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1 Il cosmo ingannevole di Luce e Notte La metamorfosi della cosmogonia IV

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IV

La metamorfosi della cosmogonia

1 Il cosmo ingannevole di Luce e Notte

1.1 Il discorso kata; kovsmon della dea

Una volta raggiunto il cuore di verità attraverso l’assimilazione di to; ejovn alla massa di una ben rotonda sfera, la dea dichiara esplicitamente di passare al secondo momento di cui – secondo quanto annunciato nelle parole conclusive del proemio – si compone la sua lezione al kouros.

ejn tw§/ soi pauvw pisto;n lovgon hjde; novhma ajmfi;~ ajlhqeivh~, dovxa~ d jajpo; tou§de broteiva~ mavnqane kovsmon ejmw§n ejpevwn ajpathlo;n ajkouvwn.

“In ciò per te termino il discorso e il pensiero certo

intorno a verità, da questo momento in poi apprendi le opinioni mortali, ascoltando il costrutto ingannevole delle mie parole” (B 8.50-52).

Da quel che si legge in questo passo sembra probabile che Parmenide abbia voluto presentare il discorso sulle opinioni dei mortali che la dea si appresta a svolgere come il prodotto di una composizione poetica che, attraverso la sua struttura ordinata, risultasse pienamente corrispondente alle aspettative del pubblico.

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L’espressione kovsmon ejpevwn, infatti, era stata impiegata alcuni decenni prima da Solone per evidenziare un fatto anomalo: la presentazione in forma poetica di un discorso di natura politica come quello con cui aveva esortato gli Ateniesi a riprendere la campagna militare per la conquista di Salamina1.

Definendo il discorso sulle opinioni dei mortali “un costrutto ordinato di parole”, l’eleate può peraltro aver voluto presentare questa sezione del poema come una composizione poetica dotata delle caratteristiche che, soprattutto all’interno della tradizione epica, solevano contraddistinguere il canto kata; kovsmon. Nell’VIII canto dell’Odissea, infatti, il figlio di Laerte esprime tutta la sua ammirazione nei confronti di Demodoco perché – istruito dalla Musa o da Apollo – è in grado di cantare il destino degli Achei in maniera straordinariamente corrispondente (livhn ga;r kata; kovsmon v. 489) al modo in cui si sono svolti gli eventi sulla piana di Troia, come se egli stesso fosse stato presente o avesse ascoltato il racconto di qualche testimone diretto. Come appare chiaro da questo passo odissiaco, un canto kata; kovsmon è massimamente apprezzato dal pubblico proprio perché presenta racconti e temi generalmente noti in una forma e in un ordine assolutamente fedeli alle aspettative tradizionali2.

Secondo gli stessi principi, nell’Inno Omerico a Hermes, si racconta di come il figlio di Maia narri – per la prima volta con l’accompagnamento della lira – ogni cosa kata; kovsmon, nel momento in cui, dopo avere celebrato Mnemosyne cui egli stesso appartiene come poeta, stabilisce l’origine e la costituzione definitiva del cosmo divino rispettando fedelmente l’ordine genealogico in cui le divinità vengono alla luce (H. Merc. 425-433)3.

1 L’occasione dell’elegia soloniana (fr. 1 W2) si iscrive all’interno del conflitto che, a partire dalla fine

del VII secolo, aveva visto contrapporsi la città di Atene e quella di Megara per la conquista dell’isola – dal forte valore strategico – di Salamina. È dubbio se l’esecuzione del carme sia avvenuta in pubblica piazza o in un contesto simposiale più consono all’esecuzione di poesia elegiaca. Sembra ad ogni modo probabile che l’espressione kovsmon ejpevwn †wj/dh;n ajnt jajgorh§~ qevmeno~ (v. 2) indichi la particolare scelta di comporre un discorso poetico invece di uno pubblico in prosa. In generale, l'espressione kovsmon ejpevwn assume la funzione tipica di definire una composizione poetica. Cfr. Democr. 68 B 21 , Orph. F 25, Philit. Fr. 10, 3. Sul valore di questa espressione nel passo parmenideo con esplicito rimando a questi luoghi paralleli cfr. Cerri (1999) pp. 243-44, Ferrari (2010) p. 60 n. 31. Si aggiunga il confronto con l’espressione glukerh;n kosmh§sai ajoidhvn per indicare la composizione del canto alla fine dell’Inno Omerico a Dioniso (H. Bacch. VII 59).

2 Cfr. Od. VIII 487-91 e Di Donato (1986) pp. 68-9 della rist. (Pisa 2006).

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Sembra probabile, quindi, che Parmenide, attraverso l’espressione kovsmon ejmw§n ejpevwn, voglia presentare il suo discorso sulle opinioni dei mortali come una composizione poetica che, rispecchiando in maniera fedele la visione tradizionale che gli uomini hanno della realtà, soddisfi in pieno le aspettative del pubblico, esercitando su di esso un grande fascino. Al contrario della Persuasione (Peiqwv) che tiene dietro a Verità lungo la prima via4, peraltro, la natura suadente della seconda sezione del

poema ha un effetto ingannevole (ajpathlovn), proprio perché, intendendo offrire un’immagine del reale che incarni al massimo grado i criteri di ordine e verosimiglianza condivisi dai mortali, compiace il pubblico invece di condurlo – come la prima parte del poema – alla verità dopo averne messo in discussione tutte le precedenti certezze5.

1.2 Luce e Notte: le due forme della doxa

È pur vero che l'ingannevole costrutto poetico che costituisce la sezione finale del poema presenta i principi su cui si fonda la rappresentazione del cosmo che ne è oggetto in maniera anomala, facendoli apparire come il frutto di un errore originario

ajqanavtou" te qeou;" kai; gai§an ejremnh;n / wJ" ta; prw§ta gevnonto kai; wJ" lavce moi§ran e{kasto". / Mnhmosuvnhn me;n prw§ta qew§n ejgevrairen ajoidh§/ / mhtevra Mousavwn, h ga;rJ lavce Maiavdo" uiJovn: / tou;" de; kata; prevsbin te kai; wJ" gegavasin e{kasto" / ajqanavtou" ejgevraire qeou;" Dio;" ajglao;" uiJo;" / pavnt j ejnevpwn kata; kovsmon, ejpwlevnion kiqarivzwn. Per l’episodio in cui Hermes, con il canto e con il dono della lira, placa l’ira di Apollo cui aveva sottratto gli armenti cfr. H. Merc. 416-510.

4 Cfr. 28 B 2.4. Si consideri l'osservazione in Brillante (2006) p. 32, secondo cui, nella cultura tradizionale riflessa nei poemi omerici, “un racconto ben strutturato e narrato con ordine si presenta per ciò stesso come veritiero”.

5 Nella stessa direzione si può leggere l’espressione diavkosmon ejoikovta pavnta fativzw (B 8.60) con cui la dea definisce nuovamente il suo discorso sulle opinioni dei mortali dopo averne presentato i principi fondanti. Come è stato messo in luce tra gli altri da Verdenius (1964) pp. 50-1, Turrini (1977) in particolare le pp. 552-58, Sassi (2011) ejoikwv~ ha qui il senso di “del tutto appropriato” rispetto all’idea di ordine e di aderenza alla realtà generalmente condivisa dal pubblico. Proprio per questo si presenta come insuperabile da qualsiasi altro sapere dei mortali (wJ~ ouj mhv potev tiv~ se brotw§n gnwvmh/ parelavssh/ B 8.61). Per un analogo valore di ejoikwv~ in riferimento a un discorso, appare corretto il riferimento da parte di questi studiosi a Od. III 124-25, IV 238-43 (cfr. 266). Cherubin (2005) pp. 9-12 ritiene che ejoikwv~ in Parmenide indichi qualcosa di adatto ai limiti della conoscenza degli uomini, per cui si veda anche supra cap. 2 pp. 98-101. Altri (Tarán, Casertano, Coxon, Lami, Cerri) traducono ejoikwv~ “plausibile, verosimile”. Per la discussione di ajpathlovn in B 8.52 si veda, tra gli altri, Ferrari (2010) 60-64. Si consideri la ripresa che di questo verso sembra fare Empedocle (31 B 17.26) quando definisce il procedere del suo discorso (lovgou stovlon) cosmologico – che si presenta sotto certi aspetti come una sintesi tra le due sezioni del poema parmenideo – non ingannevole (oujk ajpathlovn). Cfr. Tarán (1965) pp. 221-22 n. 51.

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da parte dei mortali. Gli uomini, infatti – dice la dea – sono andati del tutto fuori strada (ejn w|/ peplanhmevnoi eijsivn B 8.54) perché “stabilirono, per dare nomi alle loro conoscenze, due forme di cui non è necessario stabilirne una” (morfa;~ ga;r katevqento duvo gnwvma~ ojnomavzein, / tw§n mivan ouj crewvn ejstin B 8.53-54)6. E, proprio come la

dea ha indicato al kouros i tratti distintivi (shvmata B 8.2) dell'unica autentica realtà ammessa all'interno della prospettiva veritiera, così i mortali stabilirono i caratteri (shvmata B 8.55) che distinguono tra loro ciascuna delle due forme. Queste, peraltro, proprio come l'ejovn della prima sezione del poema, sono in sé stesse completamente omogenee, ma si distinguono del tutto dall'altra forma di cui, in questa visione del reale, il cosmo si compone (eJwutw§/ pavntose twujtovn, / tw§/ d∆ eJtevrw/ mh; twujtovn, ajta;r kajkei§no kat j aujto; / tajntiva, vv. 57-59). Da una parte, infatti, gli uomini fissarono il Fuoco etereo della fiamma, propizio, rado, leggero (th§/ me;n flogo;~ aijqevrion pu§r, / h[pion o[n, mevg jajraio;n ejlafro;n vv. 56-57)7; dall'altra la notte cieca, di struttura densa

e pesante (nuvkt jajdah§, pukino;n devma~ ejmbriqev~ v. 59).

Su quali basi, quindi, una rappresentazione del cosmo basata sulla radicale contrapposizione tra un principio luminoso e uno notturno può essere considerata come la più attendibile visione del reale agli occhi dei mortali?

Se è vero, infatti, che l'unica realtà ammessa nella prospettiva veritiera della dea si distingue per la sua unità e completezza e per la sua natura del tutto estranea a qualsiasi cosa di cui l'uomo possa avere esperienza, l'immagine del cosmo descritta nella sezione del poema di cui ci stiamo occupando si fonda, invece, su due principi – Luce e Notte – immediatamente percepibili dai mortali che tendono ad associarli ad una serie di valori tra loro contrapposti.

6 Per la traduzione qui accolta del v. 53 cfr. Cerri (1999) e il suo commento ad loc. Alcuni – tra cui Casertano (1978) e Coxon (1986) – intendono katevqento gnwvma~ come un unico costrutto con il senso di “stabilire”, per cui cfr. Thgn. 717-18, ma, per un possibile altro senso di gnwvma~, si veda Thgn. 59-60. Altri accettano la variante gnwvmai~ tradita in Simpl. Phys. 30 e – solo in alcuni codici – in Phys. 180. Tra questi Furley (1973) p. 5 che traduce “they set up two forms in their minds for naming”. Senso analogo, pur con gnwvma~ all'accusativo, è stato proposto da Palmer (2009) p. 169 e n. 44. Più interessante è la lettura d Ferrari (2010) pp. 65-66 che, sulla base del confronto con B 8.38-9 e 19.3, sceglie la variante gnwvmai~ al dativo e traduce “imposero alle loro percezioni, per nominarle, due forme”. Nei passi del poema che Ferrari richiama, peraltro, si presenta un costrutto più semplice di questo, composto da katevqento + o[noma + la cosa a cui veniva attribuito il nome al dativo. Per una discussione della prima parte del verso 54 cfr. infra cap. 4 pp. 204-9.

7 Per una discussione testuale di questi versi e degli attributi che vi compaiono cfr. infra cap. 4 p. 213 n. 35.

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È altresì noto che la distinzione tra l'oscurità della notte e la luce del giorno viene spesso identificata, nelle varie culture, come una delle fasi originarie del cosmo8. Non sorprende, infatti, che, nell'immaginario umano, così come l'esistenza di

un essere vivente corrisponde con la sua venuta alla luce9, l' origine del principio

luminoso possa costituire l'avvio del lento processo che porta alla costituzione del cosmo.

1.3 Luce e Notte nelle teogonie tradizionali

Particolarmente frequente è, peraltro, nelle teogonie tradizionali, l'immagine di una Notte originaria che dà vita alla luce del giorno. Anche nella più classica tra le teogonie in lingua greca, quella di Esiodo, la nascita di Notte è collocata tra i primi momenti della genesi del cosmo, seguendo immediatamente l'apparizione delle realtà primigenie. Notte, infatti, ha origine – insieme ad Erebo – da Chaos e, dopo essersi unita al fratello, dà vita alle realtà a loro opposte e complementari, Giorno ed Etere (ejk Caveo~ d j [Erebov~ te mevlainav te Nu;x ejgevnonto, / Nukto;~ d j au\t j Aijqhvr te kai; JHmevrh ejxegevnonto, / ou}~ tevke kusamevnh jErevbei filovthti migei§sa Th. 123-25)10.

Questa genía di realtà dell'oscurità e della luce ha peraltro un ruolo marginale all'interno delle genealogie che occupano il seguito del poema di Esiodo. Tuttavia,

8 Cfr. Burkert (1999b) pp. 91-3. Sulle possibili influenze che la cultura iranica può avere esercitato sull'immagine del cosmo presentata nella doxa parmenidea basata sull'opposizione Luce-Notte cfr. Ferrari (2010) pp. 108-9 e i testi cui rimanda alla n. 34.

9 Per cui cfr. supra cap. 1 pp. 31-33.

10 Anche Acusilao (9 B 1) pone come principio primigenio Chaos da cui nascono subito Erebo e Notte. Sulla relazione tra Etere e Giorno con i loro genitori si legga quanto scrive West nel suo commento al v. 124 della Teogonia: “Aither and Hemera are the antitheses of their parents, Hemera corresponding to Nyx and Aither to Erebos. But the essential thing is not that they are opposites, but that they are naturally related: incompatible in nature, yet inseparable in thought”. Cfr. supra cap. 1 pp. 28-31. È noto che, nella Teogonia, le prime realtà divine a nascere sono Chaos, Gaia, Tartaro ed Eros (Th. 116-22). Si consideri, del resto, che, nel momento in cui Esiodo, nei versi incipitari del poema (Th. 11-23), cataloga le divinità oggetto del canto delle Muse in un ordine che va dalla generazione più recente di Zeus e dei suoi figli a quelle più antiche, in ultima posizione, compaiono, non a caso, le tre figure divine – Gaia, Oceano e Notte – che appaiono tradizionalmente come prime nelle tre versioni teogoniche che – secondo le nostre fonti – erano più diffuse in età arcaica. Per Oceano come origine di tutto cfr. cap. 3 pp. 191-92. L'idea che Notte fosse una divinità degna del massimo rispetto per la sua antica origine – e perciò temibile – appare evidente, peraltro, anche da un passo dell'Iliade – che presenta anche altre tracce di tradizioni teogoniche molto antiche – in cui è detto che persino Zeus, il sovrano degli dèi, ha forti remore a fare cosa sgradita alla dea (Il. XIV 259-61). Cfr. KRS p. 17.

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mentre [Erebo~, Aijqhvr e JHmevrh prenderanno parte a nessuna delle unioni e delle generazioni successive, Notte, da sola, darà vita a una serie di divinità che, pur nella loro natura disomogenea, si distinguono – nel loro insieme – per il fatto di rimanere del tutto al di fuori delle generazioni divine che popolano il cosmo di Esiodo e – fatta eccezione per Eris che genera per partenogenesi delle realtà di natura simile a quelle della madre – per il non dare vita a nuove divinità. Sembra anzi che la stirpe di Notte occupi un'area del reale completamente indipendente, associata all'oscurità, alla morte e, in generale, a tutto ciò che è in qualche modo temibile e negativo11.

Per valutare la centralità che la figura di Notte ha all'interno dell'immaginario mitico greco, è importante considerare che, sul piano della narrazione teogonica, una tradizione come quella orfica – che tende a marcare la sua alterità rispetto alla cultura dominante – contempla tra i suoi tratti distintivi una rifunzionalizzazione di questa figura divina, di cui vengono accresciute l'importanza e la centralità. In alcune teogonie riconducibili a questa tradizione, probabilmente note già in età arcaica12, ed

in altri racconti cosmogonici composti a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., Notte si

11 Cfr. Th. 211-32. Tra le realtà divine che Notte genera per partenogenesi, Hypnos, la stirpe dei Sogni e le Esperidi sembrano associati alla madre perché legati al periodo notturno, all'oscurità e all'Occidente; Moros, Kēr, Thanatos, le Moire e le Chere per la loro vicinanza alla dimensione della morte; Mōmos, Oizys, Nemesi, Apatē, Philotēs, Eris, Ghēras per la loro valenza pericolosa e negativa in generale. Che far parte della prole di Notte contribuisca a inserire una realtà all'interno di una dimensione del reale dalla valenza negativa è confermato dal fatto che le Moire, oltre a presentarsi in questo contesto come potenze terribili associate alla morte, ricompaiono nella parte conclusiva del poema come figlie di Zeus e Themis, assumendo invece il ruolo di giuste dispensatrici del bene e del male per gli uomini (Th. 904-6). Sulla natura della prole divina di Notte e sulla sequenza in cui queste divinità vengono presentate ai vv. 211-25 cfr. Arrighetti (1993) e Lauriola (2004) – entrambi tesi a cercare un nesso tra questa serie di figure divine e gli epiteti (ejrebennhv, ojlohv) che qui vengono assegnati a Notte – e la bibliografia cui rimandano. L'idea di una distribuzione delle personificazioni divine in due opposte polarità – una di natura negativa e l'altra positiva – sembra essere ripresa in alcuni passi dell'opera di Empedocle dove le divinità tendono a venire presentate secondo coppie contrapposte. Cfr. 31 B 121, 122, 123.

12 Secondo la testimonianza di Damascio de principiis 124 (1 B 12) Eudemo attribuisce a Orfeo una teogonia che ha come principio originario proprio Notte (ajpo; de; th§~ Nukto;~ ejpoihvsato th;n ajrchvn). Nello stesso ambiente peripatetico Aristotele in Met. 12.6, 1071b26-28, critica i theologoi che fecero di Notte l'origine di tutte le stirpi divine. Cfr. Piano (2010) p. 27. L'antichità di questa tradizione appare confermata dalla teogonia commentata nel papiro di Derveni, che – come vedremo a breve – pone Notte a principio della stirpe degli Uranidi. Betegh (2004) pp. 153-56, inoltre, a partire dai versi commentati e dal confronto con altre tradizioni orfiche anche di attestazione piuttosto tarda, ipotizza che la prima coppia divina da cui avrà origine il cosmo sia costituita da Notte e Aithēr, due principi – uno luminoso e l'altro notturno – assimilabili a quelli su cui si fonda la doxa parmenidea. A questo proposito Ricciardelli-Apicella (1991) pp. 50-51 annovera tra i tratti più interessanti delle composizioni orfiche la centralità della polarità luce-tenebre. Secondo Filodemo De piet. 137. 5 anche Museo ha posto come divinità primigenia Notte, insieme a Tartaro.

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presenta – da sola o con altre figure divine – come la prima divinità a nascere nel cosmo13. Proprio i versi commentati nel papiro di Derveni, peraltro, mostrano come,

già in un'età piuttosto antica, esistesse un racconto teogonico che, pur, riprendendo il modello esiodeo nella sequenza genealogica Urano-Crono-Zeus, assegnasse a Notte un ruolo di grande rilievo, assimilabile a quello che, nella Teogonia esiodea, è attribuito a Gaia14. Nuvx, infatti, compare qui come madre di Urano e, perciò, – in

maniera radicalmente opposta al ruolo che ricopre in Esiodo – come divinità ancestrale della stirpe divina protagonista delle vicende che portano all'assetto definitivo del cosmo15. Di Notte, nella teogonia di Derveni, attraverso l'epiteto

trofov~16, viene enfatizzata la natura materna, altro tratto che la accomuna alla Gaia di

Esiodo, allo stesso modo dei vaticini da lei proferiti grazie a cui Zeus sarà in grado di conquistare definitivamente la sovranità del cosmo17.

13 Sembra che per Epimenide i primi principi fossero jAhvr e Nuvx (3 B 5); nella teogonia recitata dal coro degli Uccelli di Aristofane le realtà primigenie sono Chaos, Notte, Erebo e Tartaro. Si consideri che, invece, nella Titanomachia – di cui leggiamo solo alcuni riferimenti e citazioni da testimoni più tardi – la prima realtà a nascere sarebbe Aijqhvr (2 B 14), per cui cfr. Ricciardelli-Apicella (1993) p. 33 n. 26.

14 A questo proposito cfr. Piano (2010), in particolare pp. 40-45.

15 Che Notte abbia questo ruolo nella Teogonia di Derveni si può dedurre chiaramente dal verso citato a col. XIV r. 6 Oujrano;~ Eujfronivdh~, o}~ prwvtisto≥~≥ basivleusen. Come appare evidente da molti altri passi, tra cui cfr. e.g. Hes. Theog. 560, Heracl. 22 B 26, 57, 67, 99, eujfrovnh corrisponde a notte. Per una lista esaustiva di questi passi in cui, peraltro, eujfrovnh non si riferisce mai a Notte come persona divina, cfr. Piano (2010) pp. 24-25 nn. 51, 52, 53, ma vedi anche n. 55 e p. 39. Cfr. Tortorelli-Ghidini (1985). Sul ruolo di Notte come capostipite della stirpe regale degli Uranidi nella tarda tradizione rapsodica si veda sempre Piano (2010) pp 26-27.

16 Cfr. P. Derveni col. X 11. Sulla ricostruzione del verso in cui poteva comparire questo epiteto di Notte cfr. F 6.1 B, ricostruito a partire da questo passo di Derveni e OF 106 K. Sull'aspetto nutritivo e materno della Gaia esiodea si vedano gli epiteti eujruvsterno~ (Th. 117) e ferevsbio~ (Th. 693), oltre al fatto ovvio di porsi come madre ancestrale della maggior parte delle divinità che popolano il cosmo. Si veda anche Th. 477-80 in cui si narra di come Gaia educò e nutrì Zeus nell'isola di Creta prima che questi uccidesse il padre Crono e divenisse re degli Olimpii.

17 Il fondamentale ruolo profetico di Notte all'interno della teogonia che compare nel papiro di Derveni si deduce dall'epiteto a lei riferito panomfeuvousa, discusso dal commentatore alla col. X. Si veda anche quanto si dice su Notte nei versi citati in col. XI, 1 ejx aj≥ªduvtoiºo ... crh§s≥ai, XI 10, ªhJ de;º e[crhsen a{panta tav oiJ qevªmi~ h\n ajnuvsasq≥≥ºai. Cfr. Piano (2010) pp. 12-17. Il nome eujfrovnh con cui viene evocata indirettamente in col. XIV r. 6 evidenzia invece la sua intelligenza pratica e la sua natura benevola, in evidente contrasto con la caratterizzazione della Notte esiodea. Cfr. Piano (2010) pp. 36-40. Per il ruolo dell'intelligenza astuta e delle facoltà profetiche di Gaia negli snodi fondamentali che, all'interno della Teogonia di Esiodo, portano alla definitiva presa del potere da parte di Zeus cfr. Th. 160, 463-96, 623-28, 884-85, 886-900 e Detienne-Vernant (1974) cap. 3.

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1.4 L'originaria deviazione dall'unità

Offrire una rappresentazione del reale che abbia come principi originari Luce e Notte sembra quindi piuttosto in linea con il sentire comune dei mortali espresso in varie forme anche nelle teogonie tradizionali. Tuttavia, nonostante quello della dea di Parmenide sia un discorso in esametri sull'origine del cosmo, esso non assume – almeno nel suo punto di partenza – la forma di una teogonia tradizionale in cui le relazioni tra gli elementi siano stabilite in base a rapporti genealogici. Anzi, delle due forme su cui è fondata l'intera cosmologia parmenidea viene rimarcata la netta separazione. La visione che, secondo la dea, i mortali hanno del mondo, infatti, prende le mosse da un momento originario in cui essi hanno stabilito due forme sulla base delle quali ordinare le proprie conoscenze, “di cui non è necessario (stabilire kataqevsqai) una sola (scil. forma)” (tw§n mivan ouj crevwn ejstin B 8. 54 )18.

Tra le diverse interpretazioni dell'espressione tw§n mivan ouj crevwn ejstin (B 8.54) appare piuttosto persuasiva quella di chi vi legge l'intento di indicare che, delle due forme stabilite dai mortali – Luce e Notte – nessuna (mivan ouj) è necessaria, giacché, come è stato dimostrato nella prima parte del poema, l'unica vera realtà è quella definita dalla natura dell' ejovn19.

Tuttavia, anche se – come è stato dimostrato dai sostenitori di questa lettura del verso – vi sono altri passi in cui miva ouj sembra avere il senso di oujdemiva

18 Cfr. Cerri (1999) p. 247.

19 Tra gli altri Cornford (1933) pp. 108-9, Untersteiner (1958) pp. CLXXI-CLXXII, Ferrari (2010) p. 67. Alcuni intendono mivan ouj nel senso di eJtevrhn ouj, individuando l'errore umano nell'aver postulato accanto ad una forma giusta, un'altra che non esiste realmente. Tra questi, la maggior parte – tra cui Zeller – anche a partire dalla testimonianza di Aristotele che identifica il Fuoco con l'Essere (28 A 24), ritengono che l'unica forma da stabilire sia quella luminosa; Popper (1998) pp. 105-18 (già in “CQ” (1992) pp. 12-19) suppone che invece sia proprio la luce la forma che non bisognava postulare giacché dà ingannevoli impressioni come, ad esempio, quella che la luna si sposti. A partire da una simile lettura della prima parte del verso 54, Long (1963) ritiene che le due forme del v. 53 non siano Luce e Notte bensì Essere e Non Essere e che, ovviamente, il secondo sia quello da escludere. In tutte queste intepretazioni, peraltro, la prima parte del verso 54 rifletterebbe un commento polemico della dea alla decisione dei mortali di stabilire due forme, mentre, secondo la nostra lettura, “di cui non è necessaria una sola” sarebbe una considerazione della dea sulle conseguenze della decisione dei mortali. Vi è chi, invece, sulla base di Simplicio Phys. 31.7-9, intende tale espressione come “di cui non è possibile nominare una senza l'altra”, tra cui Raven (1948) pp. 39-40, D'Avino (1965), Casertano (1978). Per una più articolata rassegna delle interpretazioni di questo passo cfr. Tarán (1965) pp. 216-23, Casertano (1978) pp. 217-21 della seconda edizione (Napoli 19892).

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“nessuna”20, appare significativo che, in alcune cosmogonie attestate in testi poetici di

età successiva a quella dell'opera parmenidea, con l'espressione miva morfhv si indicasse l'unità originaria e onnicomprensiva da cui, per un processo di separazione, prendeva avvio la genesi del cosmo.

In un frammento tratto dalla Melanippe di Euripide (fr. 484 K.), infatti, così vengono descritti i primi momenti dell'origine del cosmo:

koujk ejmo;~ oJ mu§qo~, ajll j ejmh§~ mhtro;~ pavra, wJ~ oujranov~ te gai§a t j h\n morfh; miva:

ejpei; d jejcwrivsqhsan ajllhvlwn divca, tivktousi pavnta kajnevdwkan eij~ favo~:

devndrh, peteinav, qh§ra~, ou{~ q j a{lmh trevfei gevno~ te qnhtw§n.

Il racconto non è mio, ma viene da mia madre: come il cielo e la terra erano una forma, e quando si separarono l'uno dall'altra, generarono e dettero alla luce ogni cosa, alberi, uccelli, fiere che il mare nutre, e la stirpe dei mortali21.

20 Cfr. Ferrari (2010) p. 67 n. 41 in cui per mivan ouj = oujdemivan si rimanda a Aristoph. Th. 549 s., Plat.

Rsp. 423a, Xenoph. An. 5. 6. 12.

21 L'immagine di un'unità dalla cui separazione si distinguono per la prima volta il Cielo e la Terra sembra riallacciarsi a quei racconti teogonici in cui appare l'uovo cosmico, tra cui particolarmente interessante sembra il racconto di tradizione orfica riportato da Atenagora pro Christianis 18, p. 20 =1 B 13 in cui la parte superiore dell'uovo va a formare il cielo e quella inferiore la terra. Una rassegna di teogonie orfiche e non, in cui compare l'immagine dell'uovo cosmico si trova in KRS pp. 22-29 e cfr.

infra cap. 4 n. 100. Sembra significativo, peraltro, che l'ipotesi di un rapporto tra questo frammento

della Melanippe e tradizioni orfiche sia stata avanzata a partire dal fatto che il secondo verso – quello più interessante al fine del confronto con l'espressione parmenidea di cui ci stiamo occupando – è iscritto su una coppa di alabastro di epoca tarda (III-VI d.C.), insieme ad altri frammenti di probabile matrice orfica. Cfr. Berbabé (2004) pp. 32-33. Meno convinta di un'attribuzione della coppa di

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Si consideri del resto che, anche la teogonia messa in bocca ad Orfeo nelle

Argonautiche di Apollonio Rodio presenta un incipit che mostra alcune

corrispondenze significative con quello della teogonia della Melanippe e con la formula parmenidea di cui ci stiamo occupando:

... a]n de; kai; jOrfeu;~

laih§/ ajnascovmeno~ kivqarin, peivrazen ajoidh§~. h[eiden d j wJ~ gai§a kai; oujrano;~ hjde; qavlassa, to; pri;n ejp jajllhvloisi mih§/ sunarhrovta morfh§/, neivkeo~ ejx ojlooi§o dievkriqen ajmfi;~ e{kasta: hjd j wJ~ e[mpedon aije;n ejn aijqevri tevkmar e[cousin a[stra, selhnaivh~ te kai; hjelivoio kevleuqoi: ou[reav q jwJ~ ajnevteile, kai; wJ~ potamoi; kelavdonte~ aujth§/sin Nuvmfh/sin kai; eJrpeta; pavnt j ejgevnonto.

… E Orfeo

sollevata la cetra con la mano sinistra, provava il canto. Cantava come la terra, il cielo e il mare,

in un primo tempo reciprocamente connessi in una sola forma, per funesta contesa si separarono ciascuno da una parte; e come le stelle, la luna e i percorsi del sole

tengono il limite sempre saldo nell'etere22;

alabastro – e perciò anche del frammento euripideo – ad ambiente orfico si mostra Iacobacci (1993) pp. 82-87. Stokes (1971) pp. 62-65, per parte sua, ritiene che la teogonia della Melanippe presupponga l'opera parmenidea.

22 Si vedano le corrispondenze tra i versi 499-500 e il frammento 10 di Parmenide e, a questo proposito, si veda Pieri (1977) p. 99 n. 2.

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e come sorsero i monti, e come i fiumi risonanti

con le loro ninfe e tutte le bestie che toccano terra nacquero (I 494-502).

È evidente che queste cosmogonie – entrambe in qualche modo legate a racconti teogonici di matrice orfica – sono costruite in base ad elementi attinti da tradizioni di varia natura e di diversa antichità. Proprio per questo, non è possibile determinare con certezza se l'espressione miva morfhv per indicare l'unità da cui ha avuto origine il cosmo fosse già in uso nell'epoca in cui Parmenide componeva il suo poema, o se, invece, sia stata impiegata solo in età successiva. Il fatto che, nella versione di Apollonio Rodio, sia proprio “funesta contesa” a rompere la forma originaria da cui nascono i costituenti del cosmo induce peraltro a riconoscere in questa immagine una ripresa della cosmologia di Empedocle in cui Neikos rompe ciclicamente l'unità dello Sfero23. Questo aspetto del quadro cosmologico delineato

dall'agrigentino può essere a sua volta considerato come un tentativo di inserire una realtà per certi aspetti assimilabile all'ejovn parmenideo – lo Sfero omogeneo e onnicomprensivo – all'interno dello sviluppo dinamico di un cosmo in continuo divenire come quello descritto nella doxa24. Sia che l'espressione miva morfhv per

indicare un'unità originaria esistesse già prima della composizione dell'opera di Parmenide25, sia che si sia formata solo in epoca successiva – forse anche in risposta

23 Si confronti e.g. frr. 31 B 26, 27, 28, 29, 30. Nel De Melisso, Xenophane et Gorgia 976b22-28 = 30 A 528 , l'unità contemplata nella cosmologia di Empedocle viene definita miva morfhv. Una parziale coincidenza tra l'incipit della cosmogonia cantata da Orfeo nelle Argonautiche e quella empedoclea viene sostenuta anche da Iacobacci (1993) pp. 88-90 di cui si veda la n. 31 per il riferimento ad altri studi che hanno sostenuto con forza tale ripresa. Si veda anche Bernabé (2004) pp. 34-35 che considera possibile anche un'influenza di una più antica tradizione orfica nell'immagine empedoclea di un'unità originaria rotta dall'intervento di Neikos. Condivisibile, peraltro, appare l'ipotesi di Iacobacci, che Apollonio Rodio alluda a diverse fonti letterarie e tradizionali.

24 Una linea tradizionale: poesia filosofico-religiosa > Parmenide > Empedocle > Apollonio Rodio è stata sostenuta da Pieri (1977) pp. 97-100. Cerri (2006) p. 53 – ma si leggano pp. 49-55 – sostiene che Empedocle, attraverso l'immagine dello Sfero, abbia inserito l'Essere-Uno di Parmenide nella sua cosmologia collocandolo “all'inizio del tempo, prima che entrino in azione le due forze contrastanti e i quattro elementi, prima del divenire che costituisce il mondo a noi noto” (corsivo dell'autore). Si veda anche Wright (1981) pp. 189-90 in cui – come nell'articolo di Cerri – si sottolinea il passaggio logico dall'Essere parmenideo paragonato a massa di ben rotonda sfera allo Sfero vero e proprio.

25 L'idea che la complessità del cosmo derivasse da un'unità originaria può avere un'origine piuttosto antica. Ricciardelli Apicella (1993) p. 32, in base alla combinazione di una testimonianza di Diogene Laerzio (2 A 4) e una possibile citazione in Filodemo (2 B 14), ipotizza che, nella cosmogonia di Museo, la Notte corrispondesse all'uno da cui nascono tutte le cose e in cui si dissolvono (ejx eJno;~ ta; pavnta givnesqai kai; eij~ taujto;n ajnaluvesqai). Sull'idea di Notte come insieme di tutte le cose nel

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ai problemi che la radicale frattura tra le due sezioni del poema generava – sembra pertanto probabile che essa abbia qualche rapporto con il verso di Parmenide di cui ci stiamo occupando. Su queste basi, è forse preferibile pensare che, con l'espressione tw§n mivan ouj crevwn ejstin, l'eleate volesse indicare che, nella doxa, la molteplicità del reale fosse riconducibile a due sole forme di cui, però, non bisognava necessariamente stabilire una ricomposizione all'unità (miva morfhv)26.

Se si intende questo passo in tale senso è forse possibile delineare meglio i termini del contrasto tra le due sezioni del poema. È piuttosto verisimile, infatti, che, nel momento di passaggio dal discorso veritiero a quello sulle opinioni dei mortali, la dea volesse in qualche modo ricollegarsi alle parole iniziali con cui aveva presentato i due momenti in cui si sarebbe articolata la sua lezione (B 1.29-32). Si ricordi che, in quell'occasione, la dea aveva spiegato al kouros perché, oltre al cuore di verità, egli avrebbe dovuto imparare anche le doxai dei mortali. In questo modo, infatti, avrebbe potuto conoscere il processo che aveva condotto gli uomini a rimanere necessariamente all'interno della dimensione del verisimile e a guardare alle cose che compongono il reale per “come sembrano a loro” (ta; dokeu§nta), senza mai arrivare a comprendere la loro natura di “cose che sono” (ta; o[nta) attraverso il tutto. Guardare ai molteplici elementi di cui è composta tutta la realtà come un insieme di o[nta può essere appunto considerato come il primo momento del processo mentale descritto nel frammento 4 in cui si passa dalla visione di una pluralità di enti distribuiti in diverse posizioni nel tempo e nello spazio a quella dell'unico ejovn sempre fisso e presente alla mente27.

primo stadio di alcune cosmogonie, si veda, ancora una volta, Aristot. Met. 1071b26 (eij wJ~ levgousin oiJ qeolovgoi oiJ ejk Nukto;~ gennw§nte~, h} wJ~ oiJ fusikoi; oJmou§ pavnta crhvmatav fasi). Cfr. Cornford (1952) p. 191. Se dobbiamo prestare fede alla testimonianza di Teofrasto riportata da [Plut.] Strom. 2, secondo Anassimandro, la genesi di questo cosmo si sarebbe avviata a partire dalla separazione dall' “eterno” – probabilmente da identificarsi con l'apeiron – di un principio generatore del caldo e del freddo da cui, attraverso un processo che presenta alcune analogie con la costituzione del cosmo descritta nella doxa parmenidea (cfr. 28 A 37, B 12) – si sarebbero formati i vari costituenti cosmici. Cfr. 12 A10 e Kahn (1960) pp. 57-58, 85-98. Interessante, peraltro, appare il confronto con una cosmogonia riportata da Diodoro Siculo poco prima di citare il frammento della Melanippe da noi qui preso in considerazione, in cui al principio compare un'originaria forma in cui cielo e terra sono tra loro commisti (mivan e[cein ijdevan oujranovn te kai; gh§n). Dalla loro separazione ha poi origine il cosmo, attraverso una distinzione tra un principio igneo e uno fangoso. Cfr. Cornford (1952) pp. 189-90 e Sassi (1980) pp. 97-98.

26 L'idea di intendere mivan come l'unità delle due forme è stata proposta, tra gli altri, da Schwabl (1953) pp. 53-54, Tarán (1965) p. 220,Thanassas (2006) p. 205 e i testi cui rimanda in n. 16.

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In maniera del tutto corrispondente a quanto annunciato alla fine del proemio, nel momento in cui introduce il discorso sulle opinioni dei mortali, la dea spiega l'errore originario che ha portato i mortali del tutto fuori strada facendo perdere loro ogni possibilità di raggiungere un autentico sapere. Essi, sulla base delle loro prime impressioni (ta; dokeu§nta), invece di considerare la totalità del reale come composta da o[nta da ricondurre all'unità totalizzante dell'ejovn, hanno stabilito di comprendere la molteplicità dei costituenti del cosmo in base a due sole forme tra loro antitetiche, Luce e Notte, di cui non è peraltro in alcun modo necessario postulare una ricomposizione all'unità. La natura dei due principi in base a cui gli uomini cercano di capire la realtà, infatti, permette di dare un quadro coerente ed esaustivo del mondo che, però, non potendo venire ricondotto nel processo unificante che porta alla comprensione dell'ejovn, contribuisce in maniera determinante ad allontanarli dalla verità.

1.5 Un nuovo sguardo sul mondo a partire da Luce e Notte

Nell'immaginario tradizionale – ben definito nella Teogonia di Esiodo – Nuvx è la madre di JHmevrh e abita la sua stessa casa. Su queste basi, la continua alternanza tra il periodo notturno e quello diurno veniva spiegata con la presenza sulla Terra, al cospetto degli uomini, di una delle due divinità a turno, mentre l'altra, quella assente, occupava la propria casa negli inferi, la regione in cui trova posto qualsiasi realtà non sia immediatamente percepibile ai mortali. Il loro equilibrato alternarsi è messo in evidenza dall'immagine esiodea di queste due figure divine che si salutano l'un l'altra scambiandosi di posto sulla soglia di bronzo che separa la terra dagli inferi. Secondo una bilanciata simmetria, peraltro, mentre Giorno porta agli uomini la luce che permette loro di svolgere le proprie attività (hJ me;n ejpicqonivoisi favo~ poluderke;~ e[cousa), Notte, con la sua oscurità, è portatrice del periodo dedicato al sonno (hJ d j {Upnon meta; cersi;, kasivgnhton Qanavtoio)28.

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Contro tale idea del rapporto che lega il giorno e la notte si scaglia Eraclito dicendo:

didavskalo~ de; pleivstwn JHsivodo~: tou§ton ejpivstantai plei§sta eijdevnai, o{sti~ hJmevrhn kai; eujfrovnhn oujk ejgivnwsken: e[sti ga;r e{n.

“Maestro di moltissimi Esiodo: sono convinti che sapesse moltissime cose costui che non riconosceva giorno e notte: è, infatti, una cosa sola ” (22 B 57).

Sembra piuttosto probabile che, anche in questo caso, Eraclito, attraverso l'aperta polemica nei confronti di colui che era considerato una delle massime autorità sapienziali del tempo, mirasse a minare le certezze del pubblico per introdurre la sua nuova visione delle molteplici manifestazioni del reale, basata sull'individuazione di coppie di opposti di cui viene sottolineato l'inscindibile legame reciproco. A questo fine, si prestava bene il riferimento al rapporto tra il giorno e la notte così nettamente distinti nella comune esperienza che gli uomini avevano del reale, e sulla cui reciproca alternanza Esiodo aveva offerto una così chiara immagine. Dal momento che il riconoscimento dell'unità di Notte e Giorno si iscrive in una più ampia riflessione sul rapporto che lega diverse coppie di opposti, non è possibile stabilire con certezza se l'Efesino abbia riflettuto specificamente sul rapporto che lega il periodo notturno a quello diurno o se, piuttosto, questo sia stato ricondotto alla stessa legge universale secondo cui “la strada in su e quella in giù sono una e la stessa” (oJdo;~ a[nw kavtw miva kai; wJuthv 22 B 60), o “la medesima cosa c’è vivente e morta, sveglia e dormiente, giovane e vecchia ...” (taujtov t j e[ni zw§n kai; teqnhko;~ kai; ªto;º ejgrhgoro;~ kai; kaqeu§don kai; nevon kai; ghraiovn ... B 88)29. In questa seconda

29 La seconda possibilità è preferita da Lloyd (1966) pp. 104-107 della tr.. it. (Napoli 1991) e da Stokes (1971) pp. 89-102. Per altri esempi relativi all'unità degli opposti in Eraclito cfr. e.g. 22 B 59, 61, 103, 111. Kahn (1979) pp. 107-10, invece, connette la considerazione dell'unità di Notte e Giorno a quanto i dossografi riferiscono sull'attenzione rivolta da Eraclito alla misura dei solstizi e degli equinozi, e ai frammenti in cui l'efesino fa osservazioni sulla dimensione del sole (cfr. B 3 e B 94, citati insieme nella col. IV del papiro di Derveni) e sulla potenza della sua luce. In questo senso appare particolarmente interessante il confronto con il frammento 99 che afferma: “se non ci fosse il sole, per quanto è di tutti gli astri, sarebbe notte” (eij mh; h{lio~ h\n, e{neka tw§n a[llwn a[strwn eujfrovnh a[n h\n). Un rapporto tra il

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direzione sembra portarci il frammento 67 in cui giorno e notte, insieme a inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame vengono identificati con il dio secondo un medesimo rapporto30. Tuttavia, appare chiaro, anche dal suo ricorrere nel discorso di

Eraclito, che il tentativo di stabilire un diverso rapporto tra la luce del giorno e la Notte costituisse un argomento particolarmente adatto – forse anche per il suo intrinseco valore simbolico – a proporre una visione del reale diversa da quella più comunemente condivisa.

Ne costituisce un chiaro esempio un documento come il papiro di Derveni in cui la nuova centralità attribuita a Nuvx nella teogonia orfica trova perfetta corrispondenza con il ruolo preminente che, nel commento, la notte come entità cosmologica ricopre rispetto alla sua controparte luminosa. Secondo il codice esegetico adottato dal commentatore, infatti, l'a[duton da cui – nel racconto teogonico – Notte profetizza corrisponderebbe alla profondità della Notte che – al contrario della luce – non tramonta, ma, rimanendo in uno stato di permanente fissità – proprio come l'ejovn parmenideo e il dio di Senofane – viene occupata, secondo regolari intervalli di tempo, dal raggio del sole, dando così spazio al periodo diurno31.

È chiaro, dunque, da quanto osservato fino a qua, che l'alternanza Giorno-Notte – coincidente con l'opposizione tra luce e oscurità – rappresentava per gli

fr. 99 e quello di cui ci stiamo occupando (B 57) viene fermamente negato da Marcovich (1966) pp. 226-30 della tr. it. (Firenze 1978). Appare del resto significativo che vi siano evidenti punti di convergenza tra Eraclito e il testo di Derveni proprio in relazione al sole e al rapporto tra il giorno e la notte.

30 oJ qeo;~ hJmevrh eujfrovnh, ceimw;n qevro~, povlemo~ eijrhvnh, kovro~ limov~. ajlloiou§tai de; o{kwsper oJkovtan summigh/§ quwvmasin ojnomavzetai kaq j hJdonh;n eJkavstou. Il testo è riportato come compare in Kahn (1979) che esclude le parole di commento, che, in mezzo alla citazione, inserisce Ippolito – il nostro testimone – e l'integrazione di pu§r come soggetto di summigh/§. Cfr. Kahn (1979) pp. 276-81. Anche se la seconda parte del frammento – di controversa lettura – stabilisce un complesso rapporto tra il dio e la serie di coppie di opposti che vengono ricondotte ad esso – attraverso il paragone con qualcosa che si altera nella sua commistione con incensi – sembra comunque implicito che la relazione tra ognuna delle coppie e l'unità divina sia la stessa.

31 ªtºh§~ Nuktov~. ejx a°j≥ªjduvtoiºo d jaujth;n ªlevgeiº crh§sai gnwvmhn poiouvªmºeno~ a[duton e≥i≥\nai to bavqo~ th§~ nuktov~: ouj gªa;rº duvnei w{ªsºper≥ to; fw§~, ajllav nin ejn tw§/ aujtw§/ mevªnoºn≥ aujgh; ka≥ta≥ªlºambavnei (col. XI 1-4). Per le corrispondenze espressive tra il modo in cui qui viene definita la fissità della Notte e la maniera in cui viene rappresentata l'immutabilità dell'Essere parmenideo e del dio di Senofane cfr. 28 B 8.29 e 21 B 26.1 e si vedano Tortorelli Ghidini (1985) pp. 424-25 e Piano (2010) pp. 33-36. In un certo senso la visione positiva di Notte e l'attribuzione di un valore illusorio alla luce nella ricostruzione che Popper fa della doxa parmenidea, per quanto frutto di un'interpretazione fortemente congetturale (Popper (1998) pp. 105-18 e cfr. supra cap. 4 p. 205 n. 19), presenterebbe dei punti di contatto con la visione cosmologica qui espressa nel papiro di Derveni.

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uomini un'unità di misura fondamentale in base a cui ordinare le proprie esperienze e che – forse proprio per questo – chi voleva esprimere una visione del reale diversa da quella comunemente condivisa poteva scegliere di farlo proponendo una nuova immagine di queste entità divine e del loro rapporto reciproco. Ciò spiegherebbe perché Parmenide abbia scelto proprio Luce e Notte come principi su cui fondare il quadro cosmico che rappresenta la forma più ordinata e verosimile che possono assumere le opinioni dei mortali sulla realtà. È vero peraltro che, nell'opera parmenidea, al contrario di quanto si legge in Eraclito in cui il binomio Giorno-Notte si presenta come un elemento privilegiato per dimostrare l'unità degli opposti, ricondurre la totalità del reale alle forme luminosa e notturna determina l'impossibilità di raggiungere la comprensione della sola autentica unità: quella dell'ejovn32.

1.6 I poteri di Luce e Notte

Può quindi essere interessante considerare il modo in cui queste due forme vengono presentate nel discorso che introduce la sezione conclusiva del poema, per capire meglio quale sia il loro effettivo valore nella visione che gli uomini hanno del reale. È infatti evidente che, all'interno della doxa, qualsiasi elemento viene inquadrato in base al rapporto che stabilisce con i due poli luminoso e notturno tra cui è compreso tutto il reale. Tale relazione viene stabilita, peraltro, in base ai poteri che appartengono a ciascuna delle due forme, come chiariscono alcuni versi che dovevano seguire quasi immediatamente la fine del frammento 8:

aujta;r ejpeidh; pavnta favo" kai; nuvx ojnovmastai

32 Cerri (1999) pp. 40-49, 69-76, 247, diversamente da noi, vede nel tentativo di Eraclito di ricondurre Giorno e Notte ad un unico processo, il risultato di un andamento della ricerca scientifica pienamente perseguito da Parmenide nel suo poema, sia nella doxa – in cui tale procedimento viene applicato ai diversi fenomeni della natura in maniera assimilabile a quella dell'efesino – che nella aletheia – in cui viene prefigurato l'esito definitivo di tale processo di unificazione rappresentato dalla natura unica e onnicomprensiva di “Ciò che è”. Ad ogni modo, sembra che per Cerri, nonostante la seconda parte del poema rappresenti il più alto livello di ricerca scientifica cui la cultura del tempo poteva giungere anche attraverso il processo di unificazione degli elementi proposto dall'eleate, essa sia comunque fondata sull'aurorale errore umano di distinguere tra loro Luce e Notte.

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kai; ta; kata; sfetevra" dunavmei" ejpi; toi§siv te kai; toi§", pa§n plevon ejsti;n oJmou§ faveo" kai; nukto;" ajfavntou i[swn ajmfotevrwn, ejpei; oujdetevrw/ mevta mhdevn.

E, dal momento che tutte le cose sono chiamate Luce e Notte

e (scil. sono state nominate) secondo i loro (scil. di Luce e Notte) poteri sulle une o sulle altre,

tutto è pieno insieme di Luce e di Notte invisibile,

di entrambe alla pari, giacché nessuna cosa non pertiene né all'una né all'altra (B 9)33.

Il valore delle due forme – Luce e Notte – appare dunque determinato dalle dunavmei" che appartengono loro e che permettono di stabilire in che misura ogni costituente del reale vada ricondotto all'uno o all'altro principio. I mortali, infatti, nel momento in cui contrapposero il Fuoco etereo della fiamma alla Notte, attribuirono ad essi dei segni distintivi al fine di riuscire più facilmente a definire la natura di ogni costituente del reale in base al suo rapporto con l'una e l'altra forma34. Il principio

33 Che i versi del fr. 9 seguissero di poco quelli che concludono il fr. 8, oltre che dal contenuto del discorso, sembra confermato da Simplicio che, dopo aver citato i vv. 53-59 di B 8 fa seguire la citazione di B 9 introducendola con la frase “e dopo poco, ancora” (kai; met jojlivga pavlin). Cerri ipotizza che i versi che separano le due citazioni di Simplicio possano corrispondere a quelli che per noi sono i vv. 60-1 di B 8. Contra Coxon (1986) pp. 352, 357, 359 della seconda edizione (Las Vegas-Zurich-Athens 2009). Per un chiara e lucida interpretazione di B 9 si raccomanda la lettura di Cerri (1999) pp. 255-58, di cui qui si condivide anche l'interpretazione del v. 4 – risalente in ultima istanza a Fränkel e poi ripresa anche da Tarán –, secondo cui mhdevn corrisponderebbe a “nessuna cosa” implicando l'impossibilità che qualcosa possa non essere ricondotta a una tra le due polarità Luce e Notte. Coxon (1986), Casertano (1978) pp. 251-53 della seconda edizione (Napoli 1989) e Reale in Reale-Ruggiu (2003) intendono, invece, mhdevn come “non essere” o “vuoto”. È vero, peraltro, che, se – proprio come nel discorso veritiero – il piano epistemologico e quello ontologico sono fortemente sovrapposti, questa compresenza di piani può essere ammessa anche nel senso di mhdevn in questo passo. Al v. 2 Coxon, sulla scia di Diels, pensa che ta; sia riferito a ojnovmata, mentre per Tarán sarebbe da riferirsi a favo" kai; nuvx. Per una rassegna di quelle che restano tuttora le possibili traduzioni del v. 2 cfr. Untersteiner (1958) p. CLXXXIV n. 65. Il senso da noi scelto corrisponde a quello assegnatoli da Cerri (1999) e da Palmer (2009) p. 173. Per una diversa lettura di B 9.2 basata sulla congettura di Diels o[nom j ejstiv preferita alla lezione ametrica wjnovmastai dei codici DE e alla forma anomala di perfetto ojnovmastai del codice F – per la cui difesa vedi Cerri (1999) ad loc.–, cfr. Ferrari (2010) p. 37 nn. 31, 32.

34 Del fatto che dunavmei" (B 9.2) vada inteso come “poteri” e che questi corrispondano ai shvmata attribuiti a Fuoco e Notte alla fine del frammento 8, ci dà una certa sicurezza il confronto con un

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luminoso (flogo;" aijqevrion pu§r / favo") è, infatti, propizio (h[pion), rarefatto (ajraiovn) e leggero (ejlafrovn)35, mentre quello notturno è cieco (ajdah§), di struttura densa

(pukinovn) e pesante (ejmbriqev").

Mentre l'opposizione tra Fuoco rarefatto e leggero e notte densa e pesante non deve sorprendere, potendosi facilmente ricondurre all'interno delle riflessioni sulla natura dei primi fisiologi e alle loro osservazioni delle trasformazioni cui erano soggetti i costituenti del cosmo36, meno immediato è comprendere il senso della

contrapposizione tra i primi attributi che vengono assegnati alle due forme: h[pion e ajdah§. I significati più comuni di questi due termini, infatti, non si inseriscono nella dimensione fisica cui riconduce il senso degli altri attributi di Luce e Notte, ma sembrano investire queste due forme dei caratteri propri della personalità di un uomo o – meglio – di un dio. h[pio" significa, infatti, innanzi tutto “gentile, dolce37” – spesso

indicando un atteggiamento mite e allo stesso tempo giusto38 –; ajdahv" (a + *davw /

frammento di Alcmeone (24 B 4) secondo cui, per mantenere la salute, sarebbe necessario un equilibrio tra le forze (ijsonomivan tw§n dunavmewn, uJgrou§, xhrou§, yucrou§, qermou§, pikrou§, glukevo" kai; tw§n loipw§n) che corrispondono, di fatto, per la loro natura, ai diversi shvmata contrapposti attribuiti a Luce e Notte da Parmenide. Tra quelli che sottolineano la corrispondenza tra dunavmei" e shvmata nella seconda parte del poema dell'eleate si vedano Cornford (1933) p. 109, Tarán (1965), Coxon (1986) p. 360 della seconda edizione (Las Vegas-Zurich-Athens 2009), Palmer (2009) p. 173.

35 La forma originale del verso B 8.57 – in cui vengono elencati i shvmata del Fuoco etereo – appare difficilmente ricostruibile in ragione delle diverse versioni in cui compare nelle numerose citazioni che Simplicio fa del verso, e per le diverse varianti riportate dai codici. Il contesto in cui i vv. 53-59 vengono citati in Simpl. Phys. 30.20-31 spinge a supporre che il verso si sia corrotto in ragione dell'inserimento a testo di parte di uno scolio in cui, alle contrapposizioni riportate in questo passo del poema parmenideo – seppure espresse in forma diversa – (favo" / zovfo", kou§fon / baruv) ne vengono aggiunte altre, forse menzionate in altre parti del poema (qermovn / yucrovn, malqakovn / sklhrovn ). Questo ha spinto alcuni (Karsten, Diels, Tarán, Coxon) a espungere ajraiovn come lectio facilior, altri (come Frère) ad accoglierla e ad espungere ejlafrovn la cui diffusione nei testi filosofici non vanta un analogo pedigree. Cerri (1999) ha adottato la saggia scelta di presentare tra cruces una versione del verso ametrica – oltretutto attestata nei codici – comprensiva di tutti gli elementi presentati da Simplicio nelle diverse citazioni (h[pion o[n, mevg j ajraio;n ejlafro;n, eJwutw§/ pavntose twujtovn), per poi proporre – con cautela – a commento, di espungere o[n, mevg j in modo da non alterare la simmetria tra un catalogo di tre attributi assegnati a pu§r e quello di tre attributi assegnati a nuvx. Cfr. Cerri (1999) pp. 248-52 e Frère (1987) pp. 206-7.

36 Si consideri la tradizionale opposizione tra aijqhvr come luce celeste, da un lato, e ajhvr come nebbia densa e pesante, dall'altro, rispetto a cui si veda l'attenta analisi dell'evoluzione dei significati dei due termini in Kahn (1960) pp. 140-54 e Kinglsey (1995) pp. 15-23. Per le trasformazioni dei vari costituenti cosmici in base a processi di rarefazione e condensazione cfr. e.g. 13 A 6, A 7, A 8, B 1. 37 Cfr. e.g. Il. XXIV 370, Th. 407 e LSJ s.v. h[pio" 1. e 2.

38 Si consideri il modo in cui, nella Teogonia, viene presentato Nereo, il primo figlio di Ponto, da identificarsi con la tradizionale figura mitico-sapienziale del Vecchio del mare (cfr. Th. 1003). Qui h[pio" concorre infatti a definire Nereo come una divinità veritiera, degna di rispetto, giusta e benigna (Nhreva d j ajyeudeva kai; ajlhqeva geivnato Povnto~ presbuvtaton paivdwn: aujta;r kalevousi gevronta, ou{neka nhmerthv~ te kai; h[pio~, oujde; qemivstwn lhvqetai, ajlla; divkaia kai; h[pia dhvnea oi\den Th. 233-236). Cfr. Detienne (1967) pp. 17-33 della tr. it. (Roma-Bari 2008), in particolare p. 25 in cui si indica

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dah§nai) ha invece solitamente il senso di “ignaro di, incapace di”39. Se consideriamo

la corrispondenza tra shvmata e dunavmei" da noi proposta in base al confronto tra questi versi e il frammento 9, sembra evidente che al Fuoco venga attribuito un potere benigno, favorevole all'uomo, e che Nuvx, invece, sia definita ajdah§, cieca, ignara, probabilmente in seguito allo stesso procedimento mentale per cui nell'immaginario mitico tradizionale il Sole – la fonte di luce che permette agli uomini di vedere – è anche la più attenta vedetta di quanto succede sulla terra40. L'invisibile Notte (nukto;"

ajfavntou B 9.2) che, attraverso la sua oscurità non permette agli uomini di agire e di conoscere, si presenta, infatti, qui come una figura all'oscuro di qualsiasi cosa41.

Se si tiene a mente che l'ordine ingannevole che costituisce la seconda parte del poema rappresenta il risultato migliore che i mortali – sulla base delle loro opinioni – possono raggiungere nel tentativo di comprendere il reale, non appare sorprendente che i primi shvmata assegnati alle due forme diano delle indicazioni fondamentali sul modo in cui tali principi influiscono sulle facoltà umane di conoscere. L'intera visione che l'uomo ha della realtà appare infatti determinata dall'interazione tra la forma luminosa che, con la sua forza benevola, rende evidenti le cose che l'uomo si trova davanti, permettendogli – secondo la prospettiva ingannevole

come il termine h[pio~ si adatti a definire una figura paterna, giusta e benigna come quella del buon sovrano. Cfr. Untersteiner (1958) p. CLXXIV n. 27.

39 Non è mancato chi abbia cercato di dare a questi due attributi un senso che li riconducesse al piano fisico materiale degli altri semata di Luce e Notte. Miller (2006) p. 37 n. 55 dà infatti a h[pio~ il significato “yelding” (cedevole/flessibile), peraltro mai altrove attestato. Il senso traslato di “moderato, temperato” che h[pio" assume in alcuni passi (e.g. Pl. Phdr. 279b, Ti. 85a ) in cui viene riferito al caldo o al freddo, non sembra, peraltro, adattarsi a definire il principio igneo la cui intensità luminosa e termica deve essere apparsa tutt'altro che mite pace Diels che traduce “das milde”. Più vicino a quello che ha qui come attributo di pu§r appare il senso di h[pio" nell'espressione h[pion h[mar in un passo degli

Erga (vv. 785-87) in cui così viene definito il giorno adatto a castrare il bestiame e a costruire un

recinto. Nel tentativo di dare anche ad ajdahv" un senso fisico, Diels e Kranz, seguiti poi da una parte degli editori (e.g. Untersteiner, Tarán) hanno ipotizzato che, solo in questo passo di Parmenide, ajdahv" non vada identificato con il termine legato alla radice di *davw attestato altrove (e.g. Soph. Phil. 827, 1167, Hdt. IX 46), ma debba piuttosto collegarsi a davo~ “luce” e a daivw “illuminare”, definendo così la notte senza luce. Anche se, secondo la nostra interpretazione, il senso di ajdahv" comunemente attestato è perfettamente ammissibile per il nostro passo parmenideo, non è escluso che Parmenide voglia qui suggerire anche il senso di “priva di luce” (cfr. O'Brien in Aubenque I (1987) p. 60), ma non si deve dimenticare che la Notte nella doxa è una forza fisicamente positiva e non il risultato di una privazione della luce. Cfr. Thanassas (2006) p. 208 n. 24, Frère (1987) pp. 206-9.

40 Cfr.supra cap. 1 pp. 12-16. Si noti, per inciso, che Cerri (1999) p. 248 identifica flogo;" aijqevrion pu§r (B 8. 56) con la luce solare, portando a supporto di questa lettura diversi passi paralleli.

41 Coxon dà ad ajdahv" il senso di “unintelligent”. La traduzione per noi preferibile è “cieca”, per cui cfr. Cerri (1999) e Granger (2002) p. 113. Anche per Empedocle, peraltro, notte è cieca (nukto;" ejrhmaivh" ajlawvpido" 31 B 49).

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che contraddistingue la doxa – di conoscerle, e quella oscura che, invece, nasconde e ostacola i mortali nel loro processo conoscitivo42. Non a caso è dall'oscurità – cioè da

ciò che gli uomini normalmente non posso vedere e conoscere – che l'uomo concepisce la nascita del cosmo e, secondo il medesimo principio, anche il regno degli inferi – la regione in cui trova posto tutto ciò che non è presente sulla terra – è concepita come avvolta in una nebbia opaca43. È chiaro, quindi, che, nella prospettiva

ingannevole dei mortali – come ha rilevato giustamente Thanassas – l'assenza e la presenza delle cose nello spazio e nel tempo, da cui dipende la loro possibilità di essere conosciute dall'uomo, è spiegata attraverso l'interazione tra Luce e Notte44.

1.7 Luce e Notte nella ricerca della conoscenza: il frammento 16

È evidente peraltro che, nonostante le tre sezioni di cui si compone il poema parmenideo – il proemio, l'aletheia e la doxa – si distinguano per differenze sostanziali, tutte rappresentano, seppur in forme e con risultati diversi, il tentativo di raggiungere il massimo livello di conoscenza del reale. Nel proemio, infatti, l'aspirazione al più alto grado di sapere viene rappresentata attraverso lo straordinario viaggio che porta il protagonista a superare i limiti entro cui normalmente guarda alla realtà per apprendere – per bocca di una dea – come possa raggiungere tale obiettivo. La prima parte della lezione divina, a sua volta, mostra il difficile percorso conoscitivo che conduce all'unica vera conoscenza del reale, mentre la sezione finale rappresenta in che modo i mortali abbiano cercato di raggiungere il medesimo scopo, commettendo però un errore determinante – quello di stabilire le due forme – per cui, nonostante i loro sforzi, il massimo risultato che possono ottenere è il kovsmo"

42 Cfr. Mugler (1960), in particolare pp. 57-65.

43 Si veda, a questo proposito, quanto osserva Thanassas (2006) p. 207: “And why are exactly light and night declared to be the pillars of this system? This opposition, of great importance both for traditional Greek poetry and for the ordinary world-view, becomes central for Parmenides presumably because human knowledge in the sense of dokei§n rests on sensation and especially seeing. Light and night are introduced precisely as conditions for seeing, and more generally as conditions of any perceptual knowledge. They exclude each other mutually because all things either present themselves in the light as something present, or they elude (sense-)knowledge in the night”. Cfr. supra cap. 1, in particolare pp. 31-33.

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ajpathlov" minutamente descritto dalla dea.

Appare dunque di particolare interesse, a questo punto, prendere in considerazione un frammento in cui viene rappresentato – all'interno della prospettiva ingannevole dei mortali – il processo attraverso cui l'uomo comprende la realtà, per poi considerare – in un secondo momento – quale ruolo vi svolgano i principi su cui è fondato il quadro del cosmo che occupa la parte del poema di cui ci stiamo occupando. Questa analisi, infatti, ci permetterà di chiarire meglio la funzione che Luce e Notte hanno nello stabilire il rapporto che lega le tre sezioni del poema.

Sfortunatamente, però, il fatto di leggere questi versi del tutto isolati dal loro contesto ne rende per noi piuttosto difficile la comprensione, anche in ragione delle diverse varianti testuali con cui il frammento (B 16) è stato tramandato dai suoi due testimoni.

wJ~ ga;r eJkavstot j e[cei krh§sin melevwn poluplavgktwn, tw;~ novo~ ajnqrwvpoisi parevsthken: to; ga;r aujtov ejstin o{per fronevei melevwn fuvsi~ ajnqrwvpoisin kai; pa§sin kai; pantiv: to; ga;r plevon ejsti; novhma.

Come, infatti, ogni volta (ciascuno) ha la commistione delle membra molto erranti, così la mente si presenta agli uomini: giacché ciò che

conosce la natura delle membra per gli uomini

(per tutti e per ciascuno) è ciò che le corrisponde: infatti il pieno è pensiero45.

45 All’interno dei manoscritti delle due opere principali in cui è tradito B 16 – Aristotele Metafisica e Teofrasto De sensibus – la variante e[ch è tradita dal solo manoscritto E di Aristotele mentre gli altri manoscritti aristotelici hanno e[cei e Teofrasto e[cein. Per questo, è sta qui accolta la forma all'indicativo. Per quanto riguarda le altre questioni testuali relative al frammento, non rimangono molti dubbi sul fatto che la variante ejkavstot j– attestata dalla maggior parte dei testimoni e lectio difficilior – vada preferita a e[kasto~ – riportata solo dalla seconda mano di un manoscritto aristotelico e ripresa poi nel commento che del passo aristotelico fa Alessandro di Afrodisia. Essa, infatti, dà anche un senso migliore a un passo volto a sottolineare le mutazioni del pensiero umano all’interno del medesimo individuo, piuttosto che la differenza del modo di pensare degli uomini tra loro. La scelta tra parevsthke (Thphr.) o parivstatai (Aristotele e suoi commentatori) non cambia sostanzialmente il

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Per cercare di avere un’idea del contesto e del senso di questi versi, la maggior parte degli interpreti si è affidata – a buon diritto – alle parole con cui Aristotele e Teofrasto – i principali testimoni di cui disponiamo per questo frammento – hanno introdotto e commentato la loro citazione.

Pur non volendo affatto sminuire il valore di queste testimonianze, tuttavia, si sceglie qui, per il momento, di metterle da parte, riservandoci di ricorrervi nell’occasione in cui risultino utili alla nostra discussione. Le parole del frammento 16, anche grazie alle associazioni che possono avere evocato nel pubblico con conoscenze e immagini familiari dalla cultura coeva e precedente, saranno infatti per noi il punto di partenza per una riflessione più generale sul modo in cui l’eleate rappresenta la dimensione conoscitiva dell’uomo, suggerendo un percorso per superarla.

1.7.1 L’uomo ephemeros nella tradizione poetica

Già la prima frase, attraverso la rete di associazioni che può aver suscitato nel pubblico, sembra fornire la chiave di interpretazione dell’intero frammento e del suo ruolo all’interno del poema. L’affermazione che la mente, ogni volta, si presenta agli uomini secondo la commistione delle loro membra molto vaganti (B 16.1-2) rievoca,

senso della frase, ma la variante teofrastea sembra preferibile perché, al contrario di quella aristotelica, non altera la regolarità metrica del verso. Per argomenti a sostegno della lezione aristotelica – accolta anche nell’ultima edizione Diels Kranz – cfr. Passa (2009) pp. 48-51. Appare peraltro piuttosto verisimile che, come osservato da molti, parivstatai sia il frutto di una svista dello scriba per influenza del parivstatai del fr. 108 di Empedocle, citato appena prima nel passo della Metafisica. Anche la scelta tra la lezione tradita all’accusativo kra§sin – forma ionica krh§sin – e la correzione proposta dallo Stephanus e poi accolta da molti (Verdenius (1964), Taran (1965), Sassi (1978), KRS) krh§si~ al nominativo – in modo da dare un soggetto ad e[cei inteso come “è, si dispone” – non cambia sostanzialmente il senso della frase. In entrambi i casi, la correlazione stabilita è indubbiamente tra la commistione delle membra molto vaganti degli uomini e la disposizione del loro pensiero. Tra coloro che hanno scelto di non alterare il testo tradito, alcuni – come Diels (1897) e Coxon (1986) – hanno ritenuto che il soggetto di e[cei debba identificarsi con il novo~, altri – come Cerri (1999) – hanno più opportunamente proposto di individuarlo in un generico“qualcuno”, l’”uomo”, “ciascun uomo”. È infatti possibile che, nelle parole che precedevano immediatamente B 16, si leggesse il soggetto di e[cei krh§sin. A partire da questa giusta osservazione Ferrari (2010) pp. 20-23, 35-37, ha proposto una nuova collocazione di B 16, subito di seguito al fr. 8, intendendo come soggetto di e[cei il ti~ brotw§n di 8. 61.

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infatti, anche nella sua struttura sintattica, una sentenza tradizionale, attestata per la prima volta nell’Odissea, e poi ripresa con leggere varianti in Archiloco, in cui la natura mutevole del pensiero umano viene fatta dipendere dai cambiamenti della situazione con cui di giorno in giorno l’uomo si confronta. “Tale, infatti, è la mente degli uomini sulla terra, quale il giorno che conduca il padre degli uomini e degli dèi” (toi§o~ ga;r novo~ ejsti;n ejpicqonivwn ajnqrwvpwn, oi|on ejp jh\mar a[gh/si path;r ajndrw§n te qew§n te. Od. 18.136-37)46. Attraverso il chiaro richiamo a questi versi, Parmenide

sembra volere dunque inserire la sua rappresentazione dell’attività conoscitiva umana all’interno di una riflessione dalle radici antiche, che, però, ha acquistato – come abbiamo avuto modo di vedere47 – importanza cruciale nella produzione poetica e

sapienziale del suo tempo: quella secondo cui il pensiero dell’uomo è fondamentalmente caratterizzato dal suo carattere mutevole e incostante.

Come un acuto studio di Hermann Fränkel – Man’s “Ephemeros” Nature

According to Pindar and Others (1946) – ha da tempo mostrato, peraltro,

nell’immagine tradizionale che abbiamo visto espressa per la prima volta in Omero, la natura mutevole e precaria del pensiero umano appare strettamente connessa ai limiti della prospettiva con cui l’uomo guarda alla realtà. La mente umana è in continuo mutamento perché la sua visione non si estende oltre i confini del giorno che Zeus arreca (oi|on ejp jh\mar a[gh/si), laddove con h\mar non si deve intendere il giorno in senso stretto, quanto, piuttosto, una condizione contingente, come sembrano dimostrare espressioni omeriche del tipo ejleuvqeron h\mar48 “condizione di libertà”/

douvlion h\mar49, “condizione di schiavitù” / ajnagkai§on h\mar “momento fatale”50. Ed

è sulla prospettiva limitata con cui l’uomo guarda alla realtà in contrasto con la completa conoscenza che invece ne hanno gli dèi, che ruota la riflessione poetica di età arcaica sul rapporto tra esseri umani e realtà divine51.

46 Cfr. toi§o~ ajnqrwvpoisi qumov~, Glau§ke Leptivnew pavi?, / givnetai qnhtoi§~, oJpoivhn Zeu;~ ejf∆ hJmevrhn a[gh// (Archil. fr. 131W).

47 Cfr. supra cap. 2 p. 68, cap. 3 pp. 144-47. 48 Il. VI 455, XVI 831, XX 193.

49 Il. VI 463, Od. XIV 340, XVII 323.

50 Il. XVI 836. Fränkel (1946) p. 132 osserva “The notion of day is not meant to suggest duration; rather “day” is looked upon as the frame of some special occurrence or as symbol of some prevailing condition”.

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