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372/2016 Calvino sospeso

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372

dicembre 2016

Calvino sospeso

Pier Aldo Rovatti Dentro i silenzi del signor

Palomar 4

Davide Zoletto Marcovaldo, straniero in città 15 Antonello Sciacchitano “Una storia sui vari gradi

di esistenza” 24

Stefano Tieri Invisibili o invivibili? Le nostre città

attraverso Calvino 36

Paolo Zanotti Il gioco e il Grande Gioco.

Sul Sentiero dei nidi di ragno 49 Nicola Narciso Le altre Lezioni americane 66

MATERIALI

Edoardo Camurri Finnegans Wake, un’opera

psichedelica 75

Raoul Kirchmayr Warburg e l’antropologia evoluzionista. Note di metodo su survival e

Nachleben 92

Survival e Nachleben in Warburg. Breve antologia

di testi di riferimento 121

Linda Bertelli Osservazioni sull’inconscio ottico 133 Diana Napoli Il fantasma del padre e la sua legge.

Il Mosè di Freud da Certeau a Derrida 157

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto,

Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio,

Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Finito di stampare nel novembre 2016

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3

Calvino sospeso

C

osa è rimasto “sospeso” nell’opera di Ita- lo Calvino? Quale compito di pensiero da sviluppare ci ha lasciato in eredità, co- sa effettivamente ha lasciato in sospeso e non ha potuto realizzare durante la sua vita?

Gli interventi che pubblichiamo tentano di cominciare a ri- spondere a queste domande. Sergia Adamo ha dato spunto all’ini- ziativa curando la rassegna “Stai per cominciare a leggere… Italo Calvino, trent’anni dopo” (organizzata dal Comune di Monfalco- ne tra fine 2015 e inizio 2016).

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4 aut aut, 372, 2016, 4-14

Dentro i silenzi del signor Palomar

PIER ALDO ROVATTI

N

el 1983 avevo pubblicato su “aut aut”

alcune pagine dal titolo Narrare un sog- getto. Nota su “Palomar” di Italo Calvi- no. A partire da una lettura puntuale dell’esperienza racconta- ta in Palomar (che era uscito allora presso Einaudi), ponevo una serie di domande di taglio filosofico e concludevo così: “Queste domande configurano un compito incerto e contraddittorio: un imparare a guardar di lato, a non guardare nel vuoto, pur sapen- do che è lì sotto, e ciò nonostante un continuare a guardare, non abdicando al compito” (cfr. “aut aut”, 201, maggio-giugno 1983, pp. 36-37).

Vorrei ora ripartire da qui, magari abbassando il tono e for- se avvicinandomi un po’ di più alle pagine stesse di questo testo di Calvino che considero molto importante per rispondere alle domande che tuttora poniamo a noi stessi, dopo oltre trent’anni dalla sua pubblicazione. Mi pare che Palomar resti un’esperienza di scrittura e di pensiero che non solo non va dimenticata (e con essa Italo Calvino) come qualcosa che appartiene a una stagio- ne trascorsa, ma che ci riguarda sempre più da vicino e che sia- mo ben lontani dall’aver fatta nostra. Complessivamente, è un’e- sperienza di “etica minima” che Calvino lascia sospesa e che sta a noi far affondare nell’oblio oppure riprendere e utilizzare co- me una sorta di antidoto alle crescenti inquietudini culturali del nostro presente.

Personalmente ritengo che sia per noi fondamentale, quasi vi-

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5

tale, appropriarci di questi “silenzi del signor Palomar” che Cal- vino raccontava in primissima persona, silenzi che nell’andamen- to delle sue pagine diventano via via più “rimuginanti”, rivelan- doci che le bizzarre e quasi disordinate “osservazioni” possono rappresentare un modo di pensare che è al tempo stesso un mo- do di vivere. Anche per me la parola “etica” fa problema, qua- si che nel momento in cui la adoperiamo ci costruissimo da so- li una specie di gabbia: ho tentato di liberarla un po’ con l’ag- gettivo “minima”, che la indebolisce, comunque non ho dubbi che ne abbiamo un gran bisogno, soprattutto adesso, e che Cal- vino/Palomar ci fornisce un prezioso suggerimento con quel suo

“mordersi la lingua” prima di parlare, gesto semplice ma diffici- lissimo da eseguire, partendo dal quale cominciamo a capire di che natura siano quei “silenzi” e che conseguenze sociali potreb- bero avere se riuscissimo a praticarli.

Sempre che ci convincessimo che è essenziale, irrinunciabile, imparare a farlo.

Il contesto di Palomar e il nostro

Eravamo all’inizio degli anni ottanta, in un contesto culturale molto diverso, più ricco e inquieto. Non è un caso che delle “osservazioni”

che Calvino fa fare al suo personaggio si parlò allora, tra l’altro, su una rivista di filosofia (“aut aut”, appunto) e specificamente in uno spazio dedicato alla ricezione del cosiddetto “pensiero debole”, che era appena entrato con qualche rumore nel dibattito pubblico.

In questo spazio cominciavano a essere ospitate voci provenienti da varie sensibilità filosofiche, non solo di alcuni di coloro che avevano partecipato direttamente all’antologia feltrinelliana fresca di stampa, ma anche di altri che potevano entrare in risonanza con il progetto “debolista” anche in ambito internazionale (in seguito, e per parecchi anni, i reading di Filosofia curati da Gianni Vattimo per Laterza ampliarono tale iniziativa).

Calvino non partecipò direttamente, tuttavia entrò nella sce- na attraverso le mie note sul signor Palomar. Fu una forzatura?

Magari destò qualche sorpresa, o magari ci sembra oggi che po- tesse farlo guardando indietro da un contesto, quello attuale, nel

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quale la “ricchezza” cui ho accennato, che significava maggiore libertà di pensiero, ha poi lasciato il posto a un senso di rigidità disciplinare e forse dunque di “povertà”, malcelato in uno scia- me culturale che moltiplica vertiginosamente i rumori mediatici.

L’osservatorio che Calvino installa nel suo personaggio ten- de a catturare onde minori e minimi dettagli, lavora per attuti- re i rumori e costruire dei silenzi. Mi sembrava del tutto conso- nante con l’esperienza di pensiero che alcuni di noi credevano importante, anche politicamente. La mia intenzione era l’oppo- sto di un tirar dentro, magari per i capelli, un nome grosso del- la letteratura contemporanea (semplicemente, poi, non c’era al- cun “dentro” o squadra che facesse campagna acquisti): vedevo, invece, in Calvino e in quel suo singolare tipo di narrazione, ciò che la mia (e nostra) esigenza di mettere in piedi un diverso eser- cizio di pensiero poteva assumere quasi a modello di scrittura.

Oggi siamo preda di molte amnesie e prevale il cinismo dell’o- blio, ma allora l’amicizia tra narrare e pensare appariva a mol- ti una posta in gioco importante per la filosofia e per il sapere in generale. Calvino era, e resta oggi sotto traccia, un esempio di pensiero che decostruisce il monolitismo del discorso in una se- quenza di segmenti e di episodi narrati, proprio come accade in Palomar: osservazioni all’apparenza disperse che sono esse stes- se il filo che la nostra ansia speculativa pretenderebbe già lì, be- ne articolato in una premessa teorica. Il signor Palomar – è Cal- vino stesso a riconoscerlo – se è vero che cerca qualcosa di simile a una “saggezza”, di fatto non la troverà.

Perciò non è affatto irrilevante considerare anche il microcon- testo da cui si produce Palomar: Calvino appresta una specie di rubrica intitolata “le osservazioni del signor Palomar”, qualcosa di simile a una rubrica da terza pagina di quotidiano, e che infat- ti comparirà parzialmente sul “Corriere della Sera” e marginal- mente anche su “la Repubblica”. Il tono dei suoi “pezzi”, che va accumulando e in parte pubblicando, è molto diverso da quello dell’invettiva piratesca di Pasolini, tuttavia è un particolare cu- rioso il fatto che è proprio a Pasolini che per un certo periodo Calvino dà in qualche modo il cambio sul “Corriere”.

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aut aut, 372, 2016, 15-23

Marcovaldo, straniero in città

DAVIDE ZOLETTO

L

a lunga e magra figura di Marcovaldo chinata mani sulle ginocchia a osservare incuriosito (e forse – almeno all’inizio – un po’ perplesso) una manciata di funghi spuntati ai piedi di un albero in un’aiuola cittadina è l’illustrazione di copertina – dise- gnata da Sergio Tofano (il celebre “Sto” creatore del Signor Bo- naventura) – della prima edizione completa di Marcovaldo ovve- ro Le stagioni in città di Italo Calvino, uscita nel novembre 1963 nella collana “Libri per ragazzi” dell’editore Einaudi.1 Questa immagine di Marcovaldo chino a osservare “i funghi in città” mi sembra possa essere una bella illustrazione del paradossale “eser- cizio” che Marcovaldo/Calvino possono indicare anche oggi a quanti lavorano come insegnanti o educatori nei quartieri delle città contemporanee, pur così diversi da quelli nei quali Marco- valdo cercava – negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso – le tracce della natura e delle stagioni.

Mi sembra che ce lo suggerisca lo stesso Calvino nel finale di

1. Com’è noto, i racconti di Marcovaldo vennero scritti da Calvino in tempi e per de- stinazioni diverse. Per esempio, un primo gruppo di racconti erano stati pubblicati sulle pagine del quotidiano “l’Unità” già nel 1952-53, mentre un ultimo gruppo di novelle aveva visto la luce nel 1963 (l’anno stesso della pubblicazione del volume completo) sulle pagi- ne del “Corriere dei Piccoli”. Ma altri racconti vennero pubblicati nel corso degli anni cin- quanta anche in altre riviste, e dieci di essi erano stati già raccolti nel 1958 in un più ampio volume calviniano di Racconti. Si veda, per una ricostruzione puntuale, M. Barenghi, “No- te a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città”, in I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione di- retta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetti, “I Meridiani”, Mondadori, Mila- no 1991, vol. I, pp. 1366-1389 (in particolare pp. 1367-1368).

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un breve testo introduttivo scritto appositamente per l’edizione

“scolastica” di Marcovaldo, uscita nel 1966 nell’einaudiana col- lana di “Letture per la scuola media”. Fra l’altro, Calvino intitola quel breve testo “Prefazione seria e un po’ noiosa d’un libro che non vuol essere tale, ragion per cui i nostri lettori possono benis- simo saltarla (ma se qualche professore volesse leggerla, vi trove- rà alcune istruzioni per l’uso)”. Allora è forse proprio da qui che possiamo legittimamente partire per provare a cercare delle istru- zioni per un uso pedagogico di Marcovaldo in contesti educativi come quelli odierni segnati da una pluralità di differenze che non può essere letta solo attraverso le lenti delle cosiddette “culture”.2

Si chiede dunque Calvino, in queste righe finali della “Pre- fazione”, se “attraverso lo schermo di strutture narrative sem- plicissime” l’autore non avesse voluto, fra le altre cose, esprime- re “il proprio rapporto, perplesso e interrogativo, col mondo”.3 Ma aggiunge poi, subito dopo: “Presentando questo libro per le scuole vogliamo dare ai ragazzi una lettura in cui i temi della vita contemporanea sono trattati con spirito pungente, senza indul- genze retoriche, con un invito costante alla riflessione”.4

Troviamo in queste righe quella che un paio di pagine prima Calvino stesso aveva chiamato una “vena didascalica […] discre- ta, sommessa, mai perentoria”5 che lo porta, anche in questo fi- nale di “Prefazione”, a lasciare aperte “varie alternative di let- tura”: non a caso, i vari suggerimenti di lettura sono quasi tutti proposti sotto forma di domande a cui Calvino sembra non voler dare una risposta definitiva. Del resto, l’intero Marcovaldo tiene

2. Per un’ampia e aggiornata discussione dei vari campi di ricerca e intervento peda- gogico e didattico in ambito multi- e interculturale si veda il recente M. Fiorucci, F. Pin- to Minerva, A. Portera (a cura di), Gli alfabeti dell’intercultura, ETS, Pisa (in corso di stam- pa). Per alcune proposte di analisi dei punti di forza e debolezza degli approcci culturali- sti, si vedano D. Zoletto, Dall’intercultura ai contesti eterogenei. Presupposti teorici e ambiti di ricerca pedagogica, Franco Angeli, Milano 2012 e M. Tarozzi, Dall’intercultura alla giusti- zia sociale. Per un progetto pedagogico e politico di cittadinanza globale, Franco Angeli, Mi- lano 2015.

3. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città (collana: “Letture per la scuola media”), Einaudi, Torino 1966, p. 11.

4. Ibidem.

5. Ivi, p. 9.

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fede a questo proposito: si pensi al “misterioso” finale dell’ulti- mo racconto (richiamato anche nella “Prefazione”) con il leprot- to che sfugge al lupo, zigzagando sulla distesa di neve bianca co- me la pagina…

Per provare a tratteggiare una delle possibili letture di Mar- covaldo nei contesti educativi di oggi, vorrei raccogliere in parti- colare “l’invito costante alla riflessione” sui temi della vita con- temporanea, e il cenno al “rapporto perplesso e interrogativo col mondo”. Mi sembra che sia proprio questo tipo di atteggiamen- to quello che Sto coglie e illustra magistralmente nella coperti- na dell’edizione del 1963. È “l’occhio poco adatto alla vita di cit- tà” che Calvino descrive nel celebre incipit del primo racconto di Marcovaldo (appunto: “Funghi in città”): quell’occhio che fa- ceva sì che l’attenzione di Marcovaldo non fosse quasi mai colpi- ta dagli aspetti più consueti del paesaggio urbano (cartelli, sema- fori, vetrine ecc.), ma da altri particolari forse in apparenza me- no urbani (per esempio, “la buccia di fico spiaccicata sul marcia- piede” o per l’appunto i “funghi in città”…). Questi particolari, osserva Calvino, Marcovaldo li “faceva oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza”.6

Vorrei sottolineare soprattutto il carattere di esercizio che lo sguardo di Marcovaldo/Calvino suggerisce e fa sperimentare al lettore. Come ha sintetizzato efficacemente Domenico Scarpa nella “Postfazione” a una recente edizione di Marcovaldo, questo esercizio appare caratterizzato da almeno due tratti dello sguar- do di Calvino sul mondo: da un lato, “la conoscenza della real- tà per mezzo di piccoli indizi da cogliere”; dall’altro “uno stra- niamento per grandi e piccini”, ovvero “il procedimento lette- rario […] che consiste nel presentare un oggetto noto secondo un’angolazione che lo rende irriconoscibile a prima vista”.7 Scar- pa stesso porta due esempi efficaci: da un lato proprio l’attenzio-

6. I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città, con illustrazioni di S. Tofano (col- lana “Libri per ragazzi”), Einaudi, Torino 1963, p. 7.

7. D. Scarpa, “Postfazione”, in I. Calvino, Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città, Mondadori, Milano 2016, p. 135.

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24 aut aut, 372, 2016, 24-35

“Una storia sui vari gradi di esistenza”

ANTONELLO SCIACCHITANO

L’antefatto

Il Cavaliere inesistente (1959) è “una storia sui vari gradi di esi- stenza”. Così, di ritorno dall’America, Italo Calvino rispose alla malevola recensione di Walter Pedullà, intitolata Il romanzo di un ex comunista. Preso dalla polemica ideologica ad personam, a Pe- dullà sfuggì che, ipotizzando vari gradi di esistenza, compresi tra gli estremi dei due personaggi chiave: il cavaliere Agilulfo e lo scu- diero Gurdulù, il primo minimamente, il secondo massimamente esistente, Calvino si allontanava da ogni intenzione ontologica, che secondo il millenario canone parmenideo può declinarsi solo in modo rigidamente binario: l’essere è, il non essere non è. Il romanzo si ispira, infatti, al non tanto paradossale motto cartesiano: “Anche ad essere s’impara”, che Calvino mise saggiamente in bocca a una donna, non a caso detta Sofronia. Gurdulù l’ha imparato? si chiede lo stesso Calvino nella sua bella favola. Noi l’abbiamo imparato meglio dello scudiero? Se no, cosa ce l’ha impedito? Domande cui tenterò di dare una risposta topologica, che ha il merito di essere breve, anzi “compatta”, nel senso specifico che dirò.

Prima Cartesio

Al liceo, sessant’anni fa, giusto quando Calvino scriveva il Cavalie- re, mi insegnarono che Cartesio fu un filosofo razionalista di stam- po idealista. In realtà idealista era lo stampo dell’insegnamento che ricevetti e che solo decenni dopo riesco a scalfire grazie anche a Calvino. Certo, Cartesio parlava di idee innate e tanto bastò a classificarlo come idealista. Si trascura, però, che l’idealismo servì

Ahimè, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani!

E. Montale, Vento e bandiere (Ossi di seppia), 1925

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a Cartesio per mascherare e far passare la dogana ecclesiastico- aristotelica al proprio pensiero che nella sostanza fu tutt’altro che idealista, addirittura meccanicista. Solo un secolo dopo le Medita- zioni metafisiche, strappata la maschera platonizzante, La Mettrie rese giustizia al meccanicismo cartesiano nel suo L’uomo macchina, di recente opportunamente rimesso in circolazione da Mimesis.

Cosa si intende per meccanicismo?

La storia comincia nel V secolo a.C. con Leucippo e Democri- to, i quali, come racconta Enzo Paci, contrapposero alla dicoto- mia idealistica parmenidea tra essere e non essere la materialisti- ca tra pieno e vuoto. Vuoto, anzi nulla, è lo spazio che contiene il pieno, la materia, suddivisa in particelle elementari non ulterior- mente divisibili. Lì, semplificando al massimo, sta la divaricazio- ne fondamentale tra idealismo platonico e meccanicismo demo- criteo. Per il primo alla base dell’essere esistono essenze immu- tabili, per il secondo non c’è fondamento ontologico precostitui- to, ma solo interazioni variabili tra particelle, che nel loro diver- so e praticamente irrepetibile modo di disporsi configurano la Lebenswelt, il mondo della vita (vita è nozione idealistica, però).

Per il primo le essenze danno il senso alle cose, per il secondo il problema del senso non si pone, essendo le cose solo aggregati contingenti di particelle materiali tra loro in interazione.

Per il prevalere dello schema idealista, più facile da immagi- nare e da trasmettere, grazie alla sua consistente dose di antro- pomorfismo, il pensiero meccanicista ebbe vita difficile. Per mil- lenni l’idealismo impedì di concepire la variabilità, ingrediente base del meccanicismo. Le essenze ideali non variano. Al massi- mo si dà tra loro un polimorfismo, ma è assente qualunque for- ma di variabilità, che consenta, per esempio, di concepire il mo- to dei corpi, cioè la variazione di posizione dello spazio nel tem- po – si pensi ai moti paradossalmente immobili di Achille e la tartaruga o alla freccia ferma di Zenone. Con il tempo meteoro- logico non andava meglio; gli antichi non avevano neppure la pa- rola per dire “sereno variabile”. Senza variabilità non si concepi- scono simmetrie; senza simmetrie, per esempio tra azione e rea- zione, non si concepiscono dinamiche. Nei tredici libri degli Ele-

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menti di Euclide il termine summetros significa che due grandez- ze hanno unità di misura comune, stanno cioè in un rapporto

“razionale” (logos), rigidamente definito e fissato.

Anche il destino storico delle due forme di pensiero fu di- verso. Mentre nei secoli il pensiero idealista variò poco, fissato com’era all’assetto platonico, quello meccanicista progredì gra- dualmente. A giorni aspettiamo dal CERN risultati potenzialmen- te rivoluzionari sull’esistenza di particelle supersimmetriche: gli s-fermioni che sono bosoni e gli s-bosoni che sono fermioni. La trasformazione radicale del pensiero meccanicista si deve a Epi- curo; la registrò Lucrezio nel suo De rerum natura. Gli atomi si muovono nello spazio infinito a velocità infinita, perché non c’è nulla che la limiti. (Come tutti i classici Epicuro non aveva le idee chiare in fatto di velocità o di infinito, ma tant’è.) L’innova- zione epicurea, prefigurazione delle interazioni molecolari, per esempio nella teoria cinetica dei gas di Boltzmann, fu l’introdu- zione della parenklesis, che Lucrezio tradusse clinamen; intende- va la deviazione dalla verticale. Gli atomi cadono nello spazio con un’inclinazione che li porta a collidere, aggregarsi, forma- re corpi e disgregarsi. Epicuro non concepì il clinamen in mo- do meccanico, ma come libera scelta del singolo atomo, dotato di forza vitale. Vitalismo con ricaduta idealistica a parte, la tra- ma del pensiero meccanicista – precursore del pensiero debole scientifico – fu così fissata.

Galilei e Cartesio lavorarono su Epicuro in estensione e in in- tensione approfondendo l’articolazione vuoto/pieno. Il model- lo galileiano di moto uniformemente accelerato fu epicureo in modo addirittura ipersemplificato: una sola particella, una sin- gola sfera di bronzo, un solo clinamen, quello del piano incli- nato su cui essa rotola. Semplice ma incredibilmente fecondo.

Dal proprio modello Galilei derivò il principio d’inerzia, la leg- ge quadratica del moto uniformemente accelerato e, soprattutto, il principio di relatività, il metaprincipio di invarianza secondo cui le leggi della meccanica si scrivono allo stesso modo in tut- ti i riferimenti inerziali – il tutto senza mai convocare il principio idealistico di ragion sufficiente. Galilei prescindette dalla causa

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36 aut aut, 372, 2016, 36-48

Invisibili o invivibili? Le nostre città attraverso Calvino

STEFANO TIERI

C’

è bisogno di una particolare sensibi- lità per mettersi in ascolto di quella concrezione di edifici e rapporti uma- ni che chiamiamo, quotidianamente, “città”. Una qualche gra- zia, dal tocco leggero, in grado di cogliere – senza schiacciare – la complessa stratificazione di vissuti collettivi, desideri realiz- zati o solo ideati, aspirazioni di affermazione o rivalsa. Il rischio di fraintendimento, l’incapacità di collocarsi nell’ambiguità che sembra caratterizzare – in ogni sua manifestazione – il tessuto urbano, può essere un limite invalicabile per chi non abbia vissu- to la città (e pur volesse descriverla, pretendendo di racchiuder- ne una qualche verità) in tutte le sue sfumature, contraddizioni, stagioni – qualcuno ha nominato Marcovaldo?

Con quale lingua parlare della città, permetterle di esprimersi attraverso la mediazione umana? Se tale sensibilità può esistere in una forma di espressione verbale – dove le ferree regole della grammatica vincolano ancor prima di ogni silenzio e parola –, è forse nella poesia, dove si ritrova una forma in grado di non for- zare la mano ed emettere un giudizio sommario quanto prematu- ro. D’altronde, come osservava già Sartre in Che cos’è la lettera- tura?, la prosa è immersa nel “regno dei segni”, mentre la poesia – più slegata dalla dimensione del significato – dovrebbe essere considerata più vicina ad altre forme artistiche, come quella pit- torica o quella musicale: proprio il vincolo a un determinato si- stema di segni (solamente uno) conduce irrimediabilmente verso

La città vive in me come una poesia che non sono riuscito a fissare in parole.

J.L. Borges, Fervore a Buenos Aires

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quei fraintendimenti prima accennati. La ricchezza della città sta altrove, nella sua impossibilità a essere ridotta a un mero elenco di cifre: chi volesse descriverla deve tenerne conto – e al tempo stesso imparare a districarsi da quel “conto” dalle sfumature sta- tistico-matematiche, sempre più pressante nell’era dei Big Data e che sembra oggi definire l’essenza della città.

Le città invisibili potrebbero essere considerate una prova a sostegno del fatto che la poesia può abitare anche gli spazi della prosa, sfuggendo alle forme metriche tradizionali per abbracciare la pagina in tutta la sua estensione. L’opera che Calvino definì, in una conferenza a New York del 1983, “un ultimo poema d’amo- re alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viver- le come città”,1 ci pone – già nell’anno della sua pubblicazione, il 1972, ma continua a farlo ancora oggi – dei precisi interrogati- vi su dove stia andando la città, e noi con lei, in quanto suoi abi- tanti e architetti (in)consapevoli delle sue innumerevoli strutture.

È a partire – e attraverso – il romanzo di Calvino che qui proverò ad abbozzare una possibile risposta, interrogando proprio quegli aspetti delle nostre città che ci sembrano essere, nel frattempo, sfug- giti di mano. Viviamo in una società in cui le tecnologie sembrano aver portato, più che verso l’utopia di una “nuova Babilonia”,2 alla distopia di un mondo senza lavoro, dovuto non però a una qualche forma di liberazione ma al crollo della domanda, grazie anche alla possibilità – da parte di chi assume – di ricorrere in misura sempre maggiore alla “manodopera” robotizzata delle macchine.3 E dove la creatività – lungi dall’essere il fulcro dell’esistenza umana fondata sul gioco, come immaginato dall’utopia di Constant – si manifesta principalmente come la caratteristica che permette all’eterno pre- cario di crearsi sempre nuove occupazioni per sbarcare il lunario.

1. I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2008, p. IX.

2. Il riferimento è all’artista olandese Constant Nieuwenhuys, che nel 1956 immaginò una città futura in cui veniva meno la necessità di lavorare da parte degli uomini, che così potevano dedicarsi liberamente alle arti.

3. Secondo le ultime conseguenze di un processo individuato da Calvino già nel 1962, quando l’autore osservava come si fosse entrati “nella fase dell’industrializzazione totale e dell’automazione” (I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2011, p. 101).

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Nelle nostre città il processo di gentrificazione dei quartieri popolari si accompagna all’espandersi infinito delle periferie, la cui ri-semantizzazione del termine ce le fa ormai percepire come degradate e pericolose, se non addirittura come spazio-ghetto – specie dopo la rivolta delle banlieue parigine del 2005, scaturi- ta dall’emarginazione sociale dei loro abitanti considerati a tut- ti gli effetti di “serie B”. Per non parlare dell’inquinamento at- mosferico, divenuto la prima causa di morte prematura nell’U- nione Europea,4 ormai una piaga anche in quei paesi cosiddet- ti “emergenti” che cercano di rincorrere il benessere occidentale, purtroppo senza considerare adeguatamente le sue nefaste con- seguenze a lungo termine. Un inquinamento che rende le città letteralmente invisibili (oltre che invivibili): le immagini di Pechi- no avvolta lo scorso inverno in una nebbia miasmatica ne sono una triste testimonianza.

Nella lettura che Calvino fa delle città spesso questi aspetti so- no già presenti, accennati a margine o affrontati direttamente, a volte soltanto annunciati, come a ricordarci l’imminente perico- lo a cui stavamo (e stiamo tuttora) andando incontro. Si ritrova- no soprattutto nella parte conclusiva del romanzo, a cui Calvino stesso dava primaria importanza:5 se nei primi racconti prevale una dimensione fiabesca,6 che colloca il lettore in un mondo più vicino a quello mediorientale di Le mille e una notte che a quello delle moderne città europee, è verso la fine del libro – principal- mente in Le città continue – che il sogno si tramuta in incubo, sve- lando quanto la narrazione ci riguardi direttamente e ci chiami in prima persona alla mobilitazione. È qui che la cifra etica del ro- manzo emerge con più decisione, ricordandoci come la nostra di- retta responsabilità inizi dalle più piccole scelte quotidiane.

4. <http://www.lastampa.it/2015/07/08/scienza/ambiente/il-caso/loms-linquinamento- atmosferico-uccide-milioni-di-persone-q4Nc1PiSYcibqiVR9PIL2M/pagina.html>.

5. Come scriverà l’autore in una lettera rivolta a Caterina De Caprio, l’“intenzione fondamentale del libro [è] la fase culminante che attraverso la negatività senza spiragli delle Città continue arriva alla sola positività delle Città nascoste” (I. Calvino, Lettere 1940- 1985, Mondadori, Milano 1999, p. 1235).

6. Si pensi per esempio al racconto della città di Diomira, con cui si apre il romanzo, e a quelli subito successivi: Isidora, Dorotea, Zaira, Anastasia...

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49

aut aut, 372, 2016, 49-65

Il gioco e il Grande Gioco.

Sul Sentiero dei nidi di ragno

PAOLO ZANOTTI

S

i può provare a leggere Il sentiero dei nidi di ragno in parallelo con la tradizione della letteratura avventurosa per ragazzi (o con protagonisti ragazzi)? In particolare L’isola del tesoro di Steven- son e Kim di Kipling? Potrebbe sembrare un’ottica abbastanza ristretta, forse insoddisfacente, per avvicinarsi al Sentiero dei nidi di ragno. In realtà, è possibile affrontare i temi principali del pri- mo libro di Calvino (prospettiva ridotta, soggettivismo e reali- smo, esperienza individuale e Storia) anche partendo da questo punto di vista, considerando cioè il modo in cui il Sentiero si rial- laccia a una vecchia tradizione e ne riutilizza – a volte anche stra- volgendoli – i modelli di eroe e di condotta dell’azione. Senza contare che l’avventura per ragazzi era una forma letteraria mol- to cara a Calvino, se a essa viene dedicata un’intera sezione del saggio Natura e storia del romanzo, in cui la tradizione dell’av- ventura per ragazzi viene opposta agli sviluppi della narrativa novecentesca sull’adolescenza (dai grandi testi d’inizio secolo – Il grande Meaulnes, I turbamenti del giovane Törless – in poi).

D’altra parte, Calvino ribadì sempre il suo attaccamento a nume- rosi testi di questa tradizione, in particolare all’Isola del tesoro, al Gordon Pym di Poe e all’Huckleberry Finn.

Nella sua celebre recensione al Sentiero dei nidi di ragno, Ce-

Pubblichiamo qui un estratto della tesi di dottorato di Paolo Zanotti, saggista e scrittore scomparso nel 2012. Ringraziamo Sergia Adamo per averci trasmesso questo testo.

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sare Pavese non citò direttamente questa tradizione, ma parlò in generale della metamorfosi del romance, che ha portato dai cavalieri ariosteschi ai ragazzi di Stevenson, Kipling, Dickens e Nievo:

Malgrado il carrugio, malgrado il sentore di chiasso e di feccia, la giornata di Pin ha una grande purezza; scontrosa sboccata maligna come trascorre, è tutta fresca, baldanzosa di scoperte, di gesta, di onore, proprio come la giornata di un Astolfo e di un Jim Hawkins.

Infatti quello “schietto e goloso abbandono all’incalzare di eventi e catastrofi […], quella schietta e complicata ingenuità dei poe- mi, può ritrovarsi ai giorni nostri solamente dentro un cuore di fanciullo”.1 Si tratta quindi, anche se solo accennata, della stessa linea di trasformazioni ricostruita da Calvino in Natura e storia del romanzo.

Il seguito dell’attività letteraria di Calvino diede sicuramen- te ragione a Pavese: Calvino si sarebbe dimostrato uno “scoiat- tolo della penna”2 e, nei panni del Barone rampante, si sarebbe

“arrampicato sulle piante più per gioco che per paura”.3 Anche a proposito delle sue predilezioni letterarie, Calvino diede piena- mente ragione a Pavese. Nella prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, infatti, possiamo leggere:

Questa letteratura [Hemingway, Babel, Fadeev...] c’è dietro al Sentiero dei nidi di ragno. Ma in gioventù ogni libro nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima, e nella nuova idea di letteratura che smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi letterari che m’avevano incantato dal tempo dell’in- fanzia in poi... Cosicché, mettendomi a scrivere qualcosa come

1. C. Pavese, “‘Il sentiero dei nidi di ragno’” (1947), in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990, p. 246.

2. Ivi, p. 245.

3. Ibidem.

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Per chi suona la campana di Hemingway volevo insieme scrivere qualcosa come L’isola del tesoro di Stevenson.4

Ora, si sa che non conviene mai fidarsi delle dichiarazioni retro- spettive, specialmente quando si tratta di Calvino, sempre pronto a far quadrare tutto. Questo per non incorrere nella tentazione – a nostra volta – di far quadrare tutto.

La forma avventurosa – almeno quando vuole dare l’impres- sione di una minima coerenza psicologica – si basa sul confron- to – che poi diventa mediazione e collaborazione – di due forze a prima vista contrastanti: la curiosità (e l’impulsività) e lo sche- ma finalistico dell’impresa avventurosa. In uno dei grandi classi- ci del romanzo di avventura, Kim di Kipling, per esempio, l’in- tegrazione del protagonista eponimo all’interno della società in- diana (tanto indigena quanto bianca) coincide con l’integrazio- ne di queste due “spinte”: la naturale curiosità di Kim (vedere il mondo, conoscere gli uomini, agire di testa propria) è proprio quel che serve agli inglesi per inserirlo nel loro Gioco: la rete di spionaggio. Il gioco infantile, alla fine, diventa il Big Game (o, per usare termini più interni al tema, il play istintivo diventa un game fornito di regole certe). D’altro canto, in Stevenson le due forze vengono conciliate in modo quasi ironicamente meccanico:

la curiosità e l’incoscienza di Jim, nell’Isola del tesoro, contribui- scono al buon esito dell’avventura in modo assolutamente casua- le; e non c’è nessuna ragione apparente perché l’avventura deb- ba essere condotta da Jim (o meglio, c’è solo una ragione lettera- ria: perché nell’avventura per ragazzi è il ragazzo che deve mette- re tutto a posto).

Se consideriamo l’opera di Calvino nel suo complesso, pos- siamo vedere che il rapporto tra queste due forze (la dispersio- ne curiosa e ludica e l’ordine avventuroso) è spesso il vero centro problematico della narrazione. L’esempio più evidente è il Cava- liere inesistente: il Cavaliere incarna l’etica cavalleresca nella sua

4. I. Calvino, “Prefazione 1964”, in Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 1991, vol.

I, p. 1196.

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Le altre Lezioni americane

NICOLA NARCISO

R

isale agli inizi degli anni settanta il pro- getto per una rivista letteraria che avreb- be dovuto raccogliere i propositi, i pen- sieri e le scritture di Italo Calvino, Claudio Rugafiori e Giorgio Agamben, il quale è rimasto, a ben guardare, poco investigato dalla critica, forse per la sua mancata realizzazione, e sul qua- le ancora non sufficientemente si è scritto, se non in certe esigue pagine dal carattere rievocativo e memorialistico, più che stori- co-letterario e critico. Il proponimento di questa rivista era di tracciare, mediante l’identificazione di coppie concettuali con- trapposte, nulla meno che le categorie fondamentali della cultu- ra e della tradizione italiane: tale germoglio trovò senz’altro radi- ce attecchendo in un secondo dopoguerra che nutriva un’appas- sionata esigenza di risollevare le sorti di un paese dalla troppo fervida tradizione culturale per poter restare in un certo sordo immobilismo di prospettive. Già a partire dalla fine degli anni cinquanta, infatti, il tracciato fu in questa direzione segnato a Torino da “Il Menabò di letteratura” di Vittorini e dello stesso Calvino e, due anni dopo la morte del primo, quasi in eredità e naturale sviluppo, da un’ulteriore rivista, “Alì Babà”, alla quale, questa volta, al fianco di Calvino vi furono Gianni Celati e Car- lo Ginzburg.

In coda dunque alle intensità, neorealistiche e non solo, di quegli anni si situa il progetto con Rugafiori e Agamben, di cui oggi restano poche tracce e lontani echi. La testimonianza più si-

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gnificativa di quel cantiere di studi così abbandonato si cela lad- dove più semplicemente potrebbe risiedere, come in una finzio- ne di Borges, in cui l’ultima lettera del nome di Dio si nascon- de nella geometria cristallina del Tetragràmaton. Se ne ha infat- ti traccia in alcuni passaggi introduttivi di un testo dello stesso Agamben, esemplare già solo nel titolo; rebus sic stantibus è dun- que doveroso segnalare quelle righe di Categorie italiane in cui se ne scorge il disegno:

Fra il 1974 e il 1976 m’incontravo regolarmente a Parigi con Italo Calvino e Claudio Rugafiori per definire il programma di una rivista che, nelle nostre intenzioni, avrebbe dovuto essere pubblicata dall’editore Einaudi. Il progetto era ambizioso e nelle conversazioni s’inseguivano, a volte senza contrappunto, i motivi dominanti e gli echi smorzati dell’officina di ciascuno.

Su una cosa eravamo, però, tutti d’accordo: una sezione della rivista doveva essere dedicata alla definizione di quelle che fra noi chiamavamo “categorie italiane”. Si trattava di identificare, attraverso una serie di concetti polarmente coniugati, nulla di meno che le strutture categoriali della cultura italiana.

Claudio aveva subito suggerito architettura/vaghezza (cioè il dominio dell’ordine matematico-architettonico accanto alla percezione della bellezza come cosa vaga); Italo già ordinava ossessivamente immagini e temi lungo le coordinate velocità/

leggerezza; io (che stavo lavorando allo studio sul titolo della Commedia che apre questa raccolta) proponevo di esplorare le opposizioni tragedia/commedia, diritto/creatura, biografia/

favola.

Per ragioni che non è qui il luogo di chiarire, il progetto non si realizzò. Rientrati in Italia, ci urtammo tutti, del resto, sia pure in modo diverso, alla svolta politica che si preparava e che avrebbe impresso il suo cupo conio agli anni Ottanta: non era tempo, evidentemente, di definizioni programmatiche, ma di resistenza ed esodo.

Del progetto comune, oltre che in un ampio scartafaccio rimasto fra le carte di Italo, è possibile trovare qualche eco nelle sue

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Materiali

Pubblichiamo la trascrizione, rivista dall’au- tore, della conferenza tenuta da Edoardo Ca- murri il 16 giugno 2016 a Trieste, in occasione del Bloomsday, dal titolo “Free leaves for ebri- badies! Dionisismo e psichedelia per leggere Finnegans Wake”. All’incontro erano presenti anche Renzo Crivelli (ordinario di Letteratura inglese all’Università di Trieste) e Riccardo Ce- pach (responsabile del museo Joyce e del mu- seo Svevo di Trieste).

Ricordiamo che è in corso di pubblicazione, presso l’editore Mondadori, la prima traduzio- ne integrale in lingua italiana di Finnegans Wake, a cura di Enrico Terrinoni e Fabio Pe- done, che riprendono il lavoro lasciato incom- piuto da Luigi Schenoni, e che lo stesso Ca- murri ha presentato alcune parti del Finnegans Wake nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock (Giometti & Antonello, Macerata 2016).

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Finnegans Wake, un’opera psichedelica

EDOARDO CAMURRI

L’

aspetto più interessante – o meglio: uno degli aspetti che mi interessano mag- giormente del Finnegans Wake di Joyce – è quello psichedelico. In senso stretto: penso all’LSD, al peyote, alle esperienze lisergiche, alle uscite dal mondo attraverso l’uti- lizzo di sostanze psichedeliche. Riccardo Cepach mi chiede cos’è il Finnegans Wake. Proverò allora a illustrare una possibile rispo- sta proprio prendendo la strada del discorso psichedelico.

Inizierò raccontandovi la storia del cognato di Italo Svevo, Bruno Veneziani. Sua sorella, Livia Veneziani, oltre a essere la moglie di Ettore Schmitt (Italo Svevo), è anche la figura che ha ispirato Joyce per descrivere la figura femminile del Finnegans Wake. Si ispira a Livia per i suoi capelli lunghi e fluenti, che gli ricordano il fiume Liffey di Dublino. Bruno Veneziani, omoses- suale e morfinomane, era la pecora nera della famiglia: non rie- sce a lavorare, spende un sacco di soldi, impensierisce tutti; ep- pure (anzi, proprio per questo) fa esperienza di alcuni dei mo- menti più importanti del Novecento: proprio per il suo essere la pecora nera della famiglia viene infatti curato da Freud. Va dun- que a Vienna, la capitale dell’impero, dove Freud lo visita ma a un certo punto nemmeno il padre della psicoanalisi sa più cosa fare. Però non cede e lo passa al suo collega, l’inventore del ter- mine Es: Georg Groddeck. Groddeck – chi ha mai letto uno dei suoi splendidi e matti libri lo sa – è un uomo di amplissime ve- dute, la sua coscienza e la sua intelligenza sono tanto libere da

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riuscire ad accettare e accogliere qualunque elemento instabile dell’esistenza. Eppure lo stesso Groddeck a un certo punto scri- ve alla famiglia Veneziani: “Io con Bruno Veneziani non so che fare”, e così lui torna a Trieste, con più problemi di prima, rifiu- tato da due giganti della psicoanalisi.

Le tracce di Bruno Veneziani ora si perdono, e le ritroviamo sul frontespizio della prima traduzione italiana dei Ching, il libro sapienziale cinese, un oracolo. L’ha tradotto lui, dal tedesco, dal- la traduzione che aveva fatto fare Jung dei Ching, ma Bruno Ve- neziani aveva anche fatto un confronto con il testo cinese. Chi l’aveva messo a tradurre i Ching? Ernst Bernhard, psicoanalista allievo di Jung, chirologo, astrologo e chiromante; fu lui, insieme a Roberto Bazlen, ad affidare a Bruno Veneziani la traduzione dei Ching. Questa è una storia magica: un uomo che ha attraver- sato da outsider la parte più pulsante del Novecento e che, dopo aver sconfitto Freud e Groddeck e la loro volontà terapeutica, ri- emerge come traduttore di uno dei libri chiave per intendere la seconda metà del Novecento.

Ora il punto è questo. Quali erano i libri più letti, studiati, commentati, analizzati, dibattuti, in uno dei luoghi più impor- tanti per la storia dell’umanità contemporanea, la California de- gli anni sessanta, all’interno della controcultura americana che ha ideato quel mondo dentro cui ancora siamo immersi oggi con Internet, tablet e smartphone? I Ching e il Finnegans Wake.

Quel mondo è paragonabile, come importanza e come conse- guenze, a un altro momento facilmente circoscrivibile della sto- ria del pensiero occidentale: Heidelberg, fine Settecento, quan- do tre giovani amici – Hegel, Schelling e Hölderlin – piantano l’albero-simbolo dell’idealismo tedesco. È stato uno dei rari mo- menti di grazia in cui tutte le energie dell’umanità erano concen- trate simbolicamente lì, con quel gesto è cambiato il modo di pensare di tutti noi. I ragazzi della controcultura, gli sperimen- tatori delle sostanze psichedeliche nella San Francisco degli an- ni sessanta, vivono un momento per certi versi analogo, aven- do cambiato il nostro modo di pensare, con i computer e l’i- dea elettrica della realtà come flusso. Bruno Veneziani lo ritro-

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viamo lì, spedito come un razzo dalla Trieste asburgica agli Sta- tes della controcultura, in quanto testimone fisico del Finnegans Wake – Livia Veneziani arrivò a raccomandarlo a James Joyce a Parigi – e del testo sapienziale cinese, molto avvicinabile per cer- ti versi a lettori “strani” (Timothy Leary, Philip Dick, Terence McKenna, Robert Anton Wilson, nomi di figure molto contro- verse e per niente sistematizzate e addomesticate dallo studio co- siddetto scientifico).

In quegli anni, negli Stati Uniti, intervistano alla televisione Marshall McLuhan, l’autore della Galassia Gutenberg, primo grande testo che riflette sui media. Quando gli viene chiesto se abbia mai provato l’LSD, McLuhan risponde: “Non l’ho mai pro- vato, ma in compenso ho letto Finnegans Wake”.1 Sono d’accor- do con lui: l’LSD è in fondo, a detta di chi li ha provati entrambi, una forma debole di Finnegans Wake.

Per rispondere alla domanda su cosa sia il Finnegans Wake abbiamo messo in campo uno scenario a dir poco eteroclito, con personaggi e storie che non è facile incontrare quando si parla di Joyce. Provia- mo ora a rispondere in maniera più apollinea alla domanda. A voler semplificare molto – questo è ciò che di solito si legge sui manuali –, se l’Ulisse è la storia di una giornata, il 16 giugno, trascorsa a Dublino, in cui il protagonista principale è Leopold Bloom, ed è quindi un libro del giorno (si chiude proprio quando Leopold Bloom torna a casa e si infila sotto le lenzuola fino a quando non lo sveglia la moglie Molly che parte col suo soliloquio), il Finnegans Wake è il libro della notte. C’è un uomo, Earwicker, solitamente caratterizzato dalle lettere HCE (“here comes everybody”, ecco qui l’uomo qualunque, l’uomo che è tutti, l’uomo universale), che dor- me. Stiamo parlando di un libro che ancora adesso non si capisce bene cosa contenga: per esempio a un certo punto il protagonista compie un reato sessuale al Phoenix Park, ma non c’è ancora un interprete che sappia dire cosa abbia fatto davvero. È un libro

1. Cfr. <https://www.youtube.com/watch?v=2JIjoBqbdhk>.

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Warburg e l’antropologia

evoluzionista. Note di metodo su survival e Nachleben

RAOUL KIRCHMAYR

1. Sul problema del Nachleben: indizi, prove e ipotesi Se nel discorso storico-artistico Warburg è l’autore che ha por- tato in auge la formula Nachleben der Antike, la “sopravvivenza dell’antico”, essa è ormai divenuta una specie di passe-partout linguistico da impiegare ogniqualvolta si citi o ci si riferisca alla sua “opera”.1 Tuttavia, resta da comprendere il paradosso del successo della formula: quanto più essa si è diffusa, diventando quasi una dévise retorica o uno stereotipo, tanto più essa ha celato il suo senso enigmatico, velatosi dietro la fortuna dell’espres- sione, analogamente, del resto, a ciò che è accaduto per l’altra grande invenzione linguistica di Warburg, cioè la nozione di Pathosformel.2 Forse il paradosso è in un certo qual modo legato a una duplice oscurità che avvolge la formula: da un lato quanto alla sua provenienza, dall’altro lato quanto alle sue filiazioni e al suo destino. Per le sue filiazioni ci troviamo dinnanzi al pericolo dell’abissalità dei riferimenti, al punto che “seguire le incarnazio- ni della sopravvivenza equivarrebbe – compito impossibile – a ripercorrere tutta la storia della disciplina dopo Warburg”.3 Per la provenienza il compito non è meno difficile.

Andando alla ricerca delle radici del termine, una parte dei

1. Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fan- tasmi e la storia dell’arte (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 91.

2. Sulla genesi e sul significato della Pathosformel è ritornato recentemente C.

Ginzburg in “Le forbici di Warburg”, in M.L. Catoni (a cura di), Tre figure. Achille, Mele- agro, Cristo, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 109-132.

3. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta, cit., p. 90.

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contributi più recenti si è soffermata su un’esperienza decisi- va compiuta da Warburg, tanto per il conio della parola quan- to per il senso che le è stato conferito, cioè il viaggio negli Sta- ti Uniti del 1896 e il contatto con le popolazioni native hopi del Nuovo Messico.4 Secondo questa linea di ricerca, dimostratasi assai feconda, alla radice dell’iconologia e della storia dell’arte à la Warburg occorre riconoscere l’influsso dell’antropologia cul- turale che, motivo caratterizzante l’epoca in cui Warburg compì il viaggio, era contrassegnata da modelli esplicativi tratti dell’e- voluzionismo. In quegli anni tali modelli operavano come sape- re di sfondo e come schema direttivo della ricerca etnografica.

Ogni epoca ha la sua atmosfera culturale: fin dall’inizio del suo percorso intellettuale Warburg aveva respirato quella del positi- vismo ed è in essa che trova degli strumenti di analisi del mito, del simbolo e dell’immagine. Dopo un lungo e spesso tormenta- to processo di elaborazione, questi si mostreranno fecondi quan- to ai problemi di storia della cultura che Warburg affrontò in se- guito all’esperienza americana.

Nella letteratura critica l’importanza epistemologica dell’espe- rienza presso gli hopi è ormai ampiamente riconosciuta. Il viag- gio negli Stati Uniti aveva avuto per Warburg un effetto après coup, con una funzione di rottura e di riorganizzazione sia della concettualizzazione sia della metodologia della ricerca. Il corto- circuito prodotto dal soggiorno americano gli permise di ricon- testualizzare i problemi emersi nel corso delle sue indagini sul Rinascimento fiorentino. Quanto alle Wirkungen che il viaggio

4. Cfr. A. Warburg, Werke in einem Band, sezione “Anthropologie und Kulturge- schichte”, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2010, pp. 493-600; Id., Il rituale del serpente (1939), trad. di G. Carchia e F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1998; A. Warburg, Gli Hopi, a cura di M. Ghelardi, Aragno, Torino 2006; cfr. E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellet- tuale (1970), trad. di A. Dal Lago e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, 20022, pp. 84- 88; S. Settis, “Kulturgeschichte als vergleichende Kulturwissenschaft: Aby Warburg, die Pueblo-Indianer und das Nachleben der Antike”, in W.T. Gaehtgens, Kunstlerischer Aus- tausch – Akten des XVIII internationales Kongresses für Kunstgeschichte, Akademie Verlag, Berlin 1992, pp. 139-158; cfr. anche le pagine di P.-A. Michaud dedicate al viaggio di War- burg in Aby Warburg et l’image en mouvement, Macula, Paris 1998, pp. 169-223; G. Didi- Huberman, L’immagine insepolta, cit., pp. 327-333; cfr. anche C. Cieri Via, Nei dettagli na- scosto. Per una storia del pensiero iconologico, Carocci, Roma 2014, p. 48.

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avrebbe prodotto sulle sue riflessioni storico-artistiche, il rap- porto tra le osservazioni e le indagini da lui compiute in Nuo- vo Messico, la conferenza di Kreuzlingen sul rituale del serpen- te e il progetto di Mnemosyne offrono ampie e convincenti prove circa il riconoscimento di linee di continuità nelle sue ricerche.5 I maggiori problemi interpretativi si aprono invece circa l’impat- to che l’evoluzionismo ha avuto sulla concezione del sapere sto- rico elaborata da Warburg. Qui le certezze scemano e si aprono diverse ipotesi che, pur convergendo su una comune idea di “in- fluenza” dell’evoluzionismo sul pensiero di Warburg, incontrano diverse difficoltà a rendere conto della genesi del concetto-chia- ve di Nachleben.

Per circoscrivere la dimensione del problema, esaminere- mo alcuni dei più rilevanti tentativi di spiegazione che sono sta- ti avanzati in merito alla genesi del Nachleben, mostreremo do- ve e fino a che punto paiono essere delle ipotesi da accogliere e, infine, cercheremo di avanzare un’ipotesi ulteriore che possa permettere di superare le attuali impasses interpretative. Partire- mo dalla seguente constatazione: il significante-guida di Nachle- ben è usurato e la sua traduzione – anzitutto con “sopravviven- za” – non ci garantisce più una comprensione né dell’intenzione di Warburg né, tantomeno, degli oggetti che egli aveva scelto per le proprie indagini storico-artistiche. Ben lungi dall’essere per- spicuo, il concetto-chiave di Nachleben è tuttora problematico se esaminato sotto il profilo del prestito linguistico, della traduzio- ne parola per parola e della sovrapposizione di significati avve- nuta a seguito dell’innesto linguistico da una lingua all’altra, cioè dall’inglese survival, voce attestata nel lessico dell’antropologia evoluzionista, al tedesco Nachleben. I problemi nascono qui, a proposito di questa doppia fonte di un concetto-chiave dell’ico- nologia warburghiana.

In quest’occasione ci limiteremo a esaminare il modo in cui il problema è stato posto e risolto in alcune tra le principali li-

5. Cfr. la Vorbemerkung der Herausgeber alla sezione “Anthropologie und Kulturge- schichte”, in A. Warburg, Werke in einem Band, cit., pp. 506-507.

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aut aut, 372, 2016, 121-132

Survival e Nachleben in Warburg.

Breve antologia di testi di riferimento

Presentiamo qui alcuni testi che forniscono al lettore dei punti di riferimento in merito al dibattito sulla nozione di Nachleben in Aby Warburg, che si ipotizza sia imparentata con la nozione di survival per com’è stata elaborata dall’antropologia evoluzionista della se- conda metà dell’Ottocento. La scelta è caduta su due fonti (Edward Burnett Tylor e Augustus Lane Fox Pitt-Rivers) messe particolar- mente in rilievo dalla letteratura critica. Gli altri brani scelti sono un passo del Rituale del serpente di Warburg, un brano del capitolo dell’Immagine insepolta di Didi-Huberman dedicato ai rapporti tra Tylor e Warburg e, infine, alcune pagine del lavoro di Michaud che quasi vent’anni fa ha rilanciato l’interesse per il viaggio etnografico di Warburg in Nuovo Messico nella prospettiva degli studi visuali e di cinema. [R.K.]

E.B. Tylor, Primitive Culture (1871)

Tra le prove che ci aiutano a rintracciare il cammino che le civiltà mondiali hanno realmente seguito, c’è quell’ampia classe di fatti per indicare i quali ho ritenuto fosse opportuno introdurre il ter- mine di “sopravvivenze” (survivals). Sono processi, costumi, opi- nioni ecc. portati dalla forza dell’abitudine in una nuova confi- gurazione della società, diversa da quella in cui erano nati, sicché rimangono come prove ed esempi di uno stato della cultura più antico, da cui uno più nuovo si è evoluto. Così, conosco una vec- chia donna del Somersetshire il cui telaio a mano risale all’epoca precedente l’introduzione della “spoletta volante”, uno strumen-

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