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1.3 La Storia dei Mercati

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Academic year: 2021

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1.3 La Storia dei Mercati

Il mercato, come anche il negozio o bottega, sua antica e più illustre denominazione, appartengono veramente a tutti i tempi ed a tutte le latitudini, rispondendo a quelle funzioni di scambio commerciale e di pubblica alimentazione necessariamente inerenti a ogni tipo di cultura e a qualunque stadio della civiltà.

Esso, indipendentemente dalla loro importanza architettonica, la quale può essere grande, piccola o addirittura nulla, sono in ogni caso organismi di rilevante incidenza urbanistica sia per il pubblico servizio cui sono destinati, sia per la complessità dei rapporti che si vengono a creare nei riguardi igienici, della sorveglianza, della sicurezza, della incidenza sul traffico, che condizionano rigorosamente il tessuto urbano , il quale incide direttamente sulla loro distribuzione e importanza.

Quello che sappiamo circa il mercato e la bottega presso le civiltà orientali risale alla tradizione letteraria ed a quella figurativa. Presso gli assiro-babilonesi pare certo che il mercato si svolgesse alle porte della città, senza alcuna apparecchiatura stabile, a modo di fiera, cioè composta da bancarelle ambulanti, baracche e posteggi, quanto mai precari, d’altro canto pare che l’attività bancaria si svolgesse nei templi; si ha pure qualche frammentaria notizia di botteghe artigianali, in genere riunite secondo l’affinità delle materie trattate.

Come quartieri commerciali, formati da serie di botteghe, pare si debbano interpretare quelle husoth che i commercianti di Damasco gestivano a Samaria in Israele e che in cambio, Achab re d’Israele si fece concedere a Damasco da Ben Hadad re di Siria quando riuscì a batterlo. Il Mercato alle origini in Grecia dovette confondersi con la piazza, e quindi mercato scoperto formatosi e costituitosi spontaneamente nel

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centro del primitivo accampamento, dell’assembramento di capanne o di abitacoli, nel crocicchio principale ove convergevano le poche strade del villaggio arcaico. Infatti veniva denominato agorà ed era, dapprima solo una piazza circondata da edifici vari e variamente disposti senza una connessione urbanistica rigorosa.

A questo tipo primitivo appartiene la celebre delle agorà, quella di Atene, che si estende in forma irregolare e su piano lievemente inclinato alle pendici dell’Aeropago, delimitata da edifici pubblici. L’Agorà, centro di tutta la vita cittadina non è esclusivamente mercato, ma in essa alcune zone fisse sono riservate ai rivenditori, anzi dalle molte testimonianze letterarie che rimangono sappiamo che i settori, che potremmo dire mercantili, traevano nome dalle merci che vi si vendevano; così c’era lo spazio per i venditori di pentole o quello ove si vendevanoi formaggi freschi, ecc.

Nei punti di più intenso traffico, davanti ai loro banchi carichi di monete, di pegni e di regidtri, sedevano i banchieri circondati da una folla di uomini d’affari, di curiosi e di imbroglioni, vi erano poi, oltre ai modesti rivenditori sistemati in baracche provvisorie, anche gente di maggior conseguenza, come profumieri, barbieri, medici, che però disponevano di vere e proprie botteghe negli edifici circostanti.

Nella folla variopinta e indaffarata, vociante, formicolante, irrequieta e trafficante, che, al mattino, pare raggiungesse le ventimila persone, vigilavano i magistrati addetti al controllo dei pesi e delle misure, e quelli incaricati di verificare la qualità delle merci.

Nel tempo la piazza-mercato che si regolarizza e si estende a quasi tutte le città greche, viene ad assumere una precisa definizione architettonica, tanto che si usa distinguere una agorà arcaica da una agorà ionica anche se sono entrambe rettangolari e delimitate da edifici e

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portici, interrotti da varchi stradali nel primo caso, mentre sono continui ed ininterrotti nella seconda.

A Ippodamo di Mileto si deve l’agorà del Pireo, ma di tipo ippodameo è pure quella, meglio nota, di Priene del IV sec. Avanti Cristo. Nell’ agorà di Priene è già chiara quella articolazione funzionale in spazi diversi che si protrarrà fino alle città occidentali del medioevo e del rinascimento.

Del resto la caratterizzazione dei mercati secondo la mercè è normale nella società greca, come testimonia Aristotele che distingue il mercato degli alimenti dal mercato generico all’aperto.

L’agorà di Priene si sviluppa, appunto come nelle città medievali, in due piazze diversamente calibrate, la maggiore, rettangolare e circondata da portici continui, è destinata al mercato generico che si svolge attorno all’altare centrale, la minore, pure rettangolare ma delimitata da botteghe, è riservata al mercato del pesce e della carne, entrambe piazze-mercato mancano del lato settentrionale, cosicchè si aprono sulla via che le unisce.

Abbastanza note, per quanto ci è rimasto, sono pure la piazza mercato di Cirene, quella di Thera, quella di Magnesia sul Meandro, quella di Mileto con botteghe su due lati, quella di Pergamo, quella di Assos a pianta rastremata e limitata sui due lati maggiori da imponenti porticati a due ordini sovrapposti.

Fra le agorà più ricche di monumenti citeremo, rifacendoci alla autorità di Pausania e oltre alle già ricordate, quelle di Megalopoli, di Elatea, di Sparta, di Corinto, di Messene, che si dovrebbero ritenere di tipo chiuso a portico continuo, mentre sappiamo che quelle di Fare e di Elide erano del tipo “a crocevia”, attraversate da strade come quella di Atene, cioè del tipo cosiddetto arcaico.

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Le agorà di Magnesia sul Meandro e di Priene ci offrono i più antichi esempi noti di botteghe in muratura, che probabilmente già prima del sec. IV avevano sostitutito le primitive baracche mobili costruite con giunchi e tela.

Oltre che sotto i portici della piazza del mercato, come nei casi citati, le botteghe dovettero essere costruite anche lungo i lati delle vie; un esempio ci è offerto dal portico di Attalo in Atene, sotto il quale si sviluppava una serie continua di botteghe illuminate ognuna da una finestrella.

In verità nel caso del portico di Attalo, più che di botteghe si trattava di ripostigli da cui la merce veniva tratta per essere esposta sotto il portico.

Al tardo ellenismo appartengono le botteghe trovate nell’isola di Delo, che sono composte da locali a pianta approssimativamente rettangolare, largamente aperti sulla via, ma isolati dal resto della casa e indipendenti fra di essi, che hanno una profondità che non supera mai i 4 metri ed una larghezza variabile dai 3 ai 4 metri e mezzo, in qualche rarissimo caso esiste anche un retrobottega.

Quanto al genere ed alla destinazione di queste botteghe, se nulla ci è suggerito dai reperti archeologici, l’esistenza di termini specifici, più usati dei generici e ambigui “mercato” o “bottega” che testimoniano l’ampia gamma di specializzazione già esistente all’epoca, che può variare dalla macelleria, alla mescita calda, e fino alla libreria.

Come nel mondo greco il mercato, specie alle origini, si identifica con l’agorà, e cioè con il centro cittadino, anche nella società romana non si distingue, inizialmente dal Forum. Lo stesso Foro romano, nel periodo repubblicano, appare costituito in gran parte da tabernae, e cioè botteghe.

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Sennonchè, con il crescere della fortuna e con la graduale trasformazione del Foro Romano, in centro politico prima dell’Urbe e poi dell’Impero, i nuovi edifici monumentali ne eliminano le primitive tabernae, le quali vengono raggruppate in vari luoghi della città destinati, senza che l’appellativo di Forum muti propriamente, a mercati specializzati.

Si formano così un forum vinarium, un forum piscarium, un forum olitorium o degli erbaggi, un forum cuppedinis o delle ghiottonerie, dei cibi delicati, delle primizie, un forum suarium o della carne suina, ecc. Fin quì siamo all’antica soluzione ellenica, e poi ellenista, della piazza-mercato ancora architettonicamente generica ed urbanisticamente equivalente ad una qualsiasi altra piazza, salvo che diversamente attrezzata a seconda se mi trovo presso i greci, presso i latini, mentre l’idea del mercato come edificio costruttivamente definito e funzionalmente non equivocabile è da ritenersi propriamente romana ed è situabile nel primo quarto del II secolo av. Cr., cioè in età abbastanza tarda.

Nel 179 av. Cr. si costruiva in Roma il primo edificio destinato a concentrare tutti i mercati cittadini sul luogo stesso ove, nel 210 av. Cr. era stato distrutto dal fuoco il forum piscarium.

Il nuovo edificio su designato con il nome di macellum, passato oggi ad indicare specificatamente il mattatoio. Il primo macellum, demolito probabilmente dopo un secolo e mezzo di funzionamento, fu sostituito, in epoca augustea, dal Macellum Liviae costruito sull’Esquilino, al quale si aggiunsero, sotto Nerone, il Macellum Magnum edificato sul Celio, e sotto Traiano i mercati traianesi presso il Foro.

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Dall’Urbe i macella, modulati sul medesimo tipo, sciamarono nelle province, fin nei municipi lontani: dal mercato coperto di Pompei e da quello di Alatri a quelli di Rimini e di Isernia, dal mercato di Eclano a quelli di Corfinio e di Mantinea in Grecia, dal grandioso macellum di Pozzuoli noto come “ Tempio di Serapide” ai mercati africani di Leptis Magna e di Thamugadi (Timgad).

I più antichi mercati romani possono ricondursi ad un unico tipo edilizio: un quadriportico rettangolare, sotto il quale si allineano le tabernae, che include uno spazio scoperto, una sorta di piazza interna, in mezzo alla quale, alla maniera greca, sorge, con carattere sacrale, la tholus macelli o l’ara sacrificale o anche, come nell’angusteo macellum Liviae, una semplice fontana.

A questi tipo appartiene il mercato coperto di Pompei del I sec. , esso si sviluppa nell’angolo nord-est del foro, dal quale si apre l’accesso principale, altri due ingressi secondari e non simmetrici si aprono nel muro d’ambito meridionale e in quello settentrionale.

Il recinto rettangolare non è porticato e include un’area scoperta in mezzo alla quale, da un crepidoma dodecadenale, si alzano i dodici piedistalli delle colonne che reggevano una copertura, probabilmente displuviata, a formare una sorta di edicola di carattere certamente sacro, eretta in luogo della tholos tradizionale.

Due grandi ambienti destinati al culto si aprono sul lato orientale, nel quale è pure ricavata la peschieria denunziata dai banchi inclinati. Sugli altri tre lati si allineano le botteghe, aperte verso l’interno quelle del lato sud, verso l’esterno quelle dei lati settentrionale e occidentale, allo scopo di evitare una eccessiva insolazione nociva alla conservazione delle derrate. Le pareti poi erano riccamente decorate da pitture in parte mitiche in parte realisticamente allusive alle merci esposte.

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Di tutt’altro e singolare tipo erano i mercati traianei, costruiti sulle pendici del Quirinale e confinanti con il foro di Traiano.

La necessità di assemblare un notevolissimo numero di botteghe, di ambulacri e ambienti diversi e perfino una basilica, in uno spazio relativamente ristretto e in un luogo scosceso dovette porre particolarissimi problemi che, con l’adozione della grande esedra e con il magistrale uso degli archi laterizi e delle volte di conglomerato furono superbamente risolti.

Anche nel mondo romano le botteghe che nel mercato si organizzano in forma associata, hanno una varia e vasta vita indipendente lungo le vie, al piano terreno delle case, e dovettero essere particolarmente numerose nei grandi centri commerciali del mondo antico, a Rodi, a Delo, A Corinto, oltre che in città minori ma vivacissime come Ostia, Pompei, Pozzuoli, oltre che naturalmente in Roma, in Alessandria, in Antiochia sull’Oronte i cui empori commerciali sono ricordati da Libanio per il loro splendore.

Gli scavi di Pompei e di Ostia e quelli dei mercati traianei in Roma hanno riportato alla luce gli elementi della bottega romana detta anche taberna , derivato probabilmente dal termine tabula (tavolo) indicante il banco di vendita, essa comprende un piccolo locale a piano terreno largamente aperto sulla via e un ammezzato superiore al quale si accede per una scala di legno, dall’ammezzato sporge un balcone o una pergula con funzione di protezione dalle intemperie.

Il banco che era di legno, ma si trovavano spesso in muratura, si distribuisce in pianta ad angolo retto, in modo che un lato fronteggi la via e l’altro si inoltri nello spazio interno per essere di supporto ai compratori, esso è poi fornito di speciali gradini che servivano per

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l’esposizione delle merci. Questa è una disposizione che si protrarrà nel medioevo.

I banchi delle “cauponae” (osterie) e quelli dei “thermopolii” (mescite di bevande calde, tipo bar) dispongono anche di dolia fittili immurati e di fornelli.

L’apertura della bottega sulla via è generalmente, almeno a Pompei, nuda di sptipiti architettonici ma spesso adorna di pitture allusive, più raramente di rilievi, detti “insigna”.

Delle suppellettili interne invece si ha sufficiente notizia da vari indizi e particolarmente dalle pitture pompeiane, ora la Museo di Napoli, riproducenti gli interni di una calzoleria e di una farmacia.

Oltre a mensole lignee assicurate a pioli immurati, si usano armadi talora finemente lavorati e decorati con finiture di bronzo. La chiusura esterna era assicurata da un battente girevole che, non occupando l’intero vano, si saldava ad una serie di assi verticali che si collocavano in apposite scanalature praticate nella soglia e nell’architrave e, infine, si agganciavano reciprocamente all’interno, mentre all’esterno erano garantite da sbarre metalliche: una solida corazzatura che giustifica l’espressione di Giovenale quando parla di “catenatae tabernae”.

Nella Cina antica il mercato non ha vistosi caratteri edilizi e si affida piuttosto all’uso del grande spazio con baracche modeste e provvisorie e banchi ambulanti. Il negozio, tradizionalmente conservatosi fino a quasi il tutto il secolo XIX, replica le disposizioni occidentali allineandosi, in serie, lungo le arterie più battute e più adatte alla sosta davanti alla esposizione delle merci.

Tenacemente si è conservata in Cina quella sorta di distribuzione corporativa che, da noi, è tipica del Medioevo, così si hanno quartieri specializzati nei vari generi di botteghe.

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Spesso la mostra esterna è riccamente decorata con intagli in legno dalle laccature sgargianti, mentre nell’interno della bottega nicchie speciali sono dedicate al dio della ricchezza, al quale si brucia incenso, e alle divinità locali. La complicazione allusiva e l’abito alla metafora poetica dello spirito cinese non rinuncia a rivelarsi persino nelle insegne delle botteghe, così che per un negozio di prestito su pegno la “ditta” si tramuta in Benessere Celeste ( Tieng Sheng), oppure un grande emporio di merci si può chiamare Fedeltà e Giustizia ( Hsin-I).

Il mondo islamico dispone invece di un particolare organismo tradizionalmente protrattosi fino ad oggi, il bazar, che a giudicare dal termine dovrebbe essere di origine persiana, termine che l’arabo traduce in suq o suk, volendo intendere però la stessa cosa.

Il bazar orientale riunisce ed esaurisce le funzioni del grande mercato e del negozio, è praticamente una associazione di negozi e di laboratori artigianali rigorosamente raggruppati secondo l’affinità merceologica e spesso collegati fra di essi per mezzo di vie coperte illuminate da lucernari.

Le botteghe dei vari artigiani (fabbri, tintori, sarti, tornitori, ecc.) si raccolgono in aswaq, cioè mercati che costituiscono una sorta di sottosettori del bazar. Le coperture sono realizzate variamente con tende stuoie, cannicci, tetti in legno, o volte di muratura.

Unicamente le botteghe di alimentari non sono raggruppate e si distribuiscono indifferentemente nie vari punti del bazar. La bottega di solito è sopraelevata rispetto alla corsia esterna di passaggio e, se si tratti anche di laboratorio, dispone di un retrobottega o magazzino, talora le botteghe si dispongono come a Tunisi, su due piani. In alcuni casi davanti alla bottega, all’esterno, è sistemata una panchina di muratura,

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detta in arabo mastabah (gradino), destinata alle contattazioni che secondo secondo il costume orientale si protraggono interminabilmente. L’esposizione delle merci all’esterno dei negozi, a modo do turgidi e fantastici trofei, conferisce alle corsie di passaggio quell’inconfondibile carattere fieristico che sta fra la sagra rurale e il cittadinesco robivecchi. Pochi gli spazi scoperti perchè poche le merci che non si vendono all’interno.

Il bazar, come il suq, occupa di solito un intero quartiere della città, un esempio di bazar che allo stesso tempo rappresenta anche uno dei più ricchi è quello persiano di Isfahan nel quale i laboratori dei sarti hanno coperture a cupola e a volte fastosamente decorate e dorate, fra i più rustici invece è da citare il bazar perfettamente conservato di Qum, pure in Persia, non meno noti il bazar del Cairo, di Tabriz e di Shiraz. I bazar turchi sono fra i più noti, anche perchè in molti casi essi costituiscono testimonianze insigni dell’architettura islamica. Il bazar o mercato coperto turco è più propriamente indicato con i termini nazionali bedesten, arasta o carsi; la struttura normale è di pietra e mattoni, si eleva su pianta rettangolare d’ambito della grande aula coperta da cupole si allineano, in gallerie voltate, le botteghe, che talora ricorrono in serie anche all’esterno.

In casi non infrequenti serie di botteghe si rincorrono lungo i muri esterni delle moschee, in conseguenza del fatto che, nel mondo islamico, il commercio era spesso esercitato a profitto di ordini religiosi.

Fra i più antichi bazar turchi rimastici ricordiamo quello di Bursa, attribuito al 1405, quello di Edirne del 1418, quello di Mahmut Pascià costruito in Ankara nel 1465 ed ora trasformato in museo ittita.

Il musei di Ali Pascià in Edirne, eretto nel 1569 da Koca Sinan, è fra le opere maggiori dell’architettura islamica, ma di gran lunga il più

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grandioso e famoso dei bazar turchi rimane quello fondato a Costantinopoli nel 1462 da Maometto II il Conquistatore. Esso prima era stato fatto costruire in legno e poi nel 1701 fu ricostruito nella forma attuale in muratura.

Esso è composto da una grande aula rettangolare divisa in tre navate da due ordini di quattro pilastri ciascuno, coperta da quindici cupole emisferiche e attorniata, sui quattro lati, da una doppia serie di botteghe voltate. Successivamente Sùleyman il Magnifico ne fece costruire un secondo pure in legno e pure ricostruito più tardi in muratura in forma di aula a quattro navate con dodici pilastri reggenti le venti cupolette di copertura.

I due mercati con gli annessi finirono a costituire un intero quartiere esteso su un’area di 30.700 mq, servito da sessantacinque strade interne e comprendente mille locali e tremila botteghe.

A Mongoli e Persiani si deve l’importazione del Bazarr anche in India dove tuttavia, questo singolare organismo non raggiunse mai la vitalità, gli splendori fiabeschi e, anche, la vociferante e petulante confusione che lo caratterizzano nel vicino Oriente.

Al medioevo italiano rimane piuttosto estranea l’idea del mercato coperto e, in genere, del mercato concepito come specifico organismo edilizio. Può trarre in inganno l’ampio uso che, per il mercato, il medioevo seppe fare dei portici degli edifici privati, dei palazzi comunali e perfino delle chiese, trattandosi pur sempre di sistemazioni di fortuna con il carattere di fiera occasionale piuttosto che di servizio fisso.

Il mercato medievale in sostanza si risolve nella destinazione di una piazza a sede permanente per le bancarelle dei rivenditori e qualche impianto fisso che normalmente si esaurisce nella costruzione di una fontana centrale, tra esse possiamo citare le Piazze delle Erbe e dei Frutti

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presso il Palazzo della Ragione in Padova, quello delle Erbe in Verona, del Verziere in Milano, che sono veri e propri mercati nel senso della agorà preclassica.

Fra le rarissime eccezioni si può addurre la Ripa coperta costruita a Genova nel duecento per ospitarvi i rivenditori che si affollavano, del resto come anche oggi, attorno al porto.

Anche negli altri paesi europei l’uso medievale più diffuso rimane quello del mercato scoperto: a Parigi il più antico, il “Marchè Palu” forse anteriore al secolo XI, si teneva lungo la Senna, fra il Petit Pont e il Saint-Michel; in Olanda il “markt” , che risale ad origini medievali, si trova presso la Stadhuis o Palazzo Civico, così come anche la piazza mercato presso il palazzo del comune di Gouda; in Germania numerosissimi sono i mercati scoperti di impianto medievale, dalla “Marktplatz” di Holzminden alla “Marktstrasse” di Kemnatz in Baviera, dalla piazza del mercato presso la chiesa di Santa Maria ad Halle in Sassonia e dal pittoresco “Hauptmarkt” di Norimberga alla piazza mercato di Munster, dal mercato di Freiburg a quello di Basilea.

Il medioevo ultramontano non ignora, tuttavia, il mercato coperto, anzi ne offre esempi insigni, dalle “Halles” parigine del secolo XII, poi distrutte, a quelle celeberrime di Burges costruite dapprima in legno e nel 1239 rifatte in muratura.

In Italia occorre arrivare al tardo rinascimento per ritrovare la concezione del mercato come edificio tipicamente organizzato o almeno come grande loggia a destinazione fissa.

A Firenze di questo tipo vi era il mercato del pesce ora demolito che allungava la sua loggia a nove campate su di un lato del mercato vecchio, tolto di mezzo alla fine dell’Ottocento per far luogo alla piazza Vittorio Emanuele, rimane invece quello nuovo costruito da Giovanni

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Battista del Tasso nel 1547, in forma di grande loggia di ordine composito coperta con dodici volte a vela.

Ottimamente conservata è la famosa Sala di Ladislao costruita fra il 1493 ed il 1503 nel Castello Reale di Praga da Benedikt di Rejt di Pistov e poi utilizzata nel dal 1600 come pubblico mercato.

Nel settecento in fatto di mercati sono da segnalare le realizzazioni parigine e più precisamente nel 1767 per opera del Lecamus e del Mezieres sorge la “Halle aux blès” su pianta anulare attorno ad una piazza interna che nel 1802 il Brunet coprirà voltandovi sopra la prima cupola ad ossatura metallica.

Anche la bottega così come la conosciamo non si differenzia di molto da quella romana fino a tutto il seicento, l’ambiente si conserva piccolo qualche volta dotato di retrobottega o di soppalco, la grande apertura verso strada sostituisce alla piattabanda l’arco ribassato o acuto, per ritornare all’architrave nel Quattrocento. L’apertura su strada, come nella romanità, è in parte chiusa in basso dal muretto davanzale che funge da banco di vendita così che il cliente rimane di solito sulla strada senza il bisogno di entrare. La suppellettile interna doveva ridursi a mensole di legno immurate e a qualche rudimentale armadio e cassone o cassapanca. Le merci che scarsamente si potevano esporre sul muricciolo esterno, venivano più spesso sospese all’architrave, all’arco o a travetti appositamente sistemati. Frequentemente un tettuccio, come la antica pergula, sporgeva a protezione degli avventori.

Eccezionalmente si usarono anche botteghe a doppia apertura, ossia bifore, ed è da credere che questo lusso si riscontrasse solo raramente in alcune categorie di vendita come le farmacie, un esempio ne è la farmacia dell’ Ospedale di Pisa coperta da sei grandi volte a

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crociera e come la spezieria fiorentina del Canto al Diamante, frequentata anche da Dante.

Il mutare della società e del costume, in quanto i rapporti interpersonali si fanno sempre più ampi complessi e liberi, provocano nel Settecento la graduale trasformazione della bottega nel moderno negozio. Si passa così da un fenomeno ancora del tutto connesso con l’artigianato e con il piccolo commercio ad un organismo un po’ più anonimo e certo meno pittoresco, ma più adatto alla civiltà industriale che stava nascendo in quel tempo.

Un diverso e più audace intuito commerciale, le sollecitazioni di una rincrudita concorrenza, una più larga diffusione del benessere e quindi una aumentata domanda, lo stesso gusto della raffinatezza proprio del Settecento inducono mutamenti e ampliamenti sempre più impegnativi. Ecco allora che compaiono botteghe da caffé che aspirano agli splendori della dimora patrizia, qualche preziosa farmacia rivestita tuttora di cupe e intagliate scansie in cui sfavillano vecchie terraglie, ospedali magnificamente arredati come l’Ospedale Maggiore di San Giovanni di Torino oppure deliziosamente rococò come quello degli Incurabili di Napoli.

Passando poi all’Ottocento possiamo dire che esso è il secolo d’oro per il mercato coperto, da una parte ciò è dovuto alle nuove tensioni create dal fenomeno dell’urbanesimo industriale che creando nuovi e ponderosi problemi per l’approvvigionamento delle metropoli che crescono sempre più ne determinano un aumento sostanziale della domanda, dall’altro c’è anche il fatto che le nuove strutture di ferro prima, e di cemento poi, gettano le basi per le grandi coperture senza sostegni intermedi che sono la soluzione ideale per il mercato coperto, all’optimum della quale la modernità si è sempre più accostata.

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Con il complicarsi dei servizi e degli impianti la concezione del mercato coperto, considerato ormai come un essenziale servizio pubblico, si articola in una casistica che contempla tipi diversi che si distinguono o per l’ubicazione ( mercati centrali o rionali) o per la specializzazione merceologica (degli erbaggi, dei fiori, del pesce, del cuoio, della carne, del bestiame vivo, ecc.) o infine per il tipo di commercio e della clientela (mercati all’ingrosso, al minuto, misti).

Esempio fondamentale per i mercati coperti ottocenteschi sono le Halles Centrales, costruite con struttura in ferro fra il 1852 ed il 1859 da Victor Baltard e Callet, l’applicazione delle strutture in ferro come le più adatta alla soluzione del problema viene adottata anche da Blankenstein e Lindemann per il mercato centrale di Berlino, da O. Jones per quello di Londra, da Giuseppe Mengoni per quello di Firenze, e limitatamente alle coperture, da A Badaloni per il mercato agroalimentare di Livorno.

Alla fine dell’Ottocento, e sempre più nel Novecento, le strutture in cemento armato soppiantano quelle in ferro.

Fra gli esempi più interessanti dal punto di vista funzionale sono da citare per il primo quarto di secolo il grande mercato di Lipsia di H. Ritter, coperto con tre cupole poligonali di cemento armato, e quelle minori di Francoforte di Martin Elsasser e quello di Reims di Emile Maigrot.

Fra le opere più recenti che meritano particolare nota abbiamo il mercato coperto di Algesiras (1993) di Edoardo Torroja, il bellissimo mercato dei fiori di Pescia (1951) dovuto al gruppo Emilio Brizzi, Enzo e Giuseppe Gori, Leonardo Ricci, Leonardo Savioli, e quello ardito ed elegantissimo costruito in Messico (1956) da Pedro Ramirez Vasquez, Rafael Mijares e Felix Candela.

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