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L’attività contrattuale della P.A. tra buona fede e interesse pubblico - Judicium

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(1)

L’attività contrattuale della P.A.

tra buona fede e interesse pubblico

S

OMMARIO

: 1. La nozione di buona fede interpretativa quale criterio non sussidiario.

– 2. La tendenza a non applicare la buona fede ai contratti della P.A. – 3. Dalla sussidiarietà alla priorità del criterio di buona fede oggettiva: la sentenza n.

3963/2012 del Consiglio di Stato.

1. L’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione deve svolgersi, nei limiti di compatibilità e ove non diversamente previsto dalla legislazione speciale o di settore, nel rispetto dei principi e delle disposizioni del codice civile (artt. 1, comma 1 bis, e 11, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241; art. 2, comma 4, d.lgs. 12 aprile 2006, n.

163, c.d. Codice dei contratti pubblici) (1), che assumono, pertanto, la valenza di una normativa di «diritto comune» (2).

Se così è, il giudice dovrebbe essere tenuto al rispetto delle norme interpretative dettate dal codice civile (artt. 1362-1371), senza eccezione alcuna.

Eppure, assai discussa è l’applicabilità ai rapporti contrattuali della P.A. proprio della regola “centrale” in materia ermeneutica, quel dovere di interpretare il contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.), che già il legislatore del 1942 considerava non un mero anello di congiunzione tra i due momenti – soggettivo e oggettivo - dell’interpretazione negoziale, che opererebbero separatamente e successivamente in virtù di un preteso principio gerarchico o gradualistico, ma «il punto di sutura che li domina entrambi» (3).

Al fondo della questione si riconosce la difficoltà stessa di risalire a una nozione certa della clausola generale di buona fede interpretativa, di per sé elastica e

(1) Su questo profilo di disciplina, nel quadro di una vasta letteratura in tema di accordi sostitutivi e integrativi del provvedimento amministrativo, basti qui richiamare G. ALPA, L’attività negoziale della pubblica amministrazione nella nuova disciplina del procedimento amministrativo, in P.

STANZIONE eA.SATURNO (a cura di), Il diritto privato della pubblica amministrazione, Padova, 2006, 76 ss.; G. VETTORI, Accordi «amministrativi» e contratto, in G. BARBAGALLO,G.FOLLIERI eG.VETTORI (a cura di), Gli accordi fra privati e pubblica amministrazione e la disciplina generale del contratto, Napoli, 1995, 15 ss.

(2) Cfr. in tal senso, ora, V. ROPPO, Il contratto, II ed., in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2011, 63, che parla di un diritto privato dei contratti come diritto “comune” agli operatori privati e pubblici. Su tale dinamica cfr. altresì V. CERULLI IRELLI, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2011.

(3) Relazione del Guardasigilli, n. 622. Al riguardo, v. A. CATAUDELLA, L’art. 1366 ed il commento del Guardasigilli, in Quadrimestre, 1993, 373 ss., 377 ss.; da ultimo, A. GENTILI, Art. 1362, in Commentario Gabrielli, Dei contratti in generale, a cura di E. Navarretta e A. Orestano, artt. 1350-1386, Milano-Torino, 2011, 359 ss.

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indeterminata, fermo restando che si tratta di quella stessa buona fede oggettiva che rileva anche nelle trattative (art. 1337 c.c.) e nell’esecuzione del regolamento contrattuale (art. 1375 c.c.) (4). Al fine di evitare commistioni con la buona fede soggettiva, si preferisce avere riguardo a un’interpretazione informata ai canoni della lealtà, della correttezza e della chiarezza nel parlare (onere di clare loqui), sì che la clausola di buona fede deve essere utilizzata «quale strumento per interpretare il precetto contrattuale non già secondo la nuda lettera, ma secondo lo spirito» (5). La dichiarazione contrattuale deve essere interpretata, cioè, «in funzione del reciproco comportamento complessivo delle parti da cui proviene e della situazione di fatto, nella quale appare in concreto inquadrata» (6). L’interprete, dunque, dovrebbe adeguare l’interpretazione al significato obiettivo sul quale ciascuna parte, in base alle circostanze concrete, poteva fare ragionevole affidamento (7), tanto da escludersi interpretazioni cavillose e formalistiche, contrarie allo spirito dell’intesa (8).

(4) In dottrina, per tutti, Salv. ROMANO, Buona fede (dir. priv.), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 680. Non si dubita in giurisprudenza che «il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase» (Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, 85 ss., 86, con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Della serie «a volte ritornano»:

l’abuso del diritto alla riscossa; v. anche Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in questa Rivista, 1994, 566 ss., 569, con nota di V. Carbone, La buona fede come regola di governo della discrezionalità contrattuale;

Cass. 5 marzo 2009, n. 5348, ivi, 2009, 1504 s., spec. 1505, con nota di D. DE GIORGI, Mediazione:

diritto alla provvigione e conferimento dell’incarico a tempo; Cass. 31 maggio 2010, n. 13208, in Giur.

it., 2011, 794, con nota di P. RESCIGNO, Un nuovo caso di abuso del diritto).

(5) E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, rist. corretta della II ed. (1960), a cura di G.

Crifò, Napoli, 1994, 340.

(6) E. BETTI, op. cit., 333.

(7) C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, II ed., Milano, 2000, 423, secondo il quale il ragionevole affidamento di una parte «si determina in relazione a quanto l’altra parte abbia lasciato intendere mediante le proprie dichiarazioni e il proprio comportamento valutati secondo un metro di normale diligenza». Sull’interpretazione secondo buona fede come interpretazione ragionevole del contratto, rivolta a tutelare l’affidamento della controparte, cfr. F. VIGLIONE, Metodi e modelli di interpretazione del contratto. Prospettive di un dialogo tra common law e civil law, Torino, 2011, 91 ss., ove ampia e documentata indagine comparatistica.

Alla connessione tra affidamento e buona fede in diritto pubblico è dedicata l’opera di F.

MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “Trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, il quale nota che il Consiglio di Stato, fin dai primi decenni del secolo scorso, «aveva frequentemente emanato decisioni che non potevano trovare altra spiegazione razionale, se non nell’esistenza, implicitamente affermata, di un principio di correttezza e buona fede in senso oggettivo che imponeva alla pubblica amministrazione di tener conto e di tutelare gli affidamenti da essa ingenerati in capo al cittadino» (271).

(8) Cfr. C.M. BIANCA, op. cit., 424 s.; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XV ed., Napoli, 2011, 1079 s. In tal senso, di recente, Cass. 19 maggio 2011, n. 10998, in http://pluris- cedam.utetgiuridica.it/, secondo la quale il criterio dell’art. 1366 c.c. «non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali invero non rispondenti alle intese raggiunte, e a tale stregua pertanto deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale».

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In una diversa prospettiva, si è pure proposto di rileggere le tecniche dell’interpretazione letterale (art. 1362, comma 1, c.c.) (9), “globale” (art. 1362, comma 2, c.c.) (10) e sistematica (art. 1363 c.c.) (11), alla luce della complessità del sistema giuridico (12). In tal senso, la clausola generale di buona fede viene considerata «norma ponte» tra le regole soggettive e oggettive d’interpretazione e i principi costituzionali e comunitari che conformano l’attività dell’interprete anche verso l’adeguamento, l’integrazione o la correzione di quel regolamento d’interessi (13).

Comunque si voglia rappresentare la funzione della buona fede oggettiva nell’interpretazione contrattuale, rimane fermo che il contratto – qualunque contratto, a norma dell’art. 1366 c.c. - «deve essere interpretato secondo buona fede», non essendo l’operatività della clausola subordinata alla presenza di clausole ambigue (14). Si tratta, cioè, di un criterio non sussidiario, ma cogente (15), la cui natura

(9) Si ricordi che la disposizione citata impone all’interprete, nel ricercare la comune intenzione delle parti, di «non limitarsi al senso letterale delle parole». Divieto, questo, che non può essere eluso dalla presunta aprioristica certezza del testo: «la chiarezza non è presupposto, ma risultato dell’interpretazione» (N. IRTI, Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 codice civile, Padova, 1996, 63). Per una critica del brocardo in claris non fit interpretatio in materia contrattuale, cfr. M.

PENNASILICO, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti. Per un’ermeneutica contrattuale rinnovata, Napoli, 2011, spec. 43 ss., 220 ss., 285 ss., 423 ss., nonché, in una prospettiva comparatistica, F. VIGLIONE, Metodi e modelli di interpretazione del contratto, cit., 58 ss.

(10) Si tratta del criterio di valutazione che impone di dedurre l’intenzione comune delle parti dal loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. Al riguardo, cfr. C.M.

BIANCA, Diritto civile, III, cit., 427 ss.

(11) Si allude alla regola secondo la quale le clausole del contratto devono essere interpretate le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto. Osserva C.M. BIANCA, op. cit., 432, che il criterio sistematico non è sussidiario, utile cioè soltanto qualora sia dubbio il senso della singola clausola: «l’interpretazione della singola clausola che non tenga conto del testo complessivo rischia di fraintenderne il significato in quanto anche una clausola apparentemente chiara deve essere vista e intesa nell’unitario insieme del contratto».

(12) P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo- comunitario delle fonti, III ed., Napoli, 2006, 612 ss.

(13) Definisce, in dottrina, la buona fede «norma-ponte per il raccordo con i principi esprimenti i valori fondanti del sistema, e in particolare con i principi costituzionali», F.D. BUSNELLI, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, 548 e 556.

(14) La buona fede «interviene sul contratto (o su ciò che debba reputarsi tale) in tutti i casi: a prescindere, cioè, da motivi di incertezza, equivocità, polisensismo, dubbio ed al fine di saggiarne l’obbiettiva portata di entità capace di realizzare un regolamento di interessi realmente conforme ai principi generali dell’ordinamento e di intervenire, se del caso, sulla regola posta al fine di correggerne il significato da tali principi difforme» (L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, in Commentario Schlesinger, Milano, 1991, 214).

(15) Cass. 17 febbraio 2004, n. 2992, in Dir. giust., 2004, n. 13, 34 ss., spec. 39; Cass. 18 ottobre 2004, n. 20399, in Contratti, 2005, 429 ss., spec. 430, con nota di M. SELVINI, Buona fede e preliminare di compravendita ad effetti anticipati; contra, tra le più recenti, Cass. 12 giugno 2007, n. 13777, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 178 ss., spec. 182, con nota di A. TETI, Gerarchia dei mezzi ermeneutici e in claris non fit interpretatio; Cass. 6 settembre 2008, n. 24209, in Giust. civ., 2010, I, 457 ss., spec.

461. La negazione del carattere puramente sussidiario della regola del Treu und Glauben (§ 157 BGB) è indiscussa nella dottrina e giurisprudenza tedesche, le quali si preoccupano di coordinare e armonizzare

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inderogabile è riconosciuta anche dai Principi Unidroit (art. 1.7), dai Principi Lando (art. 1:201) e dal Draft Common Frame of Reference (artt. II.-3:301 e III.-1:103).

2. Alla luce di quanto osservato, sembrerebbe allora illogico escludere del tutto l’applicabilità della clausola generale ai rapporti contrattuali tra privato e P.A.

Rilevante, invece, è l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che sostiene l’applicabilità delle clausole di buona fede e correttezza soltanto ai rapporti tra privati e non anche a quelli tra privati e p.a.: «Buona fede e correttezza sono infatti parametri propri ed esclusivi della autonomia privata e risultano di per sé speculari al potere riconosciuto al solo giudice civile di intervenire sul regolamento di interessi posto in essere tra i contraenti o che gli stessi avrebbero dovuto porre in essere, al fine di valutare la misura entro cui la relativa disciplina è meritevole di protezione da parte dell’ordinamento positivo» (16).

Senza dubbio, occorre sottolineare che l’attività contrattuale della P.A., ancorché eseguita in regime privatistico (17), è comunque attività d’interesse pubblico; sì che la soggezione della P.A. alle regole di diritto comune non può significare completa svalutazione di ogni differenza tra le posizioni dei contraenti (18). Se l’interesse pubblico condiziona l’intera attività contrattuale della P.A.,

la regola dell’interpretazione secondo buona fede con quella complementare della determinazione della

«reale volontà» (§ 133 BGB). Al riguardo, cfr. E. FERRERO, La determinazione della comune intenzione nel modello codicistico di interpretazione dei contratti, in I cinquant’anni del codice civile, Atti del Convegno di Milano, 4-6 giugno 1992, II, Milano, 1993, 776 ss.; per il carattere precettivo della clausola di buona fede, già C. GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, (1938), rist. con appendici, Padova, 1983, 37 s., 196.

(16) Cons. St. 18 novembre 2002, n. 6389, in Dir. proc. amm., 2003, 1244, con nota di B.

LUBRANO, Risarcimento del danno e violazione dei doveri di buona fede. Lo stesso giudice (Cons. St. 26 settembre 2003, n. 5495, in Gior. dir. amm., 2004, 403, con nota critica di M. MACCHIA, Ambiti di operatività del principio di buona fede oggettiva), sotto altro profilo, ha escluso un riscontro di legittimità di una procedura concorsuale «alla stregua dei principi di imparzialità e trasparenza, a cui si aggiungono, con una sorta di vis expansiva, quelli (della comune disciplina di diritto privato) della correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.)», ritenendolo inconciliabile con la «fisionomia pubblicistica» della procedura stessa.

Nel senso dell’applicabilità della buona fede, invece, Cons. St. 5 marzo 1996, n. 339, in Foro amm., 1996, I, 937; Cons. St. 5 febbraio 2003, n. 585, in Foro amm. C.d.S., 2003, 1045 ss., con nota di A.G. OROFINO e M. MARINO, Sull’irrogabilità delle sanzioni per ritardato o mancato pagamento dei contributi concessori in ipotesi di omessa escussione del fideiussore da parte dell’amministrazione creditrice; Cons. St. 26 settembre 2003, n. 5494, in Dir. giust., 2003, n. 40, 68 ss., con nota di M.

ALESIO, L’indizione dei concorsi nell’ambito della potestà organizzativa, ivi, 64 ss.; Cons. St. 12 ottobre 2004, n. 6583, in Foro amm. C.d.S., 2004, 2874 s.

(17) Si fa riferimento sia ai contratti conclusi iure privatorum, sia ai contratti a evidenza pubblica, la cui conclusione è preparata da un procedimento amministrativo che mira a rendere note le ragioni di pubblico interesse che giustificano l’intenzione di contrarre della P.A., la scelta del contraente e la formazione del consenso (cfr., ad es., V. RICCIUTO e A. NERVI, Il contratto della pubblica amministrazione, in Trattato CNN, diretto da P. Perlingieri, IV, 13, Napoli, 2009, 115 ss.).

(18) In tal senso, M. PENNASILICO, Il ruolo della buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione dei contratti della pubblica amministrazione, in Rass. dir. civ., 2007, 1052 ss., spec.

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assumendo rilievo causale in tutte le sue fasi (19), non possono non esservi consistenti deroghe alla disciplina di diritto comune (20).

Tuttavia, la stringente considerazione delle specificità dei contratti conclusi dalla P.A. non dovrebbe spingersi al punto da negare l’applicabilità della clausola generale di buona fede.

In realtà, la soluzione negativa riflette la concezione che esaurisce il criterio di buona fede nell’interesse pubblico (21). Sennonché tale visione appare ormai superata: reputare assorbita l’operatività della buona fede oggettiva nel perseguimento dell’interesse pubblico, significa confondere quest’ultimo con l’interesse soggettivo della singola amministrazione procedente, là dove proprio l’operatività della clausola generale può garantire un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco (22).

Soluzione, questa, che si conforma al dettato costituzionale, poiché il principio di imparzialità, quale parametro fondamentale dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impone di superare l’autoritarismo dell’attività della P.A. D’altra parte, se è possibile riconoscere un fondamento costituzionale al criterio di buona fede, quale espressione del dovere di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), non si può negare allo stesso una

1062 s.; G. PERLINGIERI, Compenso del professionista, finanziamento del progetto e clausola condizionale. Il ruolo della buona fede ex art. 1358 c.c. nei contratti della p.a., in Dir. proc. amm., 2011, 119 ss., spec. 156.

(19) Sulla rilevanza causale dell’interesse pubblico nella contrattazione della P.A. si rinvia a V.

RICCIUTO e A. NERVI, Il contratto della pubblica amministrazione, cit., spec. 209 ss.

(20) In tal senso, già M. GIORGIANNI, Il diritto privato ed i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir.

proc. civ., 1961, 391 ss., 417; più di recente, L.V. MOSCARINI, I contratti della Pubblica Amministrazione e la disciplina dell’art. 11 della l. 7.8.1990, n. 241, in Gli accordi fra privati e pubblica amministrazione e la disciplina generale del contratto, a cura di G. Barbagallo, E. Follieri e G. Vettori, Napoli, 1995, 67; C. FRANCHINI, Diritto pubblico e diritto privato nei contratti della pubblica amministrazione, in La disciplina dell’appalto tra pubblico e privato, a cura di G. Alpa, G. Conte, V. Di Gregorio, A. Fusaro e U. Perfetti, Napoli, 2010, 89 ss., 95.

In giurisprudenza, v. Cons. St. 13 novembre 2002, n. 6281, in Cons. Stato, 2002, I, 2503: «La posizione di autonomia privata e la legittimazione negoziale delle Pubbliche amministrazioni sono regolate dalle norme di diritto positivo relative alle persone giuridiche in genere; tuttavia, in conformità dei principi relativi all’evidenza pubblica, le persone giuridiche pubbliche non possono assumere impegni contrattuali se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che ne funzionalizzano l’attività, finalizzata al perseguimento di interessi pubblici». Si pensi, ad es., per quanto attiene ai modi di pagamento dei debiti pecuniari, all’osservanza della procedura speciale contabile relativa alla «formazione del titolo di spesa»: i poteri discrezionali che la P.A. esercita in questa fase riguardano soltanto la formazione e liquidazione del titolo di spesa, non l’«impegno di spesa» sorto nella fase di formazione del contratto (cfr. Cass. 21 febbraio 1983, n. 1308, in Giust. civ., 1983, I, 2379 ss., spec. 2386 s., con nota di M. COSTANZA, Buona fede ed eccezione di inadempimento).

(21) Cfr. F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995, 39 ss., 44 ss.

(22) Cfr. F. ADDIS, Legittimità dell’affidamento, autoresponsabilità del contraente pubblico e obbligo di diligenza del contraente privato, in Obbl. contr., 2005, 110, in linea con l’opinione di F.

MERUSI, Buona fede e affidamento, cit., 115 ss.

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portata più ampia, che superi i confini civilistici, sicché anche la P.A. non può reputarsi sottratta all’obbligo di agire correttamente (23).

Il rischio, altrimenti, è di vanificare proprio quegli strumenti di collaborazione e di negoziazione tra pubbliche amministrazioni e privati, dei quali gli accordi previsti dalla legge n. 241 del 1990 sono testimonianza. Sembra così profilarsi una nuova concezione dei rapporti tra cittadini e autorità pubblica (c.d. amministrazione partecipata o condivisa), «in virtù della quale la pretesa alla regolarità dell’azione amministrativa va valutata secondo i canoni contrattuali di correttezza e buona fede»

(24); concezione, questa, che, seppur non incontrastata in dottrina (25), trova conferme nella più recente legislazione speciale o di settore (26).

(23) Cfr. L. LORELLO, La tutela del legittimo affidamento tra diritto interno e diritto comunitario, Torino, 1998, 221; F. MANGANARO, Principio di buona fede, cit., 119.

In giurisprudenza, v. Cons. St. 11 maggio 2007, n. 2318, in Guida dir., 2007, n. 31, 72, secondo cui, in tema di silenzio, sussiste l’obbligo di provvedere della P.A., con inadempimento in caso di inerzia, anche quando «l’obbligo di provvedere non sia normativamente sancito, ma vi siano ragioni di giustizia ed equità che impongono l’adozione di un provvedimento in ossequio al dovere di correttezza e buona fede (articolo 97 della Costituzione)»; Trib. Salerno, 18 marzo 2011, in www.comparazionedirittocivile.it, con nota di A.G. PARISI, La responsabilità della pubblica amministrazione, tra norme e orientamenti giurisprudenziali, che dichiara la nullità ex art. 1229 c.c.

della clausola di esonero con cui la P.A. esclude la propria responsabilità precontrattuale circa il mancato perfezionamento o la mancata approvazione del contratto, «dovendosi riferire il corretto adempimento, nella fase procedimentale di scelta del contraente, degli obblighi di correttezza e buona fede della p.a. e di tutela dell’affidamento ingenerato nei terzi, ad esigenze di ordine e di interesse pubblico, che trovano fondamento nei principi costituzionali predicati dall’art. 97 Cost., cui deve ispirarsi l’azione amministrativa».

(24) Cass. 10 gennaio 2003, n. 157, in Foro. it., 2003, I, 78 ss., 79, con nota di F. FRACCHIA, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima?) puntualizzazione; e v. Cass. 13 febbraio 2009, n. 3559, in Fisco, 10/2009, 1547 ss., con nota di P. TURIS, Struttura organizzativa dell’Amministrazione finanziaria e principi di collaborazione e buona fede, che considera la correttezza un dovere dell’amministrazione, perché tenuta a operare, nella logica del servizio, come «assistente dei cittadini».

(25) Propongono l’idea di una «amministrazione condivisa», F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino.

Tra libertà garantita e libertà attiva, Venezia, 1994; L. FRANZESE, L’autoamministrazione come superamento di privato e pubblico, in appendice a ID., Il contratto oltre privato e pubblico. Contributi della teoria generale per il ritorno ad un diritto unitario, 2a ed., Padova, 2001, p. 223 ss.; ma, contra, F.G. SCOCA, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, p. 451 ss., e ID., Attività amministrativa, in Enc.

dir., Agg., VI, Milano, 2002, p. 93 ss., per il quale, poiché il contratto è assoggettabile al regime speciale dell’attività amministrativa, il modulo consensuale è soltanto una «apparente alternativa» all’agire autoritativo della p.a.

(26) Si allude alla legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), il cui art.

10, comma 1, dispone che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria «sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede»; nonché al nuovo Codice dei contratti pubblici, che include tra i principi normativi dell’azione amministrativa la clausola di correttezza (artt. 2, comma 1, e 6, comma 5), della quale è ormai acquisita la sostanziale equivalenza alla buona fede oggettiva (v., per tutti, S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, rist. integrata 2004, 119 ss., 132 ss., e F. MANGANARO, Principio di buona fede, cit., spec. 113 ss.).

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3. L’esperienza giurisprudenziale, tanto civile quanto amministrativa, seppur oscillante, sembra registrare alcune aperture alla valorizzazione della buona fede nell’attività contrattuale della P.A.

La Corte di Cassazione non manca di affermare, a mo’ di premessa generale, che «l’obbligo di correttezza e buona fede deve improntare tutti i comportamenti giuridici, traggano gli stessi titolo da rapporti di natura contrattuale, da rapporti in cui ad uno dei soggetti viene attribuita una posizione di preminenza, da diritti potestativi, o anche in ipotesi di rapporti non nati da un contratto» (27).

Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa ha sperimentato taluni specifici parametri interpretativi, utili a valorizzare le peculiarità del caso concreto e gli interessi dei contraenti, confermando che l’interpretazione delle clausole contrattuali «avviene secondo i principi ermeneutici generali che danno rilevanza alla buona fede» (28). Si è, così, ribadito che le clausole di gara ambigue o equivoche devono essere interpretate nel senso di favorire, anziché limitare, la partecipazione degli aspiranti alla gara: rileva, infatti, un puntuale interesse pubblico a una maggiore concorrenza e a un confronto più ampio possibile di offerte (29); con la conseguenza che le offerte «non possono essere assoggettate a processi di adattamento e di trasformazione o anche di presuntiva interpretazione della reale volontà dell’offerente, diversa in ipotesi da quella obiettivamente manifestata, in quanto così facendo si violerebbe il [...] principio di buona fede e si lederebbe, inoltre, il criterio della par condicio dei concorrenti» (30).

Tuttavia, nell’argomentazione dei giudici amministrativi il ricorso alla clausola generale di buona fede è subordinato all’ambiguità o equivocità delle clausole contrattuali: si tratterebbe cioè di uno strumento ermeneutico sussidiario rispetto ai criteri soggettivi di interpretazione (31).

(27) Cass. 11 gennaio 2006, n. 264, in Giust. civ., 2006, I, 518 ss., 522.

(28) Cons. St. 3 marzo 2004, n. 1058, in Dvd Juris data.

(29) «In ipotesi di incertezza delle clausole relative all’ammissione alla gara per l’aggiudicazione di un contratto della Pubblica amministrazione va prescelta l’interpretazione favorevole alla massima partecipazione al concorso, e ciò non soltanto in omaggio al generale principio di conservazione degli atti, ma anche in conformità del più specifico interesse dell’Amministrazione ad un confronto più ampio possibile tra le offerte»: Cons. St. 25 marzo 2002, n. 1695, in Cons. Stato, 2002, I, 615; cfr., tra le tante pronunce, Cons. St. 3 settembre 1990, n. 789, ivi, 1990, I, 1107; Cons. St. 28 marzo 2007, n. 1441, in Rass. dir. civ., 2009, p. 1165 ss., con nota di B. MANFREDONIA, Clausole ambigue del bando di gara e bilanciamento di principi; TAR Abruzzo-Pescara, 21 giugno 2007, n. 630, in Dvd Juris data; Cons. St.

17 ottobre 2008, n. 5064, ivi.

(30) Cons. St. 15 ottobre 1986, n. 546, in Cons. Stato, 1986, I, 1533. Per la prevalenza del principio della par condicio su quello del favor partecipationis, applicabile soltanto nell’ipotesi di clausole ambigue o arbitrarie, v. Cons. St. 27 marzo 2009, n. 1822, in Urb. app., 2009, 821 s., con nota di I. FILIPPETTI, Par condicio e favor partecipationis nell’interpretazione degli atti di gara.

(31) È l’opinione comune, rappresentata da Cons. St. 26 maggio 2003, n. 2854, in Riv. giur. edil., 2003, I, 1509 ss., spec. 1510 (dove si afferma che «l’interpretazione degli accordi tra le parti va compiuta secondo principi di ragionevolezza e di buona fede, quanto meno nelle ipotesi in cui gli atti formali risultino ambigui o lacunosi»), e ben radicata anche nella giurisprudenza ordinaria: v., ad es., Cass. 21

(8)

Sennonché, una recente sentenza del Consiglio di Stato (32) opera un passo in avanti verso una considerazione della buona fede quale regola interpretativa non sussidiaria (33).

Nel caso di specie, si controverte su un contratto di concessione d’uso esclusivo di un’area comunale per trent’anni, che prevedeva, a carico del concessionario, l’obbligo di costruire un canile per la custodia e la cura di cani randagi. Deceduto il concessionario, i suoi eredi reclamano il rimborso delle spese sostenute per il ricovero dei cani, sulla base di atti comunali, qualificati come ordinanze, con cui si invitava il concessionario a occuparsi della cura dei randagi.

Il Consiglio di Stato, condividendo quanto osservato dal giudice di prime cure (TAR Sardegna-Cagliari, con sentenza n. 1432 del 2007), riqualifica le “ordinanze”

comunali come «meri atti di invito» all’adempimento degli obblighi di ricovero e custodia dei cani, contrattualmente assunti dal privato con la concessione-contratto.

La pretesa creditoria degli eredi appellanti non può, infatti, discendere da tali atti, poiché la concessione nulla ha disposto con riferimento al rimborso delle spese di ricovero. Se così è, difetta in radice la giurisdizione del giudice amministrativo, vertendo la controversia su contenuti meramente patrimoniali, rimessi alla competenza del giudice ordinario.

Tuttavia, aggiunge incidentalmente il Consiglio, qualora s’ipotizzasse sussistente la giurisdizione amministrativa, dall’assetto del contratto si dedurrebbe che la gestione del servizio pubblico di custodia dei cani randagi doveva gravare interamente sul concessionario quale componente del corrispettivo dell’uso esclusivo dell’area, a nulla rilevando che gli ordini comunali di custodia contenessero il riferimento a un futuro rimborso spese, essendo gli stessi «meri atti esecutivi del contratto accessivo alla concessione». Tale conclusione è avvalorata anche dal comportamento successivo delle parti (art. 1362, comma 2, c.c.), «criterio ermeneutico fondamentale» dal quale si evince che i contraenti originari hanno sempre reputato il servizio pubblico di custodia compreso negli obblighi della concessione, tanto che nulla era mai stato richiesto fino alla istanza di rimborso degli eredi.

È pur vero – osserva il Consiglio - che, nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, «il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento

febbraio 1983, n. 1308, cit., la quale, benché applichi l’art. 1366 c.c. ai contratti dei quali è parte la p.a., sostiene, nella prospettiva volontaristica, la sussidiarietà del criterio.

(32) Cons. St. 6 luglio 2012, n. 3963, in http://pluris-cedam.utetgiuridica.it/.

(33) Considerazione che può dedursi già dall’orientamento “eversivo”, che capovolge la tesi dominante basata sulla priorità dei criteri ermeneutici soggettivi, per affermare che, nell’interpretare i contratti della P.A., «debbono essere privilegiati i cosiddetti metodi di interpretazione oggettiva, dando minimo valore a quelle regole di interpretazione soggettiva tese a ricostruire la volontà delle parti anche in contrasto con il dato letterale» (Corte conti, sez. controllo St., 11 dicembre 1996, n. 171, in Cons.

Stato, 1997, II, 458 ss., 460; conformi, Cons. St. 20 novembre 1998, n. 1619, in Foro amm., 1998, 11 s.;

Cons. St. 23 gennaio 2002, n. 397, in Foro amm. C.d.S., 2002, 69 s.; Cons. St. 24 febbraio 2005, n. 657, in Riv. giur. edil., 2005, I, 1266 ss., 1269).

(9)

complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo» (34).

Il giudice amministrativo non considera questo un argomento determinante, pur senza chiarirne le ragioni, che evidentemente riposano nella consapevolezza che i comportamenti, le circostanze, le eventuali dichiarazioni contestuali, che non presentano la forma prescritta, possono comunque contribuire ad accertare il senso della volontà espressa nella forma di legge (35).

Resta, dunque, essenziale – nell’argomentazione del Consiglio di Stato - che,

«per individuare quale sia stata la comune intenzione delle parti, dopo aver dato corso all’interpretazione letterale dell’atto negoziale, e cioè delle singole clausole significative, nonché delle une per mezzo delle altre, si può utilizzare il criterio del comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, in quanto espressivo di un principio di buona fede che costituisce canone ermeneutico fondamentale del contratto» (36).

Nel caso di specie, il Consiglio reputa non soltanto che l’interpretazione letterale del contratto (che non contiene alcuna clausola di rimborso) e l’interpretazione sistematica delle clausole (art. 1363 c.c.) non conducano affatto ad affermare quanto sostiene la parte appellante, «ma che lo stesso comportamento posteriore alla conclusione del contratto, per il quale per anni e anni nulla è mai stato richiesto a titolo di rimborso spese per il ricovero dei randagi, costituisca argomento confermativo dell’intenzione delle parti di non prevedere per tale servizio alcun compenso, in quanto già ricompreso nel complessivo assetto di interessi economici contrapposti fissato dall’atto negoziale».

I giudici amministrativi finiscono per individuare la comune intenzione in base a una valutazione di buona fede anche dello stesso comportamento complessivo delle parti. In tal modo, l’interpretazione andrebbe sempre condotta a una stregua di buona fede, criterio dunque non più sussidiario ed eventuale, ma principale, con conseguente applicazione congiunta degli artt. 1362 e 1366 (37).

(34) La soluzione negativa (salvo che la dichiarazione contenga una relatio a elementi estranei all’atto formale) è piuttosto frequente in giurisprudenza: v., ad es., Cass. 2 giugno 1995, n. 6201, in Giust. civ., 1996, I, 455; Cass. 5 febbraio 2004, n. 2216, in Corr. giur., 2004, 1327 ss., con nota di G.

GENOVESI, Interpretazione del contratto formale ed elementi extratestuali; Cass. 7 giugno 2011, n.

12297, in Contratti, 2012, 125 ss., con nota di G. BARILLÀ, Comportamento successivo delle parti e forma scritta ad substantiam; diversamente, Cass. 5 giugno 1984, n. 3398, in Rep. Foro it., 1984, voce Contratto in genere, n. 166; Cass. 13 marzo 1992, n. 3048, ivi, 1992, voce cit., n. 249.

(35) In tal senso G. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, Padova, 1969, 177 ss.;

G.B. FERRI, Forma e contenuto negli atti giuridici, in Riv. dir. comm., 1990, I, 1 ss., spec. 14; C.M.

BIANCA, Diritto civile, III, cit., 443; C. SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, 308 s.; E. CAPOBIANCO, Il contratto. Dal testo alla regola, Milano, 2006, 105;

M. PENNASILICO, Contratto e interpretazione. Lineamenti di ermeneutica contrattuale, Torino, 2012, 13.

(36) Così qualificano l’art. 1366 c.c. i giudici amministrativi, in linea con Cass. 21 marzo 2011, n. 6405, in http://pluris-cedam.utetgiuridica.it/.

(37) In tal senso, v. già E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 329 ss., 348; M.

CASELLA, Il contratto e l’interpretazione. Contributo a una ricerca di diritto positivo, Milano, 1961, 213

(10)

s.; più di recente, C.M. BIANCA, Diritto civile, III, cit., 423 s.; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., 1079.

Questo dato sistematico è confermato, sul piano esecutivo, da una precedente decisione del Consiglio di Stato, la n. 70 del 1982, che ha colto il preminente rilievo dell’esigenza di conservazione del rapporto concessorio, «anche alla luce di quei fondamentali canoni di buona fede, correttezza e cooperazione, che devono intendersi validi nello svolgimento del rapporto di concessione come nella esecuzione di un qualunque tipo di rapporto contrattuale » (Cons. St. 9 febbraio 1982, n. 70, in Foro amm., 1982, I, 215 ss., 217).

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