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Approccio nutrizionale nel paziente con diabete di tipo 2

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Academic year: 2021

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RIASSUNTO

Il paziente con diabete di tipo 2, per il suo elevato rischio cardio- metabolico, deve essere orientato a curare con attenzione la qua- lità dei macronutrienti della sua dieta. Tra i grassi, in particolare, dovrà dare la preferenza all’olio di oliva extravergine (per il suo elevato apporto in polifenoli antiossidanti) e agli alimenti ricchi in polinsaturi, sia della serie omega-3 sia omega-6. La restrizione del colesterolo alimentare (e delle uova) va perseguita nonostante l’effetto del colesterolo alimentare stesso sulla colesterolemia, specie nel diabetico, sia modesto. I carboidrati dovranno privile- giare il basso indice glicemico e le fonti integrali, ricche in fibra.

L’apporto di alcol, se moderato, non va proscritto. Nel com- plesso, queste indicazioni suggeriscono che la dieta mediterra- nea, con alcune variazioni mirate, possa continuare a rappre - sentare il modello dietetico di riferimento nel paziente diabetico.

SUMMARY

Nutritional tips for the patient with type 2 diabetes

Type 2 diabetic patients, with their high cardio-metabolic risk, need to pay close attention to the quality of dietary macronu- trients. Among dietary fats, they should prefer extra-virgin olive oil (with its high content of antioxidant polyphenols), and food rich in polyunsaturated fats, both omega-3 and omega-6. Dietary cholesterol (and egg yolk) needs to be restricted, even though it has only weak effects on plasma cholesterol (especially in diabe- tics). Carbohydrates should be selected among low glycemic index products, possibly whole-grain cereals, rich in fiber. Alco- hol intake, if moderate, needs not be discouraged. These gene- ral concepts suggest that the Mediterranean diet, with some selected adaptation, may continue to serve as the reference die- tary model for diabetic patients.

La malattia diabetica di tipo 2 si osserva con una frequenza crescente nel nostro Paese, anche in conseguenza dell’au- mento della prevalenza dell’obesità e, più specificamente, della sindrome metabolica. Nonostante l’ormai ampia dispo- nibilità di farmaci in grado di controllare adeguatamente l’evo-

Rassegna

Approccio nutrizionale

nel paziente con diabete di tipo 2

A. Poli

Nutrition Foundation of Italy, Milano

Corrispondenza: dott. Andrea Poli, Nutrition Foundation of Italy, viale Tunisia 38, 20124 Milano

G It Diabetol Metab 2015;35:51-59 Pervenuto in Redazione il 16-01-2015 Accettato per la pubblicazione il 18-01-2015 Parole chiave: monoinsaturi, polinsaturi, basso indice glicemico, polifenoli, dieta mediterranea, alcol, diabete, sindrome metabolica

Key words: monounsaturated, polyunsaturated, low glycemic index, polyphenols, Mediterranean diet, alcohol, diabetes, metabolic syndrome

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luzione metabolica di questa malattia, e di ridurre il rischio delle sue complicanze cardiovascolari, l’importanza di un cor- retto approccio nutrizionale nella gestione clinica del paziente diabetico è riconosciuta.

In questa rassegna, che non intende essere sistematica, ver- ranno analizzate le più recenti evidenze della letteratura rela- tive al ruolo di una corretta alimentazione nel mantenimento di uno stato di benessere e di salute, essenzialmente con l’obiet- tivo di fornire indicazioni utili alle scelte quotidiane del paziente diabetico. Tali indicazioni, in realtà, non sono particolarmente differenti da quelle che potrebbero essere indirizzate alla po- polazione generale, e specificamente ai soggetti a elevato ri- schio cardiometabolico, che rappresenteranno quindi la base della trattazione; le differenze, quando esistenti, saranno evi- denziate e discusse. Premesso che il contenuto totale calo- rico della dieta deve essere calibrato in modo da riportare il paziente diabetico verso il suo peso norma (anche interve- nendo sull’attività fisica, il cui ruolo nel mantenere l’equilibrio tra le “entrate” e “uscite” energetiche è evidente), è infatti di particolare rilevanza orientare il paziente diabetico a scegliere in maniera appropriata la quota lipidica e glicidica della sua dieta, prestando anche attenzione ad alcuni componenti spe- cifici della dieta stessa che possono rivestire, specie nel suo caso, particolare importanza.

Grassi alimentari

È diffusa ormai la tendenza a non considerare la quota calo- rica totale dei grassi della dieta con un fattore di rischio signi- ficativo, specie in prevenzione cardiovascolare. Il ruolo dell’apporto lipidico totale nella genesi del sovrappeso è pure dibattuto. Lo studio WHI ha dimostrato con chiarezza, a pro- posito, l’inefficacia della riduzione della quota calorica da grassi dal 36 al 26% del totale, in assenza di indicazioni sulla scelta dei grassi alimentari stessi, nel ridurre gli eventi cardio- vascolari e l’incidenza di alcuni tumori, ma anche nel controllo ponderale(1). Un’eccessiva restrizione della quota lipidica della dieta, inoltre, comporta quasi automaticamente un aumento della quota calorica da carboidrati, e ciò, in assenza di scelte corrette (che tengano adeguatamente conto, per esempio, della risposta glicemica indotta dagli alimenti prescelti), può peggiorare il compenso glicemico del paziente. Esiste quindi

ormai consenso sulla necessità di prestare più attenzione alla

“qualità” che alla “quantità” dei grassi alimentari, anche se non si può trascurare il fatto che la quota delle calorie da lipidi, nel nostro Paese, è in media superiore al desiderabile (essendo compresa, nelle differenti fasce di età considerate, tra il 34 e il 37% secondo i dati INRAN relativi al 2005/2006)(2). La tabella 1 sintetizza il ruolo dei vari grassi alimentari in pre- venzione cardiovascolare, e come sia evoluta, tra il 2000 e i giorni nostri, la percezione di tale ruolo nella comunità scien- tifica, secondo il personale parere dello scrivente.

Analizziamo tali aspetti in maggiore dettaglio, iniziando dal ruolo dei grassi saturi. Alcune recenti revisioni della letteratura hanno rimesso in discussione il ruolo di questi acidi grassi nel- l’aumentare il rischio cardiovascolare(3); un recentissimo stu- dio norvegese, condotto su oltre 2400 pazienti coronaropatici, non ha inoltre osservato alcun aumento del rischio di recidive coronariche (o di morte per qualunque causa) tra i soggetti del quartile superiore di consumo dei grassi saturi stessi (> 14% delle calorie totali) rispetto al quartile inferiore (< 10%)(4); l’osservazione era confermata tra i diabetici inclusi nello stu- dio, pari a circa il 13% del campione totale. Il consumo di que- sti acidi grassi nella popolazione generale, in uno studio basato sulle popolazioni EPIC, non predice inoltre il rischio di sviluppare diabete di tipo 2(5).

È probabilmente tuttavia troppo presto per liberalizzare il con- sumo di questi grassi e degli alimenti che li contengono (es- senzialmente le carni – specie bovine – e i loro derivati, latte e derivati, alcuni oli tropicali e i prodotti che li contengono).

L’azione proinfiammatoria di questi acidi grassi è infatti stata recentemente riconfermata, così come il loro effetto di aumento sulla colesterolemia LDL e la minore funzionalità antiaterogena delle HDL indotte dal consumo di grassi saturi(6). È invece pro- babilmente corretto sottolineare l’eterogeneità degli effetti dei vari acidi grassi saturi, e in particolare gli effetti – talora ben dif- ferenti – del consumo delle loro differenti fonti alimentari.

Il consumo di latte e derivati, alla luce dei risultati dello studio MESA(7)e di alcune recenti metanalisi(8), non sembrerebbe per esempio da scoraggiare. Il latte, probabilmente attraverso un effetto sui valori pressori (attribuibile al suo contenuto in cal- cio o in tripeptidi ad azione blandamente ACE-inibitrice)(9), in- durrebbe infatti una significativa riduzione del rischio di eventi cerebrovascolari, senza influenzare significativamente il rischio di eventi coronarici.

Tabella 1 Acidi grassi alimentari e rischio cardiovascolare (CV): uno scenario in evoluzione.

Associazione con il rischio CV: Associazione con il rischio CV:

la visione del 2000 la visione del 2011

Grassi totali ++ =

Grassi saturi ++ +

Grassi insaturi trans ++ +++

Monoinsaturi – =

Polinsaturi omega 6 – – –

Polinsaturi omega 3 – – – –

–: riduzione del rischio CV; +: aumento del rischio CV; =: nessun effetto significativo.

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Rimane invece un bando sostanziale per gli acidi grassi insa- turi a conformazione trans di origine tecnologica, tipici delle vecchie margarine dure “in panetto”, il cui consumo andrebbe minimizzato (per i trans insaturi di origine lattiero-casearia le in- dicazioni sono meno definitive, ma sembrerebbero non ac- creditare, nei lavori più recenti, un loro significativo contributo al rischio cardiovascolare)(10); va tuttavia sottolineato come le margarine più moderne, prodotte con tecniche che non pre- vedono più la saturazione e l’isomerizzazione dei polinsaturi di origine vegetale, riconoscibili anche perché in genere cre- mose, e non dure, non contengano (a differenza delle mar- garine di più vecchia concezione) quantità apprezzabili di questi acidi grassi. L’apporto di acidi grassi insaturi a confor- mazione trans, in ogni caso, è tradizionalmente basso nel no- stro Paese(11).

La limitazione del consumo di questi acidi grassi (ormai pre- senti soprattutto in prodotti di non elevata qualità) appare co- munque di particolare rilevanza nel paziente diabetico. I loro effetti metabolici tendono, infatti, ad amplificare alterazioni già tipiche della malattia diabetica stessa (o della sindrome me- tabolica): come i bassi valori della colesterolemia HDL, la disfunzione endoteliale, la presenza di uno stato microinfiam- matorio(12).

Gli acidi grassi monoinsaturi, tipici dell’olio d’oliva extraver- gine di cui costituiscono oltre il 70% (sotto forma soprattutto di acido oleico), ma presenti anche in molte carni (come il pollo), hanno probabilmente un effetto neutro sulla colestero- lemia totale, e solo blandamente favorevole sulla colesterole- mia HDL ed LDL(13); studi non recenti suggeriscono che essi possano contribuire anche al miglioramento del compenso glicemico, nel soggetto diabetico, se sostituiti nella dieta a carboidrati ad alto indice glicemico(14). In ogni caso, l’olio di oliva extravergine deve continuare a rappresentare la base della quota lipidica sia nella popolazione generale sia nel pa- ziente diabetico: ma probabilmente più per il suo elevato te- nore in polifenoli che per l’altissimo contenuto in monoinsaturi prima ricordato; il recente studio PREDIMED, condotto su una popolazione di soggetti spagnoli in prevenzione primaria, per circa la metà diabetici, mostra a proposito la rilevante diffe- renza, in termini di rischio cardiovascolare, indotta dal con- sumo dell’extravergine, ricco in polifenoli, somministrato a uno dei due gruppi di intervento dello studio, rispetto al consumo di olio di oliva normale, a contenuto in polifenoli molto infe- riore e largamente prevalente nel gruppo di controllo(15). I po- lifenoli, tra l’altro (e soprattutto, in vitro, quelli del tè verde), hanno azione inibente su alcuni enzimi amidolitici come l’alfa- amilasi, rallentando la digestione degli amidi e quindi l’assor- bimento del glucosio e la comparsa del picco glicemico, con un effetto acarbosio-simile (anche se naturalmente molto più blando)(16).

I polinsaturi della serie omega-6 (e soprattutto l’acido lino- leico), riccamente rappresentati in tutti gli oli di semi, ma anche nella frutta secca, nella verdura e nei cereali, in alcune carni (come il pollame), recentemente riscoperti dopo anni di disattenzione della comunità medico-scientifica, sono gli acidi grassi più efficaci nel ridurre la colesterolemia totale e LDL(17). L’azione di controllo sulla colesterolemia sarebbe almeno in parte dovuta alla capacità di questi acidi grassi di ridurre i

livelli della PCSK9, una proteina sintetizzata dal fegato e rila- sciata nel torrente ematico che, legandosi alla LDL captata dal recettore per le LDL stesse ne favorisce la degradazione, dopo l’internalizzazione nell’epatocita, prevenendone così la ricircolazione sulla superficie cellulare e di conseguenza la possibilità di contribuire ulteriormente alla captazione delle LDL plasmatiche(18).

Va sottolineato che, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, questi acidi grassi non svolgono una significativa azione proinfiammatoria, e il loro consumo non si associa a un aumento dei livelli dei marker di stress ossidativo(19). L’apporto di questi acidi grassi con la dieta è stato recentemente asso- ciato a una significativa riduzione del rischio cardiovascolare in una metanalisi statunitense; gli autori di questa metanalisi hanno correlato la sostituzione del 5% delle calorie da saturi con acido linoleico con una riduzione del 9% del rischio co- ronarico(20).

Anche i livelli plasmatici di acido linoleico, per parte loro, cor- relano negativamente con il rischio cardiovascolare stesso(21) e favorevolmente, invece, con la sensibilità insulinica(22). Se- condo questo secondo studio(22), scandinavo, livelli elevati di acido linoleico nel plasma si associano anche a una riduzione del 50% circa del rischio di sviluppare malattia diabetica nei 5 anni successivi(22). La ricca presenza di questi acidi grassi nella frutta secca può inoltre contribuire a spiegare, almeno in parte, l’effetto protettivo rilevato nel braccio “nuts” dello stu- dio PREDIMED e, più in generale, della frutta a guscio, sul ri- schio cardiovascolare.

L’apporto di omega-6 è in media piuttosto basso in Italia: se- condo la citata indagine INRAN-SCAI, nella quale gli omega-6 sono stati purtroppo rilevati assieme ai polinsaturi della serie omega-3, l’apporto cumulato di omega-6 e omega-3 copre solamente circa il 4% delle calorie totali(2). Un aumento del loro apporto alimentare, da oli di semi, vegetali e frutta secca, potrebbe contribuire a ridurre il rischio coronarico nel nostro Paese.

I polinsaturi a lunga catena della serie omega-3 (EPA – acido eicoisapentenoico – e DHA – acido docosaesaenoico), pre- senti soprattutto in molti animali marini e in particolare in pesci grassi come il salmone, le aringhe, lo sgombro, possiedono numerosi effetti favorevoli, probabilmente rilevanti anche nel paziente diabetico, sulla trigliceridemia (anche se talora tale ef- fetto si associa a un aumento paradosso della colesterolemia LDL), sui livelli di alcuni marker di infiammazione come la PCR o la IL-6, sull’aggregazione piastrinica(23). Questi effetti sono stati in larga parte tradizionalmente attribuiti soprattutto al- l’EPA, l’omega-3 a 20 atomi di carbonio, e alla sua capacità di generare, per azione di enzimi della famiglia della ciclossi- genasi e della lipossigenasi (COX e LOX), eicosanoidi dotati di favorevole attività sui fenomeni infiammatori, l’aggregazione piastrinica, il tono vascolare. Attualmente, è invece noto che questi effetti sono in larga parte attribuibili anche al DHA, un omega-3 a 22 atomi di carbonio (e sono quindi di difficile comprensione secondo il modello “eicosacentrico” prima ri- cordato); l’azione antinfiammatoria di questi acidi grassi, inol- tre, è mediata da composti (come le resolvine) la cui origine metabolica non correla con le attività enzimatiche della COX e della LOX “classiche”(23).

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Nel paziente coronaropatico, o comunque portatore di lesioni coronariche significative, questi acidi grassi svolgerebbero fa- vorevoli effetti diretti sulla placca ateromasica: essi sembrano in grado di modificare la struttura delle lesioni ateromasiche stesse aumentando la loro stabilità e in particolare, specie in combinazione con le statine, aumentando lo spessore del cappuccio della placca e riducendone l’infiltrazione lipidica(24). Larga parte di questi effetti protettivi, in realtà, è descritta sol- tanto per apporti di questi acidi grassi tipici del trattamento farmacologico (e difficilmente raggiungibili mediante una dieta adeguata); è tuttavia plausibile che, anche a dosaggi alimen- tari, essi possano influenzare, seppure meno ampiamente, questi fenomeni o la loro evoluzione.

La possibilità che gli omega-3 possano peggiorare la sensi- bilità insulinica, sollevata alcuni anni addietro, non sembra confermata dai dati più recenti.

Gli omega-3 a più corta catena (essenzialmente l’acido alfa- linolenico, reperibile in molti vegetali e specificamente nelle noci) ha effetti metabolici meno chiari, anche perché la sua conversione verso uno dei due omega-3 a lunga catena prima ricordati (il DHA) è limitata nell’uomo(25).

L’apporto alimentare di colesterolo va moderato, anche se il suo effetto sulla colesterolemia totale e LDL è probabilmente, in media, blando o molto blando. Nel paziente diabetico, ca- ratterizzato in genere da un pattern di tipo “sintetico” e non

“assorbitivo”(26)(dato cioè da un contributo proporzionalmente maggiore della sintesi epatica che dell’assorbimento intesti- nale ai livelli plasmatici del colesterolo LDL), il colesterolo pre- formato presente negli alimenti influenza infatti in maniera ridotta la colesterolemia(27); è peraltro possibile (come sugge- riscono alcuni studi recenti) che il colesterolo alimentare stesso aumenti il rischio di sviluppare la malattie diabetica nella po- polazione sana(28), attraverso meccanismi non ben compresi, ma che potrebbero correlare con il ruolo del colesterolo ali- mentare nella sintesi intestinale di chilomicroni. È infatti possi- bile che una maggiore disponibilità di colesterolo intestinale faciliti la sintesi, nel villo, dei chilomicroni, e che tali particelle, dopo l’attacco da parte della lipoproteina lipasi (LPL), e quindi trasformate in remnant, trasferiscano una maggiore quantità di trigliceridi negli epatociti, riducendo la sensibilità epatica al- l’insulina. L’apporto di colesterolo alimentare va pertanto mo- derato, anche, come si ricordava, in assenza di effetti particolarmente marcati sulla colesterolemia. Una delle più ti- piche fonti di colesterolo alimentare, e cioè il tuorlo d’uovo, è inoltre ricco di colina; secondo dati recenti, in presenza di un microbiota intestinale adeguato, la colina può essere conver- tita in TMA (trimetilamina) che, ossidata a livello epatico a TMAO, svolge una documentata azione aterogena(29). Anche per questi motivi, l’apporto alimentare di uova non dovrebbe probabilmente eccedere le due unità settimanali.

Carboidrati e zuccheri

Nella popolazione generale i carboidrati (inclusi gli zuccheri) do- vrebbero coprire tra il 50 e il 60% del fabbisogno calorico gior- naliero complessivo. Gli zuccheri totali (che comprendono quelli

aggiunti agli alimenti e alle bevande – tipicamente saccarosio – e quelli naturalmente contenuti nella frutta e nel latte) non do- vrebbero eccedere, in particolare, il 15% dell’apporto calorico totale giornaliero secondo i LARN recentemente pubblicati.

L’apporto alimentare di questi macronutrienti è intuitivamente di grande importanza nel paziente diabetico, ma è significativo che le principali linee guida, a proposito, concordino nel man- tenere la quota dei carboidrati nel paziente diabetico a un livello sostanzialmente simile a quello della popolazione generale; se- condo le Raccomandazioni Nutrizionali 2013-2014 del Gruppo di Studio congiunto ADI-AMD-SID, l’apporto calorico giorna- liero dovrebbe essere compreso tra il 45% e il 60% per i car- boidrati totali e non superiore al 10% per il saccarosio aggiunto (nei soggetti in buon compenso metabolico)(30).

È tuttavia importante sottolineare alcuni aspetti di rilievo, che anche in questo caso orientano a porre un’attenzione cre- scente alla qualità dei carboidrati.

Gli amidi, che rappresentano la quota largamente prevalente dei carboidrati che introduciamo quotidianamente, sono com’è noto costituiti da lunghe catene di molecole di gluco- sio. La struttura di questi polimeri è ormai ben conosciuta, ed è noto che la loro digeribilità da parte degli enzimi digestivi è piuttosto variabile. La digeribilità degli amidi, infatti, è influen- zata da vari parametri (struttura, trattamento tecnologico uti- lizzato durante la preparazione dello specifico alimento considerato, tempi e condizioni di cottura); ancora, la con- temporanea presenza o meno di fibra, di grassi o di altri ma- cronutrienti (come le proteine), può influenzare lo svuotamento gastrico, e quindi il rilascio e l’assorbimento del glucosio degli amidi, nonché la risposta insulinica.

Amilosio e amilopectina, per esempio, che costituiscono per il 25% e il 75% circa, rispettivamente, l’amido di frumento, vengono attaccati in maniera diversa, e quindi digeriti in tempi diversi, dagli enzimi amidolitici, perché la struttura delle ca- tene di glucosio che li caratterizzano – rispettivamente lineare e ramificata – offre un diverso numero di punti d’attacco agli enzimi amidolitici stessi. La cottura, favorendo la cosiddetta gelatinizzazione degli amidi, ne facilita la digestione da parte delle amilasi, tanto più quanto è più prolungata. Il raffredda- mento successivo alla cottura induce il “riavvolgimento” delle catene di amidi, nel processo detto di retrogradazione, ripor- tando gli amidi stessi a una condizione di minore digeribilità.

Questi complessi fenomeni sono frequentemente indagati, nella loro interezza, valutando la risposta glicemica succes- siva al consumo di un alimento; tale risposta dipende (oltre che da parametri individuali, non facilmente quantificabili), dal- l’indice glicemico degli alimenti e dalla loro quantità.

L’indice glicemico, com’è noto, rappresenta l’area incremen- tale della curva glicemica (AUC) conseguente al consumo di una quantità standard di un alimento (specificamente, la quantità che contiene 50 grammi di carboidrati disponibili), raffrontata all’area incrementale della curva glicemica ottenuta dopo il consumo di 50 g di glucosio in soluzione acquosa(31). L’indice glicemico è quindi una caratteristica di ogni specifico alimento; moltiplicato per la sua quantità di consumo forni- sce un parametro, il carico glicemico(32), che meglio correla con la risposta glicemica postprandiale successiva al con- sumo di una porzione di un alimento.

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Le obiezioni all’uso dell’indice glicemico in nutrizione umana sono note; in particolare è incerto se l’indice glicemico dei sin- goli componenti di un pasto complesso influenzi nella dire- zione prevista la risposta glicemica finale al pasto stesso, ed eventualmente in che termini. La maggior parte della lettera- tura disponibile, tuttavia, suggerisce che questo criterio possa consentire di categorizzare in maniera appropriata i carboi- drati alimentari, stimandone l’impatto su alcuni parametri me- tabolici, in primis la glicemia e la risposta insulinica. Sul tema Nutrition Foundation of Italy (NFI) ha organizzato, nell’estate del 2013, una Conferenza di Consenso a Stresa, cui hanno preso parte i maggiori esperti mondiali del settore. I lavori del convegno hanno concluso che esiste consenso su alcuni punti specifici, relativi soprattutto agli effetti favorevoli di un’ali- mentazione selettivamente arricchita in alimenti a basso in- dice glicemico (e quindi a ridotta risposta glicemica) sul rischio cardiovascolare e metabolico (Tab. 2)(33).

Queste conclusioni hanno un solido retroterra clinico e speri- mentale. Gli effetti sul compenso metabolico nel paziente dia- betico e sul rischio di sviluppare il diabete sono stati oggetto di recenti conferme(34,35), così come l’effetto di riduzione degli eventi coronarici(36,37); a proposito è interessante anche ricor- dare i risultati di STOP-NIDDM, uno studio randomizzato e controllato, condotto impiegando l’acarbosio (o un placebo) in circa 1400 soggetti con ridotta tolleranza glicidica. In que- sto studio, come è noto, si è osservata una riduzione del 36%

del rischio di sviluppo di diabete, e di ben il 50% del rischio di eventi coronarici(38). Poiché l’unico effetto farmacologico del- l’acarbosio è l’inibizione dell’alfa-amilasi, e quindi il rallenta- mento dell’assorbimento del glucosio dagli amidi alimentari, il suo effetto è concettualmente simile a quello dell’adozione di

una dieta a basso indice e carico glicemico, che pure induce una riduzione della risposta glicemica: il favorevole risultato di STOP-NIDDM si riflette pertanto, concettualmente, anche sugli interventi di controllo della risposta glicemica mediante interventi di natura dietetica.

Anche il rischio neoplastico sembra influenzato favorevol- mente dalla scelta preferenziale di elementi a basso indice gli- cemico(39), probabilmente per la ridotta risposta insulinica indotta da questi alimenti (l’insulina, come è noto, presenta analogie strutturali con una famiglia di fattori di crescita, gli IGF, i cui livelli, secondo alcuni studi di epidemiologia osser- vazionale, correlano con un blando aumento del rischio neo- plastico stesso).

La rilevanza clinica dell’uso dell’indice glicemico, come si ricor- dava, è tuttora dibattuta, come dimostra una serie di prese di posizione recenti, sia a favore sia contro tale ruolo(40,41); è tutta- via difficile immaginare, alla luce delle conoscenze attuali, che un parametro che condiziona la risposta glicemica successiva al consumo di un alimento possa essere irrilevante nella ge- stione del paziente diabetico o della popolazione generale.

L’adozione del criterio dell’indice glicemico consente comun- que di gerarchizzare gli amidi alimentari in modo relativamente semplice, e si traduce in implicazioni pratiche per la vita quo- tidiana. La pasta all’italiana (preparata a partire da semola di grano duro, cotta al dente, con l’aggiunta di sughi con una non trascurabile componente lipidica – olio d’oliva o burro) presenta per esempio un indice glicemico più basso di quello del pane comune e delle patate, e induce quindi una risposta glicemica sensibilmente migliore di entrambi questi alimenti.

Un quadro riassuntivo dell’indice glicemico di alcuni alimenti di uso comune nel nostro Paese è presentato nella tabella 3.

Lo zucchero da cucina (saccarosio) merita a proposito un di- scorso specifico. Il saccarosio è caratterizzato da un indice gli- cemico relativamente basso (circa 66, raffrontato al glucosio, il cui indice glicemico è per definizione pari a 100); ma tale ridotto indice glicemico è dovuto al fatto di essere costituito per il 50%

Tabella 2 Indice glicemico, carico glicemico, rispo- sta glicemica: le principali conclusioni del Scientific Consensus Summit di Stresa (2013)(33).

La scelta preferenziale di alimenti a basso indice gli- cemico, che inducano una bassa riposta glicemica:

– riduce il rischio di sviluppare, nel tempo, il diabete di tipo 2, e migliora il compenso metabolico nei pa- zienti diabetici;

– riduce il rischio di eventi cardiovascolari, e specifi- camente dell’infarto miocardico;

– migliora i livelli della colesterolemia LDL, della tri- gliceridemia e della colesterolemia HDL, e i livelli di alcuni marker infiammatori (come la PCR);

– può essere utile nelle strategie di controllo ponde- rale.

Indice glicemico e carico glicemico vanno sempre valutati nel contesto di una dieta equilibrata, e sono complementari all’uso di altri parametri che caratte- rizzano i carboidrati, come il tenore in fibra e la quota di cereali integrali; gli effetti del loro impiego sono probabilmente maggiori nei soggetti con resistenza all’insulina.

Tabella 3 Indice glicemico di alcuni alimenti, rispetto al glucosio. Per ottenere il valore rispetto al pane bianco, moltiplicare per 1,38.

Cibo Indice

glicemico

Pomodori 9

Ciliegie 23

Fagioli 30/45

Mele 38

Spaghetti 38

Maccheroni 49

Pizza 62

Saccarosio 66

Pane bianco standard 72

Patate bollite 86

Glucosio 100

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sica, dominante fino a poco tempo addietro, la fibra (e parti- colarmente la fibra solubile) sarebbe in grado di adsorbire gli zuccheri semplici e i trigliceridi rilasciati dagli enzimi digestivi intestinali, rallentandone così l’assorbimento e modulando quindi l’aumento delle concentrazioni plasmatiche di questi composti nella fase postprandiale(48). A quest’effetto, di tipo sostanzialmente “fisico”, che si osserva soprattutto per ap- porti di fibra elevati o molto elevati, si è aggiunta recentemente la conoscenza degli effetti “prebiotici” della fibra alimentare, e cioè della sua capacità di influenzare la composizione del mi- crobiota intestinale, selezionando di fatto i ceppi batterici in grado di metabolizzarla a scopo energetico. Il metabolismo batterico della fibra alimentare genera inoltre composti di varia natura, tra cui dominano gli acidi grassi a corta catena (butir- rato, propionato), caratterizzati dalla capacità di svolgere un effetto trofico sulla mucosa del colon e significativi effetti me- tabolici (per esempio l’inibizione della sintesi del colesterolo a livello epatico)(49). Questi effetti della fibra spiegano probabil- mente il motivo per cui, in numerose metanalisi, l’apporto ali- mentare di questi composti correla con una ridotta incidenza di molte patologie, tra cui le malattie cardiovascolari, le ma- lattie metaboliche, lo stesso sovrappeso(50,51).

L’apporto di fibra, nel nostro Paese, è peraltro basso, e ben lontano dalle raccomandazioni ufficiali. Secondo i più volte ci- tati dati INRAN, esso si colloca in media attorno a 20 g/die (e quindi attorno a 10 g/1000 kcal)(2), mentre le indicazioni delle società di dietetica e diabetologia, a proposito, suggeri- scono circa 15 g/1000 kcal(30). L’uso di alimenti prodotti a par- tire da cereali integrali può contribuire ad aumentare l’apporto di fibra incrementando al tempo stesso anche l’apporto di an- tiossidanti e altri fitocomposti di interesse nutrizionale.

Alcol

Gli studi epidemiologici di carattere osservazionale concor- dano nell’attribuire al consumo di alcol (sotto qualunque forma: vino, birra o liquori) effetti potenzialmente favorevoli sul rischio cardiovascolare del paziente (che è ridotto di un terzo circa tra i consumatori di non più di due-tre drink al giorno se di sesso maschile e non più di uno-due drink al giorno se di sesso femminile) e sulla mortalità per tutte le cause (che ha un nadir per livelli di consumo più bassi, pari a uno-due drink nei soggetti di sesso maschile e uno tra le donne)(52). Un drink, come è noto, è rappresentato da un bicchiere standard di vino (150 ml), oppure da una birra media (una lattina) o ancora da una dose standard di un superalcolico: in tutti e tre questi casi, infatti, l’apporto di alcol effettivamente introdotto nell’or- ganismo, è compreso tra 10 e 13 g/die.

Sul piano più strettamente metabolico, le stesse dosi di alcol sono in grado di aumentare i livelli del colesterolo HDL, di mi- gliorare la sensibilità all’insulina, di ridurre i livelli dei marker di infiammazione come la PCR(52). A dosi più elevate l’alcol svolge invece un’azione sfavorevole sui livelli dei trigliceridi e della pressione arteriosa. L’effetto complessivo sull’indice di massa corporea, e in particolare sul grasso addominale, è complesso (non lineare), ma sembra mostrare, nonostante il da fruttosio, che induce una risposta glicemica molto bassa ed

evidentemente indiretta. Ciò suscita perplessità in una parte della comunità medico-scientifica: il dibattito sugli effetti meta- bolici del fruttosio è infatti piuttosto aperto.

Molti studi suggeriscono che il fruttosio stesso (rapidamente ottenuto dall’idrolisi del saccarosio a livello intestinale) possa svolgere effetti sfavorevoli sulla trigliceridemia, sull’infiltrazione li- pidica epatica, sul peso corporeo, sulla sensibilità all’insu-

lina(42,43). La maggior parte dei dati sperimentali a supporto di

questa visione, in realtà, è stata ottenuta in studi condotti utilizzando livelli elevati, e talvolta estremamente elevati (fino a 200 g/die), di fruttosio alimentare; alcune metanalisi recenti (svolte soprattutto dal gruppo canadese di David Jenkins) hanno rilevato come, a livelli di consumi non eccessivi, gli effetti metabolici del fruttosio siano invece sostanzialmente neutri(44,45). Le Raccomandazioni Italiane per il paziente diabetico sugge- riscono comunque, come si ricordava, un consumo alimen- tare di saccarosio che non ecceda, nei soggetti in buon compenso metabolico che lo desiderino, il 10% delle calorie totali(30), nell’ambito di un apporto calorico totale da carboi- drati del 45-60%. Tali raccomandazioni, anche alla luce dei dati più recenti, sembrano del tutto condivisibili.

Proteine

L’apporto proteico della dieta è meno variabile, e meno facil- mente modificabile, di quello di grassi e di carboidrati. In quasi tutte le popolazioni occidentali, infatti, l’apporto calorico da proteine copre in media circa il 12-18% del totale. In generale, si ritiene che il paziente diabetico non necessiti di specifiche indicazioni relative all’apporto dietetico di questi macronu- trienti rispetto alla popolazione generale.

Diete con un lieve aumento del contenuto proteico (fino al 20% circa o poco più), in assenza di danno renale, possono peraltro aiutare la perdita ponderale, essenzialmente per l’ele- vato potere saziante delle proteine e per il “costo energetico”

maggiore associato alla loro digestione(46,47)o, nel paziente diabetico anziano, anche per concorrere al controllo della sar- copenia. Come nella popolazione generale, il rapporto tra pro- teine di origine animale e proteine di origine vegetale può essere approssimativamente attorno a 1:1.

Nel diabetico nefropatico l’apporto proteico va invece pro- porzionalmente ridotto(30).

Fibra alimentare

La fibra alimentare, com’è noto, rappresenta la quota dei car- boidrati alimentari che, per la loro struttura molecolare (tipo- logia o sequenza dei monosaccaridi costitutivi, tipo di legame che li connette), non sono attaccabili dagli enzimi digestivi del nostro organismo, e che di conseguenza raggiungono im- modificati i tratti più distali dell’intestino stesso.

Gli effetti metabolici della fibra alimentare, e in particolare quelli che riguardano il metabolismo postprandiale di trigliceridi e zuccheri, sono conosciuti da tempo. Secondo la visione clas-

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si osserva nel gruppo di controllo, che seguiva durante lo stu- dio una dieta ipolipidica(15).

L’effetto della dieta mediterranea nel paziente diabetico sem- bra in realtà solo in parte specifico. Una recente rassegna sul- l’argomento, di autori inglesi, ha comparato l’effetto di diete a basso tenore di carboidrati, a basso indice glicemico, a ele- vato tenore proteico o di tipo mediterraneo sul profilo lipidico, il compenso metabolico e il peso corporeo di soggetti diabe- tici(59). Gli effetti delle varie diete non si sono rivelati particolar- mente differenti tra di loro. Le diete a basso tenore di carboidrati, a basso indice glicemico e le diete di tipo medi- terraneo hanno significativamente migliorato il profilo lipidico, riducendo la colesterolemia LDL e la trigliceridemia e aumen- tando la colesterolemia HDL. L’effetto sul peso corporeo ha mostrato piccole differenze, che apparentemente fanno emer- gere un effetto blandamente più favorevole per le diete a basso tenore di carboidrati. Sostanzialmente analogo è l’ef- fetto sul compenso glicemico. La rassegna sembra suggerire che siano numerosi i modelli dietetici che possono svolgere effetti favorevoli nel paziente diabetico, e lascia quindi ipotiz- zare una flessibilità, a proposito, che tenga adeguatamente conto anche delle preferenze del paziente.

Conclusioni

Pur nel contesto di un doveroso controllo dell’apporto calo- rico totale, specie in presenza di sovrappeso, la più recente ricerca nutrizionale tende a sottolineare soprattutto l’impor- tanza delle differenze di tipo qualitativo, nell’apporto dei vari macronutrienti, rispetto a quelle di tipo meramente quantita- tivo.

Una scelta adeguata dei grassi alimentari, che privilegi i mono- e i polinsaturi (riservando all’olio d’oliva extravergine un ruolo di primo piano), e l’uso preferenziale di carboidrati a basso in- dice glicemico, con un adeguato apporto di fibra (per esem- pio da cereali integrali) rappresentano, sulla base delle conoscenze attuali, l’ossatura di un corretto approccio nutri- zionale sia nel paziente diabetico sia nella popolazione gene- rale.

Conflitto di interessi

Nessuno.

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suo non basso contributo calorico (7 kcal/g) un effetto favo- revole – e cioè una riduzione di questi parametri – per valori di consumo attorno a uno-due drink al giorno(53).

Anche il rischio di incorrere nella malattia diabetica sembra in- fluenzato favorevolmente dal consumo di dosi moderate di alcol; la riduzione è sensibile (fino al 50%) per i livelli di con- sumo moderato prima definiti(54). Nel paziente diabetico sem- bra particolarmente rilevante anche la riduzione del rischio coronarico associata al consumo moderato di alcol(55). Queste informazioni di epidemiologia osservazionale (alle quali manca quindi il supporto di uno studio di intervento control- lato) sono tuttavia temperate, nel paziente diabetico, dal pos- sibile rischio di ipoglicemia (che suggerisce che il consumo di alcol sia sostanzialmente limitato ai pasti) nonché – come in tutta la popolazione generale – da possibili rischi di compor- tamenti d’abuso.

Come descritto in un recente documento di consenso, sot- toscritto da larga parte della comunità medica italiana e in par- ticolare da ambedue le associazioni nazionali dei diabetologi, il consumo di alcol non va quindi proposto in un’ottica pre- ventiva a nessun soggetto astemio, anche se non va disin- centivato tra chi spontaneamente ne consumi in modo moderato e sia classificabile a basso rischio di abuso(52).

Modelli dietetici specifici

Molti studi sperimentali, ma anche osservazioni epidemiolo- giche di carattere osservazionale, suggeriscono che la dieta mediterranea possa essere utile nella prevenzione del diabete e nel controllo dell’evoluzione della malattia(56,57). Il concetto di dieta mediterranea, tuttavia, è ben poco definito, e fre- quentemente incorpora aspetti non tipici della dieta caratte- ristica delle aree meridionali del nostro Paese verso la metà del secolo scorso, ma piuttosto ormai caratteristiche di quella che potremmo definire “un’alimentazione equilibrata”. Il più ti- pico di questi aspetti è il consumo di pesce, che viene in ge- nere collegato alla dieta mediterranea in quasi tutte le pubblicazioni sull’argomento, ma che era piuttosto basso (e comunque inferiore, in grammi/die, al consumo di carne) nelle popolazioni del meridione d’Italia, già a pochi chilometri dalla linea costiera(58).

Con queste non banali limitazioni, il modello mediterraneo classico (una dieta a elevato apporto di vegetali, con un basso contenuto di carne rossa, un limitato apporto di latticini a basso tenore di grassi, con l’olio di oliva extravergine come base lipidica) sembra effettivamente associarsi a un migliore compenso metabolico e a un minore rischio delle compli- canze tipiche della malattia.

Lo stesso studio PREDIMED, prima ricordato, mostra che l’in- tegrazione dietetica di una popolazione spagnola costituita per il 50% dei diabetici con un olio d’oliva extravergine (in so- stituzione dell’olio di oliva normale), o con frutta secca (ricca di acidi grassi polinsaturi) riduce significativamente il rischio di eventi cardiovascolari (–30%) e specie di ictus (–36% nel gruppo supplementato con olio di oliva extravergine e –46%

nel gruppo supplementato con frutta secca), rispetto a quanto

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