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Capitolo IX Apollo dormiente e le Muse in fuga

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Academic year: 2021

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Fig.1 Apollo dormiente e le Muse in fuga, 1545-1549, olio su tela, 45,5 x 75 cm, Budapest, Szépművészeti Muzeum

9.1 - L’Apollo dormiente e le Muse in fuga

Il primo a riconoscere la mano di Lorenzo Lotto in questa tela esposta al Museo di Belle Arti di Budapest e a pubblicarla era Andor Pigler1. Per il critico l’opera (fig.1) si inseriva perfettamente nell’ambito della produzione più tarda dell’artista e poteva essere ricondotta con certezza alla seconda metà degli anni quaranta del cinquecento. Sulla base di un riscontro stilistico Binotto2 ne ha recentemente accolto la datazione al 1545-49: «Analogamente a quanto avviene nella pittura sacra, anche nei dipinti di soggetto profano si assiste, dalla seconda metà degli anni quaranta in avanti, a un progressivo allentarsi della tensione espressiva, che si traduce in un disegno più schematico, nella graduale riduzione della dimensione delle figure e nell'adozione di una gamma cromatica più smorzata e meno varia. La grafia insistita che definisce i contorni delle figure smaterializza via via la morbida consistenza dei panneggi e la plastica tornitura dei corpi. La spazialità diviene più compressa, costringendo in pose sforzate gli attori, lanciati in drammatici scorci che richiamano le audaci

1

A. Pigler, A New Picture by Lorenzo Lotto: “The Sleeping Apollo”, in “Acta Historiae Artium”, I, 1953-1954, p. 165: «un piccolo dipinto nel Dipartimento di Studio del Museo di Belle Arti di

Budapest; questa immagine si inserisce armoniosamente nella serie delle opere più tarde del Lotto» […] «La data del dipinto è abbastanza definita: la seconda metà degli anni quaranta».

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esperienze della svolta manierista verificatasi nella cultura figurativa veneziana intorno al 1540». Contorni più definiti, figure sottodimensionate, spazio compresso, disegno schematizzato, cromia smorzata: queste, dunque, le caratteristiche riscontrabili nel dipinto in esame che avrebbero indotto la studiosa ad inserire l’Apollo dormiente in quel gruppo di opere realizzate intorno agli anni ’40 del secolo, accomunate da un linguaggio espressivo differente, più vicino alle esperienze del manierismo.

Prima di arrivare in Ungheria la tela, che come si è visto (paragrafo 1.2) Lotto3 aveva in diverse occasioni registrato nel suo libro di spese, sarebbe andata incontro ad una serie di vicissitudini. Il 9 giugno 1549 l’opera veniva affidata dall’artista al collega e amico Jacopo Sansovino insieme ad altri cinque dipinti affinché fossero venduti: il proposito non sarebbe andato purtroppo a buon fine e la tela sarebbe tornata al suo esecutore. Nell’agosto del 1550 essa compariva nel gruppo di 46 dipinti presentati all’asta della Loggia dei Mercanti di Ancona; anche in quest’occasione il tentativo di trovare un acquirente sarebbe fallito. Per nulla rassegnato, il 2 dicembre del 1551 Lotto faceva recapitare a Roma, all’orefice e balestriere Francesco da Rocca Contrada, una “balla” contenente i sei dipinti invenduti, tra cui l’Apollo, e una serie di oggetti, compresi alcuni cammei. Se questi fosse riuscito a “piazzarli” avrebbe dovuto consegnare il denaro guadagnato al mercante bergamasco Francesco Petrucci, anch’egli attivo nella capitale. Il libro di spese4 ci informa, però, che il 25 di quello stesso mese Lotto, non fidandosi più dell’uomo “per desordeni cadutj de soj figlioli”, esigeva la restituzione dei dipinti; ma questi sarebbero rimasti in custodia del mercante ancora a lungo.

Nel dicembre del ’52, l’artista incaricava, così, il “Magnifico Cavalier Philago” di condurli con sé nel ritornare da Roma: in data 26 luglio 1553 la tela era finalmente a Loreto. Sarebbe ricomparsa successivamente nella celebre collezione di Bartolomeo della Nave (1571/1579-1632) per rimanervi fino al 1637, anno in cui l’ambasciatore britannico a Venezia Lord Basil, acquistava l’intera raccolta per conto del cognato James, terzo marchese di Hamilton. Nel 1649 la collezione passava in eredità al fratello William il quale, abbandonata l’Inghilterra, la portava con sé in Olanda per poi cederla all’Arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo; nella prima metà del Settecento la tela faceva ancora parte delle collezioni della corte viennese.

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P. Zampetti, Il “Libro di Spese Diverse” con aggiunta di lettere e d’altri documenti, Roma, 1969.

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A questo punto, le notizie riportate da Pigler e Binotto si contraddicono: secondo il critico ungherese il dipinto avrebbe lasciato la capitale asburgica nel 1770 per essere trasferito nel castello di Pozsony e da qui raggiungere la città di Buda, dove nel 1848 avrebbe fatto il suo ingresso nella raccolta del Museo di Belle Arti della città, per rimanervi stabilmente fino ai nostri giorni. Binotto, da parte sua, ha precisato che l’Apollo sarebbe giunto a Buda nel 1780 ed entrato a far parte del patrimonio della Pinacoteca cittadina più tardi, nel 1865. Nonostante le sue peregrinazioni la tela si presentava in buone condizioni, ad eccezione di qualche intervento conservativo, ad esempio nello sfondo paesaggistico; era evidente, tuttavia, che questa fosse stata privata della sua cornice e le sue dimensioni ridotte rispetto all’originale.

L’Apollo - Zampetti5 ricordava che fino alla sua scoperta per merito di Pigler nel ’53 esso era stato a lungo attribuito ad un pittore olandese - secondo un primo inventario risalente al 1659 doveva misurare 79 x 114 cm. Nel 1720, però, risultava essere già avvenuta la resecazione della tela su entrambi i lati: secondo lo studioso ungherese il taglio avrebbe escluso buona parte della raffigurazione alla destra dell’albero di alloro. E Binotto, informata dal conservatore del museo di Budapest Alex Vécsey, ha aggiunto: «il dipinto» […] «rimase esposto nello Stallburg a Vienna fino al 1772. L'ubicazione sotto una finestra, in pendant a un'altra scena mitologica, “Diana e Atteone” di Bernaert de Rijckere, è documentata da un disegno inserito in un manoscritto del 1720, dal quale risulta già avvenuta la resecazione su entrambi i lati della tela. E' sparita la porzione di destra dove erano raffigurati un tronco e cinque muse, di cui resta memoria nell'incisione, in controparte, raffigurata in Stampart, Brenner».

A suo dire, dunque, sarebbe rimasta memoria dell’estremità destra della tela in un’incisione pubblicata nel volume che illustra le collezioni dell’Arciduca Leopoldo d’Asburgo conservate nella Galleria Imperiale di Vienna6; qui sarebbero state immortalate le altre cinque muse vicino ad un tronco. In realtà, la tavola (fig.2) anziché raffigurare la porzione mancante del dipinto sembrerebbe limitarsi a

5

P. Zampetti, in “Arte Veneta”, VII, 1953, p. 167: «El paese con apollo addormentato» […]

«Un’opera, questa, che si riteneva perduta, dato che, dopo le annotazioni dello stesso autore, se ne era persa ogni notizia. Invece essa è stata fortunatamente rintracciata, identificata e recentemente pubblicata da A. Pigler. Il benemerito studioso è riuscito appunto a riconoscere questa smarrita opera di Lorenzo Lotto in un dipinto del Museo di Belle Arti di Budapest, finora erroneamente attribuito ad un pittore olandese del secolo XVI».

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riprodurlo in controparte. Se all’opera non fosse stato inferto questo taglio oggi avremmo una visione completa che probabilmente faciliterebbe la lettura iconografica del soggetto.

Fig.2 Riproduzione in controparte dell’ Apollo dormiente e le Muse (in alto a sinistra), tav. 17, Prodromus, 1735

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9.2 - Un’iconografia senza precedenti

Certo che la scena raffigurata dal pittore non si attenesse alla consueta iconografia del Parnaso - in cui Apollo suona la lira mentre le Muse “danzano e cantano in coro” - sintetizzata da Cartari (fig.3), e nota grazie a celebri opere come il Parnaso di Raffaello (fig.4), Pigler offriva una dettagliata descrizione7 del soggetto, osservando giustamente che lo spazio è suddiviso verticalmente in due parti, in corrispondenza dell’albero d’alloro posto al centro. Accorgendosi che tale bipartizione avvicinava l’opera ai celebri coperti allegorici conservati a Washington8, egli deduceva che l’espediente dovesse essere particolarmente caro a Lotto. Il quadro descriverebbe, dunque, una scena inconsueta: «Ai margini di una radura delimitata da un boschetto di alloro, il giovane dio addormentato si appoggia a un tronco con il gomito del braccio destro, mentre con la mano sinistra regge una lira da braccio. La faretra con le frecce, l’arco e una lancia sono appesi, inutilizzati, a un albero; la Fama, atteggiata in posa araldica con le braccia distese e nelle mani una tromba dritta e un flauto, si allontana volando verso i prati digradanti dell’ampia vallata; quattro muse, in grande agitazione, additano qualcosa di non definibile in lontananza. Hanno abbandonato, sull’erba, nella fuga precipitosa, le loro tuniche colorate, che brillano illuminate dal sole» […] «si distinguono alcuni dei loro attributi, quali la sfera armillare di Urania, il flauto di Euterpe, il rotolo di papiro di Calliope. Non riferibili ad alcuna specifica musa sono i volumi rilegati, una bacchetta, mentre lo strumento a forma trapezoidale a lati ricurvi dovrebbe rappresentare un salterio (una sorta di cetra)».9

7

A. Pigler, op. cit., p. 165: «A destra, nella fredda ombra degli alberi d’alloro, vediamo la figura

nuda di Apollo addormentatosi suonando il violino. Il terreno davanti ai suoi piedi è cosparso degli abiti abbandonati e degli emblemi delle nove Muse, inclusi libri, un cartiglio manoscritto, flauti, cetra, e un globo celeste» […] «le Muse si avvalgono del riposo del loro capo e di colpo si disperdono in direzione della lussureggiante valle visibile sulla sinistra dell’immagine. Solo quattro di loro sono ancora visibili, siccome si stanno involando, piene di agitazione ma ovviamente compiaciute della loro appena ritrovata libertà. Al di sopra della figura di Apollo vediamo il genio alato della Fama, in procinto di abbandonare con disappunto la collina del Parnaso dissacrato dal comportamento sconsiderato dei suoi abitanti divini».

8

Ibidem, p. 166: «Una composizione divisa nel mezzo sembra essere stato un dispositivo caro e a

lungo prediletto da questo artista. Uno dei suoi primi dipinti allegorici (1505), realizzato originariamente come timpano per il ritratto del Vescovo Bernardo De’ Rossi» […] «ha ugualmente uno spesso tronco d’albero nel mezzo, con le figure raggruppate su entrambi i suoi lati».

9

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Fig.3 Apollo in mezo delle Muse, incisione, Imagini delli dei de gl’antichi, ed. 1647

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Ciò che contribuisce a fare di questa iconografia un esempio privo di precedenti è certamente il motivo degli abiti e degli oggetti sparsi dalle Muse in apparente disordine ai piedi del dio. Esso era destinato a destare la curiosità di molti studiosi, tra cui Bonnet10 il quale dichiarava con stupore: «I vestiti e i diversi oggetti (libri, flauti, globi terrestri) che loro hanno abbandonato ai piedi di Apollo formano, nella chiazza luminosa della radura, una magnifica natura morta». Riguardo al significato dell’iconografia egli aggiungeva: «L’allegoria sembra significare che in assenza della suprema moderazione, non importa quale, ogni attività si trasforma in vana libertà».

Anni prima Meiss11, nell’ambito di un saggio dedicato alla fortuna dell’iconografia delle figure dormienti nella Venezia del Cinquecento - nello specifico Venere - prendeva in esame “l’incantevole dipinto” definendola un’allegoria di sapore idillico. Sebbene ricordasse che Orazio aveva parlato di Muse nude danzanti, lo studioso americano ammetteva di non conoscere precedenti antichi dell’iconografia dell’Apollo dormiente. Egli spiegava che, nell’antichità, Greci e Romani avevano immaginato l’esistenza di un dio del sonno chiamato Hypnos, o Somnus (denominato spesso dai poeti come fratello della Morte): nelle arti le figure dormienti cadute sotto la sua influenza generalmente avevano le sembianze di creature della foresta (ninfe e fauni) o giovani cupidi. Successivamente, nell’età di mezzo, il tema del sonno si sarebbe caricato di due significati: uno positivo - come condizione favorevole all’esperienza diretta del sovrannaturale da parte dell’uomo12 - e uno negativo, in base al quale sarebbero state interpretate come simbolo di decadenza morale, accidia, ignavia. Il critico - che faceva tra l’altro notare come gli umanisti13 si fossero

10

J. Bonnet, Lorenzo Lotto, Parigi, 1996, p. 41.

11

M. Meiss, Sleep in Venice. Ancient Myths and Renaissance Proclivities in “Proceedings of the American Philophical Society”, CX, 5, 1966, p. 358: «Apollo si è addormentato in un isolato

boschetto di allori sul Parnaso, tenendo ancora in mano il suo violino. Le Muse, vedendo il loro dio per così dire in vacanza, abbandonano velocemente non solo i loro attributi ma anche i loro abiti. Il terreno davanti ad Apollo è disseminato di vestiti, strumenti musicali, libri, e una sfera armillare. In alto la Fama s’invola. Delle Muse che sono fuggite quattro sono ancora visibili sulla collina, nude, mentre gesticolano con eccitazione».

12

Lo studioso sottolineava come in arte la visione del paradiso cogliesse generalmente individui sognanti e che sul tema dell’esperienza sovrannaturale e della contemplazione estatica del divino Lotto si era già espresso nell’Allegoria della Castità di Washington, presa in esame al capitolo III.

13

Meiss, ibid., p. 359: «Nel tardo XV° secolo Ficino e i Neoplatonici svilupparono una concezione del

sonno strettamente connessa. Lo concepivano come una forma di abbandono, che predisponeva l’anima alla contemplazione e alla comunicazione con il divino».

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attribuiti il merito di aver risvegliato le Muse da un profondo sonno durato secoli - ipotizzava, dunque, che il soggetto elaborato da Lotto potesse essere letto come allegoria del deteriorarsi delle arti nel Medioevo, oppure come il loro declino sotto un mecenate rivale. Rappresentando un apollo “dormiente”, Lotto si sarebbe del resto allineato a quei pittori veneziani che, a dire di Meiss, non esitavano a “far dormire” le divinità - inclusa Venere - e che, se non supportati dal mito, semplicemente inventavano. Un passo in avanti nella decifrazione dell’iconografia veniva compiuto qualche decennio più tardi da Weddigen14 relativamente alla figura della Fama. Come si può leggere nell’Iconologia del Ripa15 l’allegoria ha fra i suoi attributi una tromba: «Donna con una tromba nella mano dritta, & nella sinistra con un ramo d’oliva, haverà al collo una collana d’oro, alla quale sia per pendente un cuore, & haverà l’ali bianche à gl’homeri. La tromba significa il grido universale sparso per gl’orecchi degl’huomini. Il ramo d’oliva mostra la bontà della fama, e la sincerità dell’huomo famoso per opere illustri» […] «Il cuore pendente al collo, significa, come narra Oro Apolline ne i suoi Ieroglifici, la fama d’un huomo da bene. L’ali di color bianco, notano la candidezza, & la velocità della fama buona». Ma nel dipinto in esame essa stringe fra le mani non una, bensì due trombe: dunque, in questa inusuale immagine del Parnaso, il pittore avrebbe inteso alludere alla fama doppia16, quella buona e quella cattiva17 inscenando un’opposizione fra “ozio” e “industria”. Le due trombe, ovviamente, non sono gli unici attributi a riferirsi alla sfera musicale e infatti, abbandonati sull’erba o sul pelo dell’acqua, vi sono anche altri strumenti: un flauto, una lira, un salterio ecc. La ricorrenza di questi elementi avrebbe indotto Klara Garas18 ad ipotizzare che l’opera fosse stata pensata dall’artista per essere collocata in una stanza della musica ed Agnes Czobor19 a suggerirne la funzione di

14

E. Weddigen, in “Artibus et Historiae”, V, 10, 1984, p. 83.

15

C. Ripa, Iconologia, ed. 1603, p. 143.

16

V. Cartari, Immagini delli dei de gl’antichi, ed. 1647, p. 325: «dinanzi a questi và scuotendo l’ali la

Fama apportatrice non meno del falso, che del vero»[…]« Fecero gli antichi la Fama ancora Dea & la dipinsero in forma di donna vestita di panno sottile, e tutta succinta, che mostra di correre via velocemente con una stridendo le tromba alla bocca. Et per meglio mostrare la sua velocità, le aggiunsero l’ali» […] «la Fama non era una sola, ma due; & chiamavasi buona quella, che nunciava il bene, & ria quella, che portava il male, e questa a differenza dell’altra havea l’ali negre, onde Claudiano scrivendo contra Alarico dice, che la fama stese le negre ali».

17

Ivi: «Donna con un vestito dipinto d’alcune imaginette nere, come puttini con l’ali nere, & con una

tromba in mano, conforme al detto di Claudiano nel lib. della guerra Getica, contro Alarico».

18

K. Garas, The Budapest Gallery. Paintings in the Museum of Fine Arts, Budapest, 1973

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copertura di uno strumento a tastiera. Mariani Canova20 leggeva, invece, l’ Apollo addormentato come un’allegoria in cui “in assenza della suprema misura dell’arte”, (Apollo addormentato), le attività liberali (“Muse discinte al bagno”) si riducono a “vana licenza”. Oltre a Bonnet21, anche Christiansen22 avrebbe concordato con la studiosa, mentre Marques23 avrebbe addirittura individuato nella tela di Lotto un antecedente del tema delle Arti Liberali che dormono in tempo di guerra (fig.5), opera che lo studioso riconduceva alla mano di Frans Floris de Vriendt, oggi attribuita a Lucas de Heere.

Le letture della tela di Budapest, ovviamente, non si esauriscono qui. Di un certo interesse è quella proposta da Augusto Gentili24, il quale affermava: «Il Parnaso, sede eletta di Apollo e delle Muse, è lo spazio privilegiato in cui si attua la sublimazione della voluptas musicale nella superiore armonia apollinea» […] «Condizione prima di questo processo di sublimazione è l’esercizio attivo della “virtus” da parte di Apollo: sul piano cosmologico, come coordinatore solare del regolato movimento delle sfere - allegorizzate nelle Muse - a garanzia della stabilità dell’universo in base a moduli gerarchici trasferibili nella sfera etico-politica; sul piano culturale, come avveduto organizzatore delle diverse arti - allegorizzate ancora sulle divine fanciulle - in un sistema di pratiche funzionali al potere. Nel momento di Parnaso l’esclusivo club Apollo-Muse si concede una sosta, come a tirar le fila di tanto frenetica attività. Ma nessuno dorme: l’abbandono della ragione nell’incoscienza del sonno è assolutamente impensabile nella cerchia preposta proprio alla definizione e all’organizzazione di un ordine saldamente razionale.

20

G. Mariani Canova, in L’opera Completa del Lotto, 1975, p. 120, n. 248.

21

J. Bonnet, op. cit.

22

K. Christiansen, in Mélanges en hommage à Pierre Rosenberg, Parigi, 2001, p. 148.

23

L. Marques, La parola di Apollo, in Dipingere la musica, Milano, 2000, p. 165, n. II.11: «Tagliata

sulla destra, la tela compare nel Libro dei conti di Lotto sotto la menzione “Apollo dormiente e le Muse andar disperse e la Phama levarsi a volo”» […] «le muse, spogliate dei loro attributi, lasciano Apollo addormentato per abbandonarsi nella natura ai piaceri della licenza e dell’immoderatezza, con il conseguente allontanarsi della fama. Una tale allegoria può rimandare a diversi contesti intellettuali, dal concetto plotiniano e ficiniano di processione delle ipostasi dalla loro origine nell’Uno, fino a una più probabile meditazione sull’importanza della regola nell’opera d’arte, non essendo da scartare neppure un’eventuale connotazione politica, come l’addormentarsi di Apollo in tempi di guerra. L’opera fu dipinta fra il 1545 e il 1549, e sembra in questo senso l’antecedente più importante del tema delle “Arti Liberali che dormono in tempo di guerra”, dipinto vent’anni dopo da Frans Floris de Vriendt (Torino, Galleria Sabauda)».

24

A. Gentili, Problemi del simbolismo armonico nella cultura post-elisabettiana, in E. Castelli (a cura di), Il simbolismo del tempo, Roma, 1973, pp. 78-80.

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Fig.5 Lucas de Heere, Arti liberali in tempo di guerra, Torino, Galleria Sabauda

Si tratta dunque di un momento di “quies”, di riposo che non esclude la meditazione: anzi, toccate dalla dolcezza dei suoni e dei canti che Apollo durante la stasi diffonde per il monte, le Muse già pensano alle future operazioni dettate dall’ispirazione divina». Il Parnaso, dunque, è il luogo in cui la “voluptas musicale” viene sublimata e Apollo e le Muse si concedono una “sosta”, che non è però il profondo torpore a cui il dio si abbandona nel dipinto di Budapest. Secondo lo studioso Lotto avrebbe operato un’interpretazione critica dell’ottimismo apollineo sopra descritto giungendo al suo ribaltamento: «Apollo dorme: sono appesi ad un albero gli strumenti della sua attività - arco, faretra e asta - e restano inutilizzati anche quelli della sua contemplativa armonia, poiché la lira da braccio pende ormai di traverso dalla mano molle e l’archetto è già in terra. Prive di regola e di guida, le Muse s’abbandonano all’ebbrezza di un’incontrollata voluptas: hanno gettato in terra alla rinfusa i loro nobili emblemi; hanno finanche deposto le vesti - loro caste e modeste per definizione - e s’aggirano sfrenatamente per la campagna, alla maniera quasi delle rivali Baccanti. Il fonte di Pegaso è deserto, il Parnaso tace: la Fama, che nulla può trovarvi da rendere eterno presso le genti, s’invola rinunciando a dar

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fiato alle sue trombe. Nella sua unicità iconografica, il “Parnaso” lottesco indica inequivocabilmente la consapevolezza di una situazione di riflusso politico-culturale: non si spiega altrimenti questo solitario ribaltamento del mito apollineo in versione pessimistica, con il riconoscimento che l’armonia della cultura - e della civiltà di classe che la sottende - può essere turbata dal “disordine”».

In altre parole, il “quadretto lottesco” avrebbe inteso esprimere la possibilità di una “visione eccentrica” del mito rispetto alla codificazione che ne era stata fino a quel momento offerta, avvalendosi di un repertorio iconografico “esornativo e neutralizzato”. L’artista ne avrebbe stravolto gli elementi “in una ridisposizione segnata di sottile ironia”. Di un simile avviso sarebbe stata Griseri25 secondo la quale il pittore dell’Apollo, avrebbe “venato il paesaggio arcadico di una sfumatura pessimistica, di un'ansia che deforma figure e composizioni per cogliere un'umanità ormai lontana dall'età dell'oro”. Per Binotto, addirittura, l’artista avrebbe inteso muovere una “critica all’ordine sociale e culturale di Venezia”.

9.3 - Datazioni

Secondo Binotto l’opera in esame dovrebbe risalire a non prima della metà degli anni ’50 del secolo, considerate le sue forti affinità con opere tarde come ad esempio il Sacrificio di Melchisedec (fig.6), per quanto concerne lo stile, e il San Girolamo della Galleria Doria Pamphili di Roma (fig.7) relativamente alla cromia. Già Pigler aveva proposto il confronto con la prima delle due suddette opere: a suo dire entrambi i dipinti rifletterebbero la sensibilità del pittore nei confronti della natura presentando fra l’altro una composizione bipartita. Mentre, però, nell’Apollo la cesura è prodotta dal tronco d’albero, nell’Abramo e Melchisedec essa è dovuta al tavolo sacrificale delle offerte. Una simile bipartizione veniva individuata da Zampetti anche nel Cristo che esce dal Pretorio (fig.8):

25

A. Griseri, Arcadia: crisi e trasformazione fra Sei e Settecento, in “Storia dell’arte italiana”, Torino, 1981, pp. 527-595.

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Fig.5 Sacrificio di Melchisedec, 1551-55 circa, olio su tela, Loreto, Museo Pinacoteca della Santa Casa

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Fig.6 Cristo esce dal Pretorio, 108 x 95 cm, collezione privata

« la scena è divisa ugualmente in due parti, in questo caso da una colonna. Ma il dipinto di Budapest è evidentemente assai più tardo di queste opere: e concordo perfettamente con il Pigler nel ritenerlo eseguito tra il 1545 ed il 1550». Fuori dal coro erano le datazioni avanzate da Berenson26, Bianconi27 e Gentili28, i quali anticipavano l’esecuzione della tela al 1525-1530. Ma ancora più isolata era la tesi di Fasola29, che addirittura accostava il quadretto al Sogno di Fanciulla30 di Washington, asserendo: «Il nudo di Apollo è ancora tanto belliniano, la scena bipartita con l'albero è uno schema che ci riconduce ai primi quadri, né si può prendere come criterio temporale, come fa il Pigler, il contrapposto manieristico dei nudini delle Muse» […] «E' piuttosto verso il tempo della “Susanna”» [...] «o poco dopo che metterei quest'operetta fresca di delizie, e cioè intorno al 1517».

26 B. Berenson, 1955, p. 169. 27 P. Bianconi, 1955, p. 91. 28

A. Gentili, op. cit., p. 79.

29

G. Nicco Fasola, Per Lorenzo Lotto, in “Commentari”, V, 2, aprile-giugno, 1954, p. 105.

30

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Il solo a mettere in dubbio l’autografia del dipinto sarebbe stato Lucco31: egli riteneva che l’opera conservata a Budapest fosse una copia antica tratta dall’originale lottesco. Del resto, Pigler32, tramite Campori ( Raccolta di cataloghi ed inventari inediti di quadri, disegni, bronzi, dorerie, smalti, medaglie, avorii ecc. dal secolo XV al secolo XIX, Modena 1870, rist. Bologna 1975), era venuto a conoscenza dell’esistenza di un inventario del 1680 che registrava la presenza di una replica o copia del soggetto nella collezione Farnese di Parma. Nel ’56 Fiocco33 pubblicava, inoltre, una tela (“teluccia”) di collezione privata (fig.8) in cui effettivamente la parte sinistra del dipinto di Budapest è ripresa quasi alla lettera; lo studioso, mettendone in risalto le differenze nella definizione del paesaggio, la chiamava erroneamente Ninfe al bagno. In definitiva, Pigler34 riconduceva l’opera nell’alveo della produzione artistica veneta del cinquecento e nello specifico all’ambito di Giorgione e Palma il Vecchio. A conferma di ciò egli considerava sia il lirismo nel trattamento del paesaggio - riscontrabile anche nella pittura di Giorgione - sia il

31

M. Lucco, Lotto e le Marche, in Lorenzo Lotto a Recanati, Venezia, 1998, p. 79. Nel 2001 (in

Lorenzo Lotto e i lotteschi a Mogliano, a cura di M. Paraventi) lo studioso avrebbe ribadito il concetto

spiegando che era consuetudine elevare delle semplici copie alla condizione di originali quando questi andavano perduti: «Quando si guardi al numero veramente consistente di copie dalle sue

composizioni, tuttora esistenti, o a volte perdute (col risultato, in questo caso, che quasi sempre la copia viene promossa al rango di originale, come per l’Apollo dormiente e le Muse di Budapest)».

32

A. Pigler, Katalog der Galerie Alter Meister, 2 voll., Budapest, 1967, p. 396.

33

G. Fiocco, in “Arte Veneta”, X, 1956, pp. 186-187: «il particolare di un grazioso dipinto del

sensitivo maestro, con “Apollo dormiente e le Ninfe”» […] «scoperto dal Pigler fra le opere del Museo Magiaro, e rievocato dallo Zampetti anche in “Arte Veneta”» […] «E' in una raccolta parigina. Vi si riproduce, come soleva talvolta fare il Pittore, il motivo delle Ninfe al Bagno, quasi quadro a sé, e a suo modo concluso. Si tratta non già di una tavola, ma di una sottile teluccia incollata sul legno di soli cm. 17 x 26, la quale riprende nella figura quasi letteralmente il quadro di cui si teme la perdita. Ma la scena gentile si svolge entro un paesaggio del tutto variato». A dire il

vero il paesaggio, così come le quattro figure femminili che lo animano, sembra esattamente identico a quello che fa da sfondo alla scena raffigurata nella tela di Budapest, per non parlare del fatto che non vi è alcuna evidenza documentaria che Lotto abbia trattato in altre occasioni il tema delle ninfe al bagno - che tra l’altro sarebbero delle muse - tantomeno come soggetto indipendente.

34

A. Pigler, A new picture…, cit., p. 165: «schema coloristico dell’immagine, se diametricalmente

opposto alla tradizione veneziana, è eminentemente caratteristica di Lotto: i colori non sono nemmeno distribuiti ma concentrati sulla destra della tela, nel mucchio di vestiti sparsi a terra».

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particolare uso del colore, opposto a quello proprio della tradizione veneziana. I colori non sono distribuiti, bensì concentrati nella parte destra del dipinto, a mettere in risalto il bellissimo brano di natura morta che sta ai piedi del dio. Ciò che distingue maggiormente Lotto è l’impiego dei blu e dei rosa. Zampetti poneva, inoltre, l’accento sull’importanza accordata da Lotto alla luce: « Ancora una volta il pittore ha dato una straordinaria importanza alla luce, che penetrando, al di là dell’albero fronzuto del primo piano, in quella specie di antro erboso nel quale giace il Dio addormentato, dà risalto agli oggetti sparsi sul prato fiorito e s’insinua tra le sue stesse membra, creando una agitata atmosfera di luminosità, là dove tutto è immerso in una silente immobilità».35

Per quanto concerne il soggetto della tela, la critica non è stata ancora in grado di individuare la precisa fonte letteraria alla quale Lotto si sarebbe ispirato per raffigurare questo misterioso episodio. Forse, sarebbe più saggio rassegnarsi all’idea che una fonte vera e propria non esiste e mai è esistita e accettare il fatto che l’iconografia sia semplicemente frutto della geniale mente del pittore36.

Fig.7 Muse in un paesaggio, (copia da Lotto?), olio su tela, 17 x 26 cm, Parigi, collezione privata

35

P. Zampetti, op. cit., p. 168.

36

A. Pigler, op. cit., pp. 167-168, cit.: «La fonte del soggetto al momento è sconosciuta» […]

«Apparentemente, non deriva dalla leggenda classica; potrebbe contenere un’allusione a qualche evento di vita letteraria».

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