144
Parte III. Lo specchio come strumento di
(auto)rappresentazione
Lo specchio di piana superficie contiene in sé la vera pittura in essa superficie; e la perfetta pittura, fatta nella superficie di qualunque materia piana, è simile alla superficie dello specchio; e voi, pittori, trovate nella superficie degli specchi piani il vostro maestro, il quale v’insegna il chiaro e l’oscuro e lo scorto di qualunque obietto…
145
4. Lo specchio come strumento dell’artista tra
Medioevo ed età moderna
Nei capitoli precedenti, si è individuata nella multifunzionalità catottrica una delle caratteristiche primarie dello specchio, accanto a quella della sua duplicità, e una delle ragioni dell’attenzione che, per secoli, quel dispositivo ha saputo suscitare su un insieme eterogeneo di fruitori, tra scienziati, filosofi, letterati ed artisti. Fra i possibili impieghi dello specchio, si è finora parlato di quello come strumento di visione e conoscenza o di accessorio per la cura e l’abbellimento di sé, con tutte le variabili del caso; resta ancora da esaminare quella che forse è la sua applicazione più immediata, cioè come mezzo per la duplicazione visiva della realtà, ivi compresa l’(auto)riflessione, che è anche quella di maggior interesse per gli artisti. Infatti, al di là del carattere di versatilità della superficie speculare, che ne consente un ampio uso iconografico, è proprio la sua proprietà iconopoietica a legarla all’attività dell’artista, soprattutto in epoche di maggiore vocazione realistica.
4.1. Lo specchio nella teoria artistica scritta e dipinta
Il legame tra lo specchio e l’arte, che in Occidente trova le sue prime compiute teorizzazioni nella letteratura artistica a partire dal XV secolo, era già stato notato nell’antichità.146 Platone, per primo, aveva individuato nello specchio lo strumento mimetico per eccellenza, legato alla sfera del visibile e in grado di riprodurre ogni cosa, seppur solo in forma di copia, pertanto giudicato negativamente e paragonabile, per la sua maniera di operare, alla pittura e più in generale alle arti imitative, tra cui anche la poesia1. Pur mantenendo il discorso su un piano ontologico, infatti, nel X libro de La Repubblica, la natura dell’immagine dipinta è equiparata a quella del riflesso speculare e considerata phainomenon, cioè pura apparenza priva di realtà e il pittore un imitatore, al pari del poeta tragico:
A quale di questi due fini è conformata l’arte pittorica per ciascun oggetto? A imitare ciò che è così come è, o a imitare ciò che appare così come appare? E’ imitazione di apparenza o di verità?
- Di apparenza, rispose.
- Allora l’arte imitativa è lungi dal vero e, come sembra, per questo eseguisce ogni cosa, per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun oggetto, una parte che è una copia. Per esempio, il pittore, diciamo, ci dipingerà un calzolaio, un falegname, gli altri artigiani senza intendersi di alcuna delle loro arti. Tuttavia, se fosse un buon pittore, dipingendo un falegname e facendolo vedere da lontano, potrebbe turlupinare bambini e gente sciocca, illudendoli che si tratti di un vero falegname2.
1 Cfr. i passi già citati nella sezione precedente da Platone, La Repubblica, X,
596e-597a; cfr. V. Stoichita, Breve storia dell’ombra, Milano, 2008, p. 37, dove si sostiene come, nella storia della rappresentazione occidentale, sia stato Platone “ad aver assestato il primo colpo allo stadio dell’ombra” e ad iniziare la tradizione di identificare lo specchio come strumento della mimesi al posto dell’ombra portata, per contrasto quindi con la mitica vicenda pliniana, secondo cui la nascita della pittura sarebbe coincisa con la circoscrizione di un’ombra, come operato dalla figlia del vasaio Butades con l’ombra dell’amato, in partenza per una guerra cfr. Plinio, op. cit., XXXV, 15; per Stoichita “in Platone (filosoficamente) e in Ovidio (poeticamente) la rappresentazione occidentale scopre… lo stadio dello specchio in quanto deviazione/superamento dello stadio dell’ombra”.
2 Platone, La Repubblica, X, 598c; se la condanna dell’arte imitativa è spiegabile in
relazione alla dottrina delle idee, è interessante confrontare questo passo con quello già citato in 596e, sul potere creatore dello specchio, capace anch’esso di riprodurre ogni cosa; il discorso sulla mimesi viene esteso, poco oltre, anche alla poesia e alle sue pretese conoscitive.
147 Sempre in rapporto alla problematica dell’imitazione visiva e restando sul piano ontologico, Sant’Agostino, che aveva anch’egli parlato dello specchio come di un generatore di apparenze, del tutto simili alle cose vere ma di grado inferiore, apparenta le immagini da esso restituite con quelle prodotte dagli uomini con la pittura, entrambe finzioni definibili solo in rapporto a ciò che duplicano3.
Solo Apuleio, tra gli autori antichi, sembra fornire un’alternativa positiva quando, in un passo della sua Apologia in cui ripropone il paragone dell’immagine riflessa a quella pittorica, nello specifico al ritratto, sulla base della mirabile rassomiglianza alla natura, sostiene, a favore dello specchio, che “la sua levigatezza creatrice e la sua splendidezza artistica superano in fatto di somiglianza le arti figurative”4, per la capacità di fornire immagini immediate, mobili e coeve, a differenza dei ritratti, che richiedono un maggior tempo di esecuzione e restano vincolati al momento in cui vengono compiuti:
In uno specchio invece si vede l’immagine meravigliosamente resa, insieme rassomigliante e mobile, obbediente ad ogni gesto della persona5.
Nel 1436 finalmente, nel periodo della rinascita artistica nella città di Firenze, Leon Battista Alberti, autore del primo grande trattato in cui si gettano le basi teoriche della pittura, legandola all’ottica, alla geometria e alle arti liberali, non solo propone un uso tecnico dello specchio da parte dell’artista, nell’ambito di una poetica realistica delle arti figurative, ma riconduce addirittura le origini della pittura stessa ad
3 Sant’Agostino, Soliloqui, II, 6, 10-11.
4 Apuleio, op. cit., XIV: “tantum praestat imaginis artibus ad similitudinem
referundam levitas illa specula fabra et splendour opifex”.
148 un atto di rispecchiamento, arrivando a definire Narciso come il primo pittore:
Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore: ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito. Che dirai tu essere dipingere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?6
Se la pittura è definita “il fiore di ogni arte”, è proprio in fiore, quindi nella propria arte, che si trasforma il suo inventore, che viene identificato appunto con Narciso, secondo un’idea originale convenuta in un circolo di amici umanisti e derivata da una lettura allegorica, in chiave positiva, dei poeti antichi7. Inoltre, nel libro fondatore della pittura occidentale di età moderna, dipingere equivale ad abbracciare, con un atto d’amore, la superficie di una sorgente d’acqua che riflette specularmente la realtà circostante; in tal modo Alberti ribadisce lo statuto mimetico della pittura e la capacità del piano pittorico di farsi specchio della realtà8. Sempre questo passo poi, alludendo alla vicenda mitica di Narciso, che nella fonte scopre il suo doppio riflesso, l’origine della pittura è significativamente messa in relazione con
6 L. B. Alberti, op. cit., II, 26; per Narciso come primo pittore cfr. G. Barbieri, L’inventore della pittura. Leon Battista Alberti e il mito di Narciso, Vicenza, 2000. 7 Per l’ispirazione dalle fonti classiche dei poeti Ovidio e Filostrato cfr. anche G. Wolf, The origins of painting, in “Res”, 36, 1999, pp. 66-68.
8 Con una simile idea, sostenuta scientificamente dalla perspectiva pingendi, per la
rappresentazione delle cose nei loro corretti rapporti spaziali, op. cit., I, e dal sussidio tecnico di uno strumento prospettico come il velo, per cogliere le giuste proporzioni ritraendo dalla natura, op. cit., II, 31, Alberti arriva a concepire la superficie del quadro come una finestra aperta sulla realtà, op. cit., I, 19: “per donde io miri quello che quivi sarà dipinto”, per la quale, come si vedrà qui di seguito, lo specchio diventa uno strumento finale di controllo dell’imitazione di natura. A proposito dello statuto mimetico della pittura e di quell’abbracciare “con arte” la superficie specchiante della fonte, messo in atto da Narciso-pittore, cfr. con quanto aggiunto nel libro III, 56, sul processo di selezione, da parte del pittore, di ciò che vi è di più bello in natura, che accompagna la pratica della mimesi: “per questo sempre ciò che vorremo dipingere piglieremo dalla natura, e sempre torremo le cose più belle”.
149 riflessione inerente all’esperienza speculare e, in termini artistici, è implicitamente collegata al processo di auto-rappresentazione, in un momento di autoconsapevolezza dell’artista, una questione su cui si tornerà in seguito.
Più avanti, nel De pictura, Alberti identifica i fondamenti tecnici della buona pittura, in cui un artista deve impratichirsi, nella “circonscrizione, composizione e ricevere di lumi”9 e, a proposito di quest’ultimo ambito, cioè lo studio delle luci e delle ombre, invita il pittore ad esercitarsi direttamente sulla natura, allo scopo di imparare a dosare i bianchi e i neri e le conseguenti variazioni dei colori, ottenendo così un effetto di verosimiglianza. Inoltre, suggerisce di emendare le cose prese dalla natura con l’uso di uno specchio, iudex optimus delle pitture:
E saratti a ciò conoscere buono giudice lo specchio, né so come le cose ben dipinte molto abbino nello specchio grazia: cosa maravigliosa come ogni vizio della pittura si manifesti diforme nello specchio. Adunque le cose prese di natura si emendino collo specchio10.
Il dispositivo speculare, in questo caso evidentemente di tipo piano, in grado di restituire un’immagine fedele del reale e di coadiuvare così l’artista nel medesimo intento, viene ad essere uno strumento di verifica finale della grazia delle cose dipinte, di controllo dell’immagine mimetica in modo da garantirle la verosimiglianza desiderata. Il problema della fallacia del riflesso speculare, che si era a lungo accompagnato al giudizio negativo su questo utensile, lascia così posto a una valutazione positiva, in un discorso fondato sulla prassi e
9 Id., op. cit., II, 31-46. 10 Id., op. cit., II, 46.
150 non più su basi ontologiche, da parte di un artista consapevole della novità della propria trattazione e in un’epoca di fiducia nella riproduzione della realtà in pittura e di controllo razionale del risultato, rompendo con la precedente tradizione medievale, che si era allontanata dall’osservazione diretta della natura11:
Ma qui non molto si richiede sapere quali prima fussero inventori dell’arte o pittori, poi che non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo fabbrichiamo un’arte di pittura della quale in questa età, quale io vegga nulla si trova scritto…12
Da questo momento in poi lo specchio entra a pieno diritto nell’armamentario delle botteghe degli artisti e, una trentina di anni dopo l’opera di Alberti, l’architetto Antonio Averulino, detto il Filarete, nel suo Trattato di architettura, ne ripropone l’uso e addirittura lo lega all’invenzione della prospettiva da parte di Filippo Brunelleschi:
Se volessi ancora per un’altra più facile via ritrarre ogni cosa, abbi uno specchio e tiello inanzi a quella cotale cosa che tu vuoi fare. E guarda in esso, e vedrai i dintorni delle cose più facili, e così quelle cose che ti saranno più appresso, e quelle più di lunga ti parranno più diminuire. E veramente da questo modo credo che Pippo di ser Brunellesco trovasse questa prospettica, la quale per altri tempi non s’era usata13.
Senza dubbio però, il maggior fautore dell’utilizzo del dispositivo speculare resta Leonardo, artista sperimentatore per eccellenza, che, nel suo Trattato della pittura, lo menziona a più riprese. Anzitutto, sulla scia del precetto albertiano, egli invita gli artisti a servirsene come sussidio tecnico per individuare gli errori, anche piccoli, della propria
11 Id., op. cit., prologo, che, nell’edizione in volgare del 1436, non a caso è dedicato a
Filippo Brunelleschi, inventore della prospettiva centrale.
12 Id., op. cit., II, 26.
13 Filarete, Antonio Averulino detto il, Trattato di architettura, XXIII, 1462-1464, ed.
151 pittura e valutarla con maggior distacco, dal momento che l’opera in esso rispecchiata “sarà veduta per lo contrario, e ti parrà di mano d’altro maestro, e giudicherai meglio gli errori tuoi che altrimenti”14. Inoltre, dedica un intero capitolo a “come lo specchio è il maestro de’ pittori”, riconoscendo definitivamente la parentela tra la superficie del quadro e quella dello specchio piano:
Quando tu vuoi vedere se la tua pittura tutta insieme ha conformità con la cosa ritratta di naturale, abbi uno specchio, e favvi dentro specchiare la cosa viva, e paragona la cosa specchiata con la tua pittura, e considera bene se il subietto dell’una e dell’altra similitudine abbiano conformità insieme. Soprattutto lo specchio si deve pigliare per maestro, intendo lo specchio piano imperocché sulla sua superficie le cose hanno similitudine con la pittura in molte parti; cioè, tu vedi la pittura fatta sopra un piano dimostrare cose che paiono rilevate, e lo specchio sopra un piano fa il medesimo; la pittura è una sola superficie, e lo specchio è quel medesimo; la pittura è impalpabile in quanto che quello che pare tondo e spiccato non si può circondare con le mani e lo specchio fa il simile. Lo specchio e la pittura mostrano la similitudine delle cose circondata da ombre e lume, e l’una e l’altra pare assai di là dalla sua superficie. E se tu conosci che lo specchio per mezzo de’ lineamenti ed ombre e lumi ti fa parere le cose spiccate, ed avendo tu fra i tuoi colori le ombre ed i lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancor essa una cosa naturale vista in un grande specchio15.
Infatti non solo Leonardo propone l’uso del riflesso speculare per la verifica della somiglianza dell’immagine dipinta a quella di natura ma giunge altresì ad equiparare la superficie pittorica a quella riflettente, dal momento che entrambe sono capaci di riprodurre su un piano bidimensionale la realtà tridimensionale, in modo da farla apparire
14 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, III, 401, ed. E. Camesasca, Milano, 1995. 15 Id., op. cit., III, 402.
152 sempre rilevata per mezzo delle luci e delle ombre, sebbene sia la pittura sia il riflesso siano impalpabili e impossibili da circondare tra le mani. Il fatto poi che l’immagine riflessa sia in realtà transitoria e mobile e che solo quando venga riprodotta in un’opera d’arte acquisti quel connotato di durevolezza che altrimenti le manca, non sembra preoccupare affatto Leonardo giacché anche in questo caso, come visto per Alberti, il suo discorso viene mantenuto su un piano strettamente tecnico e artistico, sottolineando come questo utensile sia maestro nell’insegnare il chiaroscuro e gli scorci di qualunque oggetto e nel restituire colori più vivaci16 ed abbia una versatilità degna di essere presa a modello dal pittore, in modo da essere il più possibile fedele alla natura:
Il pittore dev’essere solitario e considerar ciò ch’esso vede e parlare con sé eleggendo le parti più eccellenti delle specie di qualunque cosa egli vede; facendo a similitudine dello specchio, il quale si tramuta in tanti colori, quanti sono quelli delle cose che gli si pongono dinanzi; e facendo così, gli parrà essere seconda natura17.
Con Leonardo quindi, che giunge persino ad auspicare per il pittore un comportamento simile a quello della superficie riflettente, la celebrazione dello specchio come strumento dell’artista raggiunge il suo culmine.
L’impiego di questo dispositivo doveva essere ormai abbastanza diffuso, in età moderna, da permettere a Cesare Ripa, a partire
16 Id., op. cit., III, 404: “come la vera pittura stia nella superficie dello specchio piano”,
a proposito degli insegnamenti che esso ha da offrire al pittore e Id., op. cit., II, 252, a proposito della vivacità dei colori specchiati sulle cose lustre: “sempre la cosa specchiata partecipa del colore del corpo che la specchia. Lo specchio si tinge in parte del colore da esso specchiato, e partecipa tanto più l’uno dell’altro, quanto la cosa che si specchia è più o meno potente che il colore dello specchio. E quella cosa parrà di più potente colore nello specchio, che più partecipa del colore d’esso specchio”; quello della diversa vivacità del rilievo e dei colori dell’immagine speculare, rispetto all’immagine dipinta, è un tema già affrontato anche in Apuleio, op. cit., XIV.
153 dall’edizione del 1603 della sua Iconologia, di includerlo significativamente tra gli attributi della Prospettiva, insieme ad altri strumenti di misurazione come il compasso e la riga con squadra18.
Se l’impiego dello specchio da parte dell’artista trova un riscontro teorico scritto nella letteratura artistica essenzialmente di ambito italiano, la presenza del dispositivo speculare come strumento di bottega è attestata altresì visivamente da alcune testimonianze, soprattutto di area fiamminga, che ne confermano, ancora una volta, l’uso diffuso nel corso del XV secolo, in un momento in cui sia a nord sia a sud dell’Europa, l’arte riscopre un’intenzione realistica, incarnata perfettamente dalla superficie riflettente.
Sono noti gli interni di botteghe costellate di oggetti, minuziosamente descritti, come quella dell’orafo dipinta da Petrus Christus nel 1449 o quella del cambiavalute di Quentin Metsys, del 1514, che ospitano, sui rispettivi banconi da lavoro, piccoli specchi di vetro bombato, del tipo a “occhio di bue”, all’epoca comuni nel nord Europa, con semplici cornici circolari di legno dorato (Figure 28 e 29). È molto probabile che questi utensili avessero, più che la classica destinazione d’arredo, un impiego funzionale al lavoro che si svolgeva in quegli ambienti e alla clientela che vi entrava per fare acquisti, come un’elegante signora accompagnata dal suo compagno per scegliere un gioiello, che forse avrebbe voluto vedersi indosso, specchiandosi, ed è
18 C. Ripa, Iconologia overo Descrittione d'Imagini delle Virtù, Vitii, Affetti, Passioni humane, Corpi celesti, Mondo e sue parti, Roma, 1603: “Per gl'istromenti si dimostra la conditione et l'operationi sue. Nello Specchio le figure rette si riflettono et perché questa scienza, di luce retta et di reflessa servendosi, fa vedere di belle meraviglie, per tanto in segno si è posto lo Specchio”; nell’edizione della Nova Iconologia, Padova, 1618, lo specchio figura anche, in una xilografia, in mano a un giovane “d’aspetto nobilissimo”, che con la destra tiene un compasso: il Disegno.
154 stato anche ipotizzato che servissero per estendere, e quindi controllare meglio, il campo visivo e, all’occorrenza, individuare eventuali ladri19.
Oltre che nelle botteghe degli artigiani però, gli specchi sono anche presenti in quelle dei pittori, come testimoniato da alcuni dipinti, sempre di ambito fiammingo, del 1500 circa, che raffigurano San Luca, il pittore per eccellenza, intento a ritrarre la Madonna con il bambino nell’intimità di interni, in cui, accanto agli strumenti tipici del mestiere, come la tela e il cavalletto, i pennelli e le conchiglie per i colori, si distingue appunto uno specchio, di solito convesso e appeso a parete, con un evidente richiamo alla purezza della Vergine, speculum sine
macula20. Sempre a questo proposito, merita ancora di essere citata
un’incantevole miniatura con un San Luca che dipinge la Vergine, da un Libro d’ore di Bruges, del 1500 circa, oggi alla Pierpont Morgan Library di New York (Figura 30). In essa, il santo compare, in veste di pittore seduto al cavalletto, al lavoro in uno spazio abbastanza angusto, in cui però si distinguono con chiarezza tutti gli utensili di bottega, tra cui, in maniera inequivocabile, uno specchio convesso in vetro, con una cornice tutta lavorata, che fa bella mostra di sé, in primo piano, proprio accanto al cavalletto e all’altezza degli occhi del pittore. Curiosamente, lo sguardo dell’evangelista è rivolto proprio a questo oggetto e non, come di consueto, alla tavola su cui sta dipingendo o verso il cielo, in
19 J. Baltrušaitis, op. cit., p. 252; se si ricorda quanto detto nella prima sezione, a
proposito dei dispositivi speculari descritti da Erone di Alessandria, l’impiego dello specchio per estendere il campo visivo domestico era già noto presso gli antichi.
20 Cfr. H. Schwarz, op. cit., 1959 e P. Georgel e A. M. Lecoq, La pittura nella pittura,
Milano, 1987, pp. 106-109; per il tema dello specchio legato alla presenza della Vergine con il bambino, su cui Schwarz torna più volte, cfr. anche Id., The mirror in art, in “The Art Quarterly”,XV, 1952, pp. 96-118, dove tra l’altro si estende il significato metaforico di questi dispositivi, legato alla purezza virginale, anche agli esempi, appena citati, delle botteghe dell’orafo e del cambiavalute.
155 cerca di ispirazione. Se è vero che manca, in questa miniatura, la figura femminile della Vergine, che di solito è presente mentre qui è evocata solo dallo speculum sine macula che il pittore sta guardando, non può certo sfuggire l’immediatezza della scena, che coglie l’artista al lavoro, nell’ambiente famigliare della bottega e davanti a quello che era ormai uno strumento codificato della pratica artistica, per lo studio del modello naturale. Persino il dipinto sul cavalletto, su cui si intravede appena l’effigie dipinta, sembra, a prima vista, essere dello stesso materiale dello specchio, per la maniera in cui sono disposte le lumeggiature e la scelta del miniatore di impiegarvi gli stessi colori usati per il piccolo “occhio di bue” e, se è vero che, in questo caso, non ci sono abbastanza elementi per corroborare quella che resta una semplice osservazione, è altresì vero che, come si vedrà, la pittura fiamminga di quegli anni si fa essa stessa specchio della realtà e che, in questo caso, lo sguardo del pittore sembra comunque rivolgersi al modello della natura. A ribadire lo stretto legame tra il dispositivo speculare e gli artisti, che ricercano lo stesso effetto di rispecchiamento nelle proprie opere, va infine ricordato che, giusto nella città di Bruges, nel XV secolo, pittori e fabbricanti di specchi sono riuniti nella stessa corporazione, la gilda di S. Luca, mentre i miniatori e i calligrafi, ad esempio, appartengono a quella di San Giovanni21.
4.2. Alcune applicazioni pratiche dello specchio
Finora si è parlato dell’impiego del dispositivo speculare principalmente attraverso le fonti della letteratura artistica
156 rinascimentale di ambito italiano, dove la retorica e in generale produzione scritta da parte di artisti, ormai formati anche nelle arti liberali, gioca un ruolo fondamentale nella teorizzazione e divulgazione delle novità da essi raggiunte nelle arti figurative. A completamento del presente discorso, resta ancora da esaminare un altro tipo di scrittura, cioè quella per immagini, che è altrettanto eloquente e che per certi artisti, come ad esempio i pittori fiamminghi, resta il canale privilegiato di trasmissione delle proprie idee, in un generale clima di rinascita delle arti, di riscoperta del modello antico e di rinnovato interesse post-medievale per la rappresentazione realistica del mondo visibile, che investe tanto il nord quanto il sud dell’Europa.
Sono molte le informazioni sulle applicazioni pratiche del dispositivo speculare che si possono ricavare dall’osservazione delle fonti visive e si cercherà qui di selezionarne alcuni esempi significativi, iniziando proprio dalle Fiandre22. E’ in questa terra infatti che, nel corso del XV secolo, matura un interesse per la luce e per suoi effetti di riverbero, accanto a un’attenzione per la resa dei diversi tipi di materiali e a un amore per le superfici lucide e specchianti, per la restituzione delle quali ben si presta il mezzo della pittura ad olio, stesa per successive velature trasparenti e brillanti, che permettono alla luce che vi giunge di riflettersi e rifrangersi, ottenendo nei dipinti straordinari effetti di luminosità serica23. Tuttavia, questo interesse ottico per lo
22 Per esempi di applicazioni pratiche dello specchio e dell’uso dei riflessi in arte,
compresi in un arco cronologico più ampio di quello rinascimentale, cfr. anche J. Miller, On reflection, London, 1998.
23 Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio, di cui riconosce la portata
dell’innovazione, proprio a Jan Van Eyck cfr. Id., Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, ed. Giuntina, 1568, VI, p.224; per uno studio sul problema della
157 sfavillio dei riflessi non si esaurisce semplicemente con una motivazione di tipo tecnico, poiché un’attenta osservazione dei dipinti di artisti, come Jan Van Eyck, Petrus Christus o Robert Campin24, per citare alcuni che fanno uso di superfici speculari, mostra come dietro a queste scelte vi siano in realtà motivazioni più complesse. L’inserimento nelle pitture di specchi, per lo più convessi, che concentrano su di sé ampie porzioni di spazio rimpicciolite, così da diventare veri e propri microcosmi dipinti, permette infatti di ampliare i punti di vista della pittura e dare maggiore concretezza a quanto osservato dallo spettatore. Riprendendo per un attimo le due scene di bottega dell’orafo e del cambiavalute, citate poc’anzi, si nota infatti come, nel primo caso, lo specchio semisferico a destra rifletta una scena che si svolge all’esterno della bottega, sulla piazza del mercato, dove passeggia un’elegante coppia di passanti con in mano un falcone (Figura 28), mentre, nel secondo esempio, sulla superficie riflettente si vede, accanto ad una figura che legge, una finestra che dà su un esterno con alberi e profili di architetture gotiche (Figura 29), entrambe scene che appartengono allo spazio dell’osservatore e che il pittore integra a quello del dipinto tramite l’espediente dello specchio, probabilmente non privo, anche in questo caso, di significati allegorici25. Il dispositivo speculare viene così
resa della luce nella pittura Italiana e fiamminga del XV secolo cfr. E. Gombrich, “Luce, forma e resa delle superfici nella pittura del Quattrocento a nord e a sud delle Alpi”, in L’eredità di Apelle. Studi sull’arte del Rinascimento, Torino, 1986, pp. 27-48.
24 Cfr. E. Panofsky, Early Netherlandish painting. Its origins and character,
Cambridge Mass., 1958; J. Bialostocki, Il Quattrocento nell’Europa settentrionale, Torino, 1989; M. Friedländer, op. cit., V, Leiden, 1969.
25 Per alcune interpretazioni iconografiche di questi specchi fiamminghi cfr. G.
Hartlaub, Die Zauber des Spiegels, Munich, 1951; H. Schwarz, op. cit., 1952; S. Sulzberger, Considérations sur le chef-d’œuvre de Quentin Metsys, le prêteur et sa femme, in “Belletin de Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique”, 14, 1965, pp.
158 ad essere un modo per arricchire lo spazio della superficie pittorica e trasformarlo in un pezzo di realtà, oltre ad offrire all’artista un’occasione per mostrare la propria abilità tecnica nel rappresentare la trasparenza del vetro e il brillio di un riflesso26.
Negli stessi anni, in Italia, alla resa minuziosa dei particolari materici di una scena e allo scintillio delle superfici di riverbero, sembra venir preferito un isolamento monumentale delle figure e un’illuminazione maggiormente oggettiva27, mentre la riproduzione del mondo tridimensionale sul piano pittorico è affidata alla prospettiva centrale brunelleschiana, teorizzata, come si è visto, da Leon Battista Alberti, nel De pictura. Se è vero che manca, nella pittura italiana dell’epoca, un’attenzione agli effetti di lucentezza e sfolgorio dei riflessi, paragonabile a quella dei colleghi d’Oltralpe, non si tratta solo, come argomentato da Bialostocki28, di un fatto dovuto all’inesperienza nella tecnica della pittura ad olio, indubbiamente indispensabile per ottenere i mirabili effetti dei pennelli di Van Eyck e compagni, ma piuttosto di un diverso tipo di indagine sulla forma, seppur rivolto al comune intento di impadronirsi, con la propria arte, del mondo visibile29. Del resto, come
34; P. H. Schabacker, Petrus Christus’ Saint Eloy: Problems of Provenance, Sources and Meaning, in “The Art Quarterly”, XXXV, 1972, pp. 103-120.
26 Cfr. J. Bialostocki, “Man and Mirror in Painting: Reality and Transience”, in I. Lavin
and J. Plummer, eds., Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in honour of Millard Meiss, New York, 1977, pp. 61-72.
27 A questo proposito basti pensare alle opere dei primi pittori del rinascimento
fiorentino; per quanto riguarda invece la luce e una distinzione tra “lume”, cioè illuminazione e “lustro”, vale a dire lucentezza, riflesso, con esempi dei rispettivi utilizzi nel Rinascimento, cfr. gli splendidi saggi sulla luce di E. Gombrich, tradotti in italiano e riuniti sotto il titolo di “Lume e lumeggiatura” nella citata raccolta L’eredità di Apelle, pp. 5-48.
28 J. Bialostocki, op. cit., 1977, p. 68.
29 Cfr. anche quanto scritto da E. Gombrich in op. cit., p. 41: “quello che osserviamo in
159 si è visto, il dispositivo speculare è molto presente nelle considerazioni di metodo dei grandi del Rinascimento italiano, per cui la perfetta pittura “è simile alla superficie dello specchio”30 e, se esso compare proprio al momento delle origini della pittura, con l’esperienza di Narciso, è altrettanto partecipe dell’avvento di un’invenzione capitale, come lo è la prospettiva. L’esperimento delle due tavolette prospettiche di Brunelleschi infatti, così come narrato dal biografo Antonio Manetti31, almeno nel caso di quella con il battistero di Firenze, forata in corrispondenza del punto di fuga e con il fondo di argento brunito, per aumentarne l’illusionismo con il riflesso il cielo, presuppone, per essere guardata l’utilizzo di uno specchio. Infatti, la sua corretta visione è prevista attraverso il foro-punto di fuga e stando dietro alla tavoletta stessa, servendosi di uno specchio piano anteposto, che permette di vedervi l’immagine dipinta, raddrizzata e riflessa, e di confrontarla direttamente con il modello naturale, visualizzando così l’idea di pittura come intersezione della piramide visiva e quella di sovrapponibilità alla veduta naturale dell’immagine artificiale e dipinta, vista sul piano speculare32.
Tornando alle Fiandre e agli specchi convessi di bottega, si può dire che il primo a servirsene in maniera completa è Jan Van Eyck, che
il reticolo di riflessi elusivi sulla superficie degli oggetti come un rumore di fondo, e non ne tennero conto nella loro ricerca della forma”.
30 Leonardo, op. cit., III, 404.
31 A. Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi preceduta da la novella del Grasso, Milano,
1976, pp. 55-60.
32 F. Camerota, “L’esperienza di Brunelleschi”, in Id., ed., Nel segno di Masaccio. L’invenzione della prospettiva, Firenze, 2001, pp. 26-38, con anche una ricostruzione delle tavolette; per il problema della pittura come intersezione della piramide visiva cfr. L.B. Alberti, op. cit., I, 12 e quanto detto qui nella prima sezione sull’ottica, a proposito della perspectiva naturalis e di quella pingendi.
160 ne esplora tutte le potenzialità di strumento utile ad integrare realtà e immagine dipinta ma anche in grado di mostrare ciò che altrimenti resterebbe nascosto allo spettatore, moltiplicando così i punti di vista della pittura, a gara con la scultura, nella rappresentazione del visibile.
E’ il caso per eccellenza di quanto avviene nel celeberrimo dipinto del 1434, I coniugi Arnolfini, oggi alla National Gallery di Londra, dove lo specchio convesso, situato sulla parete di fondo di un elegante interno fiammingo minuziosamente descritto nel suo arredo, catalizza l’attenzione dello spettatore, al qual permette di vedere la scena da un altro punto di vista, non solo funzionando da retrovisore, rispetto a quanto situato in primo piano, ma dilatando anche lo spazio pittorico, sino ad includervi anche ciò che, in realtà, sarebbe situato al di fuori di esso, nello spazio appunto in cui si trova lo spettatore: la porta aperta della stanza con due personaggi in piedi, davanti agli occhi della coppia (Figura 31). Se ci si attiene alla celebre interpretazione di Panofsky, per cui si tratterebbe di un dipinto nuziale, leggibile attraverso un complesso sistema di simboli, celato dietro all’apparenza di un intimo ritratto di interno domestico con marito e moglie, allora lo specchio avrebbe la funzione di rivelare i testimoni dell’avvenuto matrimonio, tra cui il pittore stesso che, per dichiarare la propria presenza all’evento, firma l’opera con la formula: “Johannes de Eyck fuit hic”33. In tal modo, il dispositivo speculare offrirebbe all’artista anche la possibilità di un inserimento del proprio autoritratto, una soluzione che sembra avere
33 E. Panofsky, Jan Van Eyck’s Arnolfini Portrait, in “The Burlington Magazine”,
161 interessato Van Eyck anche in altre occasioni34. Naturalmente questa non è l’unica interpretazione iconologica possibile e molto è stato scritto nel tentativo di spiegare un’opera tuttora enigmatica e oggetto di studio per la sua complessa simbologia, per le cui possibili e molteplici letture, finora formulate, si rimanda però alla ricca bibliografia esistente35. Ciò che invece preme qui sottolineare, in riferimento ai temi fino a questo momento affrontati, è come questo dispositivo riassuma in sé tutta la complessità degli aspetti esaminati nel presente studio, cioè quelli dello specchio come dispositivo ottico, metafora e strumento dell’artista. La sua superficie convessa infatti cattura la luce proveniente dalla finestra a sinistra, la proietta sul piano di fondo del dipinto e riproduce su di sé un microcosmo con le deformazioni causate dalle proprie caratteristiche fisiche. Inoltre, la ricca cornice decorata con dieci medaglioni smaltati con scene della Passione e della Risurrezione di Cristo, che impreziosisce questo manufatto e lo rende un insolito oggetto d’arredo, aggiunge un significato spirituale alla tranquilla scena domestica,
34 Cfr. ad esempio il riflesso del pittore nell’armatura del San Giorgio ne La Madonna del Canonico Van der Paele, del 1436, così come analizzato da D. Carter, Reflections in Armor in the Canon van der Paele Madonna, in “The Art Bulletin”, 36, 1954, pp. 60-62 o la lettura di Boris Uspenskij dei riflessi sulla corona ai piedi di Dio Padre, nella pala centrale del Polittico dell’agnello mistico di Gand, del 1432, in B. Uspenskij, “L'immagine speculare come mezzo di rappresentazione dello spazio nelle opere di Van Eyck e di altri pittori fiamminghi del secolo XV”, in Id., Prospettiva divina e prospettiva umana. La Pala di Van Eyck a Gand, Milano, 2010, pp. 121-149; per il problema dell’autoritratto nascosto cfr. anche J. Vilain, L’'"autoportrait caché" dans la peinture flamande du XVe siècle, in “Revue de l’art”, 8, 1970, pp. 53-55.
35 Cfr. B. Uspenskij, op. cit., per una discussione sulle possibili interpretazioni della
firma del pittore e, di conseguenza, della possibile identità dei personaggi raffigurati, una questione che qui non si affronta per il desiderio di limitare l’analisi del dipinto all’applicazione pratica dello specchio. Tra gli studi più recenti cfr. anche l’originale lettura di M. Paoli, Jan Van Eyck alla conquista della rosa. Il Matrimonio Arnolfini alla National Gallery di Londra: soluzione di un enigma, Lucca, 2010, testo a cui si rinvia per una bibliografia completa sul dipinto e le diverse interpretazioni iconologiche formulate fino a questo momento e per un’insolita lettura del quadro, come di un ritratto del pittore con la moglie, e in rapporto alla complessa simbologia del Roman de la Rose.
162 alludendo forse sia alla Vergine e alla redenzione del mondo, ottenuta attraverso l’incarnazione e la morte di Cristo, sia a Dio come specchio che racchiude in sé tutto il creato36. Infine, l’impiego di questo dispositivo sull’asse verticale del quadro permette all’artista di includere nella superficie dipinta il mondo reale nella sua tridimensionalità e a 360° e di farvi entrare così lo spettatore, annullando il confine tra il mondo reale e il mondo raffigurato, con un espediente che resterà un riferimento per molti altri artisti37.
A proposito della possibilità, esplorata sempre da Van Eyck, di moltiplicazione dei punti di vista della pittura, attraverso il riflesso speculare, e di rendere sul piano un effetto di tutto tondo, che in parte si evince già nella scena degli Arnolfini, occorre ancora citare il caso di un interessante dipinto con una bagnante nuda, sebbene oggi noto solo attraverso la testimonianza scritta, di metà XV secolo, dell’umanista Bartolomeo Fazio e attraverso una copia tarda, oggi al Fogg Art Museum38. Nel testo nel De viris illustribus di Fazio39, che aveva visto il quadro, presso la collezione di Ottaviano della Carda a Napoli, si legge che si trattava di una scena con donne di una straordinaria bellezza, intente ad uscire dal bagno nude ma con le parti più intime velate di un
36 Cfr. B. Goldberg, op. cit., p. 148, con l’idea di un “all-seying eye of God”, in relazione
all’interpretazione tradizionale di Panosfky e M. Paoli, op. cit., per una “lettura dissidente”.
37 Cfr. ad esempio B. Uspenskij, op. cit., pp. 130-131, per un’analisi della pala di
sinistra del Trittico Werl, del Museo del Prado, in cui, nel 1438, Robert Campin cita lo specchio di Van Eyck e fa riflettere, nel proprio specchio convesso, San Giovanni Battista con l’Agnello e due frati francescani, idealmente collocati nello spazio antistante al dipinto, come i due astanti nella stanza degli Arnolfini.
38 P. Schabacker, E. Jones, Jan Van Eyck's “Woman at Her Toilet”: Proposals concerning Its Subject and Context, in “Annual Report. Fogg Art Museum”, 1974/1976, 1974-1976, pp. 56-78.
39 M. Baxandall, Giotto e gli umanisti: gli umanisti osservatori della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica 1350-1450, Milano, 2007, pp. 141-150.
163 lino sottile. Una di esse era poi dipinta inquadrandone il viso e il busto, mentre il retro del corpo era riflesso in uno specchio dipinto, in modo da vederne al contempo tutti e due i lati della figura. Si trattava dunque di un dipinto che viene descritto come di straordinario realismo nella resa dei minimi particolari del paesaggio, nel quale però “non vi è nulla di più bello che quello specchio in cui scorgi tutto quello che vedi nel quadro, come se rimirassi uno specchio reale”40 ed è proprio quello specchio a rivestire un’importanza capitale nel mostrare un punto di vista altrimenti nascosto all’osservatore e nel permettere alla pittura di ottenere, nello stesso momento e su un piano bidimensionale, quella pluralità di vedute non ottenibile nemmeno con la scultura, per un effetto di massimo realismo che acquista quasi il valore di una teorizzazione, tanto più significativa quanto, come si è detto, il Rinascimento fiammingo è privo di quella trattazione artistico-letteraria che accompagna le opere di quest’arte nuova, come invece in Italia.
Proprio in ambito italiano, un equivalente di questa esperienza è rintracciabile nell’opera, di una generazione successiva e purtroppo anch’essa perduta, di Giorgione, che, secondo quanto testimoniato da Giorgio Vasari, avrebbe realizzato un dipinto appositamente perché:
era d’oppinione che in una storia di pittura si mostrasse, senza avere a caminare a torno, ma in una sola occhiata tutte le sorti delle vedute che può fare in più gesti un uomo, cosa che la scultura non può fare se non mutando il sito e la veduta, talché non sono una ma più vedute, propose
164
di più, che da una figura sola di pittura voleva mostrare il dinanzi il didietro e i due profili dai lati…41
Con l’aiuto di un gioco di riflessi dunque, Giorgione avrebbe ritratto un ignudo di spalle, con ai piedi una sorgente d’acqua limpidissima in cui si rifletteva la parte anteriore del suo corpo scorciata e, contemporaneamente, avrebbe raffigurato i due lati del corpo, con il sussidio rispettivamente di un’armatura brunita a sinistra, di cui l’uomo si era spogliato, e di uno specchio a destra, entrambi posti lateralmente alla figura in modo da riuscire a mostrarne più vedute contemporaneamente. Questa testimonianza è tanto più importante in quanto si inserisce nel contemporaneo dibattito sul “paragone” tra le arti, dando la possibilità alla pittura di rivendicare, grazie appunto all’utilizzo del dispositivo speculare, la propria superiorità sulla scultura nella visione simultanea delle tre dimensioni su un piano, un effetto impossibile da ottenere nella scultura, che invece obbliga lo spettatore a spostarsi, cambiando via via punto di vista42. Si tratta inoltre di un episodio tanto più significativo quanto si colloca in un contesto veneto, dove, come si è visto, esisteva una fiorente industria di produzione di specchi che negli anni si era sviluppata intorno a Venezia, e dove il motivo dello specchio, soprattutto tra le mani di fanciulle alla toilette torna più volte in opere di artisti come Bellini, Tiziano e Tintoretto43. A
41 G. Vasari, op. cit., IV, p. 46; questa esperienza è citata anche da Paolo Pino in Id., Dialogo di pittura, XXVI, Venezia, 1548, dove però si parla di un “san Georgio armato… con li piedi nelle istreme sponde d’una fonte limpida e chiara”.
42 Per il paragone tra le arti cfr. M. Collareta, “Le ‘arti sorelle’. Teoria e pratica del
‘paragone’”, in G. Briganti, ed., La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano, 1988, pp.569-580.
43 Bodart, D. H., “Le reflet et l'éclat. Jeux de l'envers dans la peinture vénitienne du
XVIe siècle”, in V. Delieuvin e J. Habert, eds., Titien, Tintoret, Veronèse. Rivalités à Venise, Paris, 2009, pp. 216-259.
165 questo proposito, viene subito da pensare alla tavola con la Giovane
donna nuda allo specchio di Bellini, del 1515 circa, oggi al
Kunsthistorisches Museum di Vienna, in cui un’avvenente fanciulla è ritratta nell’atto di sistemarsi l’acconciatura in un piccolo specchio circolare che tiene in mano, mentre alle sue spalle si vede il riflesso del suo capo di spalle, in uno specchio circolare a parete, con un intrigante gioco di rimandi (Figura 32). Tuttavia, l’opera italiana che forse più si avvicina visivamente a queste problematiche è un dipinto di Girolamo Savoldo, del 1525 circa, con il ritratto di un uomo in armatura, noto anche come Gaston de Foix, oggi visibile al Museo del Louvre. In esso, in uno spazio ristretto, la figura virile è visibile da tre punti di vista contemporaneamente, grazie a due specchi abilmente collocati di spalle e di fianco al soggetto, paralleli al piano del quadro, così da far pensare, oltre a una ripresa dell’esperienza giorgionesca, anche ad una visualizzazione dell’idea di Leonardo di identità tra la superficie pittorica e quella speculare (Figura 33).
Un effetto di contemporaneità di vedute unificate in un’unica scena è quello che si ritrova anche nel piccolo dittico con l’Annunciazione di Van Eyck, del 1435 circa, oggi al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, dove le figure di Maria e dell’arcangelo Gabriele, dipinte a monocromo, sotto forma di statue colpite da una luce radente, si riflettono nella superficie nera e lucida alle loro spalle, forse in pietra di paragone, così da ottenere una piena illusione di tridimensionalità. Inoltre, ciò che stupisce di quest’opera, è anche la mirabile resa dei materiali lapidei e della qualità delle superfici, tale da sembrare la
166 traduzione visiva di quanto postulato negli stessi anni da Leon Battista Alberti sull’esigenza di adoperare bene i colori per imitare anche i materiali più preziosi44. In questo senso, gli artisti fiamminghi con la loro attenzione allo sfavillio dei riflessi e ai diversi effetti della materia completano mirabilmente la ricerca di una rappresentazione realistica del mondo visibile, portata avanti contemporaneamente in Italia e, con opere come quelle appena citate, si collocano come perfetti eredi di Apelle e dei pittori antichi, ai quali erano perfettamente noti i problemi di diversa illuminazione delle superfici lucide e opache e la resa dei piani di riverbero, come narrato da Plinio45.
4.3. Un caso particolare: l’autoritratto allo specchio
Per concludere questa analisi sull’impiego dello specchio come strumento dell’artista, occorre ancora parlare della pratica dell’autoritratto, senza dubbio l’uso più immediato e quello che da sempre, nella storia dell’arte, ha generato più soluzioni e che per questo, in effetti, meriterebbe una trattazione a sé e molto più elaborata. Non è un caso che gli studi più completi sul dispositivo speculare finora44 L. B. Alberti, op. cit., II, 48.
45 Plinio, op. cit., XXXV,29;cfr. anche opere come il mosaico con la battaglia di Isso, o
il dipinto pompeiano con Teti che ammira lo scudo di Achille forgiato da Vulcano, oggi entrambi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che attestano un’attenzione nella resa dei riflessi speculari e alla duplicazione delle immagini, cosa che invece si perderà nel Medioevo, più interessato alla componente simbolica e allegorica dello specchio, la cui superficie, ad esempio nelle miniature, figura spesso come una forma circolare “vuota”, cioè priva di immagini o tutt’al più appena punteggiata di biacca per evocarne la lucentezza; bisognerà perciò attendere il ri-nascimento di un interesse naturalistico per ritrovare la superficie specchiante mirabilmente dipinta, in particolar modo in ambito fiammingo; cfr. anche l’articolo di J. Bialostocki, Jan, “The Eye and the Window. Realism and Simbolism of Light Reflections in the Art of Albrecht Dürer and His Predecessors”, in Id., The Message of Images. Studies in the History of Art, Vienna, 1988, pp. 77-92, per un’interessante ipotesi su come l’amore per le superfici lucide e l’interesse per lo studio delle qualità delle superfici speculari convesse, presenti nelle botteghe degli artisti, abbia influenzato la resa di certi riflessi presenti sulle pupille di alcune figure dipinte da Dürer e dai suoi predecessori.
167 pubblicati, dal capostipite Le miroir di Baltrušaitis, a quello ricchissimo per l’apparato iconografico di Hartlaub, per giungere alla più recente storia dello specchio di Melchior-Bonnet, manchino quasi completamente di una trattazione di questo tema così ampio ed articolato. Tuttavia, per completezza del discorso e coerenza con la poliedricità di questo lavoro, si è comunque deciso di provare per lo meno ad inquadrare il problema, limitando questa sezione ad alcuni esempi di autoritratti autonomi rinascimentali, scelti per un evidente richiamo all’immagine speculare, della quale assumono le stesse caratteristiche, e perché particolarmente significativi nel saldare i problemi finora affrontati di realismo pittorico e invito socratico alla conoscenza di sé. Si tratta di opere in cui, in altre parole, l’esperienza della “riflessione” si compie appieno nel suo duplice significato di
re-flĕctĕre, come processo ottico-fisico di “rinviare indietro”, in questo
caso, un’immagine di sé, e come attività mentale della considerazione tra se stessi, in questo caso, del proprio io. Il dispositivo speculare viene così ad essere qualcosa di più di un semplice strumento ottico di bottega poiché viene impiegato in maniera fortemente auto-consapevole e con una volontà appunto socratica, di affondo psicologico.
L’impiego dello specchio per guardare se stessi e dipingersi, oltre ad essere piuttosto immediato, come si diceva poc’anzi, è anche estremamente antico, al punto da essere attestato addirittura, nel I secolo, da Plinio, a proposito di una pittrice, Iaia di Cizico, che, nella
168 Roma di Marco Varrone, se ne sarebbe servita per dipingere “suam quoquem imaginem ad speculum”46.
Nel Medioevo, pur non essendoci più per gli artisti il problema di un uso dello specchio con una finalità di realismo, sono molte le immagini che sopravvivono, ai margini o nelle iniziali miniate dei manoscritti, di miniatori, uomini o donne, che si ritraggono al lavoro con piccoli pennelli e colori. Si tratta di artisti dotati, senza dubbio, di una forte autoconsapevolezza, che non sfuggono alla tentazione di rimirarsi in un piccolo specchio, magari di quelli metallici bombati in voga ai quei tempi, per poi rappresentarsi con il proprio nome scritto accanto. Sono però artisti più simili a scribi, che usano sì uno specchio, unico modo del resto per vedere le proprie sembianze, ma che non sono interessati a gareggiare con esso per mezzo della propria pittura, poiché si muovono all’interno di un’arte che non è più toccata dal problema dell’imitazione della natura, come lo era quella antica47. Bisognerà perciò attendere il XIV e XV secolo perché la rappresentazione di sé, con il sussidio di uno specchio, torni a farsi frontale, o quasi, e realistica, come doveva essere stata quella menzionata da Plinio.
In un momento di riscoperta dei testi classici, è proprio l’aneddoto pliniano della pittrice Iaia ad essere ripreso, seppur con degli errori di interpretazione del testo antico, nell’opera sulle donne illustri, scritta in latino da un umanista come Boccaccio: il De claris mulieribus.
46 Plinio, op. cit., XXXV, 147.
47 Per esempi di questo tipo di autoritratti cfr. J. Alexander, Medieval illuminators and their methods of work, London, 1992; P. Georgel e A. M. Lecoq, op. cit., pp278-279 e M. Collareta, Verso la biografia d’artista. Immagini del medioevo all’origine di n genere letterario moderno, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie IV, quad. 16, 2003, pp. 53-78.
169 In essa infatti, tra le donne menzionate come capaci di distinguersi dalle altre ed essere degne di elogi, in questo caso “per la forza dell’ingegno e la destrezza della mano”48, Boccaccio include un’ipotetica pittrice figlia di Varrone, Martia Varronis, definita anch’essa “perpetua virgo” e derivata appunto dalla citata Iaia Cizicena, che, oltre ad aver dipinto molte figure femminili ed intagliato l’avorio, si sarebbe anch’essa ritratta speculo consulente e in modo così fedele al proprio aspetto, nei lineamenti e nei colori, che nessun contemporaneo avrebbe esitato ad identificarla dopo averne visto l’opera; è la testimonianza dunque di un precoce esempio di autoritratto femminile autonomo, eseguito allo specchio.
Negli stessi anni di Boccaccio poi, nella sua storia della civiltà fiorentina con i più illustri cittadini, Filippo Villani, a proposito di Giotto, artista di fama illustrissima e capace di eguagliare e perfino superare, con il proprio ingegno, l’arte degli antichi, racconta di come il pittore si fosse autoritratto servendosi addirittura di più di uno specchio:
Dipinse eziandio a pubblico spettaculo nella ciptà sua con aiuto di specchi se medesimo e il contemporaneo suo Dante Alighieri, poeta, nella cappella del palagio del podestà nel muro49.
Se manca purtroppo un’immagine giottesca da abbinare a questa fonte scritta, sopravvive almeno un esempio eloquente di questo impiego del dispositivo speculare, in direzione realistica, in un caso
48 Boccaccio, De mulieribus claris, LXVI, in V. Zaccaria, ed., Tutte le opere di Boccaccio, X, Milano, 1970: “non minus tamen ingenii viribus et artificium manuum commendanda est”.
49 F. Villani, De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, XXV, ed. G.
170 come l’autoritratto autonomo di Cola Petruccioli nella chiesa di San Domenico a Perugia, straordinario nella sua frontalità speculare mentre l’artista tiene in mano gli strumenti del proprio lavoro con la consapevolezza della propria identità di pittore, come se fosse ancora lì davanti al suo specchio e alla superficie dipinta50.
Ma è nel XV secolo che si assiste ad una svolta nella produzione degli autoritratti realistici, legata anche al rinnovato interesse dell’epoca per l’individuo e a una nuova autoconsapevolezza del proprio ruolo, maturata dagli artisti moderni51. Se è ancora curvo lo specchio di cui doveva essersi servito Jean Fouquet per il suo meraviglioso ritratto del 1450, oggi al Museo del Louvre, non va dimenticato che l’epoca in questione è caratterizzata dal perfezionamento tecnico nella fabbricazione delle superfici speculari in vetro, che permette di ottenere manufatti di ottima qualità e dalla superficie perfettamente piana, quella stessa che si presta ad essere lodata nella letteratura artistica coeva, come strumento del pittore per correggere i difetti del proprio lavoro.
E’ scegliendo di usare il formato circolare di un medaglione e di servirsi della tecnica dello smalto brillante applicato su rame, che raffreddandosi assume una forma bombata, che Fouquet raggiunge un sorprendente effetto di illusionismo nell’imitazione della superficie di un piccolo specchio convesso con il suo altrettanto piccolo autoritratto
50 Cfr. M. Collareta, op. cit., 2003, p. 60, per i riferimenti classici dietro a questo
affresco.
51 Cfr. J. Woods-Marsden, Renaissance Self-Portraiture. The Visual Construction of Identity and the Social Status of the Artist, New Haven & London, 1998, per la genesi e l’evoluzione dell’autoritratto autonomo in relazione allo stato sociale dell’artista e al problema della promozione di sé e del proprio lavoro; in tema di nuova autoconsapevolezza dell’artista moderno cfr. anche L. B. Alberti, op. cit., III.
171 frontale, su cui, ai lati del viso, compare anche la firma. Si tratta di un medaglione che doveva ornare il dittico di Melun e che, per questo suo inserimento in una cornice, insieme alla scelta dell’artista di ritrarsi con indosso il cappello da lavoro, fa subito pensare al piccolo autoritratto in bronzo, fuso da Ghiberti, sulla cornice della Porta Nord del Battistero di Firenze. In entrambi i casi, si coglie il frutto di una consapevolezza artistica raggiunta, negli stessi anni, da artisti da entrambi i lati delle Alpi, la stessa che spinge Jan Van Eyck a “nascondere”52 il proprio ritratto nel brillio di un riverbero su una superficie speculare o metallica o su quella lucida di una gemma: un’immagine fugace e appena percepibile, come fugace è il guizzo di un riflesso, ma sempre impeccabile nel gareggiare con la natura grazie al veicolo della pittura a olio (Figura 31).
Non è un caso allora che Alberti, in quegli stessi anni e in un momento di forte autoconsapevolezza artistica, definisca, come si è visto, il momento di origine della pittura proprio con il rispecchiamento di Narciso nella sorgente d’acqua: affermare che la pittura coincide con l’atto di abbracciare quella superficie speculare equivale non solo a proclamarne l’intento realistico ma anche a legarla al motivo dell’auto-rappresentazione e quindi dell’autoritratto.
52 Cfr. gli esempi citati del Polittico dell’agnello mistico di Gand del 1432, il ritratto de I coniugi Arnolfini del 1434 e La Madonna del Canonico Van der Paele del 1436; cfr. J. Vilain, op. cit., che parla di autoritratti nascosti nella pittura di Van Eyck; riguardo a questa pratica cfr. anche V. Stoichita, L’invenzione del quadro, Milano, 1998, pp. 187-265, dove, a proposito della nascita del quadro “moderno” come autonoma e consapevole creazione dell’artista, tra XVI e XVII secolo, si affronta anche il problema dell’inserimento autoriale, tra le sperimentazioni messe in atto dai pittori dell’epoca; per l’idea dell’autoritratto riflesso come firma di Van Eyck cfr. anche P. Bonafoux, Les peintres et l’autoportrait, Genève, 1984, pp. 20-21.
172 In questo modo, si spiegheranno anche successivi esempi di insuperato realismo e illusionismo pittorico, come quelli raggiunti dal celebre Autoritratto con pelliccia di Dürer, del 1500, oggi a Monaco, o dallo straordinario Autoritratto in uno specchio convesso di Parmigianino, del 1524 circa, oggi a Vienna (Figura 34), nei quali è il dipinto stesso a trasformarsi in superficie specchiante e il pittore a gareggiare con la natura, mettendo in atto, con il lavoro del proprio pennello, l’esperienza albertiana di abbracciare la sorgente di Narciso.
Nel caso di Dürer, si tratta di un’immagine che si staglia da un fondo scuro ed è perfettamente frontale, così come quella riflessa da uno specchio piano, e dipinta con attenzione ai minimi particolari, pur sembrando essere al di fuori di ogni tempo e dotata di connotazioni sacrali. Il pittore infatti si ritrae con i tratti di Cristo, come rivelato dalla sua mano destra, posata sul bordo di pelliccia della veste e simile al gesto benedicente del Salvator Mundi, è riflesso e immagine di Dio ed è come se lo specchio, oltre a permettergli l’auto-rappresentazione, fosse ancora una volta un dispositivo funzionale ad evocare la presenza del trascendente nell’immanente e a descrivere la relazione tra Creatore e creato53.
Nell’Autoritratto in uno specchio convesso di Parmigianino invece, l’effetto di illusionismo è spinto talmente all’estremo da indurre il pittore a servirsi persino di una tavola emisferica, su misura dello
53 A proposito dell’Autoritratto di Dürer di Monaco e della scelta del pittore di ritrarsi
con i tratti idealizzati di Cristo cfr. la lettura di E. Panofsky in Id., La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano, 1979, pp. 59-60, dove si parla della scelta di ricondurre il potere creativo del pittore a quello di Dio, attribuendogli così un significato religioso, e dell’idea di Dürer di rappresentare “non quello che l’artista pretende di essere, ma quello che egli deve umilmente cercare di divenire: un uomo cui è stato fatto il dono… dello Eritis sicut Dei”.
173 specchio da barbiere da lui utilizzato per ritrarsi, in modo da imitarne perfettamente le deformazioni dei riflessi e realizzare una perfetta equazione tra superficie speculare curva e superficie dipinta:
Laonde fatta fare una palla di legno al tornio, e quella divisa per farla mezza tonda e di grandezza simile allo specchio, in quella si mise con grande arte a contrafare tutto quello che si vedeva nello specchio, e particolarmente se stesso, tanto simile al naturale che non si potrebbe stimare né credere; e perché tutte le cose che s’appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono, vi fece una mano che disegnava un poco grande, come mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissima54.
Tutto in questo dipinto è reso con attenzione “per investigare le sottigliezze dell’arte”55 e contraffare, con i pennelli, le luci e le ombre che si depositano su una superficie specchiante convessa, capace di concentrare su di sé un’ampia porzione di spazio, al pari di un obiettivo grandangolare: il soffitto a cassettoni e la finestra con le inferriate a losanghe sono curvi per un effetto ottico, la mano in primo piano, che allude alla capacità creatrice dell’artista è smisuratamente ingrandita e allungata56 e la resa della brillantezza del vetro contribuisce ad unificare la scena e a rendere la finzione pittorica più credibile. Il risultato finale è quello di un’opera ingegnosa e raffinata che costituisce un unicum nella storia dell’arte, così realistica “che il vero non istava altrimenti che il dipinto”57.
54 G. Vasari, op. cit., IV, pp. 534-535; Vasari, che aveva visto il dipinto in casa di Pietro
Aretino, da giovane, e ne parla come di una “cosa rara” che lo aveva molto colpito, narra come, anni prima, quest’opera fosse servita da biglietto da visita per il giovane pittore ventenne, in visita alla corte papale di Clemente VII.
55 Ibidem.
56 Per ulteriori osservazioni sulla resa della mano ingrandita, rispetto a quella della
testa ridotta cfr. J. Woods-Marsden, op. cit., pp. 133-134.
174 Al termine di questa breve trattazione sull’autoritratto autonomo, realizzato servendosi del dispositivo speculare in maniera auto-consapevole e socratica, è significativo notare, anche in seguito alle problematiche sui possibili fruitori dello specchio, affrontate nella precedente sezione, come, in questo caso, un impiego autocosciente dello specchio come strumento dell’artista accomuni finalmente le esperienze dei suoi utenti maschili e femminili, senza più distinzioni di genere. Nel caso delle donne artiste anzi, si può dire che la pratica dell’autoritratto allo specchio diventi quasi un’occasione di riscatto dai pregiudizi che gravano sul binomio donna-specchio sin dall’antichità58. Se ciò si può constatare ancora una volta a partire dal XVI secolo, momento in cui, in parallelo alla nascita dell’artista moderno, istruito nelle arti liberali, anche alle donne è concesso raggiungere una maggiore emancipazione culturale59 e dedicarsi, tra le altre cose, alla pittura, e con essa inevitabilmente all’autoritratto60, come faranno ad
58 In particolare cfr. quanto si è detto qui in 3.3..
59 Cfr. a questo proposito quanto scritto a inizio XVI secolo da L. Ariosto nell’Orlando furioso, XX, III, 1-3: “Ben mi pare di veder ch’al secol nostro/tanta virtù fra belle donne emerga,/che può dar opra a carte et ad inchiostro”; lo stesso Ariosto sarà citato da Vasari nella Vita di Madonna Properzia de’ Rossi, a proposito dell’eccellenza raggiunta dalle donne in ogni arte cui si sono dedicate in quegli anni; a proposito del Rinascimento come di un momento spartiacque nella formazione delle artiste e nell’educazione delle donne in genere cfr. l’imprescindibile catalogo A. Sutherland Harris e L. Nochlin, Women Artists: 1550-1950, Los Angeles, 1976, dove si parla anche dell’importanza giocata in questo senso da Il cortegiano di Castiglione; sulle donne artiste cfr. anche W. Chadwick, Women, Art, and Society, London, 1990 e il recente C. Strinati e J. Pomeroy, eds., Italian Women Artists from Renaissance to Baroque, Washington, 2007.
60 Cfr. ad esempio quanto lascia intendere Boccaccio, De mulieribus claris, LXVI, a
proposito dell’autoritratto come genere confacente alle artiste o l’opinione comune, nel Rinascimento, del ritratto come genere minore, rispetto alla creazione di istorie, fatte di corpi, membra e superfici ben proporzionate e chiaroscurate, per le quali era necessario un training più complesso da cui erano escluse le donne artiste, per le quali l’autoritratto avrebbe dunque costituito un genere più accessibile dal punto di vista tecnico, cfr. F. Jacobs, Defining the Renaissance Virtuosa. Women Artists and the Language of Art History and Criticism, Cambridge, 1997 e J. Woods-Marsden, op. cit., pp. 191-199.
175 esempio Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana, non va però dimenticato che, anche nell’ambito della pratica artistica, il legame tra la donna e lo specchio è antichissimo, così come lo è nella vita quotidiana.
Si è detto infatti di come Plinio per primo attesti l’impiego dello specchio per autoritrarsi da parte proprio di una pittrice, Iaia, e, curiosamente, la più antica testimonianza iconografica di una scena di bottega con un artista impegnato a ritrarre se stesso allo specchio, riguarda nuovamente una donna, la pittrice Martia Varronis di Boccaccio, così come figura in una miniatura di ambito francese, del 1402 circa, in un manoscritto del De Claris Mulieribus, oggi alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Figura 35). In essa, Marzia è raffigurata nell’intimità della propria bottega, tra pennelli, vasetti e conchiglie per i colori, mentre è intenta a dipingere la propria effigie con l’aiuto di un piccolo specchio ovale bombato, presumibilmente di vetro, che tiene nella mano destra e in cui compare il suo riflesso rimpicciolito. Sia la tipologia di questo manufatto, che ad un primo sguardo ricorda i piccoli specchi da toilette tanto amati dalle fanciulle dell’epoca, sia quel gesto della pittrice di disporre il colore rosso sulle labbra del proprio ritratto, richiamano alla memoria le pratiche muliebri del trucco e della cosmesi, che tra l’altro, come si è visto, utilizzavano gli stessi materiali della pittura61. Se dunque non mancano i riferimenti al tema della vanità femminile, in questa miniatura c’è però qualcosa di profondamente diverso che è dato proprio dalla multifunzionalità di