?

La terza domanda. La visione del diritto come « invenzione » implica, in tutti gli ambiti delle professioni giuridiche, l’esistenza di giuristi capaci di guardare la loro esperienza nel profondo. Non può accontentarsi di tecnici della legislazione. Anzi: si potrebbe dire che tanto più essi sono versati nei virtuosismi dell’argomentazione pura- mente legalistica per mezzo dei tanti strumenti della logica giuridica, tanto più collaborano a separare il mondo delle leggi dalla carnalità del diritto e ad aggravare la distanza del diritto dalla sua radice materiale.

Occorrerebbero giuristi che siano persone di cultura esperte di vita, non solo di leggi. Ne conosciamo in numero sufficiente? La formazione che è impartita nelle Università riflette la consapevolezza di questa necessità? Quale responsabilità abbiamo noi stessi quando ci propo- niamo come maestri o, almeno, come insegnanti di diritto?

8. (risposte necessarie) La visione del diritto tratteggiata come

« invenzione » è suggestiva anche ai miei occhi. Sia pure attraverso percorsi diversi, anch’io — chiedo venia nel nominare me stesso — sono giunto a conclusioni simili a queste, per esempio affermando che il diritto, oggi, non è proprietà esclusiva del legislatore, ordinario o costituzionale che sia: « tra Stato costituzionale e qualsiasi ‘padrone del

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diritto’ c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti [giudici, legislatori, uomini di cultura] e, come non ci sono ‘padroni’, così simmetricamente non ci devono essere ‘servi’ del diritto ». Questa diffusione e relativizzazione delle responsabilità non espongono però, forse, ai rischi che sollevano le tre domande esposte prima di questa conclusione? Conclusione che potrebbe suonare così: proponendole, quelle domande, le pongo anche a me. Non avendo risposte sicure, mi auguro che avremo davanti a noi un lungo cammino dialogante con lei, carissimo e illustrissimo professor Grossi.

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