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Academic year: 2021

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CAPITOLO SECONDO

Le normative sulla

sicurezza

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2.1 Evoluzione della normativa

La “salute” è definita, nel Decreto Legislativo 81 del 9 Aprile 2008, come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o di infermità”.

La salute è anche un bene essenziale per lo sviluppo sociale, economico e personale, ed è aspetto fondamentale della qualità della vita.

La “tutela della salute nei luoghi di lavoro” è la difesa o salvaguardia del diritto alla salute e si concretizza attraverso un insieme di processi finalizzati alla creazione, mantenimento e gestione di luoghi di lavoro privi di rischi. Il primo passo per ottenere questa salvaguardia è quello di controllare i rischi riducendo la possibilità di avere infortuni e/o contrarre malattie professionali.

La tutela della salute dei lavoratori è garantita dalla Costituzione e dalle norme legislative: essa è concretamente connessa al rispetto delle norme ed alla cultura della prevenzione presente nelle aziende.

Le norme legislative, in materia di igiene e sicurezza del lavoro emanate fino ad oggi, racchiudono circa un migliaio di provvedimenti, i primi dei quali risalgono alla fine del 1865. Nel 1898 (Regio Decreto n° 30) è introdotta l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (da cui successivamente nasce l’INAIL) e si afferma il concetto di responsabilità oggettiva del datore di lavoro limitata alla “riparazione del danno”, la quale comporta il “risarcimento economico” per il lavoratore che subisce l’infortunio (venne introdotto il concetto della fatalità o errore umano nell’accadimento degli infortuni). La norma si configura tuttavia come tutela previdenziale assicurativa contro il rischio e non come norma di prevenzione.

Sempre in materia è comunque opportuno fare una netta distinzione concettuale tra due definizioni:

- infortunio: evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o

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parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di 3 giorni;

- malattia professionale: malattia dovuta all’azione nociva, lenta e protratta nel tempo, di un fattore di rischio o comunque dannoso (ad esempio, tipo di lavoro o materiali usati durante il lavoro) presente nell’ambiente in cui si svolge qualsiasi attività lavorativa.

Il 1898 fu il punto di partenza per l’emanazione di numerose leggi e regolamenti tecnici che hanno subito costantemente un progressivo e decisivo cambiamento, sia dal punto di vista tecnico che culturale, fino ad arrivare all’emanazione del nuovo Codice Civile e quindi all’art. 2087, articolo nel quale la tutela della salute nei luoghi di lavoro ha trovato e trova, ancor oggi, il suo massimo riconoscimento.

Nel 1930 è emanato il Codice Penale e sono evidenziati per la prima volta i reati in materia di sicurezza del lavoro a carico dell’imprenditore. In particolare:

- art. 437 (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro) – chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni;

- art. 451 (Omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro) – chiunque, per colpa, omette di collocare ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati alla estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire duecentomila a un milione.

Nel 1942 è emanato il nuovo Codice Civile: è separata la prevenzione dalla tutela assicurativa e la tutela della salute del lavoratore si configura come dovere posto a carico del datore di lavoro. Egli è, quindi, chiamato ad adottare in tutti i posti, in tutte le fasi del lavoro, in ogni luogo e ogni momento, non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente in materia, ma anche quelle comunque ritenute necessarie alla luce della “migliore tecnologia” e del patrimonio di esperienza per quella determinata attività. L’art. 2087 c.c. in

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questione, rubricato, non a caso, “tutela delle condizioni di lavoro”, costituisce la norma principale e chiave in materia di misure antinfortunistiche, la norma cardine a cui far riferimento quando il lavoratore invoca una tutela del suo diritto alla salute, quando rivendica in giudizio l’inadempimento a questa obbligazione, chiedendo una tutela di carattere risarcitorio al giudice del lavoro.

Con l’art. 2087 il legislatore ha voluto quindi formulare una norma volutamente “aperta”, generale, perché riteneva opportuno non definire degli standard di sicurezza predeterminati per evitare che potessero essere messi in crisi o risultare obsoleti con l’evoluzione del progresso tecnologico e dei sistemi di produzione, dai quali sarebbero senz’altro derivati nuovi rischi e nuovi tipi di malattie professionali. Tale norma conferisce un vero e proprio diritto soggettivo alla sicurezza e salute sotto il duplice aspetto della prevenzione e del risarcimento del danno e può, a giusta ragione, essere considerata, rispetto al complesso delle norme di tutela, come punto di partenza e al contempo di arrivo. Essa infatti fornisce le coordinate sulle quali vanno poi ad inserirsi le disposizioni della legislazione “tecnica”, che di fatto specificano gli obblighi generali dell’art. 2087, ma allo stesso tempo rappresenta un punto di arrivo nel momento in cui costituisce la norma di chiusura del sistema, nel senso che ad essa si ritorna là dove si richieda una “copertura” ai vuoti eventualmente, o meglio necessariamente, lasciati dalle regole tecniche.

Qualche anno dopo il principio della tutela della salute venne garantito anche da fonti costituzionali. Con l’avvento della Costituzione nel 1948, infatti, si afferma che la salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e deve essere tutelata anche a discapito dell’iniziativa economica privata. In particolare si prendano in considerazione i seguenti articoli:

- art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”;

- art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.

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- art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in

contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Altri due importanti decreti, emanati verso gli anni ’50 e successivamente abrogati, furono il D.P.R. 547/55 (Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) e il D.P.R. 303/56 (Norme generali per l’igiene del lavoro). Destinatari del primo decreto sono stati tutti i lavoratori subordinati, i soci di società e di cooperative e gli allievi delle scuole. La sicurezza e la prevenzione degli infortuni erano assicurate da un dettagliato elenco di requisiti a cui dovevano uniformarsi i luoghi di lavoro, i macchinari e gli utensili. Il secondo poteva invece essere suddiviso in tre parti:

• nella prima erano presenti una serie di disposizioni di carattere generale, sugli ambienti di lavoro, che stabilivano i requisiti dei locali adibiti a luogo di lavoro (illuminazione, ventilazione, temperatura, pulizia, ecc);

• nella seconda erano contenute disposizioni più dettagliate in merito a rischi specifici cui sono esposti i lavoratori (rumore, sostanze chimiche, ecc). In tale parte era citata spesso la frase “per quanto possibile” riguardo agli interventi di bonifica da apportare;

• nella terza parte era trattata la tutela dei lavoratori dal punto di vista sanitario. In questa parte la normativa prescriveva per i lavoratori esposti ad agenti pericolosi per la salute, di cui allegava le relative tabelle, il controllo da un punto di vista sanitario, in modo da evidenziare sintomatologie precoci di malattie professionali.

Particolare rilevanza hanno assunto, in ambo i decreti, gli articoli dedicati alla definizione di lavoratore subordinato ed ai doveri dei datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori. Gli articoli 4 infatti imponevano a tali soggetti, nell’ambito delle rispettive competenze, di:

- attuare le misure di igiene e sicurezza previste dai decreti; - rendere edotti i lavoratori dai rischi specifici a cui sono esposti; - fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione;

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- disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le misure di igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione.

Tali imposizioni, nelle norme e anni successivi, sono state rafforzate e meglio delineate. Si arriva quindi agli anni 70 dove si acquisisce, sia da parte dei lavoratori che da parte dei sindacati, una maggiore consapevolezza in fatto di necessità di tutela della salute del lavoro, che porta all’introduzione nei contratti collettivi di lavoro alcuni standard internazionali considerati come valori di riferimento in tema di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

Viene inoltre emanata la Legge n. 300 del 1970, meglio nota come lo “Statuto dei lavoratori”, che all’articolo 9 attribuisce alle rappresentanze dei lavoratori, senza necessità di alcun mandato da parte di quest’ultimi, la tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, sia attraverso la partecipazione alle dinamiche organizzative del lavoro in tema di sicurezza, sia attraverso la promozione delle necessarie iniziative contrattuali, sia attraverso il controllo circa la corretta applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.

Dagli anni 80 in poi la Comunità Europea inizia una propria autonoma attività legislativa, emanando Direttive e Linee guida, allo scopo di uniformare, per tutti gli Stati membri della Comunità, la regolamentazione in materia di salute e di sicurezza negli ambienti di lavoro.

Sulla base di tali Direttive, l’Ordinamento italiano ha introdotto nuove ed innovative norme con le quali si è passati da un sistema puntuale e specifico ad un sistema di procedure e di valutazione dei rischi:

- DPR 962/82 (Lavorazioni con cloruro di vinile monomero): si delinea il concetto di valutazione dei rischi;

- DPR 175/88 (Rischi di incidente rilevante): prende forma il concetto di valutazione dei rischi per alcune attività (La Direttiva Seveso);

- D.Lgs. 277/91 (Protezione da rumore, piombo, amianto): estensione del concetto di valutazione dei rischi, coinvolgimento di un maggior numero di attività produttive, stabilisce regole precise in materia di protezione dei

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lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro (è stato abrogato).

- D.Lgs. 626/94 (Miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro): estensione totale ed evoluzione del concetto di rischio; è introdotta l’esigenza/obbligatorietà della valutazione di rischio rivolta a tutte le attività produttive. La valutazione non è più riferita ad un agente specifico, ma si estende ad una complessiva analisi aziendale, concretizzandosi in uno strumento operativo che descrive le misure tecniche e organizzative che il datore di lavoro deve adottare, al fine di salvaguardare la salute dei lavoratori.

2.2 Il decreto 626 del 1994

Il D.Lgs. n. 626/1994, per affrontare il tema della sicurezza sul lavoro, aveva imposto un metodo scientifico basato sulla preliminare valutazione dei rischi e sulla gestione dinamica del piano di interventi, in forma programmata ed aggiornata con il progresso tecnico, che aveva sviluppato le straordinarie potenzialità della norma dell’art. 2087 c.c., carica di penetrante modernità ed attuabile in via preventiva con gli strumenti di controllo e le procedure introdotte. Questo nuovo corso aveva imposto una concezione completamente inedita della sicurezza ed un nuovo modo di gestirla, dove è stato esaltato l’aspetto soggettivo, su base collaborativa di tutti i soggetti dell’impresa (ivi inclusi gli stessi lavoratori), mentre la tutela dell’ambiente di lavoro è stata intesa nella nozione più ampia riferita alla salute, sicurezza ed al benessere psico-fisico del lavoratore. Questo sistema si è distinto, molto più che in passato, per l’equilibrata e complementare coesistenza di disposizioni a carattere generale e di precetti più specifici, a volte anche rigidi e minuziosi, ma con la possibilità nell’insieme di evitare una cristallizzazione della mutevole realtà del lavoro. Questa prospettiva, prima offerta in particolare dall’art. 2087 c.c., è stata accentuata dal legislatore

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comunitario con le sue direttive, per cui la discrezionalità degli stati nazionali si è limitata alla scelta degli strumenti di applicazione delle normative comunitarie stesse.

La direttiva 89/391/CEE è la disciplina quadro che ha sancito (art. 1) i principi generali e gli indirizzi per l’attuazione degli stessi. È la base (v. preambolo) per direttive specifiche riguardanti tutti i vari rischi del luogo di lavoro e contiene prescrizioni minime tassative per la sicurezza e salute, senza pregiudicare le disposizioni nazionali più favorevoli (art. 1, comma 3).

Il progetto comunitario, attuato da questa direttiva, è stato recepito nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 626/1994, composto da 12 titoli, che si possono suddividere in 2 parti fondamentali. La prima (artt. 1-29) individuava figure, organismi ed i loro precisi compiti per la valutazione dei rischi e l’attuazione programmata delle misure, i servizi di collaborazione e le attribuzioni dei lavoratori, le garanzie e gli obblighi generali, disegnando il nuovo modello di sicurezza; in particolare il Capo I, con le sue Disposizioni generali, conteneva i principi che regolavano i diritti e i doveri dei soggetti responsabili della prevenzione. La seconda parte, che ha innovato su singoli argomenti e modificato talune norme della precedente disciplina “oggettiva” degli anni ’50, si occupava di: luoghi di lavoro (artt. 30-33); dispositivi di protezione individuali (artt. 40-46); movimentazione manuale dei carichi (artt. 47-49); video terminali (artt. 50-59); agenti cancerogeni (artt. 60-72); agenti chimici (artt. 72-bis-72-terdecies); agenti biologici (artt. 73-88 ); atmosfera esplosiva (artt. 88-bis-88-undecies); sanzioni (artt. 89-94); disposizioni transitorie e finali (artt. 95-98); numerose sanzioni penali erano state previste per le contravvenzioni commesse da datori, dirigenti, preposti, progettisti, fabbricanti, installatori, medico competente e lavoratori.

Il D.Lgs. n. 626/1994, che ha lasciato in vigore la previgente disciplina “oggettiva” e specifica in quanto compatibile, si è distinto per una serie di obblighi di carattere generale, per le strutture interne di prevenzione, per una considerazione del rischio riferita anche all’insieme del complesso produttivo e per il metodo scientifico con cui ha affrontato globalmente la sicurezza. Più che

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stabilire specifiche e dettagliate misure tecniche, che tuttavia non mancavano (v. Allegati al D.lgs. n. 626/1994), la tendenza della disciplina comunitaria era volta a delineare un diverso modello di sicurezza introducendo un metodo con procedure standard, basato sulla preliminare valutazione dei rischi e sulla gestione dinamica del piano di interventi, in forma programmata e aggiornata con il progresso tecnico.

Le linee portanti su cui ha ruotato la trasformazione comunitaria si possono così riassumere:

• Realizzazione della sicurezza su base procedimentale, con un’attività di carattere sistematico e globale assoggettata ad appositi controlli, senza più interventi frammentari e scoordinati, articolata su: autoanalisi di tutti i rischi, ad opera del datore; elaborazione del relativo documento contenente l’individuazione e la programmazione delle misure; prevalenza della discrezionalità delle misure rispetto alla tassatività della pregressa legislazione; ampliamento degli obblighi del datore di lavoro;

• Potenziamento della conoscenza sistematica ed approfondita dei rischi, sulla base di una vera cultura della prevenzione, riferibile non più a rischi specifici (come nei decreti degli anni ’50 ), bensì al complesso dei rischi dell’ambiente di lavoro;

• Passaggio da un sistema di tipo verticistico ad un modello di sicurezza in forma partecipativa e coordinata, in una logica collaborativa e non più conflittuale: fermo il ruolo fondamentale del datore di promozione e organizzazione della cultura prevenzionale, si è passati, nel progetto di tutela, al coinvolgimento dell’intera comunità aziendale ad ogni livello, con procedure di consultazione, istituzione del SPP (servizio di prevenzione e protezione), del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e del medico competente, con la nascita di nuovi doveri per i lavoratori, trasformati da soggetti passivi in protagonisti della sicurezza;

• Abbandono di una impostazione statica in favore di una sicurezza evolutiva e dinamica strettamente connessa con l’organizzazione del lavoro e le acquisizioni scientifiche, caratterizzata da un aggiornamento continuo delle misure in

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relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi ed agli sviluppi tecnologici (principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile);

• Definizione, a livello di principio, delle misure generali di tutela che condizionavano tutta l’opera di prevenzione;

• Priorità delle misure di sicurezza collettiva su quelle individuali, con interventi di bonifica dei rischi alla fonte, sostituzione dei fattori nocivi, controllo costante dei fattori di rischio;

•Rafforzamento della prevenzione soggettiva, attraverso una serie di misure tra cui in particolare: idoneità e capacità delle persone, più incisiva qualificazione dei lavoratori attraverso i nuovi diritti della formazione, informazione, istruzione; • Introduzione di ulteriori garanzie: una più accentuata sorveglianza sanitaria, il criterio dei valori limite, le procedure per rendere sicure le macchine in origine con la garanzia della certificazione di conformità;

• Sicurezza negli appalti.

2.3 D.Lgs 81/2008 – Testo Unico sulla Salute e

Sicurezza sul Lavoro

Struttura e disposizioni generali

Arriviamo adesso all’attuale normativa in materia di sicurezza e salute sul lavoro: il D.Lgs. 81/2008, corretto ed integrato dal successivo D.Lgs. 106/2009 e nato come attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il presente decreto ha armonizzato, razionalizzato e coordinato le precedenti disposizioni legislative che si sono susseguite per mezzo secolo, e che comunque

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hanno apportato incerte applicazioni delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il nuovo provvedimento, che ha l’ambizione di essere un testo unico sulla materia della sicurezza, abroga una parte della legislazione previgente sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro, risalente agli anni cinquanta, e il famoso decreto 626/1994 di recepimento delle direttive comunitarie. Facciamo una parentesi e cerchiamo di chiarire dapprima il concetto di testo unico.

Nel diritto italiano per testo unico s’intende una raccolta di norme che disciplinano una determinata materia. Con tale raccolta normativa su un determinato argomento di diritto, si sostituisce e si coordina una moltitudine di provvedimenti legislativi che, accavallandosi in sequenza, conducevano ad un’interpretazione poco chiara nell’applicazione.

Il testo unico ha quindi il pregio di accomunare in un solo corpo testuale la regolamentazione su una determinata materia, evitando così al destinatario (datore di lavoro, avvocato, giudice o lavoratore) la possibilità di incorrere in errori dovuti alla copiosità di norme sparse per il sistema legislativo.

Rappresenta il risultato, da un lato, di una visione più matura da parte della normativa e dall’altro di una consapevolezza sociale più consolidata dell’importanza del tema, in cui revisione e innovazione sono i punti fondamentali che lo contraddistinguono. Nonostante tutto, sarebbe errato considerare definitiva la presente normativa, a causa delle grandi evoluzioni che la caratterizzano, quindi al contrario questi cambiamenti costituiscono un decisivo punto di partenza innovativo sulla sicurezza.

Il D.Lgs 81/08 è un decreto molto ampio e complesso, costituito da 306 articoli, 13 Titoli e 51 Allegati, che sostituisce e abroga numerose norme precedenti in materia.

Il provvedimento interessa tutti i settori e tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto di lavoro (comprendendo quindi anche i cosiddetti “lavoratori atipici”) e focalizza la sua azione sulla lotta al lavoro sommerso o irregolare, che è tra le principali cause degli infortuni e delle malattie professionali. Maggiormente innovativo rispetto al D.lgs n. 626 del

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1994, infatti, risulta essere il campo di applicazione soggettivo, che ora riguarda tutte le figure professionali, indipendentemente dal tipo di contratto, collocandosi così ben oltre la tradizionale area del lavoro subordinato.

Il decreto trova applicazione non solo in queste situazioni, ma anche nell’ambito del lavoro autonomo sino ad interessare tirocini, attività di volontariato, ecc. Particolare attenzione viene riservata ad alcune categorie di lavoratori come i giovani, gli extracomunitari, i lavoratori avviati con i cosiddetti contratti interinali, e ad alcune lavorazioni in relazione alla loro pericolosità, come ad esempio quelle svolte nei cantieri.

Sempre a questo proposito occorre ribadire anche un concetto chiave e facilmente comprensibile: i c.d. lavoratori atipici, oltre ad essere normalmente esposti in alcuni settori a maggiori rischi di infortunio sul lavoro e malattie professionali, sono meno informati e meno educati alla prevenzione.

D’altronde le norme comunitarie parlano chiaro (Direttiva n. 91/383/CEE): “richiedono la garanzia non delle stesse misure di sicurezza”, previste per gli altri lavoratori, “bensì del raggiungimento dello stesso livello di protezione”.

Non bisogna altresì trascurare i rischi supplementari cui sono esposti tali lavoratori a causa della breve durata del rapporto di lavoro e delle particolari modalità con cui giuridicamente sono inseriti nel lavoro. Inoltre il senso di alienazione, frustrazione e disaffezione al lavoro, l’esecuzione di lavori precari e spesso monotoni e faticosi aumenta il rischio di incidenti per disattenzione, stress, negligenza.

Appare evidente dunque come sia in questo caso sconsigliato garantire soltanto la formale applicazione del testo unico, ma piuttosto rendere necessarie norme specifiche o rafforzate.

Il D.Lgs. 81/08 raggruppa le più importanti innovazioni all'interno del Titolo I, mentre, nei restanti dodici Titoli, sono sostanzialmente state ripetute le previgenti norme contenute, oltre che nel D.Lgs. 626/94, anche nel DPR 547/55, nel DPR 303/56 (Norme generali per l’igiene del lavoro) ad eccezione dell'art. 64 in materia di poteri ispettivi, nel DPR n. 164/56 (Norme per la prevenzione degli

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direttiva CEE concernente le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e/o di salute sul luogo di lavoro) e nel D.Lgs. 494/96 (Attuazione della direttiva CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili).

Il provvedimento interessa tutti i settori, sia pubblici che privati, ad eccezione di: forze armate, pubblica sicurezza ed istituzioni carcerarie;

scuole, università; musei, trasporti.

Nel campo di applicazione rientrano poi anche tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto di lavoro (comprendendo quindi anche i cosiddetti “lavoratori atipici”); si cerca sostanzialmente anche di focalizzare l’azione sulla lotta al lavoro sommerso o irregolare, che è tra le principali cause degli infortuni e delle malattie professionali.

Particolare attenzione viene riservata ad alcune categorie di lavoratori come i giovani, gli extracomunitari, i lavoratori avviati con i cosiddetti contratti interinali, e ad alcune lavorazioni in relazione alla loro pericolosità, come ad esempio quelle svolte nei cantieri. Di seguito viene riportata schematicamente la struttura del decreto:

TITOLI DESCRIZIONE

Titolo I Disposizioni e principi generali

Titolo II Luoghi di lavoro

Titolo III Uso delle attrezzature di lavoro e dei DPI

Titolo IV Cantieri temporanei o mobili

Titolo V Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro

Titolo VI Movimentazione manuale dei carichi

Titolo VII Uso di attrezzature munite di video terminali

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Titolo VIII Agenti fisici

Titolo IX Sostanze pericolose

Titolo X Esposizione da agenti biologici

Titolo XI Protezione da atmosfere esplosive

Titolo XII Disposizioni diverse in materia penale e di procedura penale

Titolo XIII Disposizioni finali. Abrogazioni

Analizzando dettagliatamente il decreto si può vedere come all’art. 1 vengono espresse le finalità, con l’obiettivo di rispettare le direttive comunitarie e le convenzioni internazionali in materia.

Proseguendo nel Titolo I, Capo I (Disposizioni generali), troviamo gli articoli 2, 3 e 4 che rispettivamente si riferiscono a definizioni, campo di applicazione e computo dei lavoratori. Chiaramente il decreto si dilunga particolarmente in merito ai singoli punti, ma per il nostro campo di applicazione possiamo limitarci a fare riferimento a questi concetti:

Azienda: il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro

pubblico o privato;

Lavoratore: persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale,

svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato;

Datore di lavoro: soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore,

che ha la responsabilità dell’organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa;

Dirigente: persona che attua le direttive del datore di lavoro organizzando

l’attività lavorativa e vigilando su di essa;

Preposto: persona che sovrintende all’attività lavorativa e garantisce

l’attuazione delle direttive ricevute controllando la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un potere di iniziativa coerente con la sua funzione;

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Responsabile S.P.P.: persona rispondente della propria attività al datore di

lavoro e che si occupa di coordinare il S.P.P. (Servizio Prevenzione e Protezione) con i rischi;

Addetto S.P.P.: persona facente parte del precedente Servizio;

Medico competente: persona nominata dal datore di lavoro col compito di

effettuare l’attività di sorveglianza sanitaria;

Sorveglianza Sanitaria: insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello

stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa;

Prevenzione: complesso di disposizioni o misure commisurate all’esperienza,

alla tecnica e alla particolarità, per evitare o diminuire i rischi professionali;

Valutazione dei rischi: valutazione globale e documentata di tutti i rischi

finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza;

Modello di organizzazione e di gestione: modello organizzativo e gestionale

per la definizione e l’attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza; in particolare il D.Lgs. 231/01 (Disciplina della responsabilità

amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) stabilisce che la società non è

sanzionabile sotto il profilo amministrativo se prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Linee guida: atti di indirizzo e coordinamento per l'applicazione della

normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai Ministeri, dalle regioni, dall'ISPESL e dall'INAIL.

Sono tutti concetti che hanno rilevanza per lo scopo della tesi, e che verranno trattati, in relazione al campo di applicazione, nei successivi capitoli. In particolar modo la parte iniziale del decreto si suddivide in 4 capi:

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o Disposizioni generali;

o Sistema istituzionale;

o Gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro (ulteriormente suddivisa in 8 Sezioni);

o Disposizioni penali (suddivise ulteriormente in 2 sezioni).

Nelle Disposizioni generali si delineano i settori, i sistemi organizzativi e le figure che incideranno sulla valutazione dei rischi. I concetti fondamentali si ritrovano all’interno delle sezioni del III capo, infatti nella prima parte si descrivono le “misure generali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro” che costituiscono la gestione della prevenzione, poi seguono i vari obblighi attribuiti agli attori della sicurezza in relazione alle attività delegabili e non. L'articolo 28 e i successivi tre articoli fanno riferimento alla “valutazione dei rischi”. L’unità specialistica che collabora in questa attività è il “Servizio Prevenzione e Protezione” (SPP). La quarta sezione della gestione della prevenzione è dedicata invece alla formazione, informazione e addestramento dei lavoratori; rispettivamente il datore di lavoro deve informare in maniera comprensibile i lavoratori dei rischi connessi all’attività svolta e all’attività dell’azienda in generale, dando comunicazione dei nominativi del Responsabile e degli Addetti del Servizio Prevenzione e Protezione, e del Medico Competente. Per quanto riguarda la formazione, deve essere garantita, se è necessario, all’atto dell’assunzione o successivamente se si accertano particolari modifiche nelle mansioni svolte. Altra sezione importante è la sorveglianza sanitaria effettuata dal Medico Competente che deve possedere una serie di requisiti; tale condizione deve essere garantita secondo diverse modalità che consistono nella visita preventiva per confermare l’idoneità alla mansione a cui il lavoratore è destinato e nella visita periodica, in cui la periodicità viene stabilita una volta all’anno dal Medico Competente in funzione della Valutazione dei Rischi, ma possono essere proposte cadenze diverse dall’organo di vigilanza con provvedimento motivato. E’ possibile anche la visita su richiesta del lavoratore se ritenuta dal Medico correlata ai rischi professionali, o in caso di cambio della mansione o di cessazione del rapporto di lavoro. Successivamente i giudizi espressi sullo stato

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di salute possono essere di idoneità, idoneità parziale, inidoneità temporanea o permanente di cui il datore di lavoro e il lavoratore devono esserne informati per iscritto. E’ infine possibile il ricorso contro il giudizio, entro trenta giorni dalla data di comunicazione, dall'organo di vigilanza territorialmente competente, che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso.

La sezione successiva riguarda la gestione delle emergenze in cui il datore di lavoro deve organizzare e adottare i provvedimenti necessari a tal fine e informare i lavoratori su tali misure adottate.

Altra sezione importante è dedicata alla consultazione del Rappresentante dei Lavoratori che, a seconda della specifica realtà aziendale, presuppone tre possibili presenze: RLS aziendale, territoriale (RLS-T) o di sito (RLS-S). RLS e RLS-T sono figure tra loro alternative, mentre RLS-S è figura di norma aggiuntiva, in specifici ambiti.

Segue poi la modalità e gli obblighi di tenuta della documentazione:

1. Atto di nomina del responsabile servizio prevenzione e protezione (RSPP) e attestazione dei corsi di formazione per RSPP;

2. Atti di nomina degli addetti alla gestione delle emergenze (pronto soccorso – antincendio) e attestazione corsi di formazione specifici;

3. Atto di nomina del medico competente (quando dovuta) e relazione sanitaria annuale redatta dal medico stesso;

4. Verbale di elezione/designazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) ed attestazione del corso di formazione con comunicazione del nominativo a INAIL;

5. Documento di Valutazione dei Rischi;

6. Documento unico di valutazione dei rischi per i lavori in appalto (DUVRI);

7. Attestazioni relative alle attività di informazione e formazione dei lavoratori sui rischi e la loro prevenzione;

8. Verbale della riunione periodica di prevenzione; 9. Registro infortuni;

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10. Piano di emergenza.

Infine le ultime due sezioni del CAPO IV relative alle varie disposizioni penali e sanzioni.

Il Titolo I contiene alcune delle maggiori novità della riforma, quali:

• l’ampliamento del campo di applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza (artt. 2 e 3), ora riferite a tutti i lavoratori, anche se autonomi, che si inseriscano in un ambiente di lavoro, senza alcuna differenziazione di tipo formale;

• il miglioramento dell’attività di vigilanza attraverso la creazione di un sistema informativo pubblico al quale partecipano le parti sociali (art. 8);

• il finanziamento delle attività promozionali tra le quali l’inserimento nei programmi scolastici e universitari della materia della salute e sicurezza sul lavoro (art. 11);

• il rafforzamento delle rappresentanze in azienda, in particolare di quelle dei rappresentanti dei lavoratori territoriali (artt. da 37 a 40) e la valorizzazione degli organismi paritetici (art. 51);

• la previsione di procedere all’adempimento di obblighi nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni per via telematica e quella di valutare l’eliminazione o la semplificazione di obblighi di carattere burocratico (art. 53).

Successivamente, dal Titolo II al Titolo XI, vengono dettagliatamente trattate le specifiche sezioni dal quale possono derivare i rischi durante l’attività lavorativa, come per es. i luoghi di lavoro, l’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale, sostanze pericolose. Per ognuna di queste tematiche la struttura seguita è la stessa, infatti vengono indicati: le definizioni, i requisiti di sicurezza, obblighi a carico sia del datore di lavoro che dei lavoratori e le sanzioni previste per i mancati adempimenti; inoltre il tutto viene supportato da ulteriori specifiche descritte dettagliatamente nei vari allegati stabiliti per alcune categorie di Titoli.

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Lavoratori

Abbiamo detto in precedenza come, dalle definizioni contenute nell’art. 2, si possa individuare una definizione allargata del lavoratore, a prescindere dalla tipologia contrattuale.

La presenza di lavoratori atipici presuppone una “parità di trattamento”, non solo sul piano formale, ma anche su quello sostanziale, per quanto riguarda una specifica valutazione del rischio e di programmi individualizzati di informazione (art. 36) e formazione (art. 37) in materia di sicurezza e igiene sul lavoro.

Nell’ambito di questa ampia nozione di lavoratore rientrano il lavoro gratuito, cioè senza retribuzione, o altre categorie come quelle dei soci lavoratori delle cooperative e i soci di società, qualora prestino la loro attività lavorativa per conto di quest’ultima; per non parlare degli associati in partecipazione, in precedenza esclusi e gli studenti e allievi che si trovino nella condizione di esposizione al rischio, perché operano in laboratori o utilizzano attrezzature di lavoro in genere.

I componenti dell’impresa familiare non sono equiparati pienamente ai lavoratori, ma ricevono comunque una specifica tutela dall’art. 21.

Per quanto concerne gli obblighi del lavoratore, l’art. 20 del D.lgs 81/08 riprende, con alcune aggiunte e precisazioni, sostanzialmente quanto già disposto dall’art. 5 del D.lgs n. 626/1994. Sono state infatti inserite due disposizioni, prima non espressamente previste, che impongono ai lavoratori di partecipare ai corsi di formazione e addestramento organizzati dal datore di lavoro e di sottoporsi ai controlli sanitari previsti dallo stesso decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.

In tal modo si chiarisce senza alcun equivoco il fatto che la formazione e l’addestramento dei lavoratori costituisce, a tutti gli effetti, orario di lavoro ai sensi dell’art. 1 del D.lgs n. 66/2003.

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Invece per quanto riguarda l’obbligo di sottoporsi ai trattamenti sanitari, previsti anche dalla Costituzione (art. 32, comma 2), si lascia la determinazione del contenuto del controllo sanitario obbligatorio al medico competente, nei limiti previsti dall’art. 41 per tale figura.

Infine l’art. 20, comma 1, analogamente al D.lgs n. 626/1994 conferma la responsabilità personale del lavoratore (anche penale) per la tutela della propria salute e sicurezza e la corresponsabilità reciproca di ogni lavoratore presente sul luogo di lavoro, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.

La prevenzione degli infortuni sul lavoro necessita di conoscenza e consapevolezza dei rischi, circolazione dei dati, confronto e dialogo tra tutti i soggetti attori della sicurezza. I lavoratori ne sono i principali destinatari e sono tenuti, dalla disciplina del Testo Unico, a partecipare ai programmi di formazione e addestramento (art. 20, lett. h), il cui obbligo incombe sul datore di lavoro e i dirigenti (art. 18). È attraverso la valutazione dei rischi che il datore di lavoro individua le mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici e che, pertanto, richiedono particolare capacità professionale da garantire con adeguata informazione, percorsi formativi e addestramento.

Il Testo Unico dispone che il datore di lavoro provveda affinché ciascun lavoratore riceva un’adeguata informazione ed assicuri una formazione sufficiente ed adeguata. Il datore di lavoro deve garantire altresì i mezzi di informazione e formazione più adattie verificare e controllare che le nozioni, che devono essere complete e dettagliate, siano state apprese dal destinatario.

Informazione, formazione e addestramento devono poi essere aggiornati periodicamente, individualizzati e commisurati a ciascuna posizione lavorativa, mansione espletata e tipologia contrattuale attraverso cui il lavoratore svolge la propria prestazione.

In particolare l’art. 36 del Testo Unico dispone che il datore di lavoro provveda affinché ciascun lavoratore riceva un’adeguata informazione in merito a:

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2) procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei luoghi di lavoro;

3) nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di primo soccorso e prevenzione incendi;

4) nominativi del responsabile e degli addetti del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente.

Lo stesso articolo dispone, inoltre, che il datore di lavoro debba provvedere che il lavoratore sia informato su:

a) i rischi specifici a cui è esposto in base all’attività svolta; b) i pericoli connessi all’uso delle sostanze pericolose;

c) le misure e le attività di protezione e prevenzione adottate.

Il datore di lavoro

Il sistema antinfortunistico risulta principalmente fondato sul fatto che il datore di lavoro debba essere considerato il garante del rispetto delle norme di prevenzione e dell’attuazione delle misure prescritte dalle vigenti disposizioni, fra cui la fondamentale norma dell’art. 2087 c.c. L'insieme delle attribuzioni ha carattere generale e investe tutta la politica aziendale della sicurezza.

La nozione di datore di lavoro contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. b), del D.lgs 81/2008 comprende oltre chi ha di fatto la “responsabilità dell’impresa”, come già disponeva la precedente normativa, anche colui che ha di fatto la “responsabilità dell’organizzazione”. La nozione di organizzazione è molto più ampia di quella di impresa ed ha la responsabilità di tale organizzazione colui che esercita i poteri decisionali e di spesa e non più, come nel D.lgs 626/1994, soltanto colui che è titolare dei poteri decisionali e di spesa.

Diversamente dall’art. 4 del D.lgs n. 626/1994 (che prevedeva tutti insieme gli obblighi del datore di lavoro, del dirigente e del preposto), l’articolo 17 del D.lgs

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n. 81/2008 indica in una apposita norma gli obblighi, che il datore di lavoro non può delegare:

la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’art. 18;

la designazione del RSPP.

Si tratta degli stessi adempimenti già individuati dal D.lgs n. 626/1994. L’unica differenza concerne l’assenza della non delegabilità, nelle imprese fino a 10 lavoratori, del potere di autocertificazione sull’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi e l’adempimento degli obblighi ad essa collegati.

L’art. 16 del D.lgs. 81/2008, recependo i consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia, ha definito, per la prima volta, condizioni e limiti di validità della delega: si prevede innanzitutto che questa debba risultare da atto scritto recante data certa e che la stessa sia accettata dal delegato per iscritto. Da evidenziare che il legislatore non specifica i compiti del delegato, ma appare scontato che anche tale indicazione debba risultare nell’atto scritto di delega. Poi il legislatore dispone che la delega attribuisca al delegato tutti i poteri richiesti dalle specifiche funzioni delegate, nonché l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni stesse.

Tuttavia, al comma 3 dell’art. 16 si dispone che la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza da parte del datore di lavoro per il corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. In altre parole la responsabilità del datore di lavoro sarebbe di culpa in vigilando, con la conseguenza di una corresponsabilità, almeno tutte le volte in cui lo stesso datore venga a conoscenza di situazioni di pericolo inerenti allo svolgimento delle funzioni delegate, potendo anche effettuare controlli periodici e/o a campione sull’attività del delegato, oppure sul livello di inidoneità dello stesso delegato.

In ogni caso la stessa delega non può liberare il datore di lavoro dall’obbligo di controllo sul generale andamento della gestione della sicurezza.

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La moderna complessità dell’apparato aziendale evidenzia come il datore di lavoro, soprattutto nelle aziende medie e grandi, non sia nella materiale posizione di poter controllare direttamente il funzionamento dei singoli reparti della sua impresa.

Al datore di lavoro sono stati così affiancati dirigenti e preposti, dapprima con i decreti degli anni Cinquanta e poi con le normative di fonte comunitaria, consolidando il principio della responsabilità differenziata. Dunque per una più efficace gestione dell’attività imprenditoriale egli sceglie spesso di essere coadiuvato da 2 tipologie di collaboratori: il dirigente ed il preposto.

I dirigenti costituiscono i più diretti ausiliari dell’imprenditore e vengono considerati i suoi alter ego. Inoltre essi hanno precisi compiti e doveri, attribuiti dall’art. 18 (derivanti sia da possibile delega che dalla disciplina propria del dirigente). Per la prima volta il dirigente cessa di essere semplicemente colui che si limita a fare osservare tutte le misure di sicurezza già predisposte sul luogo di lavoro e viene eletto a soggetto co-obbligato, insieme al datore di lavoro, alla programmazione delle misure di sicurezza idonee a garantire la sicurezza dei lavoratori, limitatamente ai poteri/competenze conferitegli.

Il preposto

Accanto ai dirigenti e alle loro immediate dipendenze vi sono i preposti che, a motivo del loro ridotto campo di attribuzioni, hanno una sfera di compiti e responsabilità assai più ridotta. Infatti, sono collocati nell’ultimo livello della gerarchia degli obbligati, poiché sono coloro che “sovrintendono”, mentre i datori “esercitano” e i dirigenti “dirigono” le attività. La loro collaborazione è resa necessaria dalla impossibilità per datore e dirigente di governare ogni luogo ed ogni fase di lavoro, specie nelle aziende di non modeste dimensioni.

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Innanzitutto l’art. 15 prevede il diritto per il preposto di ricevere un’informazione ed una formazione adeguate a rivestire un ruolo di primo piano nella tutela della salute dei lavoratori dell’azienda.

Sembra dunque tramontato il tempo in cui la funzione del preposto era essenzialmente basata sulla sua esperienza lavorativa e sull’ascendente che esercitava sui lavoratori a lui affidati; oggi questa figura esige il possesso di adeguate cognizioni tecniche e quindi un adeguato processo formativo.

Passando agli obblighi (che si aggiungono alla normale attività di lavoratore), il preposto ha il dovere di segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze delle attrezzature di lavoro o dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro. Egli deve poi verificare affinché soltanto i lavoratori, che abbiano ricevuto adeguate istruzioni, accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico, deve informare il più presto possibile i lavoratori soggetti al rischio di un pericolo grave ed immediato circa il rischio stesso e le precauzioni da osservare. L’azione di vigilanza deve essere continua ed accurata e deve verificare che le misure antinfortunistiche e le relative disposizioni vengano regolarmente applicate. La colpa del preposto deriva, dunque, da un suo comportamento negligente e permissivo protratto nel tempo, che generi nei lavoratori comportamenti scorretti e soggetti a rischio.

Il servizio di prevenzione e protezione (SPP)

La gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro passa attraverso l’organizzazione di un servizio di prevenzione e protezione (SPP), che trova, in particolare, il proprio fulcro normativo negli articoli 31-35 del D.lgs n. 81/2008. Nello specifico tale servizio provvede:

all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e salubrità degli ambienti

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di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;

ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive di cui all’art. 28, comma 2 (documento di valutazione dei rischi) e i sistemi di controllo di tali misure;

ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;

a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’art. 35;

a fornire ai lavoratori le informazionidi cui all’art. 36.

L’art. 33, come già il D.lgs n. 626/1994 e successive modifiche, ritiene che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione sia dotato essenzialmente di funzioni consultive e propositive nei confronti del datore di lavoro. Tale figura, svolgendo un ruolo di coordinatore del servizio, è dunque un professionista adeguatamente formato e qualificato che fornisce al datore di lavoro quelle competenze tecniche e organizzative di cui ha bisogno e che affianca ed assiste nell’elaborazione ed attuazione delle misure preventive e protettive.

Tuttavia il responsabile e gli addetti del SPP non possono essere chiamati a rispondere direttamente del proprio operato, poiché difettano di un effettivo potere decisionale: è infatti il datore di lavoro il responsabile della sicurezza in azienda, così come gli stessi dirigenti e preposti, titolari di una posizione di garanzia, che impongono l’obbligo di agire. A tale conclusione si può facilmente giungere osservando l’assenza di specifici profili sanzionatori per i componenti del SPP. Questo non significa che tali soggetti possano ritenersi immuni e perciò esonerati da qualsiasi responsabilità derivante dal loro operato: infatti la giurisprudenza identifica in capo al servizio di prevenzione e protezione altri profili di colpa, ai sensi dei principi del diritto civile e penale. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione sarà infatti penalmente responsabile dell’evento lesivo ex art. 43 del Codice Penale, qualora con la propria condotta omissiva abbia causato o contribuito a causare il determinarsi dell’evento dannoso.

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Per quanto invece concerne le competenze, la designazione a responsabile o addetto del servizio di prevenzione e protezione è subordinata al possesso di capacità e requisiti professionali specifici, attestati mediante annotazioni nel libretto formativo.

In merito all’esercizio del servizio di prevenzione e protezione, il D.lgs. n. 81/2008 dispone che il datore di lavoro, che non possa o non ritenga di optare per lo svolgimento diretto del servizio stesso, è tenuto a organizzarlo mediante il ricorso a personale interno all’impresa ovvero rivolgendosi a personale esterno. Ai sensi dell’art. 31, comma 4, del Testo Unico, nel caso in cui all’interno della reale organizzazione voluta dal datore di lavoro non vi siano lavoratori in possesso di capacità e requisiti professionali prescritti ex art. 32, il datore deve obbligatoriamente avvalersi di un SPP esterno.

Infine, utile all’analisi dello specifico contesto aziendale che verrà illustrato successivamente, risulta essere anche l’art. 31, comma 7, che prevede l’istituzione di un unico SPP in caso di gruppi di imprese ed aziende con più unità produttive; sebbene il legislatore non abbia definito i “gruppi di imprese”, fondamentale presupposto è che le attività svolte siano di analoga specie o siano, comunque, tecnicamente collegate.

Sorveglianza sanitaria e medico competente

Sulla sorveglianza sanitaria il D.lgs n. 81/2008 non si è limitato a riordinare la normativa previgente, ma ha introdotto elementi fortemente innovativi, con l’obiettivo di superare le precedenti criticità.

Si è voluto accrescere il ruolo del medico competente all’interno del sistema di prevenzione aziendale, coinvolgendolo maggiormente nel processo di valutazione dei rischi e nell’attuazione delle misure di prevenzione, migliorando nel contempo la sorveglianza sanitaria, assicurando al lavoratore inidoneo maggiori tutele e, in generale, disciplinando in maniera chiara ed univoca molti

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aspetti che risultavano ambigui e controversi all’interno del decreto legislativo n. 626 del 1994.

La sorveglianza sanitaria costituisce una delle misure di prevenzione per i lavoratori che sono esposti a rischi per la salute, cioè ad agenti di natura fisica, chimica, biologica o ergonomica, stabilendo i limiti di esposizione che non devono essere superati.

Tuttavia il rispetto di tali valori limite non costituisce una garanzia assoluta, perché diversa è la suscettibilità individuale di ciascuno, in ragione delle differenze di genere, età, ecc. La sorveglianza sanitaria ha dunque lo scopo di verificare le condizioni di salute di ciascun lavoratore in relazione ai possibili effetti imputabili all’esposizione lavorativa, così da adottare particolari misure di prevenzione a livello individuale.

L’obbligo di sorveglianza sanitaria (oltre ai casi previsti dalla normativa vigente) ricorre anche quando previsto dalle direttive europee o in altri casi che possono essere indicati dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro istituita dall’art. 6. In tutte queste circostanze il datore di lavoro deve nominare il medico competente ai fini della sorveglianza sanitaria e della valutazione dei rischi.

L’art. 41, comma 2, dispone che la sorveglianza sanitaria debba consistere nelle:

o visite mediche preventive, effettuate precedentemente alla prima destinazione lavorativa, con lo scopo di accertare l’assenza di controindicazioni alla mansione specifica;

o visite mediche periodiche finalizzate a verificare lo stato di salute del lavoratore e il permanere di condizioni di idoneità alla mansione specifica. Tali visite hanno di norma cadenza annuale, ma il medico competente ha la facoltà di stabilire periodicità differenti in ragione della valutazione dei rischi;

o visite mediche in occasione del cambio di una mansione;

o visite mediche alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalle norme specifiche sui singoli rischi, in particolare obbligatorie in caso di

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esposizione ad agenti chimici (art. 229), agenti cancerogeni (art. 242), amianto (art. 259) e agenti biologici (art. 279).

Oltre ai casi descritti, il medico competente visita il lavoratore ogni qual volta lo stesso ne faccia richiesta, a condizione che tale richiesta sia correlata ai rischi lavorativi.

I risultati della sorveglianza sanitaria costituiscono una preziosa fonte di informazioni per confermare l’efficacia delle misure preventive adottate a seguito della valutazione dei rischi, ovvero per programmare ulteriori misure di prevenzione. La sorveglianza sanitaria va dunque ben oltre la semplice verifica dell’idoneità del singolo lavoratore.

A tal fine in base all’art. 25, comma 1, lett. i), il medico competente redige annualmente una relazione che viene presentata al datore di lavoro, al RSPP e ai RLS in occasione della riunione periodica, illustrandone il significato in relazione alle misure di tutela attuate.

Infine con l’art. 40, per avere una conoscenza sistematica dello stato di salute dei lavoratori, è stato introdotto un nuovo obbligo di comunicare annualmente al Servizio Sanitario Nazionale alcune informazioni sui dati sanitari dei lavoratori sottoposti a sorveglianza, esclusivamente per via telematica entro i primi tre mesi di ciascun anno.

Il medico competente è il medico incaricato della sorveglianza sanitaria dei lavoratori nei casi in cui ricorre tale obbligo. Esso è nominato dal datore di lavoro o dal dirigente, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Si tratta dunque di una figura tecnica, scelta in maniera discrezionale dall’imprenditore, la quale assolve però una funzione estremamente delicata, essendo, tra l’altro, vincolato non solo dalle norme generali della professione sanitaria, ma anche da norme specifiche che ne disciplinano in maniera puntuale ruolo e compiti.

Si tratta di norme penalmente sanzionate, che hanno il chiaro intento di rendere autonomo il medico dalle possibili ingerenze del datore di lavoro.

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In ogni caso l’attività del medico competente non si esaurisce con la sorveglianza sanitaria dei lavoratori. In quanto consulente del datore di lavoro, egli collabora con il servizio di prevenzione e protezione per la valutazione dei rischi e l’attuazione delle misure di prevenzione, con particolare riguardo ai rischi per la salute.

La sua attività inizia negli ambienti di lavoro che visita di norma annualmente (art. 25, comma 1, lett. l) e tali sopralluoghi può anche effettuarli senza il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, diversamente dalla precedente normativa. Inoltre il medico competente collabora alla programmazione delle indagini ambientali per la valutazione dell’esposizione, mentre sul datore di lavoro ricade l’obbligo di fornirgli tempestivamente i risultati, tramite il SPP, anche ai fini dell’annotazione sulle cartelle sanitarie e di rischio (art. 25, comma 1, lett. m). Collabora altresì all’organizzazione del primo soccorso, adattando le misure generiche previste dalla normativa alla tipologia dei rischi e all’organizzazione del lavoro (art. 25, comma 1, lett. a).

Partecipa all’attività di formazione e informazione dei lavoratori ed è titolare esclusivo delle informazioni sui lavoratori relative agli accertamenti diagnostici e della sorveglianza sanitaria ed è tenuto alla consegna della documentazione medica a richiesta e alla cessazione del rapporto di lavoro (art. 25, comma 1, lett. e),g),h).

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2.4 Rischio Chimico e contesto normativo

Premessa

Nell'articolo 4 della Costituzione Italiana, la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino, però, non ha soltanto il diritto di lavorare, ma, soprattutto, ha il diritto di lavorare in sicurezza. Questo specialmente quando l’attività lavorativa comporta particolari rischi, non solo per la sicurezza, ma anche per la salute del lavoratore. Questi rischi si possono configurare anche quando questo si trova ad utilizzare o, comunque, a venire a contatto, durante la propria attività lavorativa, con sostanze chimiche.

Tali sostanze, per le loro caratteristiche di infiammabilità, esplosività, corrosività, possono risultare pericolose sia per la salute che per la sicurezza del lavoratore, nel cui organismo possono entrare attraverso tre vie: inalazione, contatto (attraverso la pelle, le mucose, le ferite) e ingestione.

Nel luogo di lavoro gli agenti chimici possono presentarsi allo stato aeriforme (gas e vapori), sotto forma di particelle o di aerosol (fumi, polveri, nebbie), oppure in forma liquida o solida. Di conseguenza, nell’effettuare la valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve analizzare tutte le sostanze chimiche presenti nel luogo di lavoro e, in particolare, nel ciclo produttivo in esame, siano esse materie prime, prodotti di reazione e/o prodotti intermedi di reazione. Sulla base della valutazione del rischio effettuata, il datore di lavoro deve predisporre e attivare tutte le misure di prevenzione, di protezione nonché di organizzazione del lavoro, tenendo conto anche delle proprietà tossicologiche o chimico-fisiche delle sostanze, delle modalità di utilizzo e del livello di esposizione per ciascun lavoratore o per i gruppi omogenei di lavoratori. Il rischio per il lavoratore, infatti, deriva sia dalla presenza di un pericolo (proprietà intrinseca di un agente)

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che dalla esposizione (R = P x E). Ad esempio, un agente chimico pericoloso può trovarsi in bassa concentrazione (al di sotto del limite di concentrazione di pericolosità), ma per le modalità d’uso (es. la facile dispersione nell’aria) può comunque dare luogo a situazioni di rischio per i lavoratori.

Ovviamente, ogni qual volta nell’attività lavorativa vengano raggiunti livelli di esposizione pari o superiori ai valori limite fissati, generando così situazioni di rischio o di pericolo per la salute dei lavoratori, il datore di lavoro è obbligato a nominare un medico competente che collabori alla valutazione del rischio e, sulla base della stessa, programmi ed effettui la sorveglianza sanitaria, redigendo ed aggiornando per ciascun lavoratore una cartella sanitaria e di rischio.

Il contesto normativo riguardante la protezione dei lavoratori da agenti chimici pericolosi ha registrato negli ultimi anni delle innovazioni che comportano radicali cambiamenti nella trattazione di tale problematica.

In passato, difatti, la legislazione italiana in materia si è a lungo basata su criteri perlopiù qualitativi e soggettivi, tant’è che, pur essendo noti gli effetti patogeni di molte sostanze, fino a tempi relativamente recenti erano praticamente assenti criteri per l’individuazione e la quantificazione del rischio chimico. Anche le prescrizioni relative ai sistemi per prevenire l’esposizione, benché ineccepibili in linea di principio, erano di fatto spesso svuotate di significato in mancanza di un riscontro quantitativo: ad esempio indicazioni del tipo “nei lavori in cui si

svolgono gas o vapori irrespirabili o tossici…il datore di lavoro deve adottare provvedimenti atti a impedirne o ridurne, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione”1 mancano di criteri oggettivi per verificare la necessità di impedire o ridurre lo sviluppo delle sostanze tossiche o, successivamente a un intervento mirato a ridurle, per appurare l’avvenuto contenimento delle stesse a livelli non pericolosi per la salute dei lavoratori.

Interventi legislativi mirati si sono avuti negli anni passati relativamente ad agenti chimici della massima pericolosità e che hanno causato un enorme allarme sociale (come ad esempio il cloruro di vinile monomero o l’amianto), ma è mancata a lungo una strategia globale sul controllo e il mantenimento del rischio

1

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chimico. Solo negli ultimi anni, grazie alla rilevanza che ha assunto la questione nell’ambito della Comunità Europea e in seguito al recepimento nel nostro paese di specifiche direttive da essa promulgate, viene inequivocabilmente sancita l’importanza rivestita dalle misurazioni sperimentali sulla effettiva esposizione dei lavoratori come criterio per la valutazione e il contenimento del rischio e per la pianificazione delle azioni di controllo e/o di risanamento da effettuare successivamente. L’attuale legislazione (D.Lgs. 81/08 e successive modifiche e integrazioni) prevede infatti una valutazione del rischio chimico secondo metodologie standardizzate e con un chiaro riferimento ai valori limite di esposizione professionale.

Purtroppo va messo in evidenza come le incertezze che ancora permangono sulle procedure di monitoraggio, l’esiguo numero di valori limite sia a livello nazionale che comunitario e la scarsa chiarezza sui criteri da utilizzare per confrontare i dati derivanti dalle misurazioni sperimentali con tali valori, rendano di fatto ancora pienamente vigenti prescrizioni di tipo generico nella maggior parte dei casi reali.

Inquadramento legislativo: ieri e oggi

Alla consapevolezza sul piano scientifico delle conseguenze dovute all’esposizione alle sostanze pericolose utilizzate negli ambienti di lavoro ha fatto seguito lo sviluppo di una normativa in materia, sempre più attenta alla tutela dei lavoratori interessati.

Per quanto attiene alla legislazione italiana dell’ultimo secolo, le prime indicazioni, che evidenziano un interesse del legislatore nei confronti di questo tema, si ritrovano nel “Regio Decreto n. 147 del 09/01/1927– Approvazione del regolamento speciale per l’impiego dei gas tossici”.

Successivamente, dopo la promulgazione della normativa degli anni ’50 (D.P.R. n. 547 del 27/04/1955 e D.P.R. n. 303 del 20/03/1956), non fu emanata più

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alcuna norma a tutela dei lavoratori relative all’esposizione a sostanze pericolose, sino al 1991, anno in cui furono recepite le Direttive Comunitarie emesse negli anni ’80, con la diffusione di alcuni decreti specifici, a cominciare dal D.Lgs. n. 277 del 15/08/1991, riguardante l’esposizione a piombo ed amianto.

Negli ultimi vent’anni, invece, la comunità scientifica ha rivolto, con fermo rigore, la propria attenzione alle problematiche legate alla prevenzione ed alla protezione dei lavoratori in generale, includendo i problemi derivanti dall’esposizione alle sostanze chimiche pericolose per l’organismo umano.

Con il Decreto Legislativo n. 626 del 19/09/1994 (art. 4 co.1), il legislatore ha voluto, per la prima volta, mettere in rilievo l’importanza dei rischi connessi all’uso degli agenti chimici e alla relativa esposizione dei lavoratori. Il recepimento delle direttive relative alla protezione da agenti cancerogeni e mutageni (D.Lgs. n. 66 del 25/02/00) ed alla protezione dagli agenti chimici (D.Lgs. n. 25 del 02/02/02), ha dato un ulteriore impulso al sistema basato sulla prevenzione. La scelta giuridica di aggiungere, al preesistente Titolo VII del D.Lgs. 626/94 “PROTEZIONE DA AGENTI CANCEROGENI E MUTAGENI”, il titolo VII-bis, riguardante la “PROTEZIONE DA AGENTI CHIMICI”, ha reso evidente lo stretto legame con gli agenti cancerogeni e mutageni (art. 61 del D.Lgs. 626/94) che, al tempo stesso, risultavano essere agenti chimici pericolosi. L’obbligo di valutare, nella scelta dei preparati chimici impiegati, i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori già previsto all’art. 4, co.1 del D.Lgs. 626/94, è stato riportato nel D.Lgs. 25/02 che, pur essendo, ad un primo approccio, stato percepito dai destinatari come un mero aggravio legislativo, ha fissato i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori dalle conseguenze, dannose per la salute e la sicurezza, derivanti dall’esposizione agli agenti chimici presenti nei luoghi di lavoro ed ha avuto il merito di dare ai datori di lavoro alcune indicazioni relative alle modalità e ai principi secondo i quali tale valutazione debba essere effettuata. Inoltre, ha chiarito che anche l’esposizione ad agenti chimici “naturali”, non derivanti cioè da sintesi chimica, possa avere effetti sulla salute.

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Il 1 giugno del 2007 è entrato in vigore il Regolamento (CE) n. 1907/2006 (REACH) del Parlamento Europeo e del Consiglio che, attraverso un unico testo normativo, sostituisce buona parte della legislazione comunitaria attualmente in vigore in materia di sostanze chimiche e introduce un sistema integrato per la loro registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione.

Il 9 aprile del 2008 è stato emanato il decreto legislativo n. 81 che ha lo scopo di prescrivere misure per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, in tutti i settori di attività privata o pubblica. Tale decreto propone un sistema di gestione permanente e preventivo per la salute e sicurezza dei lavoratori attraverso:

l'individuazione e la valutazione di sorgenti di potenziali fattori di rischio; la riduzione dei fattori di rischio;

il controllo costante delle misure di prevenzione, di protezione e di organizzazione messe in atto;

l’adeguamento ai nuovi processi o ai nuovi rischi che possono presentarsi in azienda.

Per quanto riguarda i lavoratori esposti a rischio chimico, il D.Lgs. 81/08 ha modificato la dizione di “rischio moderato per la sicurezza e la salute dei lavoratori” già presente nel D.Lgs. 626/94, sostituendola con la definizione di “rischio irrilevante per la salute e basso per la sicurezza”.

La differenza fra la definizione precedente “rischio chimico per la salute” e l’attuale “rischio chimico per la sicurezza dei lavoratori” si evidenzia nell’art. 224, co.2. D.Lgs.81/08, dove viene introdotto il concetto di “rischio irrilevante

per la salute” e “rischio basso per la sicurezza” e nel quale viene stabilito che,

qualora il processo valutativo indichi il non superamento di tali soglie di rischio, il datore di lavoro debba essere obbligato ad applicare comunque le misure e i principi generali di prevenzione di cui al co.1 (nonché di tutte le altre norme di prevenzione e protezione), mentre viene sollevato genericamente dall’applicazione di specifiche misure di tutela, quali la sorveglianza sanitaria con la conseguente stesura da parte del Medico Competente delle cartelle sanitarie e di rischio e le misure specifiche di prevenzione e di protezione.

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