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FATTORI DI RISCHIO IN TRAUMATOLOGIA E ORTOPEDIA INTRODUZIONE AL CONGRESSO

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FATTORI DI RISCHIO IN TRAUMATOLOGIA E ORTOPEDIA I NTRODUZIONE AL CONGRESSO

Prof. Luigi Ricciardi* - Dr. Alberto Ricciardi**

La situazione in cui è venuta a trovarsi in questi ultimi anni la classe medica che ha visto lievitare le accuse di “mal practice” ed i premi delle polizze assicurative, ha fatto nascere tutta una serie di ve iniziative per arginare le accuse e distinguere l’errore vero da quello presunto. Le richieste di risarcimento da colpa medica hanno raggiunto la cifra di 15.000 l’anno, però due terzi dei medici querelati per lesioni colpose vengono assolti per non avere commesso il fatto.

In Florida (Stati Uniti) è stata adottata la formula “three strike law” che significa la regola dei tre colpi: così come il battitore di baseball che sbaglia tre volte il colpo viene eliminato dalla squadra, il medico che per tre volte è stato ritenuto colpevole di “mal practice” viene licenziato.

In questi ultimi anni sempre più imperante la tendenza di colpevolizzare i medici, atteggiamento che trova nei mezzi di informazione ampio spazio pubblicitario.

*Primario Ortopedico Emerito, Mestre

** Ricercatore Confermato Patologia Apparato Locomotore, Università di Trieste, Specialista in

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2 Se il malato ha diritto di essere ben curato non riteniamo giustificabile istituzionalizzare i cosiddetti “Tribunali per la difesa del malato ”come se il medico fosse il nemico da cui difendersi.

Il medico ha però il preciso dovere di prestare cure adeguate e non può rifiutarsi di prestare soccorso e cure d’urgenza a chi ne abbisogna.

Poiché il risultato di un trattamento è condizionato dalla tipologia della lesione, riteniamo indispensabile lo studio dei fattori di rischio ad essa connessi al momento delle decisioni da prendere allo scopo di prevenire e/o evitare errori ed insuccessi.

Il risultato di un trattamento può essere valido o difettoso; il risultato valido è indirettamente proporzionale alla gravità della lesione e direttamente proporzionale alle qualità professionali del chirurgo; il risultato non valido può dipendere da errore del chirurgo, da insuccesso dovuto a cause varie o da complicazioni in corso di cura, pertanto prima di parlare dei fattori di rischio descriviamo l’errore, l’insuccesso e le eventuali complicanze.

L’errore

Intendesi per errore l’azione o l’atto terapeutico o chirurgico contrario alle regole di una tecnica o della scienza e quando manca di correttezza o di esattezza. L’errore è il risultato di una cattiva condotta riferibile sia a difetto di conoscenze e di cultura sia di

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applicazione sconsiderata o incosciente di presidi facenti parte del consolidato bagaglio della cultura medica.

Non basta dimostrare l’errore ma bisogna anche dimostrare che l’errore abbia prodotto lesioni evidenti producenti danno anatomo funzionale. E’ comunque possibile che l’errore compiuto non impedisca il raggiungimento del risultato.

L’errore può essere prevenuto solamente con misure di carattere organizzativo, nulla potendo le minacce o le sanzioni.

Reason (Human Error) definisce l’errore come quella situazione in cui una sequenza pianificata di atti fisici o mentali manca di conseguire l’obbiettivo prefissato e tale insuccesso non può essere attribuito a caso fortuito.

L’errore può essere conseguente a . - anamnesi imprecisa,

- esame obiettivo incompleto nella raccolta dei sintomi,

- esami strumentali eseguiti in modo errato o male interpretati (per incuria di aggiornamento).

Gli errori tecnici rappresentano una importante categoria di errore in campo medico:

un errato inserimento di catetere epidurale, per esempio, può produrre lesioni della dura.

Poiché gli specialisti sono chiamati ad affrontare compiti sempre più difficili e rischiosi soprattutto se attinenti a nuove tecnologie, spesso in condizioni di eccessivo carico di lavoro,

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4 si può presumere che questo genere di errori possa diventare un problema preminente in un prossimo futuro.

Vi possono essere errori diagnostici causati per esempio da scadente lettura delle radiografie, da radiografie non correttamente eseguite, da esami di laboratorio incompleti, errori che possono giustificare il reato di colpa definita causalità omissiva da mancato impedimento dell’evento. Pertanto l’omissione punibile è l’astensione da una specifica attività doverosa.

L’incertezza diagnostica impone il ricorso a controlli, accertamenti, verifiche, consulti ed anche ad una prudente attesa di più certi di elementi di giudizio prima di iniziare trattamenti che potrebbero risultare pregiudizievoli.

La prognosi consegue al giudizio diagnostico. L’errore prognostico è punibile quando si omettono terapie in corso di cure come per esempio quando una neoplasia correttamente diagnosticata viene sottovalutata nei suoi sviluppi per cui l’intervento ritardato comporta il decesso del paziente che sarebbe stato evitato se fosse stato eseguito per tempo.

Anche per quanto attiene alla terapia vi sarà colpa se in presenza di un trattamento collaudato l’ortopedico preferisce strade non collaudate dalla scienza ufficiale e dall’esperienza.

L’errore è sempre dovuto ad azioni qualificanti la colpa generica; intendesi per colpa (art. 43 c.p.) l’evento che, anche se previsto, non è voluto dall’agente e si verifica per negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, discipline.

- negligenza è sinonimo di trascuratezza, insufficiente attenzione, scarso impegno, superficialità, è violazione di regole sociali,

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- imprudenza significa imprevidenza, avventatezza, eccessiva precipitazione, è violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività

- imperizia significa deficienza di cultura professionale, di abilità tecnica, di esperienza specifica richiesta per l’esercizio di determinate attività professionali, è violazione di regole tecniche di settori determinati della vita di relazione.

E’ negligente l’ortopedico che ha errato per distrazione quando scambia una specialità medica per un’altra, che non prepara diligentemente il campo operatorio, che non prevede e non previene una infezione in una frattura esposta o in pazienti a rischio di infezione come per esempio in un diabetico scompensato. Il vero criterio per stabilire una negligenza da parte di un medico, sia di natura diagnostica o terapeutica, consiste nel verificare se egli si sia reso colpevole di una mancanza tale che nessun medico di normale abilità avrebbe commesso con ordinaria diligenza. Il dovere di diligenza si configura come obbligo morale che scaturisce dal rispetto di coloro che potrebbero venire danneggiati da un certo comportamento. Se un ortopedico si trova nelle condizioni di poter prevedere un rischio di danno verrà considerato negligente nel caso in cui non lo abbia previsto.

E’ imprudente il medico quando volontariamente si cimenta in una branca specialistica che ignora (colpa per assunzione). Una grave imprudenza è la temerarietà che equivale a incuranza di un pericolo; implica la consapevolezza che una azione o una omissione può comportare l’esposizione ad un certo grado di rischio e nondimeno viene posta in essere la decisione di correre tale rischio.

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6 E’ imperito il medico che agisce in modo contrario alla “lege artis” e che si impegna in un intervento ben sapendo che supera la sua personale capacità, ignorando la tecnica ed i tempi.

Carnelutti sosteneva che:

- è diligente chi opera con amore evitando distrazioni o mancanze,

- è prudente chi è in grado di agire prevedendo l’evento che deriva dall’azione, - è perito chi oltre a sapere, sa fare.

Quando l’errore è evidente non si può parlare di evento avverso ma solo di

“malpractice” che significa imperizia, illecito. L’errore medico può anche essere accidentale e dovuto a fenomeni causali non controllabili.

In definitiva l’errore può dipendere, da:

- diagnosi errata e terapia errata,

- diagnosi corretta e scelta terapeutica errata,

- diagnosi corretta, scelta appropriata della terapia ma esecuzione errata della terapia, - terapia inadeguata per prognosi errata. ( M. Bilancetti. La responsabilità penale e

civile del medico. Cedam Ed. 1999 Padova)

Riconoscere l’errore è un esercizio penoso, comporta rimorsi, pentimenti, adattamento ai propri limiti, però occorre vincere ogni riluttanza e far fronte all’evento avverso e non voluto e che va interpretato cosi ché altri evitino di commetterlo. Qualsiasi ortopedico non è scevro di errori: “errare humanum est”, l’errore non deve essere cancellato o dimenticato ma va riconosciuto per capirne le cause così da poterlo evitare in occasioni analoghe. T.

Billroth durante una lezione agli allievi spiegava l’errore che aveva commesso durante un

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intervento che era costato la vita della paziente, allo scopo che essi potessero evitarlo in circostanze analoghe. Oscar Wilde scriveva “l’esperienza è la somma dei nostri errori”.

“Il progresso dell’uomo non va mai in una unica direzione, compie passi in avanti ma anche all’indietro. Troppi uomini sembrano dimenticare che il cammino della conoscenza non è rettilineo ma è un continuo alternarsi di verità ed errori” (Gorge Simmel).

E’ importante lo studio e l’analisi degli errori professionali nei diversi distretti anatomici della nostra disciplina così da poter imparare come evitarli, in tal modo gli errori potranno diventare anche un mezzo di apprendimento dal quale ricavare strumenti per la crescita delle conoscenze.

Quello che va gestito e tutelato è il rischio dell’errore attraverso lo studio dei fattori di rischio direttamente connessi con la patologia in atto e a tutte le eventuali concause concomitanti; per esempio un ortopedico che opera correttamente una frattura chiusa od esposta complessa o complicata ad alto rischio di risultato, non è passibile di condanna quando il risultato non è conforme alle aspettative del cliente se preventivamente informato.

L’insuccesso

Fondamentale è la distinzione tra errore ed insuccesso da evento avverso. L’evento è da considerarsi causa quando provoca un effetto che può risultare positivo se corrisponde alle aspettative dell’ agente, negativo in caso contrario. Non impedire un evento avverso che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo (art. 40 c.c.).

Il risultato di un trattamento è condizionato:

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8 - dalla professionalità del chirurgo,

- dalle condizioni biotipiche ed anagrafiche del paziente, - dalla tipologia della o delle lesioni,

- dalla possibilità di scelta di diverse opzioni terapeutiche, - dalla conoscenza delle innovazioni tecnologiche,

- dalla possibilità di reintervenire nella stessa sede anche a distanza di tempo, - dalla collaborazione del paziente nel mettere in atto le prescrizioni dei sanitari.

L’insuccesso può essere riferibile:

- all’operato dei sanitari (colpa generica, omissione, colpa per assunzione, a errori di indicazioni, di tecnica, di recupero funzionale)

- alle carenze della struttura (colpa specifica: a livello operatorio, strumentale, organizzativo, strutturale)

- alla inosservanza da parte del paziente o alla cattiva gestione delle prescrizione dettate dai sanitari

- a innovazioni tecnologiche - a concause sopravvenute

- alla particolare tipologia o alla gravità della lesione

- a cause fortuite, occasionali o di forza maggiore (l’art. 45 c.c. sancisce che non è punibile chi ha commesso un fatto per caso fortuito od occasionale),

- al deterioramento dei materiali di sintesi e/o protesici, - a infezioni.

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Per quanto attiene alle innovazioni tecnologiche, ricordiamo che la nostra disciplina è diventata altamente condizionata dal progresso tecnologico che comporta costi crescenti e necessità di risorse sempre maggiori, perché richiede un continuo aggiornamento del parco tecnologico, diagnostico ed operativo. Spesso si negano all’ortopedico le risorse finanziarie per le apparecchiature di cui ha bisogno, per cui la sofferenza tra inadeguatezza delle risorse ed il dovere di dare cure adeguate ai tempi a chi soffre, produce inevitabile mobbing, anche perché cresce l’allarme sul futuro della nostra professione a causa di una politica miope e poco incline a risolvere le vessazioni che gli ortopedici subiscono. Lo sviluppo tecnologico ha una intrinseca tendenza a produrre situazioni di rischio inattese talvolta difficilmente prevedibili.

Per quanto attiene al deterioramento dei materiali protesici il Ministero della Sanità con circolare numero DGFDM/in/7101/P/1i.c.r. del 08-03-2005 raccomanda:

- -di non utilizzare protesi sterilizzate a raggi gamma in presenza di ossigeno,

- -sconsiglia fortemente l’impianto di protesi ortopediche contenenti componenti a base di polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE) se queste risultino essere fabbricate da più di 5 anni (oltre che se hanno superato la data di scadenza, nel caso che questa risulti inferiore a 5 anni). Se la data di fabbricazione non risulta dalla documentazione e/o dagli stampati in possesso della struttura sanitaria, è necessario contattare il fabbricante per stabilire l’età della protesi,

- -raccomanda al fine di assicurare l’utilizzo di protesi in cui l’ossidazione delle componenti in UHMWPE sia contenuta il più possibile, di prestare la massima

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10 attenzione alla documentazione relativa alle modalità di confezionamento e stoccaggio della protesi sterilizzate a raggi gamma,

- -ritiene che non appare per il momento necessario avviare programmi di monitoraggio dei pazienti impiantati diversi od ulteriori rispetto a quelli già previsti dai protocolli clinici adottati dai centri che impiantano protesi.

Pertanto l’insuccesso dovuto al deterioramento delle componenti protesiche potrebbe essere imputabile alla ditta che ha fornito la protesi, colpa quindi specifica non attribuibile al sanitario se questi ha preso i necessari provvedimenti di controllo sia in riferimento al tempo di fabbricazione della protesi sia per quanto attiene al controllo della documentazione relativa alle modalità di confezionamento della protesi, per cui la ditta fornitrice ha l’obbligo di fornire la documentazione adeguata. Se l’ortopedico impianta una protesi senza aver assunto adeguate informazioni e documentazioni ciò equivale a colpa per omissione.

Ricordo che la dott.ssa Elena M. Brach del Prever ed il Prof. Paolo Gallinaro del Dipartimento di Traumatologia Ortopedia e Medicina del Lavoro dell’Università degli studi di Torino assieme al Prof. Luigi Costa e dott.ssa Pierangela Brach, del Dipartimento IFM dell’Università degli studi di Torino, hanno compiuto sul polietilene interessanti studi per spiegare le cause dei fallimenti degli impianti causati dall’usura e abrasione del polietilene protesico, degradazione che cambia le proprietà clinico-fisiche del polimero e quindi le caratteristiche meccaniche derivandone reazione di tipo infiammatorio con formazione di una membrana di scollamento e osteolisi secondaria. Gli A.A. ricordano che dopo i fallimenti degli anni ’90 molte aziende produttrici di componenti protesiche che

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sterilizzavano con raggi gamma hanno cambiato il processo di sterilizzazione, passando all’ossido di etilene o al gas plasma oppure eseguendo il processo di sterilizzazione in ambiente inerte. Secondo quanto suggerito dalla letteratura internazionale, la sterilizzazione non dovrebbe più essere condotta in presenza di ossigeno. Comunque Elena Brach ritiene che il problema è ancora controverso. Infatti la sterilizzazione gamma “in assenza di ossigeno” potrebbe essere fatta in teoria, ma in pratica, allo stato attuale delle capacità tecniche delle industrie non è fatta, infatti in inglese il termine è “in low oxygen environment”, cioè sterilizzazione in bassa concentrazione di ossigeno: bassa, non assente !!! infatti è stato dimostrato dalla Brach che comunque vi è ossigeno ed i radicali prodotti dalla gamma reagiscono con il poco ossigeno presente e producono iperossidi, il 1° passo dell’ossidazione – quanto questa oxidazione sia grave dal punto di vista clinico non è ancora chiaro – inoltre, se anche sterilizzano con poco ossigeno, ma poi impachettano il tutto in materiale permeabile all’ossigeno….è come avere sterilizzato in ossigeno!!!

Per quanto attiene alle infezioni ricordo che l’infezione di una ferita operatoria può dipendere da

- fattori legati all’ospite (carenze di difese immunitarie, stato nutrizionale, malattie intercorrenti come per esempio il diabete)

- fattori dipendenti dalla ferita,

- fattori legati a batteri colonizzanti il paziente (sorgenti endogene) o contaminanti l’ambiente ospedaliero (sorgenti esogene).

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12 Per buona parte delle infezioni ospedaliere la causa può essere imputabile ad una flora endogena colonizzante la cute del paziente, le membrane mucose e organi cavi. Sono solitamente cocchi gram positivi aerobi come lo stafilococco presente oltre che nella cute anche nei bulbi piliferi, nelle ghiandole sebacee e soprattutto nelle narici di soggetti sani in percentuale pari al 20-30 %. Una recente analisi (Lindwell et alii-Giornale Italiano delle Infezioni Ospedaliere Vol. 6 n. 4 ott-dic 1999) dimostra che lo stato di portatore nasale di stafilococco aureus è un fattore di rischio indipendente più significativo per le infezioni ospedaliere, per cui è consigliabile se non indispensabile prima dall’intervento l’uso locale di mucopiracina per sradicare lo stafilococco dalle narici del paziente ed anche degli operatori sanitari colonizzanti.

Le sorgenti esogene di microrganismi responsabili di SSI (acronimo anglosassone per definire le infezioni di ferite operatorie) comprendono il personale di chirurgia, i componenti delle équipes chirurgiche, l’ambiente operatorio, gli strumenti e i materiali portati nel campo operatorio durante l’intervento. La flora esogena è rappresentata essenzialmente da aerobi gram positivi come stafilococchi o streptococchi.

Le cefalosporine sono state il principale supporto della profilassi per oltre una decade e la crescente prevalenza di ceppi batterici ad esse resistenti si riflette pesantemente nella profilassi. In molti Paesi lo stafilococco aureus meticillinoresistente rappresenta il 15% dei ceppi batterici nosocomiali ed il 38% dei ceppi batterici nosocomiali in ospedali con oltre 500 posti letto e particolarmente negli interventi considerati puliti.

Cefalosporina associata a vancomicina è la PCA (Profilassi Chirurgica Antimicrobica) usata per prevenire l’infezione da stafilococco aureus meticillinoresistente, però la

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vancomicina ha un ristretto spettro di azione e la letteratura segnala isolamenti in diverse aree del mondo di ceppi resistenti alla vancomicina.

Le cefalosporine di terza generazione sembrano le più adatte per la PCA.

Sfortunatamente queste molecole mostrano un scarsa efficacia nei confronti dello stafilococco aureus risultando pertanto inadatte in quegli interventi puliti dove lo stafilococco aureus rappresenta il più probabile fattore contaminante.

Sono stati documentati scambi genetici di DNA plasmidico tra enterococchi e stafilococco aureus e la possibilità di trasferimenti di resistennze a vancomicina può portare a gravi implicazioni per cui non esiste ancora una PCA in grado di garantire al 100% la prevenzione all’infezione della ferita.

In uno studio multicentrico che esaminava 8000 interventi di artroplastica dell’anca e del ginocchio (Lindwell et alii) è stato osservato che con il ricorso all’aria ultrafiltrabile in camera operatoria il tasso di SSI si riduce dal 3,4 all’1,56% mentre il ricorso alle radiazioni UV non si è dimostrato significativo di riduzione.

Il sistema di sorveglianza nazionale statunitense delle infezioni nosocomiali attivo dal 1970 ha dimostrato che le SSI rappresentano la terza infezione ospedaliera per frequenza determinando il 14-16% di tutte le infezioni ospedaliere.

Da tutto questo emerge chiaramente che gli attuali mezzi di antisepsi possono ridurre ma non eliminare il rischio di SSI. Nonostante i progressi delle tecniche di controllo delle infezioni ospedaliere, dei miglioramenti relativi ai sistemi di ventilazione delle camere operatorie, dei metodi di sterilizzazione, delle misure preventive di barriera, delle tecniche chirurgiche, le SSI rimangono una importante causa di mortalità tra i pazienti ospedalizzati

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14 e tutto questo può essere imputabile alla emergenza di microorganismi con fenotipi complessi di farmacoresistenza per cui persiste ancora una percentuale di infezioni ospedaliere che si aggira nelle statistiche mondiali attorno al 2%, infezioni pertanto non imputabili a colpa specifica.

L’insuccesso provoca, come l’errore, elevati costi economici ma soprattutto sofferenza del paziente operato che necessita di ulteriori cure e prestazioni e che vede prolungarsi il tempo di malattia derivandone inoltre danno oltre che morale anche e soprattutto esistenziale.

Ricordo che per iniziativa di Nicola Misasi si sono svolte a Napoli 21 riunioni dall’anno 1973 all’1988 obiettivate ad una revisione critica delle diverse metodiche di trattamento delle lesioni che interessano la chirurgia ortopedica, sottolineando gli esiti negativi e cioè gli insuccessi, discutendo le cause e prospettando i rimedi.

Queste riunioni hanno avuto lo scopo di orientare verso un senso critico i fallimenti terapeutici cui può andare incontro un qualsiasi trattamento attraverso una analisi severa e si sono svolte seguendo una regola fissa e cioè un tema da sviluppare esclusivamente dal punto di vista dell’insuccesso terapeutico in ortopedia, affidando ad un relatore di chiara esperienza sull’argomento il compito di illustrare i fallimenti del trattamento adottato escludendo a priori resoconti statistici più o meno trionfalistici. L’insuccesso ha scritto Calandriello non deve essere considerato un demone da esorcizzare ma piuttosto uno dei molteplici aspetti del nostro lavoro e quindi un elemento da accettare, conoscere e fronteggiare con scienza e coscienza.

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Nella riunione conclusiva si è svolta una tavola rotonda che ha inserito nello spirito degli insuccessi clinici la deontologia, etica troppo spesso dimenticata o perlomeno trascurata, analizzata non solo dai tecnici che hanno partecipato alle riunioni (ortopedici, chirurghi generali, medici legali, penalisti, avvocati) ma anche da interpreti dell’opinione pubblica (giornalisti e filosofi).

Il valore delle riunioni è stato quello di analizzare con chiarezza le differenze tra errore legato alle circostanze e quello legato al progresso tecnico che spesso nel suo tumultuoso evolversi finisce con il privare il chirurgo della necessaria riflessione.

Recentemente nell’ottobre 2005 Campi e Villani hanno organizzato a Roma un congresso sugli insuccessi in ortopedia dove è stata presentata un’ampia panoramica delle lesioni presenti nei diversi distretti anatomici della nostra disciplina ed i risultati dopo chirurgia standard, dopo chirurgia difficile e dopo le nuove innovazioni tecnologiche che richiedono curve di apprendimento e competenze specifiche. Sono state discusse le cause degli insuccessi e delle complicazioni conseguenti alla gravità della patologia in atto, alla tecnica e tipo dei materiali utilizzati ed alla loro eventuale deteriorizzazione usura e attrito, a cause preesistenti o a concause sopravvenute derivandone dall’algoritmo diagnostico e terapeutico indicazioni di prevenzione ed anche la necessità di uno studio pre-operatorio degli eventuali fattori di rischio di insuccesso, argomento questo che ci proponiamo di svolgere nell’ambito del nostro congresso. Analizzare le cause dell’insuccesso e prendere coscienza dell’errore è un dovere dal quale non ci si può sottrarre.

Non è possibile godere dei benefici del progresso umano senza scontare il prezzo di un certo numero di insuccessi

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16 Emerge comunque chiaramente la necessità di un’attenta disamina delle cause di insuccesso per poter identificare quelle pertinenti all’atto chirurgico, alla sua esecuzione ed alla assistenza successiva ricordando che le sintesi ossee interne o esterne, le ricostruzioni anatomiche e le sostituzioni protesiche oggi in continua evoluzione richiedono curve di apprendimento, competenze specifiche ed esperienze consolidate.

La complicazione

Intendesi per complicazione (Enciclopedia Treccani) il sopraggiungere di una manifestazione morbosa nel corso di una malattia già dichiarata della quale costituisce un aggravamento. Mentre per complicanza, termine antico frequente nell’uso medico con il significato di complicazione ma preferito a questo termine, quando si voglia indicare non tanto il sopraggiungere di un evento morboso accessorio, quanto concretamente l’evento stesso che, casualmente concomitante o più spesso favorito o provocato dalla principale malattia in atto, è tale da complicare l’evoluzione o il decorso di questa.

Anche secondo l’Enciclopedia Larousse per complicazione si intende una manifestazione morbosa che si instaura durante l’evoluzione di una malattia allungandone la durata, peggiorando le condizioni del malato, aggravandone la prognosi.

In definitiva la complicazione differisce dall’insuccesso perché imputabile al sopraggiungere di eventi direttamente connessi con la malattia o la lesione. Le complicazioni sono situazioni che vanno preventivate nel bilancio di un intervento e a volte anche previste sulla base dei fattori di rischio; possono rappresentare situazioni transitorie

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prive di conseguenze ma anche inficiare il risultato nel qual caso vanno differenziate dall’errore.

Complicazioni sono considerate, per esempio, le ossificazioni periarticolari che si possono realizzare dopo il trattamento di fratture complesse a più frammenti o dopo interventi di artoprotesi a livello di residui capsulari o delle masse muscolari periarticolari specie, per quanto attiene all’anca, nel medio gluteo, che possono portare alla formazione di vero e proprio tessuto osseo strutturato.

Brooker (1973) ha distinto quattro diversi gradi di ossificazioni eterotopiche periarticolari (OEP) che si verificano in una percentuale di casi che oscilla dal 15 al 50% dovute a cause che rimangono sconosciute pur potendo essere ascritte all’intervento di fattori generali (malattie concomitanti) o locali (vie di accesso, eventuale distacco del gran trocantere, trauma chirurgico sui muscoli, formazione di ematomi, reazioni infiammatorie).

Il I° e II° grado della classificazione di Brooker è privo di significato clinico e funzionale, i gradi III° e IV° possono causare dolori, limitazione funzionale ed anche rigidità.

Anche gli incidenti che si verificano nel corso di trattamenti rutinari non costituiscono oggetto di indagini o di richieste in quanto l’incidente suona in termini di discolpa. Per qualificare come incidente un evento debbono realizzarsi le seguenti condizioni:

- l’evento non deve essere voluto

- non deve essere ragionevolmente prevedibile,

- se prevedibile non può essere realisticamente evitato.

La violazione invece è una infrazione deliberata e sembra strettamente collegata allo sbaglio; è una deviazione da procedure o da regole legate alla sicurezza.

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18 Riteniamo violazioni rutinarie fornire al paziente informazioni inadeguate rispetto agli standard previsti dai competenti organi istituzionali in materia di consenso; omettere di verificare i risultati di indagini cliniche nelle forme dovute; fumare ove è proibito; non rispettare la privacy; non compilare con precisione le cartelle cliniche.

Sono violazioni eccezionali quelle che si verificano in particolari situazioni di emergenza nelle quali le regole comportamentali giudicate appropriate non possono essere facilmente applicate.

Tutte le violazioni rappresentano una offesa dei diritti di coloro che ne subiscono la conseguenze. Saranno le circostanze a stabilire se la lesione della sfera giuridica individuale può tradursi nel diritto a promuovere una azione civile o un risarcimento oppure una sanzione penale o disciplinare a carico dell’autore.

Una violazione può anche mimetizzarsi sotto forma di disattenzione se la decisione ha comportato il salto di qualche passaggio contemplato in qualche procedura: per esempio l’omesso controllo del regolare funzionamento di un apparecchio di anestesia può corrispondere sia ad una disattenzione che ad una violazione.

La temerarietà invece è incuranza del pericolo, implica la consapevolezza che una azione o una omissione può comportare l’esposizione ad un certo grado di rischio e nondimeno viene posta in essere la decisione di correre tale rischio.

Il rischio

Errori ed insuccessi possono essere ridotti se non evitati con lo studio dei fattori di rischio presenti nelle lesioni dei diversi distretti anatomici della nostra disciplina.

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Intendesi per rischio l’eventualità di provocare un danno connesso a cause non sempre prevedibili. E’ intervento rischioso quello che comporta un rischio di risultato anomalo o che espone a rischi; per esempio negli interventi di artroprotesi incombe il rischio di lussazione, di scollamento, di rottura o usura dei materiali, mentre si ritengono pazienti a rischio di infezione i defedati, quelli con ridotta resistenza immunitaria, con preesistenze idonee ad inficiare il risultato come per esempio infezioni post operatorie in diabetici operati senza profilassi antinfettiva.

In Medicina è condizione soggetta a rischio quella sulla quale incombe una elevata incidenza statistica di particolari eventi patologici.

Il rischio di risultato anomalo è direttamente proporzionale alla gravità della patologia da trattare.

Nello studio dei fattori di rischio potrà essere definita la probabilità di un evento con il rapporto tra il numero dei casi favorevoli al verificarsi dell’evento ed il numero dei casi possibili.

Probabilità è condizione di un fatto o di un evento che si ritiene possa accadere o che, tra più fatti ed eventi possibili, appare quello che più ragionevolmente ci si può attendere, può esprimere la misura in cui si ritiene che un evento possa realizzarsi.

Se l’errore va gestito allo scopo di valutarne le cause per poterlo evitare, i fattori di rischio vanno gestiti attraverso l’esame della particolare patologia della lesione da trattare, però il mancato raggiungimento del risultato non costituisce automaticamente elemento di colpa ed il cliente è tenuto a sopportare una dose di rischio relativa alla tipologia della lesione.

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20 Come abbiamo più sopra ricordato, la crescente dipendenza da tecnologie estremamente sofisticate e l’interazione con sistemi ad alta complessità, hanno generato anche risultati sfavorevoli conseguenti all’aumentata incidenza del rischio di errore. Lo sviluppo tecnologico ha un’intrinseca tendenza a produrre nuove situazioni di rischio inattese e talvolta anche difficilmente prevedibili.

Poiché nell’ambito della nostra disciplina si sono formate superspecializzazioni settoriali che richiedono competenze specifiche, l’ortopedico può intervenire se adeguatamente preparato e se non si uniforma alle regole proprie di quel settore di intervento, risulta inadempiente.

Secondo la Corte di Cassaz., sez. IV, 6/12/90 in Cass. Penale 1992-2754, “il dovere obiettivo di diligenza che contrassegna il delitto colposo può avere a contenuto anche un obbligo di preventiva informazione nonché quello di ricorrere alle altrui speciali competenze, sicché versa nella cosiddetta “colpa per assunzione” colui che, non essendo del tutto all’altezza del compito “assunto” esegua un’operazione senza farsi carico di munirsi di tutti i dati tecnici necessari per dominarla secondo lo standard di diligenza, capacità e conoscenza richiesta per il corretto svolgimento del ruolo stesso”.

Tanto più elevato sarà il rischio insito nell’intervento sanitario tanto maggiore sarà la probabilità del risultato anomalo. Obiettivo del congresso è pertanto quello di presentare i fattori di rischio presenti nelle lesioni dei diversi distretti anatomici della nostra disciplina, discussi e presentati da esperti che si dedicano a tempo pieno in uno specifico settore (spalla, gomito, ginocchio, mano colonna etc.), fattori di rischio che se correttamente valutati ed interpretati possono evitare errori o insuccessi.

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Un ortopedico che per anni opera, per esempio, nel settore della chirurgia spinale elettiva ha certamente dimenticato la chirurgia elettiva dell’anca, del ginocchio, della spalla etc. e se incorre in risultati non conformi alle aspettative del cliente non è imputabile di colpa quando l’intervento è compiuto secondo norma ed i risultati sono riferibili alla particolare e complessa tipologia lesionale.

Riteniamo importante che il superspecialista esperto e qualificato in un determinato distretto, tenga seminari o corsi di istruzione indicando l’approccio diagnostico e terapeutico corretto, incoraggiando gli ascoltatori alla perfezione evidenziando i potenziali errori ed il modo di evitarli.

Il medico ha il preciso dovere dell’aggiornamento e della formazione professionale permanente onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico mediante l’acquisizione dei crediti.

Uno specialista ortopedico può comunque intervenire in una lesione distrettuale se si sente qualificato a trattarla. Nel nostro Paese vi sono Cliniche universitarie e Reparti ospedalieri di ortopedia e traumatologia

ove vengono trattate lesioni dei diversi distretti anatomici con suddivisione dei ruoli tra i componenti dell’ equipe e tutto questo comporta di evitare trasferimenti in altre sedi con riduzione dei costi per la struttura ed anche riduzione delle sofferenze per i pazienti.

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La tipologia della lesione

La chirurgia ortopedica si differenzia dagli altri tipi di chirurgia perché è svolta al 60%

su patologia traumatica; è legata all’urgenza ed alla contemporanea pluralità di lesioni; è presente un elevato rischio di infezioni dopo trauma e di una cronicizzazione di queste per la natura stessa dell’osso.

Se l’intervento è di facile esecuzione ed è stato correttamente eseguito il rischio di insuccesso è minimo e l’eventuale mancato conseguimento di buon risultato può derivare dal sopravvenire di eventi imprevisti ed imprevenibili secondo l’ordinaria diligenza professionale, oppure per esistenza di condizioni fisiche del cliente non evidenti; in questo caso il medico deve dimostrare e provare che l’esito negativo non è ascrivibile a negligenza, imprudenza o imperizia ma a concause sopravvenute non prevedibili.

Quando il paziente abbia provato in giudizio che l’intervento operatorio era di facile esecuzione e che da quall’intervento è scaturito un risultato anomalo (condizioni fisiche o psichiche finali deteriori rispetto a quelle preesistenti) non può non presumersi l’inadeguatezza o non diligente esecuzione della prestazione professionale, mentre spetta al chirurgo o alla struttura fornire la prova contraria e cioè di avere diligentemente eseguito l’intervento e di nulla aver potuto contrapporre all’insorgenza dell’esito negativo della prestazione, in quanto causata , per esempio, dal sopravvenire di eventi imprevisti ed imprevenibili secondo la ordinaria diligenza professionale, oppure da una particolare condizione fisica del paziente non accertabile con il medesimo criterio dell’ordinaria diligenza.

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La persona danneggiata da un atto sanitario se ha il diritto di chiedere l’esistenza del danno lo deve anche documentare. Il rigore probatorio non è richiesto quando l’intervento chirurgico non presenta difficoltà di esecuzione ed il rischio di un evento negativo o peggiorativo è minimo, per cui se ne scaturisce un risultato peggiorativo non può non presumersi la inadeguatezza o non diligente esecuzione della prestazione: presunzione basata su di una regola di comune esperienza quella dell’id quod plerumque accidit oltre a quella del res ipsa loquitur.

Se l’intervento è di difficile esecuzione e cioè se la prestazione comporta problemi di particolare difficoltà il prestatore d’opera risponde solo in caso di dolo o colpa grave (art 2236 c.c., Cass. 21/10/1970).

La ragione di tale norma è chiaramente quella di non disincentivare il professionista dall’eseguire operazioni difficili, fissando per tali operazioni un livello esonerativo di diligenza meno rischioso a condizione che il professionista sia adeguatamente preparato.

Tale norma legislativa che contempla la quasi completa immunità del medico impegnato ad eseguire interventi complessi, è stata progressivamente modificata con atteggiamenti di favore per la posizione dei pazienti, mediante una radicale rimeditazione delle precedenti prassi interpretative.

Il Tribunale di Torino ha esplicitamente affermato (T.Torino 14/09/1978, A.Mer.C.el.Cass.,cit.inVisintini, I fatti illeciti, II, L’imputabilità e la colpa in rapporto agli altri criteri di imputazione della responsabilità, Padova 1998,141) che “sarebbe insensato che proprio negli interventi di maggior rischio tecnico il professionista fosse liberato dal dovere

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24 di prudenza, potesse essere negligente e potesse non osservare le norme di condotta che disciplinano la sua attività”, opinione questa che dimostra l’opinabilità dell’art. 2236 c.c.

Più possibilista appare la Cass. N.11695 del 24/11/1994 rispetto alle precedenti pronunce che afferma che “in materia di colpa professionale del medico, quando l’evento venga addebitato a titolo di imperizia la valutazione del Giudice deve essere particolarmente larga nel ristretto addebito della colpa grave; quando invece l’addebito si concreta in una condotta imprudente o negligente, la valutazione del Giudice deve essere effettuata nell’ambito della colpa lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di comune applicazione valevoli per qualsiasi condotta colposa”.

La responsabilità colposa è data anche dalla omissione della prevedibilità del pericolo ossia dalla possibilità che l’ortopedico coscienzioso ed avveduto ha di sapere quando il risultato anomalo è evitabile mediante l’analisi dei fattori di rischio, adottando determinate regole di esperienza; però se malgrado la diligenza, l’attenzione e la prudenza l’evento dannoso si verifica, la condotta non può definirsi colposa.

La colpa deve essere attribuita con grande cautela e talvolta può essere un problema di non facile soluzione. La sanzione penale per fatti di responsabilità professionale è una questione di particolare importanza perché la punizione penale è carica di valenze morali e la condanna implica che l’imputato abbia agito con atteggiamento mentale riprovevole.

La colpa è da considerarsi grave solo nel trattamento imperito delle prestazioni che comportano problemi di particolare difficoltà? E’ stato scritto che la colpa non è né grave, né gravissima o lieve in astratto, ma lo è solo in concreto all’esito di uno specifico

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accertamento che solo allora giustifica un tale giudizio; nel comportamento ortopedico esistono condizioni specifiche spesso differenziate che condizionano il giudizio e che è difficile se non impossibile ricondurre a categorie determinate.

E’ stata definita colpa soggettiva la dimensione psicologica dell’agente riferita al suo comportamento, colpa oggettiva lo scarto (o la relativa valutazione) della condotta rispetto ad un modello ideale di riferimento, la deviazione, cioè, da uno standard di comportamento diligente, inteso come insieme di doveri che incombono su di un soggetto.

Il Giudice Travaglino postula la graduazione della colpa “in una lievissima, una lieve ed una grave: in quest’ultima orbita si iscrivono le particolari fattispecie della colpa cosciente e del dolo eventuale (art. 2236 c.c.); scopo di tale graduazione è quello di valutare lo scarto di comportamento rispetto al modello astratto di volta in volta richiesto ai fini di affermazione di responsabilità con particolare riferimento a quella fattispecie in cui la responsabilità stessa scatta soltanto in presenza di colpa grave”.

A. Merry e McCall Smith (Error, medicine and law Cambridge Uninersity Press, 2001- Giuffrè Editore Milano 2004) classificano la colpa in cinque livelli:

1° livello: è rappresentato dalla pura causalità materiale e l’agente si identifica con la causa fisica dell’evento, egli si è comportato ragionevolmente e non ha violato alcuna regola di condotta. Esempio: un paziente che in assenza di una storia di allergia presenta una imprevedibile reazione anafilattica ad un farmaco e muore nonostante adeguati tentativi di rianimazione. Il medico che ha somministrato il farmaco è il diretto responsabile però non può essere perseguito perché non esistevano preesistenze allergiche.

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26 2° livello: la colpa viene attribuita per una azione che si differenzia da ciò che è esigibile in termini normativi. Tale fattispecie può essere contemplata in termini di negligenza che sottintende una mancanza moralmente colpevole. E’ ragionevole attendersi che un professionista diligente commetta un errore di somministrazione su mille farmaci somministrati? Come esempio citiamo un caso riportato da Merry e Smith: un dottore decide la somministrazione di un farmaco, il Dopran, che a sua insaputa un’altra persona aveva inopinatamente sostituito con la Dopramina in un cassetto dove di solito era riposto.

Distratto dall’emergenza il medico estrasse il farmaco dal cassetto usandolo nell’emergenza , causando la morte del paziente. Il medico è imputabile di non aver letto l’etichetta perché convinto che il farmaco fosse quello giusto e che riteneva riposto nel cassetto o è invece imputabile di omissione non intenzionale di lettura dell’etichetta?

Questo caso potrebbe interpretarsi come negligenza anche se non si può affermarlo con certezza. Il medico comunque non è stato riconosciuto colpevole.

3° livello: è una azione che diverge da ciò che ragionevolmente ci si deve aspettare dall’agente; pur mancando l’intenzione di provocare un danno può riconoscersi una colpa morale. Ciò che non è possibile evitare non dovrebbe costituire oggetto di addebito. Se un medico esperto sceglie di non leggere l’etichetta di un farmaco non si può parlare di semplice incidente ma di omissione perché non leggere l’etichetta non è rischio trascurabile.

Qualora avesse volontariamente omesso di leggere l’etichetta, la sua colpevolezza risulterebbe superiore e va collocata al 4° livello.

4° livello: l’agente è consapevole dell’esistenza di un rischio e nonostante ciò procede nell’azione. Si può parlare di temerarietà. Infatti agire nella consapevolezza che l’azione

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comporta un rischio è azione temeraria. La temerarietà soggettiva è riferibile a chi genera un rischio consapevole dello stesso; la temerarietà oggettiva è riferibile a colui che genera un rischio operando in circostanze che ogni persona giudiziosa avrebbe considerato pericolose. Esempio: persone trasportate su un natante che omettono di indossare il giubbotto è condotta temeraria perché sono consapevoli del rischio cui incorrono. La condotta di un cardiochirurgo che ha continuato ad eseguire complicati interventi cardiaci nonostante i ripetuti avvertimenti circa la temerarietà di tale atteggiamento è stata ritenuta condotta ingiustificabile nonostante le buone intenzioni. Affermare di non conoscere un determinato rischio dopo essere stati messi in guardia da persone competenti circa l’esistenza di quel rischio, non basta a cancellare la responsabilità derivante dalla materializzazione del rischio stesso. La generazione del rischio à ascrivibile in determinate circostanze a temerarietà e ciò si realizza quando il rischio è significativo e l’agente ne conosce l’esistenza. Tale giudizio può essere superato solo nel caso ove si possa dimostrare che è stata compiuta una idonea revisione del rischio e quando questo risulta inesistente. Se l’agente non vuole le conseguenze sottese al rischio sperando che non si realizzino, questo non costituisce una remora all’assunzione del rischio.

5° livello: contempla una non equivoca volontà di causare un danno. Si tratta di situazioni in cui è riconoscibile un deliberato tentativo di causare un danno (l’art. 2236c.c.

equipara la colpa grave al dolo).

Secondo gli AA. le azioni contemplate al livelli 4° e 5° nelle scale di colpevolezza sono moralmente riprovevoli, mentre ogni condotta che si colloca nelle scale 1°, 2°, 3° non dovrebbe costituire oggetto di sanzione penale.

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28 Vediamo ora quali sono le situazioni che comportano problemi di particolare difficoltà:

- gravi deformità acquisite, - reimpianti protesici,

- malattie e sintomi che presentano manifestazioni soggettive ed obiettive equivoche, - incertezza eziologica dei sintomi,

- patologie con presenza di rischi contrapposti come per esempio rischio di trombo- embolia associato al rischio emorragico in un politraumatizzato,

- patologie particolari non adeguatamente studiate scientificamente e con indicazioni diverse nelle diverse scuole,

- fratture chiuse od esposte complesse o complicate, - polifratturato e politraumatizzato,

- impossibilità di trasferimento per condizioni generali allarmanti e con pericolo di vita un grave politraumatizzato soccorso e trasportato in un Ospedale non adeguatamente attrezzato, nel qual caso non è l’ortopedico che deve rispondere ma la scadente gestione territoriale del soccorso, trasporto e ricovero del politraumatizzato, secondo gli schemi del “Trauma Center” che fanno parte dei compiti specifici di una adeguata organizzazione sanitaria regionale.

La valutazione comunque va fatta anche tenendo conto anche delle particolari condizioni in cui l’operatore è costretto ad intervenire come per esempio:

- particolari condizioni soggettive (stanchezza per eccessivo lavoro) - impossibilità di consultazioni,

- attrezzature non adeguate,

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- personale ausiliario non qualificato.

La fatica è stata indicata come concausa di numerosi incidenti medici perché riduce la capacità di giudizio. Sono disponibili dati scientifici e di laboratorio che dimostrano che la fatica ha un effetto negativo sulla capacità lavorativa (Pilcher J.J. et alii-Effects of sleep deprivation on performance – a meta analysis. Sleep- 1996-19,318,26.). Un certo dott.

Teoh, (citato da A.Merry e A. McCall Smith, pag.161), in sede processuale non fu riconosciuto responsabile di omicidio colposo per l’erronea somministrazione di un farmaco ad un paziente, perché nella settimana precedente aveva lavorato 110 ore (Savill R. Tired doctor cleared over patient’s death, Daily Telegraph, 20 may 1995,3). Una interessante innovazione potrebbe consistere nel fornire al paziente, unitamente a tutte le nozioni utili ai fini della espressione del consenso, l’informazione circa l’orario di lavoro del medico nei giorni precedenti l’intervento.

In definitiva nelle prestazioni che comportano problemi di particolare difficoltà, l’ortopedico deve valutare la natura complessa dell’intervento mediante una dettagliata analisi della patologia da trattare, che significa lo studio preoperatorio dei fattori di rischio.

Se il risultato del trattamento non risulta conforme alle aspettative del paziente, può essere attribuito alla particolare complessità della lesione. Il tali casi l’intervento richiede, salvo nell’urgenza, un adeguato consenso del paziente, mentre all’operatore rimane l’onere di dimostrare che il trattamento è stato eseguito con diligenza e secondo i canoni classici della disciplina ortopedica.

Per assolvere il medico basta poter dimostrare insufficienza, contraddittorietà ed incertezza delle prove della sua responsabilità:

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30 - insufficienza significa avere raccolto prove non valide per un giudizio di colpevolezza o inadeguate a dimostrare che il cattivo risultato è dipeso solo ed esclusivamente dall’operato sanitario,

- contraddittorietà significa esprimere giudizi contrari al reale excursus dei fatti, affermare il contrario di quello che è realmente accaduto,

- incertezza è il contrario di certezza e vuol significare non avere prove certe e sicure che il medico ha agito in modo errato, indeciso e scadente e non attinente al risultato che la prestazione doveva ottenere, la colpa è solo presumibile ma non certa.

“Quando nella ricostruzione dei fatti non emergono chiare ed inequivocabili responsabilità di colpa medica ma solo criteri presuntivi possibilistici o probatori ma non certezze allora vale il principio enunciato in diritto in dubio abstine (M.Barni)”.

Una condotta colposa può derivare anche dal mancato aggiornamento, infatti l’art. 16 del codice deontologico del 1995 dice: il medico ha il dovere dell’aggiornamento e della formazione professionale permanente onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico e scientifico. Il nuovo codice deontologico afferma esplicitamente che per i medici non è ammessa l’ignoranza, il che potrà contribuire alla individuazione di una forma specifica di responsabilità per omesso aggiornamento tecnico del personale medico. Se una certa tecnica, un dato farmaco, un determinato trattamento potrebbe risolvere una patologia e se tali trattamenti sono diventati patrimonio ufficiale della cultura medica in generale, la loro ignoranza e quindi la conseguente condotta omissiva viene qualificata come colpa.

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La formazione continua rappresenta pertanto uno strumento importante per ridurre l’incidenza del danno iatrogeno, specialmente associata all’opera di informazione basata sui rapporti e di revisione delle procedure operative.

Il consenso informato

Premesso che la “guarigione”, compatibilmente con il grado di patologia dovrebbe essere veloce, completa, e duratura, intendendosi per veloce ricondurre il paziente ad uno stato di normale efficienza fisica nel più breve tempo possibile, per completa rifornire il paziente di ogni elemento necessario per una perfetta guarigione dal punto di vista quantitativo, qualitativo e strutturale, per duratura un recupero che elimini la patologia o almeno ne riduca sensibilmente l’incidenza biologica, è di capitale importanza l’informazione relativa alla situazione anatomo-funzionale provocata dalla lesione.

Il “consenso informato” è una parte del linguaggio della informazione che spetta al medico operatore che deve informare il paziente sulle modalità del trattamento adottato in riferimento alla tipologia della lesione. La descrizione deve essere accurata e specifica e non generica adottando un linguaggio consono alla cultura del paziente e naturalmente al suo stato psicofisico. Il consenso deve essere personale, legittimo, informato, consapevole, non condizionato. Il paziente va informato:

- della effettiva portata dell’intervento,

- degli effetti conseguibili proporzionali alla gravità della lesione, delle eventuali inevitabili difficoltà della prestazione,

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32 - delle possibili complicazioni ( rischio trombo embolico in chirurgia protesica),

- dei rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative.

Il giudice Nordio ha studiato modifiche del codice Rocco inerenti al consenso informato e gli aspetti medico-legali che riguardano soprattutto le situazioni di emergenza.

E’ molto importante l’informazione relativa ad ogni innovazione tecnologica, il professionista si deve impegnare a prestare la propria opera al fine di ottenere il risultato desiderato, ma non si obbliga a conseguirlo.

Le sintesi ossee, le ricostruzioni plastiche e le sostituzioni protesiche in continua evoluzione per quanto attiene ai materiali utilizzati ed alle innovazioni tecnologiche, pongono chirurgo e paziente di fronte alla necessità di affrontare un percorso terapeutico dotato di innegabili vantaggi ma anche di incognite. E’ pertanto evidente che nei casi di maggior rilevanza clinica è indispensabile da un lato la piena e completa disponibilità del chirurgo, se competente, a curare quella determinata patologia e dall’altro lato la completa disponibilità del paziente a riconoscere le particolari difficoltà che la prestazione chirurgica può comportare.

Il mancato raggiungimento del risultato (il risultato nel consenso viene sempre proposto ma mai garantito) non costituisce automaticamente elemento di colpa.

Concordiamo perfettamente con quanto sostiene M. Barni prof. Emerito di Medicina Legale che sostiene che la prevenzione più efficace delle sequele giudiziarie risiede nella bontà del contratto (informazione capillare e chiara), nella diligenza attuativa, nella diligentissima registrazione dei motivi delle scelte operative, dei consensi acquisiti, delle

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linee seguite. Tutto questo finisce col produrre una assunzione anche etica di responsabilità;

e va producendo sembra, un ravvicinamento tra penale e civile nella valutazione della responsabilità medica.

In condizioni di necessità ed urgenza nelle quali il paziente non è in grado di esprimere una cosciente volontà, il medico può intervenire ugualmente nell’interesse del paziente ed è responsabile, se rifiuta di intervenire, se esperto e qualificato.

Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La legge però non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rjspetto della persona umana (Testimoni di Geova) a condizione che l’urgenza imponga la violazione di certe regole, come per esempio trasfusioni di sangue indispensabili per salvare la vita in un paziente.

Il nesso di causa

E’ considerata causa ogni condizione senza la quale l’evento non può verificarsi. La causa in senso medico legale è l’antecedente di interesse e valore giuridico dal quale dipende (in concorso con altri fattori) l’avverarsi delle modificazioni alla persona (danno biologico) pur esso di rilevanza giuridica. La condotta dell’ortopedico diventa causa ogni qualvolta rappresenta una delle condizioni che concorrono a produrre l’evento. L’errore come l’insuccesso può essere correlato ad eventuali concause che vanno evidenziate.

La concausa è qualcosa di estraneo che “ancillarmente” si accompagna quasi sempre alla causa di rilievo giuridico, conferendole eventuali potenziamenti il cui peso maggiore o minore potrà avere significato in sede civilistica ed assicurativa.

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34 Pellegrini distingueva le concause di lesione in:

a) preesistenti,

b) sopravvenute: di dipendenza assoluta o relativa.

“Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute (art. 41 c.p - concorso di cause), anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per se un reato, si applica la pena per questo stabilita”.

La Cassazione ha più volte affermato che “per causa sopravvenuta da sola sufficiente alla produzione dell’evento deve intendersi quella del tutto indipendente dal fatto del reo, avulsa dalla sua condotta, operante con assoluta autonomia”

Non è però tale la causa sopravvenuta quando è legata ad una causa preesistente per cui si trova in una situazione di interdipendenza e pertanto mancando l’una l’altra rimane inefficace, nessuna delle due agendo da sola può creare l’evento.

Compito del medico legale è quello di stabilire con la massima possibile certezza scientifica la scansione dei momenti lesivi in ordine alla oggettività materiale onde cogliere le cadenze patogenetiche proprie del fattore legato alla condotta dell’uomo e quelle proprie della causa sopravvenuta. Sarà compito del Giudice stabilire se questa sia o meno definibile come assolutamente autonoma.

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I criteri cui un tempo si faceva ricorso per dare consistenza possibilistica al supposto nesso di causa (topografico, della sufficienza, della continuità fenomenica, della esclusione) sono estranei ormai al metodo scientifico.

“Il rapporto causale può essere ricercato e formulato solo attraverso una criteriologia scientifica intesa peraltro nel senso generale del metodo piuttosto che nella meccanicistica analisi dei cosiddetti criteri probatori. E’ quindi del tutto legittimo e doveroso e comunque preferibile in condizioni di incertezza, desistere anziché latamente dedurre”. (M. Barni). Il criterio patogenetico è in fondo una diagnosi causale ma solo in quanto ricostruzione della catena di eventi.

Per risalire all’evento causale bisogna:

- accentuare la rilevazione dei fatti e cioè delle prove con intenti chiari e modalità intelligibili,

- documentare il risultato lesivo e le dinamiche evolutive secondo una criteriologia patogenetica (correlazione patogenetica tra risultato e noxa patogena)

- tendere alla certezza scientifica nella attribuzione dei ruoli causali.

Nessuno può essere punito per un fatto se l’evento dannoso da cui dipende la esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione.

Chi accusa deve provare i fatti e dimostrare che il cattivo risultato è conseguenza certa, incontestabile e sicura di colpa medica, generica o specifica: “onus probandi incumbit ei qui dicit”, per cui oltre al danno subito deve dimostrare che questa è conseguenza di una

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36 condotta colposa e che è stato causato da insufficiente attività, da difettosa esecuzione dell’intervento, da errata diagnosi, da errata terapia e cioè che il danno poteva essere evitato.

Non si può esigere dall’ortopedico sempre e comunque un risultato positivo ma unicamente un comportamento conforme alle regole della buona arte per cui se ogni canone è rispettato nessun rimprovero gli si può rivolgere in caso di insuccesso.

La colpa non consegue al mancato raggiungimento del risultato sperato dal cliente ma alla mancanza della diligenza impiegata.

E’ onere del sanitario che opera in una struttura sanitaria tener conto di eventuali carenze di dotazione della struttura e quando per esempio lo strumentario disponibile non consente di operare entro margini di sicurezza accettabili egli deve prendere in considerazione di far eseguire l’intervento altrove a pena di incorrere in negligenza e/o imprudenza.

La prevedibilità e la prevenibilità

Ad integrare il reato colposo è sufficiente registrare la violazione delle prescrizioni particolari (colpa generica per negligenza, imprudenza, imperizia) e di quelle generali (colpa specifica imputabile all’azienda) ma occorre anche integrare la condotta dell’ortopedico con la prevedibilità e la prevenibilità.

Prevedibile è l’evento che può essere immaginato che accada, mentre prevenibile è l’evento che può essere prevenuto e cioè impedito che accada e quindi eliminato prima del suo verificarsi, come per esempio l’infezione prevedibile in una frattura esposta e

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prevenibile con adeguato trattamento in urgenza della esposizione, asportazione del materiale eterogeneo, dei tessuti necrotici, emostasi adeguata, trattamento antibiotico anche non mirato e cioè PCA (Profilassi Chirurgica Antimicrobica) pre-intra e post- operatoria. La PCA è prescritta per legge negli interventi come artroprotesi, sintesi interna od esterna rigida od elastica. Se nonostante le cautele adottate l’infezione comunque si verifica, questa va adeguatamente trattata con il supporto dei colleghi infettivologi, ricercando la causa che potrebbe essere endogena, oppure conseguente a resistenza microbica (scambi di DNA) o esogena dovuta a fattori ambientali (vedi le infezioni come cause di insuccesso più sopra riportate).

Alla prevedibilità di un evento corrisponde il dovere di prendere delle precauzioni al fine di prevenirne la realizzazione. Una persona è responsabile di un evento prevedibile solo nel caso in cui esso risulti anche realisticamente prevenibile.

Il medico comunque non risponde di tutti i danni prevedibili ma solo di quelli che siano anche prevenibili con l’osservanza della “lex artis”. Non possono farsi carico del medico gli effetti pregiudizievoli prevedibili che si siano verificati nonostante la fedele osservanza delle regole tecniche. Il medico nel trattamento da eseguire è libero nella scelta tra più strade praticabili purché suffragate dalla scienza e dalla tecnica. Egli può abbandonare la strada generalmente seguita se si convince dell’esistenza di circostanze tali da escludere l’efficacia nel caso concreto della cura prescritta in generale dalla scienza medica.

La condotta che si discosta dalla scienza ufficiale deve essere frutto di una scelta ragionevole e non dovuta ad ignoranza.

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Attività medica svolta in équipe

La responsabilità dell’ortopedico è inquadrabile nella responsabilità dello specialista. Ai fini della colpa professionale dell’esercente un’attività sanitaria non si richiede una grande perizia ma quel minimo che si deve attendere dall’esercente della professione medica. Nel caso dello specialista invece, in considerazione della specializzazione acquisita, si deve richiedere con maggiore severità l’uso della massima prudenza e diligenza a condizione che l’ortopedico sia qualificato ed esperto nel settore di specialità coinvolto dalla lesione per cui se decide di intervenire senza essere preparato può andare incontro all’accusa di colpa per assunzione.

Ciascun componente della equipe è tenuto ad eseguire col massimo scrupolo la funzione propria della specializzazione cui appartiene; lo specialista risponde delle conseguenze del proprio operato e non è tenuto a vigilare sull’operato altrui. Al medico specialista andrà applicato un test modulato sul tipo particolare di competenze di quella classe di specialisti.

In caso di rapporto gerarchico la responsabilità del primario è più estesa di quella del medico non appartenente alla posizione apicale; sussiste a carico del primario uno speciale obbligo di vigilanza che si pone come garanzia della scelta del personale che collabora con lui, per cui nel caso di scelta non adeguata dell’operatore, il primario incorre nella così detta “culpa in eligendo”.

Al primario comunque spetta anche il controllo della esecuzione dell’intervento eseguito da un aiuto e del post operatorio, per cui in caso di insuccesso per mancato controllo può incorrere nella così detta “culpa in vigilando”.

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Il medico aiuto del primario che abbia più volte visitato il paziente e che sia stato in grado di esprimere dubbi sull’esattezza della diagnosi, ha il dovere di attivarsi presso il primario per una più sicura diagnosi e, ove abbia “lasciato correre le cose” astenendosi dal disporre di altre indagini e anzi associandosi all’errato convincimento del primario, se il paziente muore versa in colpa in termini ancora più gravosi dello stesso primario.

Ruolo dei periti

Il consulente tecnico del pubblico ministero ne affianca l’azione particolarmente nella fase preliminare del processo quando cose o luoghi sottoposti ad indagini sono soggetti a modificazioni. Il perito d’ufficio, nominato dal Giudice, deve dare un parere tecnico motivato su specifici quesiti posti dal magistrato, che rappresenterà un mezzo di prova motivato su dati e valutazioni cliniche. Non sempre il medico legale riesce a dirimere tutti i dubbi sulle modalità che contraddistinguono la prestazione. Non vi sono regole giurisprudenziali univoche; spesso il giudice è influenzato in maniera decisiva dai medici legali o dai periti. In caso di danno iatrogeno il giudice ha necessità di conoscere la verità scientifica, la cui ricerca finisce spesso per essere vana in quanto rimangono indeterminati i criteri del giudice nella scelta dei suoi consulenti. I magistrati dovrebbero affidare gli incarichi di consulenza a specialisti “super partes” con riconosciuta esperienza, il cui unico obiettivo sia quello di far conoscere la verità.

I periti vanno selezionati in considerazione del prestigio di cui godono; del ruolo che rivestono nella disciplina oggetto del contendere; della competenza nella materia; della

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40 abilità oratoria e prontezza dialettica nel contradditorio. Il consulente del Giudice dovrà valutare il comportamento clinico in base alla complessità del caso, alla capacità dell’operatore rispetto alla tipologia dell’intervento, all’operato dei singoli componenti dell’èquipe graduando i profili di responsabilità, alla idoneità della struttura aziendale che eroga le cure, all’esistenza di eventuali concause come per esempio lo stato anteriore del paziente, al grado di urgenza ed allo stato di necessità rispetto ai vari tipi di trattamento.

Il perito medico legale deve possedere buona conoscenza in Medicina Legale e richiedere al Giudice l’autorizzazione di potersi avvalere dell’ausilio di uno specialista nella disciplina oggetto del contendere. Valido potrebbe mostrarsi a questo proposito uno speciale albo a disposizione dei magistrati nel quale classificare o elencare il nominativo dei periti che hanno avuto a disposizione in processi penali o civili con un giudizio di merito o eventuale demerito. Il perito si trova davanti al giudice non solo per informare ma soprattutto per persuadere. Se viene messo in difficoltà in contro interrogatorio viene considerato di scarso valore. L’art. 373 c.p. falsità in perizia, punisce il perito nominato dall’Autorità Giudiziaria se dà pareri o interpretazioni mendaci o afferma fatti non conformi al vero.

Le linee guida

Nel 1984 abbiamo organizzato a Venezia un Congresso intitolato “Attualità in Traumatologia-Metodiche a confronto” il cui obiettivo è stato quello di evidenziare risultati a confronto dei diversi trattamenti adottati e delle diverse scelte terapeutiche per identiche patologie e questo non certo per proporre linee guida o protocolli ufficiali di trattamento

Riferimenti

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