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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA Scuola di Ingegneria ‐ DESTeC Corso di Laurea in Ingegneria Edile ‐ Architettura

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Academic year: 2021

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Scuola di Ingegneria ‐ DESTeC Corso di Laurea in Ingegneria Edile ‐ Architettura Tesi di Laurea:

NEARLY ZERO BALANCE WINERY

RIQUALIFICAZIONE ED AMPLIAMENTO DI UNA CANTINA VINICOLA

A TERRICCIOLA

Relatori: Prof. Ing. Fabio Fantozzi Prof. Arch. Domenico Taddei Ph.D Arch. Caterina Calvani Arch. Caterina Gargari Candidato: Dario Lorenzetti Anno Accademico 2014/2015

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Sommario

1.  Introduzione ... 5  2.  Terricciola ... 6  2.1.  Storia di Terricciola ... 6  2.2.  Terricciola ed il vino ... 8  2.3.  I percorsi di Terricciola ... 10  3.  Pieve de’ Pitti ... 11  3.1.  La produzione olearia ... 13  3.2.  La produzione vinicola ... 14  3.3.  La cantina in dettaglio ... 18  4.  Obiettivi progettuali ... 22  5.  L’ipogeo in architettura ... 24  6.  Le cantine ipogee ... 32  7.  Cantine d’autore ... 38  8.  L’architettura di una cantina ... 52  8.1.  Spazi per il ricevimento ed il primo trattamento delle uve ... 55  8.2.  Spazi per la vinificazione ... 58  8.3.  Spazi per elaborazione, trattamento,  conservazione ed affinamento del  prodotto finito ... 61  8.4.  Locale di affinamento ed invecchiamento ... 62  8.5.  Aree di supporto e presenza dei visitatori ... 65  9.  Processo creativo ... 67  9.1.  Funzioni e percorsi funzionali ... 67  9.2.  Problematiche rilevate ... 70  9.3.  Definizione delle forme architettoniche ... 72  10. Processi di lavorazione enologica ... 75  10.1.  La vendemmia ed il trasporto ... 75  10.2.  Campionatura, scarico in tramoggia e convogliatore primario ... 77  10.3.  Diraspatura e pigiatura ... 79  10.4.  La produzione del mosto ... 81  10.5.  La fase prefermentativa ... 83  10.5.1.  Macerazione prefermentativa a freddo ... 83 

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10.5.2.  Decantazione statica a freddo ... 83  10.6.  La fermentazione ... 85  10.6.1.  Fermentazione in rosso ... 85  10.6.2.  Fermentazione in bianco... 86  10.7.  L’invecchiamento ... 87  11. Impiantistica enologica ... 89  11.1.  Potenze termiche nelle fasi prefermentative ... 89  11.1.1.  Abbattimento della temperatura in modalità esterna ... 90  11.1.2.  Abbattimento della temperatura in modalità interna ... 92  11.1.3.  Valutazione dell’aumento di temperatura in caso di vasche coibentate . 95  11.1.4.  Mantenimento della temperatura in modalità interna ... 97  11.2.  Controllo termico della fermentazione ... 99  11.3.  Analisi delle potenze termiche calcolate ... 103  12. Analisi energetica dell’edificio ... 104  12.1.  Definizione delle zone termiche e dei dati di input ... 108  12.2.  Calcolo delle potenze per il condizionamento estivo ... 110  12.2.1.  Carico termico per trasmissione attraverso l’involucro in assenza di  intervento di ristrutturazione energetica ... 110  12.2.2.  Carico termico per trasmissione attraverso l’involucro con intervento di  ristrutturazione energetica ... 116  12.2.3.  Carico termico di ventilazione ... 121  12.2.4.  Carico termico interno di occupazione ... 122  12.3.  Calcolo delle potenze per il riscaldamento invernale ... 125  12.3.1.  Carico termico per trasmissione attraverso l’involucro in assenza di  intervento energetico sull’involucro esistente ... 126  12.3.2.  Carico termico per trasmissione attraverso l’involucro  con intervento  energetico sull’involucro esistente ... 131  12.3.3.  Potenza termica di ventilazione ... 136  12.4.  Riepilogo delle potenze termiche ... 137  13. Calcolo dei fabbisogni termici ... 139  13.1.  Scenario 1 ... 141  13.2.  Scenario 2 ... 143  13.3.  Scenario 3 ... 145  14. Confronto degli scenari e valutazioni ... 147 

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15. Eventuali interventi inerenti una maggiore sostenibilità ambientale ... 149  16. Ringraziamenti ... 153  17. Bibliografia ... 156 

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1. Introduzione

Pieve de' Pitti è un complesso storico sito nel confine Sud del Comune di Terricciola. A testimonianza dell'esistenza della piccola rocca e del relativo borgo rurale che si sviluppò attorno ad essa in tempi antichi, adesso rimane l’antica villa con annessa cappella, l'ancor più antico castello che si erge a guardia della Pieve, e la cantina.

L'obiettivo prefissato per questo lavoro è stato quello di ipotizzare una riqualificazione delle attuali cantine e realizzare un ampliamento capace di permettere il ciclo completo della produzione vinicola: dalla vendemmia in vigna fino allo stoccaggio del prodotto finale imbottigliato.

Tale compito ha fornito l'occasione di ipotizzare un processo che fosse il più possibile sintesi tra conservazione della tradizione e miglioramenti permessi da un approccio innovativo e moderno, il tutto senza perdere di vista la fondamentale necessità di dialogare e rispettare l’ambiente circostante e l’esistente.

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2. Terricciola

Terricciola è un Comune di circa 4500 abitanti facente parte del bacino idrografico del Fiume Arno ed appartenente all’area della Valdera nonché a quella storicamente di maggior prestigio, tanto a livello storico quanto vinicolo, delle Colline Pisane.

Edificata su un piano tufaceo, occupa una posizione strategica sulle valli del fiume Era, del Cascina e dello Sterza, importanti risorse idriche e, come nel caso del fiume Era, assi cruciali della viabilità rurale sin dall'età romano‐ imperiale.

2.1. Storia di Terricciola

L’origine etrusca di questo borgo è testimoniata dal ritrovamento nel centro storico di alcuni interessanti ipogei (ambienti scavati nella base del rilievo tufaceo) risalenti a quell’epoca, e che furono successivamente usati dalle popolazioni locali come magazzini di grano, vino o come rifugio.

Ad oggi si può vedere l’ipogeo del Belvedere, databile al pieno IV sec. a.C., ed in seguito riadattato ad usi agri‐vinicoli, dove al suo interno è conservata la raccolta dei cippi funerari etruschi provenienti dal territorio di Terricciola, fra cui il Cippo dei Poggiarelli, tra i più significativi della produzione pisana di questa parte di provincia.

Il Comune si sviluppa al centro della provincia pisana, tra Pontedera e Volterra, situato su un colle, in una posizione veramente suggestiva. È proprio ricercando le prime notizie ufficiali sul territorio di Terricciola che ci imbattiamo in Pieve de' Pitti, citata nel 1109 come "Pieve a Pava", dopo una donazione al Vescovo Ruggeri di Volterra. In seguito, nel 1186 viene menzionato l'affidamento di Castelvecchio, località vicina al Comune, al Vescovo di Volterra.

Come molti altri insediamenti nell'entroterra Pisano, Terricciola subì fino al 1406 un dominio alternato fra le città di Pisa e Firenze. Sino a questo periodo

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la vicina Castelvecchio o "Castrovecchio" recitava la parte di principale borgo della zona.

Nel 1496 Pisa si ribellò al dominio gigliato, riconquistando la propria autonomia, insieme ai territori limitrofi. La reazione fiorentina fu immediata e Terricciola, che si era anch'essa ribellata, fu uno dei primi castelli ad essere preda della grossa potenza. Lo stemma del comune testimonia la lunga disputa fra pisani e fiorentini raffigurando, su uno scudo cinto da corona, il Giglio Fiorentino e la Croce Pisana sopra ad un ulivo su un campo azzurro. Sono poche le notizie che ci sono state tramandate riguardo al Comune sotto la dominazione medicea. Nel 1660 fu costruita Villa Gherardi. Circa nel 1718 fu fatto un censimento della popolazione insediatasi intorno al Castello. Al 1735 risale un editto della Sacra Inquisizione di Pisa in cui è citata la Fonte Delle Donne della quale se ne vieta l'uso pena la scomunica: infatti tale fonte era molto apprezzata in quanto, essendo l’acqua bianca, si era creata la leggenda che favorisse le donne nel periodo dell'allattamento, cosicché nei pressi della sorgente si recavano molte persone da più luoghi.

Sempre della prima metà di questo secolo è la costruzione di Villa Cempini‐ Meazzuoli. Il Comune ebbe probabilmente origine sotto il dominio del Granduca Pietro Leopoldo I, fra il 1760 e il 1780 e nel 1840 passò sotto il Regio Vicariato di Pontedera.

Intorno al 1850 Amerigo Antinori fece costruire la Villa di Montemurlo, di influenza Palladiana, progettata forse dall'illustrissimo Architetto Poggi. Nel 1860 Terricciola seguì le vicissitudini dell'Italia unita. Il nome Terricciola nasce probabilmente dal latino "turris", riferendosi alle costruzioni erette per proteggere il borgo , o da "Terra" intesa come piccola terra in Valdera. Al giorno d'oggi il Comune ricorda ancora nel suo tessuto urbano le origini castellane, ricco di stretti vicoli e di costruzioni medievali. Le gallerie che hanno preso il nome di "Antiche Cantine" rappresentano una peculiarità nel tessuto urbano del paese: alcune, infatti lo attraversano per intero.

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2.2. Terricciola ed il vino

Il Nome di Terricciola sembra essere legato al vino ed alle sue produzioni fin dall'inizi dell'età ellenistica, nel IV Sec. A.C, sebbene l'origine del paese sia ben più antica. Le prime tracce certe di consumo di vino sono documentate dai corredi tombali di una sepoltura ritrovati in località San Piero dove sono state rinvenute ceramiche relative alla pratica nobiliare del Simposio, una sorta di banchetto che culminava con bevute collettive di vino, secondo le volontà del simposiarca, ossia il conduttore del banchetto.

L'esempio di San Piero non è ne l'unico ne il più importante. Altri ritrovamenti si sono verificati nelle campagne di Casanova (dove sono venute alla luce delle Kilikes, ossia delle coppe per il consumo di vino), a Soiana e in località Antica tra Terricciola e Morrona, dove nell'estate del 1792 fu casualmente ritrovata una tomba attribuibile al ceto dirigente dell'etrusca Volterra.

E' possibile affermare che Terricciola ed il vino sono intimamente legati fino dai periodi più antichi della loro storia, facendo del prodotto uno dei fondamenti culturali più importanti di questa comunità. Con la fine dell'età etrusca (I sec a.C.) e l'avvento di quella romana, le testimonianze archeologiche si fanno più rare, ma sicuramente la produzione ed il consumo del vino non cessarono specialmente come fonte di guadagno per le tante ville romane insediate sul territorio comunale.

Il silenzio sembra scendere durante i primi secoli del Medioevo, periodo del quale si hanno poche informazioni sia sulle vicende storiche che sulla posizione esatta dei centri abitati. Sappiamo che durante questo periodo il vino perde il suo aspetto nobile e diventa ad uso e consumo di tutti. Molte cronache riportano che l'acqua era un veicolo cosi propizio per la diffusione di pestilenze e malattie che si preferiva di gran lunga bere esclusivamente vino. Si presume che fino all'Alto Medioevo i monasteri presenti quali l'antica Badia di Morrona lo producessero con regolarità, perlomeno per il loro consumo interno. La grande tradizione e la qualità dei vini terricciolesi è testimoniata anche nei resoconti settecenteschi dei viaggi in Valdera e nelle

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colline pisane di Giovanni Targioni Tozzetti e Giovanni Mariti che, parlando di Terricciola e della sua economia, fanno riferimento alla fama e al successo commerciale dei suoi vini.

La composizione del terreno, ricco di sabbie e depositi fossili, ha da sempre favorito un microclima ideale per la coltivazione della vite. Tali condizioni sono difatti pressoché equiparabili alle zone produttive del più rinomato Chianti o Montalcino, non distanti difatti più di 50 km, delineando le potenzialità dell’area in questione di realizzare una produzione di qualità equiparabile a quella di vini di prestigio mondiale.

A tal proposito molte sono difatti le cantine ed i produttori presenti sul suolo terricciolese, ed alcuni di essi hanno dato vita nel 2008 al consorzio “Terre del silenzio”: Alberto Bocelli, Bellavista Toscana, Castelvecchio, Fattoria Fibbiano, Gualandi, Pieve de' Pitti, Poggio Sette Venti, Vallorsi.

A questi bisogna poi aggiungere Azienda Agricola Bellagotti, Azienda Agricola Gimonda, Azienda Agricola Il Lemmi, Azienda Agricola Meini Bruno, Azienda Agricola La Spinetta, Azienda Agricola Podere sul Chianti e cantina del Castello di Soiana, Tenuta Badia di Morrona, Azienda Agricola Sorelle Palazzi, Podere Il Ceno, Tenuta Podernuovo, Azienda Agricola Podere La Chiesa, Podere Panta Rei, Azienda Agricola Terre di Toscana, Azienda Agricola Rizzato Davide, Azienda Agricola Terreni Ranieri, Azienda Agricola Poggio Auzzo, Azienda Agricola Carloni Plinio, Tenuta di Burchino.

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2.3. I percorsi di Terricciola

La tradizione vinicola ha un valore ed una qualità tale da fornire molteplici spunti interessanti ed iniziative degne di essere citate. La prima, e la più ovvia, tra queste è la “strada del vino delle colline pisane”, un percorso che si snoda tra le colline della Valdera e del Valdarno inferiore toccando, oltre a Terricciola, i Comuni di San Miniato, Montopoli in Val d'Arno, Palaia, Peccioli, Lajatico, Chianni, Lari, Fauglia, Lorenzana, Crespina, Casciana Terme, Capannoli, Ponsacco e Pontedera.

Viaggiando in auto, ma anche in bicicletta, tra strade tortuose e panoramiche si trovano centri ricchi di storia e di cultura, romantici borghi e imponenti casali, alla scoperta di aziende vitivinicole, enoteche, prodotti locali e botteghe alimentari di alta qualità.

Tutto questo è diventato nel corso dei secoli un vero patrimonio culturale. Scegliere i percorsi dedicati alle cantine delle Colline Pisane non significa solo scoprire un vino o un prodotto. Ogni cantina racconta la storia di famiglie che hanno voluto con tenacia e determinazione dare seguito alle tradizioni e continuare la produzione del Chianti.

A testimoniare la stretta connessione tra tradizione vinicola e cultura troviamo inoltre il progetto “Terre ad arte”, iniziativa che ha creato un percorso d'arte contemporanea attivo e permanente che si sviluppa all'interno di dieci aziende vitivinicole del territorio comunale, alcune delle quali d'importanza internazionale, dove artisti professionisti di varia nazionalità e natura di linguaggio sono stati chiamati a progettare e realizzare in ciascun luogo specifico un'opera d'arte contemporanea a carattere permanente. Forse un pretesto per coniugare l'arte dell'intelletto e del fare, con l'arte del buon vivere, per costruire una mappatura sui luoghi dal sapore di buon vino e di cultura, a disegnare una geografia per un percorso che sarà costantemente visitabile.

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3. Pieve de’ Pitti

Pieve de’ Pitti, che deve il nome alla Pieve di San Giovanni di Pava (sorta sulle rovine di una antica chiesa etrusca) e alla famiglia fiorentina dei Pitti, proprietaria fino alla fine del XVII secolo di tutta la tenuta, è ciò che rimane a testimonianza del borgo che, nel 1500, dava vita alla campagna circostante: una grande "azienda agricola" nell'accezione di allora, con 500 ettari coltivati, poderi, case coloniche, un frantoio interno. Tutto legato e sviluppato attorno al Castello di Pava, costruito per sorvegliare la via commerciale che collegava il porto di Vada alla città di Pisa. Fu qui che Cosimo di Jacopo Pitti costruì la villa che ancora oggi è il cuore di questo complesso, e sotto al quale ancora, scavando ed avventurandosi per tunnel e cunicoli parzialmente franati o pericolanti, si trovano collegamenti tra gli antichi granai e le cantine.

Questo è ciò che si è salvato dai combattimenti della seconda guerra mondiale e dai bombardamenti americani che interessarono la zona.

Attualmente si accede al complesso, posto sulla sommità di una collina, da un lungo viale che si distende fra i vigneti e gli oliveti della tenuta. Giunti in cima, il primo edificio che ci accoglie è proprio quello delle cantine, che superiamo per raggiungere gli uffici, situati nella zona più orientale.

Tra questi due edifici, protetto da un fitto bosco di lecci, si trova un ampio parco al centro della quale troviamo l'antico castello in muratura mista e la villa sopra citate.

Al loro fianco, spostandoci nuovamente verso Est, si trova un secondo spazio verde con piscina posto sul retro delle antiche cantine.

Il valore estetico ed architettonico, la storia che la caratterizza, la natura ed il panorama tipico delle colline toscane, fanno si che tale complesso sia un fulcro fervente delle più disparate attività.

La posizione geografica permette a Pieve de’ Pitti di essere il punto di partenza per visitare le vicine città d’arte di Firenze, San Gimignano, Volterra, Lucca e Pisa, trascorrere una giornata al mare sulla costa labronica di Cecina, Vada e Bibbona, o per cercare un po’ di relax alle Terme di Casciana e San Giuliano, e per tale motivo le varie strutture della tenuta sono dedicate

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all’accoglienza di viaggiatori che qui giungono per soggiornarvi secondo la formula del B&B o in appartamento.

Ma le attività non si fermano alla ricezione turistica: sono anche attivi corsi di cucina toscana, tour gastronomici ed ovviamente degustazioni dei vini qua prodotti.

Oltre a questo, spesso queste aree sono sfruttate per la celebrazione di matrimoni e ricevimenti: la cappella di San Giovanni, a ridosso della quale è stata successivamente costruita la villa, permette la celebrazione del rito in un ambiente intimo e privato; la sala della Limonaia, all’interno del Castello ed affacciata sulle balze di Volterra, fornisce un panorama unico, ed il parco secolare permette di ospitare fino a 300 persone a bordo piscina per la cena o l’aperitivo.

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3.1. La produzione olearia

Si tratta di una produzione davvero limitata. Solo 700 piante che circondano la pieve, testimonianza dell'antico patrimonio di olivi toscani che facevano nel secolo scorso della Pieve de' Pitti il primo frantoio delle Terre di Pisa. Un enorme patrimonio distrutto dalle terribili gelate del 1963 e del 1985 e del quale, oggi, restano intatti solo 7 preziosi esemplari secolari. Ma la passione per l'olio toscano è tanta che, da 700 piante, si prova a produrre quanto di meglio le olive di leccino, frantoio, pendolino e soprattutto razza sanno regalare.

La produzione principale è di olio extravergine d'oliva biologico.

Prodotto dalla raccolta manuale di olive di varietà tipiche delle Colline di Pisa (frantoio, leccino, moraiolo, pendolino), generalmente effettuata tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre, l’olio Extravergine d’Oliva Biologico Pieve de’ Pitti, ha un colore verde maturo che si accende di riflessi dorati che col tempo diventano man mano più intensi. La limitata resa per pianta e la frangitura a bassa temperatura garantiscono un ottimo fruttato d’oliva al naso, gusto fragrante ma delicato.

Franto solo in piccole quantità e quando l'annata assicura grande qualità, il Monocultivar di Razza IGP, di colore verde brillante viene prodotto con olive colte nel pieno della maturazione ma di colore ancora verde, come vuole la tipologia della cultivar.

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3.2. La produzione vinicola

Ovviamente la produzione principale riguarda il settore vinicolo, e non potrebbe essere altrimenti: sedici ettari di vigneti di Sangiovese, in prevalenza, ma anche Canaiolo, Malvasia bianca e nera, Trebbiano e Vermentino e qualche piccola contaminazione internazionale di Merlot, Syrah e Petit Verdot, abbracciano la collina della Pieve e costituiscono il patrimonio della Pieve.

Le varie tipologie di vigne e l’esperienza e dedizione dei proprietari danno vita ogni stagione ad una produzione vasta e differenziata.

Sono il Cerretello e l’Appunto i due vini maggiormente presenti: 12000 bottiglie per tipo.

Il primo dei due sopra citati è il primo vino prodotto nella storia della cantina, quello con il quale ebbe inizio la storia della Cantina de’ Pitti: un chianti superiore DOCG. Prodotto secondo la ricetta classica del Chianti, ossia da sole uve Sangiovese, Canaiolo e Malvasia Nera, vinificato e affinato nella antiche vasche di cemento, della cantina storica della Pieve. Inizialmente prodotto dalle uve provenienti dai vigneti più vecchi, oggi trova nuova e più decisa espressione con l'apporto delle uve di Sangiovese dei primi vigneti piantati dalla famiglia.

Il secondo, l’Appunto, è l'unico blend della cantina, ottenuto cioè da una miscela. E' un vino quotidiano, adatto ad accompagnare sulla tavola tutti i piatti della tradizione casalinga.

Nasce da un assemblaggio delle uve più giovani di Sangiovese e Merlot, con prevalenza del sangiovese per rispettare il gusto toscano, ed è vinificato e affinato in acciaio, per garantire la freschezza del frutto.

Il Syrah, unica contaminazione internazionale in una produzione fortemente legata al territorio, è l’origine dello Scopaiolo, un rosso IGT da circa 6500 bottiglie.

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I vigneti sono piantati sui terreni sabbiosi, esposti a Nord‐Ovest e sulle colline limose ricche di scheletro.

Viene raccolta un'uva carica di colore e frutto, con una nota varietale sempre presente ma mai aggressiva, vinificata solo in acciaio per ottenere un vino giovane, di buon corpo e intensità olfattiva. Come per gli altri vini è stata scelta la vinificazione in purezza, per esaltare l'espressione locale del vitigno. E' un rosso estivo, adatto alla cucina di mare, con tannini setosi e un finale sapido.

La produzione dei rossi chiude con le 4500 bottiglie del Moro di Pava, un Sangiovese IGT. Fratello maggiore del Cerretello, con cui divide l'uva dei vigneti più vecchi, nasce da una selezione dei grappoli più maturi e concentrati. Raccolto a mano in cassette, vinificato con fermentazione spontanea in piccole vasche con follature quotidiane, affina in legno mai nuovo e in cantina per un periodo di tempo mai definito, in relazione ai capricci dell'annata.

Il primo posto nella produzione dei bianchi lo occupa invece l’Aprilante, un vermentino IGT: raccolto da una unica vigna, esposta a Nord‐Ovest per raccogliere l'ultimo raggio di sole, sui terreni sabbio‐argillosi di fondo valle, garantisce una produzione di circa 7500 bottiglie.

Una vigna sensibile alle brezze marine e alle brine mattutine, dove il vermentino cresce in grappoli grandi e chicchi succosi, che richiedono cura e attenzione con diradamenti e sfogliature strategiche. Dal 2013 è stato abbandonato l'uso di lieviti selezionati, e ci si affida ai soli lieviti indigeni. La vinificazione avviene sempre in acciaio, senza che il vino sia sottoposto a stress termici esasperati.

La decantazione e la precipitazione tartarica avvengono naturalmente, durante l'inverno, quando le vasche, traslocate fuori sotto le nevicate ormai

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L'Aprilante viene imbottigliato prima dell'inizio della primavera, per conservare tutta la sua sapida mineralità.

Altro bianco è invece il Tribiana, una piccola produzione di circa 2000 bottiglie (tutte numerate) di trebbiano 100% IGT derivante da una vendemmia tardiva.

Un'uva tanto comune quanto inusuale se vinificata in purezza, e in più raccolta alla fine delle vendemmie del sangiovese.

Il Tribiana nasce da un solo vigneto di Chianti, con buona percentuale di uve bianche e da una lunga lista di assaggi tra la Toscana e la Provenza. Nell' incertezza tra estirpare le vecchie vigne per piantare ancora sangiovese o provare a riscoprire la tradizione dei bianchi delle terre di Pisa, si è optato per la strada più difficile: produrre un bianco inusuale in una terra che cerca la sua vocazione tra Sangiovese e Merlot. Il risultato è un vino corposo, grasso nelle annate più calde, fruttato e talvolta balsamico, sempre avvolgente e con un finale fresco e minerale che raccoglie e racconta la storia di questi terreni.

La fermentazione sui lieviti in tonneaux di legno francesi di Bordeaux e di Borgogna regala al Tribiana una nota mielata tipica, fissata dall'affinamento in cemento e dal lungo periodo di sosta in bottiglia.

Questa produzione viene infatti imbottigliata prima della primavera, ma rimane in vetro nelle nostre cantine almeno fino a Natale.

L’opera è completata da una produzione di un Vinsanto del Chianti DOC, prodotto con i grappoli migliori di Trebbiano e san Colombano, selezionati in vendemmia e lasciati appassire sui graticci fino a dicembre. Il mosto pigiato e torchiato a mano viene chiuso in caratelli di castagno e ciliegio senza aggiunte di sorta, e lasciato invecchiare per cinque anni nella vinsantaia.

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Gli stessi caratelli vengono utilizzati per effettuare un invecchiamento di 18 mesi che regala una Grappa del Chianti Riserva caratterizzata da un bel colore ambrato, note agrumate e mielate, in un finale piacevolmente speziato.

A questa si affianca anche la Grappa del Chianti: prodotta dalla distillazione tradizionale in corrente di vapore e alambicco delle vinacce di prima spremitura di Sangiovese e Canaiolo, provenienti dai nostri vigneti di Chianti, ha un colore cristallino, con aromi gradevoli, puliti e intensi di violetta, lampone, e frutti rossi e un lieve accenno di fieno e sottobosco. Al gusto piacevole con dolcezza ben percettibile tuttavia equilibrata da un finale morbido ma asciutto.

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3.3. La cantina in dettaglio

Il fabbricato che ospita le cantine, oltre ad essere il fulcro principale dell’interesse progettuale e produttivo, è il primo edificio che si presenta all’arrivo alla Pieve. Vigne ed olivi che fiancheggiano la strada che conduce alla sommità del colle sempre più spesso rivelano viste di questo edificio che, data la sua posizione al margine est del parco della Pieve, spicca sul versante sottostante.

Percepibile ad un primo impatto come un semplice edificio monoblocco di pianta rettangolare ed una dimensione approssimativa di 37 metri di lunghezza e 10 di larghezza, ha un orientamento ovest‐est, e si affaccia sul piazzale dove convergono le operazioni di cantina a nord, sui vigneti ad est, sulla piscina del parco a sud, ed è a ridosso della villa ad ovest.

La pianta è relativamente complessa, in quanto il fabbricato si articola su tre piani tra loro distinti ed indipendenti: la forma di ogni piano si differenzia dagli altri, e non sono presenti scale a collegare i vari livelli.

Il piano terra è la zona maggiormente coinvolta nel processo produttivo vinicolo.

Dal piazzale si accede ad una prima stanza, al cui interno sono stoccate più file di barrique e tonneaux ad invecchiare. Da questa si accede al cuore della cantina: laddove anticamente si trovavano le cantine, adesso troviamo il cuore pulsante della cantina. Ai lati della stanza, lunga 20 metri, larga 6 metri e coperta con un solaio a longarine e voltine di mattoni a foglio, si trovano i tini in acciaio di varie dimensioni, che lasciano spazio alle storiche vasche in cemento. Queste fanno da ali, nella parte finale del locale, all’accesso al cunicolo scavato nel tufo che anticamente portava ai locali interrati del complesso, fino sotto al Castello di Pava. Attualmente il cunicolo è agibile solamente per una decina di metri, e parzialmente franato nel punto in cui curva verso il Castello.

Le caratteristiche di questo piano, caratterizzato da un profilo non coincidente, una superficie minore del piano immediatamente superiore, e con due delle quattro pareti contro terra, certamente si prestano ai processi

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produttivi del vino, garantendo una bassa temperatura ed un alto tasso di umidità accettabile, senza l’ausilio di impianti di condizionamento e controllo igrometrico. Salendo al primo piano l’edificio libera la porzione contro terra, giungendo a livello del piano di campagna del parco ove si trova la piscina. Al suo interno troviamo che la superficie è stata destinata a vari scopi differenti: mentre la parte rivolta ad est è stata utilizzata per ricavare un piccolo appartamento privato (cui si accede tramite un pianerottolo esterno collegato frontalmente al parco e ad una scala esterna che permette di raggiungere la zona inferiore) la maggioranza della superficie utile del piano risulta utilizzato allo stato attuale come magazzino per il deposito di parte delle attrezzature necessarie alla vinificazione ed altri materiali vari.

Fa eccezione lo spazio antistante l'ingresso (situato sullo stesso pianerottolo di accesso dell'appartamento), ove possiamo trovare una serie di caratelli dove sono posti ad invecchiare le grappe ed il vinsanto. Anche questo livello difatti, nonostante la completa esposizione delle pareti all'ambiente esterno, mantiene una temperatura abbastanza bassa in ragione delle sue spesse murature che offrono un'elevata capacità termica, capace sicuramente di contrastare le alte temperature estive grazie ad uno sfasamento dell'onda termica superiore alle 12 ore, ed ha un numero particolarmente basso di finestre (debitamente oscurate) che riducono la dispersione termica.

Parte della superficie rivolta a sud è occupata da un vano, direttamente accessibile da un accesso esterno, destinato in primo luogo all'ubicazione dei servizi igienici per gli utilizzatori della piscina e degli spazi esterni. In linea con questi ultimi si trova poi un ultimo vano destinato come locale tecnico. Esternamente poi al perimetro principale di questa pianta si segnala la presenza di un piccolo annesso attualmente utilizzato come locale di sgombero, accessibile principalmente tramite un ulteriore ingresso posto in corrispondenza del giardino sul retro della villa.

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Tornando all’interno del corpo principale ed alzando lo sguardo, possiamo notare il doppio volume entro cui si sviluppa il secondo piano. Un secondo piano non servito da alcuna scala e quindi difatti inaccessibile se non mediante l’utilizzo di qualche collegamento mobile, ed attualmente sostanzialmente inutilizzato.

La grande varietà data dalle molteplici forme ed utilizzi dei differenti livelli si ripercuote anche nei prospetti del fabbricato che, a seconda degli affacci, hanno caratteristiche estremamente differenti.

Il più caratterizzato di tutti sicuramente è il prospetto nord che, affacciandosi sul piazzale ove si accede alla cantina, è quasi interamente nascosto dalla presenza di 5 grandi tini in acciaio di altezza superiore ai 5 metri. Questi ultimi, data l’ampia e lucida superficie cilindrica, e la posizione dell’intero fabbricato all’esterno del vicino bosco di lecci, spiccano fortemente anche osservando la tenuta non solo all’atto dell’arrivo in loco, ma anche osservandola a distanza dalle campagne e colline circostanti, soprattutto nelle giornate di sole tipiche della primavera ed estate toscana.

La presenza di questi tini si configura quindi ad un primo impatto come il primo elemento di emergenza architettonica di carattere moderno presente in sito.

Il resto della facciata si articola su due livelli di profondità dettati dalla morfologia del doppio volume interno e conseguentemente dal disallineamento delle falde di copertura del tetto: il primo è l’ampio prospetto come già detto coperto dai tini esterni; il secondo è la chiusura in quota, sopra all’imposta del tetto più basso, del doppio volume.

Ruotando verso est, ci spostiamo sul prospetto corto prospiciente il fianco della collina, sul quale è presente uno un piccolo oliveto, ed oltre il quale si distende uno degli ampi vigneti che abitano tutta la collina, e la vista panoramica delle campagne dal profilo collinare che si può gustare ad occhio libero per una visuale libera di 180°.

Entrambi i prospetti sopra descritti presentano finestre rettangolari di carattere e forma più o meno comparabili tra loro, e riconducibili ad un

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archetipo ricorrente nell’architettura del luogo, ed un intonaco ingrigito da tempo, eventi atmosferici vari interventi edilizi effettuati a più riprese nei decenni.

Aspetto che si presenta differente invece nei due prospetti rimanenti. Mentre il prospetto ovest, che si affaccia immediatamente sul giardino posteriore della villa, assecondando il declivio del terreno fino quasi ad essere assorbito dalla fitta vegetazione, appare relativamente anonimo e senza particolari caratteristiche (solo una porta che permette di accedere al locale di sgombero, ed una piccola finestra sono le uniche aperture presenti), maggiormente curato si presenta il prospetto Sud. Questo, affacciato sulla piscina, fornisce una quinta architettonica alla porzione di parco racchiusa tra la villa, il castello, e la curva disegnata da un lungo filare di lecci, al di sotto delle cui folte chiome si possono intravedere le vallate che si stendono verso sud.

Una serie di piccole aperture, tra finestre quadrate e porte che permettono l’accesso ai servizi per la piscina ed al locale tecnico, servono il primo piano, mentre, ad eccezione di un’unica apertura finestrata in corrispondenza dell’angolo sinistro, non sono presenti aperture in corrispondenza del secondo piano, sostanzialmente cieco, e coperto con un tetto monofalda in coppi ed embrici.

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4. Obiettivi progettuali

Il fine che si cerca di perseguire in questa tesi è la ricerca di un sistema di interventi ed ampliamenti, che permetta la riqualificazione storica e funzionale del manufatto attraverso il recupero delle aree attualmente poco utilizzate, sfruttandole per inserirvi ed ampliare tutta quella che è la sfera di attività e servizi che attualmente vivono e coesistono tanto nella Pieve quanto all’interno dell’edificio stesso.

Attualmente l’intera produzione vinicola è concentrata per la quasi totalità, tanto per le caratteristiche termo igrometriche, quanto per l’assenza di strutture architettoniche o tecnologiche dedicate, nei vani del piano terra e nel piazzale antistante.

L’intero processo iniziale, dal conferimento alla pressatura, avviene all’esterno, al riparo di un’incastellatura realizzata in tubi innocenti che accoglie i macchinari più ingombranti necessari durante le lavorazioni.

Tutte le fasi successive che contemplano l’utilizzo dei tini in acciaio e delle vasche di cemento, quali decantazione, fermentazione, illimpidimento, affinamento e via dicendo, si concentrano invece nell’area principale del piano terra, lontano da luci e temperature eccessive, per spostarsi nella stanza di ingresso solamente per quanto concerne l’affinamento dei vini in botti di legno, qui stoccate.

Si torna invece nuovamente all’esterno per quanto riguarda la fase finale di imbottigliamento, che avviene anch’essa nel piazzale sfruttando un centro di imbottigliamento mobile, vale a dire un camion attrezzato con i macchinari necessari all’imbottigliamento, tappatura, etichettatura del vino.

Le bottiglie, una volta pronte, continuano il loro viaggio verso un altro magazzino dove, se previsto, termineranno il loro periodo di affinamento in vetro.

A fronte di questa continua e fervente attività lavorativa, concentrata soprattutto in determinati periodi dell’anno, fa da contrasto il minore utilizzo dei due piani soprastanti, utilizzati per lo stoccaggio dei caratelli, e per l’inserimento dei servizi destinati agli utilizzatori della piscina.

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L’idea iniziale è stata quindi quella di cercare un metodo tale da sfruttare l’edificio per ridistribuire tutti gli spazi alle varie destinazioni d’uso, tentando di studiare i meccanismi di cantina che portano una buona uva a diventare un ottimo vino, ed al contempo interconnettere tali spazi tra di loro. In questa maniera si cerca di realizzare un percorso accessibile ai visitatori che gli permetta di conoscere la realtà di una cantina, senza però intralciare i cantinieri nel corso del loro lavoro.

A questo si cerca di affiancare un ampliamento, nei limiti delle possibilità della superficie attualmente disponibile, per il collocamento delle attività attualmente non effettuate all’interno della cantina, cercando un linguaggio architettonico complessivo che sia rispettoso nei confronti degli altri edifici esistenti e dell'ambiente circostante.

A questa ricerca architettonica si affianca anche una ricerca di tipo tecnico mirata a definire la tipologia di impianto necessaria per il funzionamento dei principali processi produttivi vinicoli, e gli interventi (architettonici ed impiantistici) necessari per il mantenimento delle particolari condizioni termo‐igrometriche degli ambienti di una cantina. Tutto questo ovviamente nell'ottica di ridurre il più possibile l'impatto ambientale (tanto architettonico quanto energetico).

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5. L’ipogeo in architettura

Uno dei primi a formalizzare i principi di architettura ipogea fu l’americano Malcom Wells negli anni ’60, nel suo Nowhere to go but down, dove egli interpretava la necessità di costruire nel sottosuolo in chiave ecologica, lamentando il dominio dell’uomo sulla natura e la continua espansione delle costruzioni a discapito del verde. Il compito dell’architetto, osservava, non è sovrastare la natura. E lo sfruttamento del sottosuolo, dove è possibile, permette di ridurre l’impatto sul mondo naturale, riportando l’uomo e la natura allo stesso livello.

Ricompare nelle parole di Wells il primordiale significato simbolico di spazio protetto e la sua architettura, prendendo spunto dalla libertà compositiva offerta dalla massa plasmabile di terra, sviluppa a fondo i temi della cultura organica.

Inoltre l'architetto non dimentica le particolari doti dell'ipogeo per creare uno spazio termicamente protetto ed economico da gestire.

Il suo pensiero perfettamente viene trasmesso dalle poche righe sotto riportate:

Nel 1959, al Taliesin West (vicino Phoenix, Arizona), mi sono allontanato dalla calda luce del sole del deserto entrando in questo piccolo teatro, sono rimasto sorpreso per qualche momento dal genio di Mr. Wright , dalla sua abilità di condurre un progetto fino al più piccolo dettaglio, prima di rendermi conto di quanto fresco e confortevole fosse questo spazio inserito sotto questo manto di terra.

Mi sono serviti solamente cinque anni per capire questo messaggio. Nel 1964, di colpo ho avuto un’idea brillante ed originale: gli edifici dovrebbero essere realizzati sottoterra!”

Wells afferma che la consapevolezza ambientale sviluppata nel 1960 lo condusse alle soluzioni ipogee. Decise così che l’obbiettivo di un’architettura veramente adatta sarebbe dovuta essere l’ “invisibilità”, accompagnando tale indicazione con questo semplice teorema:

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Le regole della vita non cambieranno mai: Le persone non possono ottenere energia direttamente dal sole Le piante possono Le piante non possono vivere sottoterra Noi possiamo Le conclusioni sono semplici da trarre. Estremamente utile è effettuare un approfondimento su questa determinata tipologia di architettura, tanto da esser stata indicata come ricerca progetto di ricerca di interesse nazionale nel 2007 con il programma “progettare il sottosuolo”. Qui si studia l’utilizzo ed il percorso che porta alla scelta e realizzazione di un edificio di tali caratteristiche, sia esso per finalità energetiche, architettoniche o di integrazione ambientale. E’ la consapevolezza delle variabili progettuali che consente difatti di definire differenti temi‐obbiettivo specifici dell’architettura ipogea, anche rispetto al mutato quadro esigenziale imposto dalla società contemporanea, come di seguito elencato.

“Salvaguardare la città storica e densificare la città” attiene alle rinnovate esigenze della città consolidata. Rispondono a tale obiettivo tutti i progetti, realizzati o meno, che si inseriscono all’interno di un tessuto urbano consolidato e che, collocandosi sotto al livello del suolo, siano essi sotterranei o interrati, hanno lo scopo di preservare l’intorno circostante che comprende edifici storici con riconosciute valenze estetiche o monumentali, di cui spesso costituiscono l’ampliamento.

“Salvaguardare il paesaggio”, sulla scorta della Convenzione Europea del Paesaggio (2000), attiene invece all’obiettivo di mantenere gli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificati dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale o dal tipo di intervento umano.

“Garantire la sostenibilità ambientale e salvaguardare i caratteri ambientali” appare invece una esigenza imprescindibile rispetto ai temi più pressanti del dibattito contemporaneo e quindi di fatto trasversale a diversi progetti.

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D’altra parte il costruire ipogeo permette di sfruttare al meglio le variabili ambientali legate all’inerzia termica e alla temperatura costante del sottosuolo, garantendo così consumi energetici ridotti, ma consente anche di ridurre al minimo l’utilizzo di materiali da costruzione, onerosi da produrre e trasportare, soprattutto in luoghi di difficile accessibilità. Di contro occorre però considerare come le costruzioni ipogee, soprattutto se estese, comportino un impatto

su altre componenti ambientali, quali quella idrica e quella geologica, che necessitano quindi di una attenta valutazione preventiva.

Dallo studio e dalla successive analisi comparativa tra i casi studio analizzati è emerso ad esempio che non appare significativa una classificazione tipologica delle costruzioni ipogee, ma piuttosto risultano caratterizzanti l’elemento distributivo e le soluzioni progettuali legate all’apporto di luce naturale. Le soluzioni distributive sono state organizzate in tre categorie differenti:

‐ Articolazione lineare, in cui gli spazi che necessitano di un’illuminazione naturale si trovano in prossimità della superfici finestrate e man mano che ci si allontana dalla fonte di luce trovano posto in sequenza i locali di servizio e i depositi. Generalmente questa soluzione consente il mono‐affaccio, come nel caso del centro residenziale Olivetti progettato da Gabetti e Isola ad Ivrea, ovvero presenta un ambiente centrale di carattere lineare, all’interno del quale si svolgono i collegamenti distributivi orizzontali e verticali, sul quale affacciano sui due lati le diverse funzioni.

Inoltre rientra nella casistica di distribuzione lineare anche il caso in cui l’edificio ipogeo si sviluppa con la configurazione di un tunnel che si articola sotto il suolo, costituito da un unico percorso o da più ramificazioni. In questo caso gli ambienti non ricevono né luce né ventilazione naturale dall’esterno. Un esempio di questo tipo di configurazione è costituito dall’Hotel La Claustra sul San Gottardo, ex bunker risalente al secondo conflitto mondiale, oggi adibito a funzione ricettiva.

‐ Articolazione a patio, in cui i locali sono organizzati attorno a uno o più patii a cielo aperto che consentono alla luce naturale di raggiungere i livelli sotto il

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suolo. Questa soluzione consente di avere superfici vetrate su tutti i quattro lati in affaccio sul patio. In alcuni casi si riscontra la presenza di una griglia ordinatrice che individua ambiti separati all’interno dei quali si organizzano corti o patii indipendenti. E’ questo il caso del Museo a Madinat al Zahra, Cordova, progettato da Nieto e Sobeyano, che si articola in una sequenza di spazi coperti e patii che diventano gli elementi principali della distribuzione. ‐ Articolazione a concatenazione, caratterizzata da una successione di spazi indipendenti che si sviluppano lungo un percorso distributivo. Questa tipologia consente una certa libertà sia dal punto di vista della dimensione dei diversi spazi sia dal punto di vista dall’articolazione distributiva in pianta e/o in sezione (Tadao Ando, Chicu Art Museum). Una variazione della medesima configurazione si ha nei casi in cui vi è una successione di

ambienti ma in più direzioni o su più livelli contemporaneamente creando così una configurazione “a rete”. Un esempio di questo tipo di configurazione è costituito dal Progetto di Hans Hollein per il Guggheneim Museum di Salisburgo. La ricerca ha inoltre declinato alcune potenzialità progettuali risultate poi utili alla redazione delle linee guida progettuali.

Coerentemente con le considerazioni sui caratteri distributivi corrisponde quasi sempre, nella storia ma anche nella contemporaneità, una tecnica costruttiva specifica e differente dalle altre. Tecnica costruttiva e spazio architettonico sono direttamente correlati. Trasversale ai diversi modi distributivi emerge invece un aspetto che incide notevolmente anche sull’aspetto architettonico e che è costituito dal carattere a‐tettonico dell’architettura ipogea, che scaturisce dall’operazione di scavo e non da quella tradizionale legata alla costruzione ex novo di un edificio, ascrivibile ad un modo progettuale tettonico. E’ un’architettura dentro la terra, che si manifesta in superficie solo occasionalmente: in corrispondenza degli accessi, ad esempio, oppure in presenza degli elementi tecnici per la captazione della luce naturale. Questa circostanza tende ad invertire il consueto rapporto con il suolo e quello con la quota di partenza: si procede dall’alto verso il basso, e non viceversa; ci si allontana dall’intensità della luce.

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Possiamo analizzare questo ambito architettonico, tanto in termini progettuali quanto teorici, valutando una serie di indicazioni compositive e progettuali organizzate in due parti distinte ma complementari: la prima riferita ai centri urbani densi ovvero alla densificazione della città esistente, mentre la seconda è stata riferita a contesti dispersi nei quali prevalgono i caratteri della salvaguardia paesaggistica.

Nel primo caso il progetto ipogeo si configura in questo caso secondo condizioni particolari e fortemente relazionate al contesto già esistente dal quale può solo parzialmente rendersi indipendente, per vincoli esigenziali piuttosto che per caratteristiche morfologiche. Si possono desumere almeno tre possibili modalità compositive, riferibili alla scala delle relazioni plano volumetriche del progetto con l’esistente:

‐ Composizione per “saturazione”, nel quale l’architettura ipogea può non avere una specificità distributiva, nel senso che la distribuzione viene in qualche modo desunta dalle caratteristiche preesistenti (ad esempio Stubbins, Pusey Library, Cambridge Massachusetts); oppure il carattere distributivo viene mutuato da quello dell’edificio già esistente, riproponendo ampie corti o piazze urbane (ad es. Pei, ampliamento del Louvre). Il modo della “saturazione” rappresenta così una estensione riconoscibile del contesto esistente, eppure non immediatamente separabile, si attua una fusione compositiva del vecchio e del nuovo verso nuove configurazioni integrate.

‐ Composizione per “estensione”. Il modo progettuale e compositivo della “estensione” si caratterizza per caratteri distributivi spesso mutuati dall’edificio esistente, dal quale eredita accessi e collegamenti. In questo tipo di progetto è da ritenersi comunque significativa l’integrazione con il contesto costruito esistente, sia in termini planivolumetrici che funzionali. Si possono riconoscere ulteriori sotto articolazioni (anche per caratteri distributivi e spaziali): integrazione con l’esistente, quando genera volumi fortemente intersecati e interdipendenti (Grazioli , Rietberg Museum a Zurigo); addizione per accostamento, che genera figure complementari (sia in sezione che in planimetria) (ad es. Renzo Piano, Ircam a Parigi; Gunnar

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Birkerts, Law Faculty Library, Ann Arbour Michigan); nuovo basamento urbano che integra gli edifici esistenti in superficie (ad es. progetti per la riqualificazione de Les Halles di Parigi).

‐ Composizione per “configurazione autonoma”. È infine possibile, anche per gli edifici ipogei, lavorare in maniera autonoma rispetto al contesto consolidato, qualora il contesto circostante non sia immediatamente riconducibile o connesso con il progetto.

Nel secondo caso, cioè per le modalità compositive per la salvaguardia paesaggistica ed ambientale, è evidente come la soluzione ipogea risulti adeguata sia in contesti paesaggistici privi di una specifica valenza estetica ma nei quali occorre preservare il consumo di suolo (luoghi della logistica) sia in contesti di particolare pregio paesaggistico (contesti con valore paesistico o ambientale).

In questo tipo di contesti gli assetti progettuali sono meno vincolati all’intorno edificato: l’assetto distributivo rappresenta una delle opzioni iniziali più caratterizzanti la costruzione dell’ipogeo, confrontandosi con le condizioni geo morfologiche del luogo. Anche le scelte tecnico‐costruttive, oltre che quelle progettuali, attengono alle particolari condizioni del luogo (rilievi montuosi), a climi particolarmente rigidi, a particolari condizioni idro geologiche, a difficoltà realizzative o di reperimento di materiali da costruzione. In linea del tutto generale vi sono alcune corrispondenze tra caratteristiche paesaggistiche e morfologiche ed impostazioni plano‐ altimetriche, così sintetizzabili: in contesti pianeggianti ed estesi, con quadri funzionali ricettivo, terziario‐servizi o espositivo‐culturale, prevalgono le soluzioni distributive a patio; alternativamente in presenza di specifici quadri esigenziali (teatri, auditorium, edifici collettivi con una funzione principale), prevalgono le soluzioni distributive ad ambiente centrale, il quale si sostituisce al patio e diviene uno spazio centrale coperto all’interno del quale o intorno al quale sono concentrate le funzioni più pregiate o caratterizzanti l’insediamento; in contesti collinari e montuosi infine prevalgono soluzioni con caratteri distributivi lineari (con monoaffaccio o a tunnel) oppure soluzioni distributive basate sulla concatenazione di ambienti disposti in

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sequenza o secondo procedimenti paratattici (Tadao Ando, Chicu Art Museum in Giappone). La ricerca ha evidenziato altri caratteri architettonici alla base dell’architettura ipogea: obiettivo primario di tutti i progetti è quello di massimizzare la diffusione della luce naturale, prevedendo specifici accorgimenti compositivi e tecnici. L’apporto di luce naturale è direttamente correlato all’impianto distributivo, ma anche alla profondità cioè alla distanza dalla superficie più prossima alla luce naturale. È emersa inoltre una caratteristica fondamentale per la progettazione dell’architettura ipogea, nella correlazione tra aspetti planimetrici e sezione. “Plan equal section” per citare Hans Hollein: lo sviluppo della planimetria va di pari passo con quello della sezione.

Appare inoltre evidente come un edificio ipogeo inoltre non ha prospetti esterni ma solo quelli interni: progettare un ambiente ipogeo corrisponde quindi a immaginare e definire

uno spazio circoscritto e comunque delimitato. Una ulteriore conseguenza di questa considerazione è, ad esempio, il particolare rilievo della “geometria” dello spazio interno, intesa come individuazione di quelle misure e proporzioni che rendono adeguato lo spazio ipogeo. La geometria dello spazio ipogeo è ad esempio correlata alla provenienza della luce: vi sono opportuni accorgimenti per valorizzare la luce naturale, variando la geometria e la forma dello spazio architettonico, così come altre considerazioni legate alla profondità intervengono quando la fonte della luce è laterale.

Una delle caratteristiche ricorrenti nei progetti ipogei è quella di utilizzare una altezza interna non inferiore ai quattro metri per non generare spazi eccessivamente appiattiti o compressi, oppure di differenziare le altezze degli spazi interni in base al rango (gli ambienti principali hanno una altezza interna maggiore).

Un’altra caratteristica di notevole importanza della “geometria dello spazio ipogeo” è di essere legata alla sua percezione “unitaria”, intendendo con tale accezione il disegno di una spazialità che, anche se articolata, rimane percepibile nella sua unitarietà. In questa configurazione le singole “stanze” o

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“ambienti” costituiscono uno spazio unitario che può essere percepito senza ulteriori suddivisioni interne.

Alla luce di queste considerazioni, espresse in forma sintetica, sono stati così desunti specifici metodi progettuali e tecniche compositive: ad esempio l’utilizzo di spazi a doppia

altezza o a dimensione fortemente verticale per portare la luce in profondità (camini di luce, uso iterativo del patio) talvolta anche con funzione distributiva e impiantistica; l’utilizzo di sistemi di partizione orizzontale e verticale di tipo “parziale” cioè in modo da non occludere la continuità percettiva dello spazio.

In conclusione emerge con chiarezza come l’architettura ipogea necessita di una riflessione disciplinare basata sulla reinterpretazione delle tecniche di composizione architettonica e spaziale: il contributo dell’autore ha inteso evidenziare la metodologia e l’approccio con il quale è stata condotta la ricerca, per arrivare ad esporre sinteticamente gli obiettivi raggiunti, esprimibili in termini teorici ma anche progettuali. L’esito finale della ricerca, attraverso la redazione di linee guida progettuali per la progettazione del sottosuolo, può inoltre individuare significativi riscontri applicativi sia nella definizione di modelli progettuali generali sia rispetto a casi studio specifici individuati sul territorio.

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6. Le cantine ipogee

La profondità della terra è stata nei secoli eletta ad ambiente ideale per la conservazione del vino, grazie alle capacità di coibentazione, che permettono di mantenere una temperatura bassa e costante per tutto l'arco dell'anno, ed un'umidità ideale per la conservazione dei vasi vinari, in modo particolare per quelli in legno.

Non stupisce quindi che in una nuova concezione architettonica delle cantine, nella quale si tende a recuperare il valide del paesaggio e della tradizione, la costruzione di più piani interrati ed integrati ai paesaggi collinari dei vigneti sia stata preferita ai capannoni industriali ed all’edilizia fuori terra degli anni ottanta e novanta. Quella dell’architettura ipogea è in realtà una nuova corrente che interessa molte soluzioni edilizie, urbane o produttive, nelle quali a soluzioni estetiche più appariscenti e celebrative si vanno sostituendo nuove valenze come la funzionalità e la sostenibilità. Le cantine, nei cui processi produttivi la possibilità di movimentazione del prodotto per caduta rappresenta una soluzione tecnologica e funzionale a totale vantaggio della qualità dei prodotti, si prestano particolarmente bene a questa nuova tendenza.

La sostenibilità di queste strutture, che si fondono con il paesaggio circostante, emergendo solo con alcuni elementi architettonici e nascondendo all’occhio dell’osservatore la maggior parte delle loro cubature, fa parte dei valori e dei criteri con i quali vengono progettate e costruite. Quello che in realtà differenzia queste struttura dalle cantine sotterranee del passato sono le dimensioni e le soluzioni costruttive. I volumi di queste nuove cantine ipogee sono talvolta enormi e le tecniche necessarie per inserire elementi costruttivi di quelle dimensioni nelle profondità del suolo e del sottosuolo non sono banali.

Un dubbio potrebbe quindi essere lecito: veramente queste cantine, per costruire le quali intere colline vengono sbancate per essere sostituite da volumi di cemento non indifferenti e quantità enormi di materiali messi in circolazione sulle strade, sono sostenibili per l’ambiente?

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Indagando e chiedendo a chi ha affrontato la costruzione di cantine ipogee, ci si rende conto che in realtà nella fase di costruzione l’impatto sull’ambiente è un punto di criticità.

“Per avere il “basso impatto paesaggistico” che cercavamo abbiamo sbancato una collina, togliendo 54000 metri cubi di roccia, lavorando tre anni con scavatori e martelli pneumatici che, almeno nella fase di costruzione, hanno sicuramente sconvolto il micro‐terroir della zona. Del resto qualunque attività umana ha un impatto sull’ambiente, e le relazioni di impatto ambientale e quelle geologiche dimostrano comunque la minima interferenza con il territorio circostante: falde, erosioni, pericolo di smottamenti…”1.

Al termine dei lavori tuttavia, se le operazioni sono state condotte con cura, le costruzioni sotterranee presentano il vantaggio di non sottrarre terreno al suolo coltivato e di ridurre (a parità di volume) il consumo di suolo a scopo edilizio. Si può riportare a questo scopo la testimonianza di Armin Kobler, al termine della realizzazione dell’ampliamento della propria cantina a magré (BZ). “Con lo scavo per la nuova cantina, che scende in profondità fino a 5,5 metri, abbiamo potuto vedere il profilo del nostro vigneto Kotzner: 80 cm appena di suolo Rendzina con un alto contenuto di humus su un substrato di detriti dolomitici sui quali poggia il paese di Magré. Se si considera il processo lentissimo di pedogenesi che genera uno strato così sottile, allora si capisce facilmente ciò che a me è stato insegnato nella pia lezione di pedologia: il terreno non è moltiplicabile (nel senso che al massimo lo possiamo conservare) almeno in periodi di tempo umani. Questo terreno che nutre l’umanità, questo sistema ecologico dove si intersecano l’atmosfera, la litosfera, l’idrosfera e la biosfera non viene protetto nel modo che si meriterebbe.

Recentemente mi è stato chiesto se le cantine sotterranee siano più ecologiche. Secondo me si, se a lavori terminati si rimette il terreno fertile originale e lo si lascia alla vegetazione. Certo, è sempre un intervento

      

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dell’uomo, però l’impatto a mio parere non è minimamente confrontabile con la perdita irreversibile di terreno dovuto alla cementificazione superficiale”. Nel 1991 l’International Conference on Urban Underground Utilization a Tokio dichiarava tra le altre cose: “per la sua natura, una volta sviluppato ed utilizzato, lo spazio sotterraneo non si presta a facili trasformazioni. E’ importante quindi progettare tali spazio sulla base di programmi a lungo termine. E’ importante anche avere a disposizione tutte le informazioni sulle condizioni del terreno ed un approfondito piano sugli insediamenti pubblici e privati”.

La cosa fondamentale quindi, quando si affrontano progetti di questo tipo, è lo studio dll’ambiente e della geopedologia del sito, sia allo scopo di identificare i siti idonei, sia per approntare le scelte costruttive maggiormente adatte.

Esempi interessanti sono quelli che descrive Franco Iacono, relativamente alle due cantine ipogee dell’Arcipelago Muratori: quelle di Villa Crispia in Franciacorta (BS) e quella di Rubbia al Colle a Suvereto (Toscana). “Solo nel caso in cui lo studio geopedologico dimostrasse che non ci sono problemi particolari, il sito dovrebbe essere ritenuto giusto, mentre più spesso accade di usare lo stesso studio per trovare le soluzioni più adatte a risolvere un problema. Nel caso di villa Crespia il sito è alla base di un bacino di sgrondo di acque sotterrane, in quello di Rubbia al Colle invece in parte è sulla roccia”. Sia che la costruzione si trovi in collina e che pertanto vi siano acque che provengono da monte della struttura, sia che vi siano falde più o meno superficiali, la presenza dell’acqua pone problematiche tanto costruttive quanto ambientali, che devono essere affrontate con soluzioni specifiche, come avvenuto a Fonterutoli. Nello scavo per la barriccaia sono state intercettate tre vede d’acqua che sono state convogliate e successivamente utilizzate per la regolazione dell’umidità dell’ambiente interno al locale. La soluzione trovata dai progettisti della cantina di Mazzeri permette difatti da un lato di raccogliere le acque, e dall’altro di utilizzarle per il condizionamento dei locali, che scendono sedici metri sotto terra. Le vene idriche intercettate nello scavo sono state unificate, e l’acqua che scende a

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cascata sulla roccia su una superficie di circa 80 metri quadrati che si affaccia sui locali attraverso finestre tagliate nella parete.

Nel caso in cui l’umidità (che deve essere mantenuta costante tra il 75% ed il 90%) sia eccessiva, l’acqua viene invece intubata e portata direttamente all’esterno, dove viene utilizzata nell’irrigazione del verde ornamentale e dei vigneti, per poi tornare al torrente che attraversa la tenuta.

Anche il riutilizzo dei materiali ottenuti dallo scavo negli stessi elementi costruttivi, che limitano la quantità di materiali trasportati su ruota e rispettano il contesto ambientale geologico anche nella nuova realtà, può rappresentare una soluzione sostenibile otre che estetica.

Una costruzione ipogea è fondamentalmente un’opera edilizia in negativo, nel senso che gli spazi sono creati dall’asportazione del materiale e non dall’innalzamento di elementi ex novo. LA costruzione non è soggetta ad un’unica forza di carico, che nelle costruzioni tradizionali è la forza di gravità, ma risulta sollecitata da direzioni diverse in quanto immersa in una massa più o meno incoerente e fluida, ed influenzata dalla presenza di acque. La stabilizzazione dello scavo prima, e degli elementi strutturali poi viene realizzata con calcestruzzo gettato in opera o prefabbricato.

Solitamente tutte le pareti esterne delle cantine sono dapprima impermeabilizzate con guaine bituminose, sopra le quali poi poggiano altre guaine alveolate (al fine di evitare possibili lacerazioni dello strato impermeabilizzante), e poi ancora uno strato di mattoni forati che fungono da dreni. In questo modo l’ambiente non entra in contatto diretto ne con la terra ne con l’acqua. Questa sgronda naturalmente verso il fondo della cantina e viene incanalata in pozzi drenanti per poi essere immessa in falda. I muri di una costruzione sotterranea, per i quali il materiale più adatto è il calcestruzzo, devono quindi isolare l’ambiente, fungendo da diga, oltre che da elementi portanti. La funzione dell’isolamento tra l’altro è importante anche per impedire ad eventuali inquinanti di raggiungere la falda (si pensi per esempio alle acqua di lavaggio della cantina) ed ad altre sostanze nocive presenti nella roccia, come il radon, di contaminare gli ambienti interni.

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Il terreno ed il sottosuolo rappresentano un serbatoio ideale di energia. Grazia alla bassa conduzione ed all’elevata capacità termica, la massa di terreno è in grado di garantire una temperatura pressoché costante che, con una buona approssimazione, oltre i 3‐4 metri di profondità di aggira intorno alla media annua delle temperature dell’aria. Questo significa che, nelle condizioni climatiche della nostra penisola, la temperatura presente in una cantina sotterranea va da 10 ai 16°C, ideali per la conservazione e l’evoluzione dei vini.

In una cantina ipogea le condizioni ambientali non richiedono quindi l’installazione degli impianti di condizionamento, e di fatto ne annullano i costi energetici e di gestione, risultando così sostenibili ed a minor impatto di quelle costruite fuori terra.

E’ stato calcolato che il solo condizionamento di una barriccaia fuori terra di dimensioni simili a quella realizzata a Fonterutoli rappresenti fino al 75% del consumo energetico annuale di una cantina, con picchi diversamente distribuiti nel corso dell’anno.

In conclusione si può rispondere all’interrogativo sulla sostenibilità delle cantine ipogee ricordando innanzitutto che l’impatto sul paesaggio è parte integrante della sostenibilità di un’attività, ma anche che la discussione se il primo sia da considerare più o meno importante a fronte di altre varie valenze, come la qualità dell’aria o il ricorso alle energie alternative, è tutt’altro che risolta (si pensi al dibattito sull’opportunità di impiantare pale eoliche o impianti fotovoltaici in luoghi di particolare pregio paesaggistico o artistico).

Non sono in discussione invece in un’ottica di sostenibilità i principi fondamentali come la necessità di diminuire il consumo di suolo riducendo la cementificazione, e di ridurre le emissioni ed i consumi energetici da fonti non rinnovabili. Evidentemente, per quanto abbiamo visto, le cantine ipogee dal punto di vista paesaggistico e di consumo energetico sono strutture con un impatto complessivamente minore rispetto ad edifici tradizionali equivalenti.

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Ovviamente qualunque intervento, soprattutto se irreversibile nel modificare condizioni creatisi in natura in tempi molto lunghi, deve essere studiato nei minimi dettagli, affrontando tutte le possibili criticità relative alla fase di progettazione, cantierizzazione e di vita, ma anche quelle future che potrebbero sopravvenire nel momento in cui le cantine sotterranee non venissero più utilizzate.

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7. Cantine d’autore

Tenuta Castelbuono, Montefalco, di Arnaldo Pomodoro

Una scultura che diventa struttura. Il carapace di una tartaruga come volta di copertura per la Tenuta Castelbuono di Bevagna (Pg), la nuova cantina della famiglia Lunelli di Trento dei noti spumanti Ferrari, che ha deciso di stabilirsi in zona per la vinificazione dell’autoctono Sagrantino. Il progetto, a firma dello scultore Arnaldo Pomodoro chiamato a dar vita all’edificio, ricorda appunto nella forma una tartaruga.

«Si è fermata qui – racconta il maestro – come portafortuna di longevità, unione di cielo e terra ». Un guscio in legno, ricoperto di rame, che sposa il paesaggio collinare del confine umbro‐toscano con dolce armonia.

«Nel 2003 sono stato invitato dai fratelli Lunelli e ho raccolto la sfida: “Nella tua scultura pensi sempre all’architettura” mi dicevano, ed è vero», racconta Pomodoro, non nuovo a imprese del genere, ma che qui per la prima volta sperimenta un progetto così completo e complesso. «A Marsala 15 anni fa realizzai una sorta di labirinto

di 90 metri per circoscrivere un salone‐convivio per feste e sposalizi. E lo scorso anno ad Anacapri diedi vita a “Le rive dei mari”, un intervento murale da 43 metri per la via d’ingresso al Capri Palace Hotel. Ma questa è la prima volta che entro in una mia scultura e trovo il risultato di grande forza espressiva».

Lo scultore ha così immaginato una cupola da 30 metri di diametro, con un arco centrale e due serie laterali di 6 mezzi archi. Una struttura reticolare, a opera dalla Holz Albertani di Brescia, costruita in legno lamellare per essere versatile alle modifiche in corso d’opera e affidabile dal punto di vista sismico e nel sopportare le dilatazioni differenziali dovute alla sovrapposizione dei vari materiali. Una corazza di tartaruga in uscita dal terreno e localizzabile da una freccia rossa di 18 metri infissa nelle vicinanze, freccia in calcestruzzo armato con una parte superiore di traliccio in acciaio, rivestita con pannelli fiberglass colorati.

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