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Capitolo VI Conclusioni

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Academic year: 2021

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Capitolo VI

Conclusioni

La narrazione e la successiva analisi degli eventi precedenti e relativi al Vertice del 2001 non riescono a dirimere la totalità delle dinamiche verificatesi in quelle ore. La sensazione che prevale ogni volta che ci si confronta con fenomeni di questa importanza e che soprattutto possono toccare il vivo della nostra esperienza personale è quella di lasciare sulle pagine più interrogativi di quelli con cui si è cominciato il lavoro di indagine. L’operazione è resa più critica dalla contemporaneità che gli eventi e le loro conseguenze hanno con la nostra esistenza e il fatto che si siano intrecciate in qualche misura con la nostra crescita personale, umana e politica. Di questi interrogativi con cui concludo il mio lavoro, ne voglio sviluppare solamente due: il primo ha a che vedere con l’emotività e non troverà spiegazione, nè giudizio se non di carattere morale: è il compiacimento tradito dai volti, dai corpi, dai gesti, dalle parole provato nell’usare violenza e che, nel compilare questa ricerca, ho potuto riscontrare ogni volta che ho dovuto visionare filmati e documentari sul G8 di Genova.

L’altro è forse l’interrogativo di maggior spessore e sicuramente non troverà, in queste poche pagine, una risposta soddisfacente e mi limiterò a suggerire una debole, ma verosimile, ipotesi basata esclusivamente su impressioni personali: quale finalità politica è stata conseguita attraverso la realizzazione dei fatti fin qui presi in esame.

6.1 Una “nuda” violenza.

Nei primi capitoli di questo lavoro mi sono spesso soffermato sull’aspetto eccezionale che caratterizza la mole di fonti disponibili per affrontare una narrazione dei fatti di Genova; una mole costituita in grandissima parte da documenti registrati e filmati. È a questi ultimi che si lega nell’immaginario, l’evento storico: immagini filmate da cineoperatori occasionali, dilettanti e da esperti professionisti che restituiscono ritratti, suoni, sensazioni in modo talmente sapiente che a volte, se ci si abbandona alla suggestione della retorica cinematografica, sembra di avvertire il caldo afoso, il sudore e l’odore aspro dei lacrimogeni. In questo enorme campionario di immagini emergono alcune sequenze da cui traspare un aspetto non facilmente esperibile dai racconti dei testimoni, neppure da quelli delle vittime, concentrate legittimamente sulla propria sofferenza e non sulle emozioni individuabili sul volto del proprio aggressore (sempre che non fosse travisato).

L’analisi che ho proposto nelle pagine precedenti non è in grado di spiegare gli accenti di sadismo che pare assumere la violenza in alcuni frangenti nel corso delle giornate del Luglio 2001. Restano senza un’apparente spiegazione i pestaggi ad opera di numerosi agenti e carabinieri ai danni di singoli inermi, anche già feriti. Di seguito ho scelto alcune sequenze, che cercherò di descrivere al meglio, che rientrano fra le più note tra quelle a cui è legata l’immagine della violenza di Genova.

La prima è un’inquadratura che riprende le cariche su corso Garstaldi, mostra un muretto dal quale spunta solo una mano. Non sappiamo a chi appartenga, ma uno dopo l’altro passano gli agenti dei Reparti Mobili e dei carabinieri, ognuno si abbassa e colpisce con forza con lo sfollagente. Uno di loro si ferma qualche secondo di più, colpisce, urla qualcosa in faccia alla vittima, impugna al contrario il tonfa in dotazione (è quindi un agente del preparatissimo VII Nucleo Sperimentale) e perquote due, tre volte chi sta disteso al di là del muretto, poi riprende la marcia.

Un’altro filmato mostra una scena degli scontri scaturiti dalle cariche iniziali nella zona di via Pisacane. Due manifestanti restano isolati, si ranicchiano contro una saracinesca, vengono raggiunti da sette carabinieri, giovani, che non impugnano lo scudo e non indossano il casco, li assalgono a colpi di tonfa, calci, spinte, si accalcano per riuscire a somministrare ciascuno la propria razione di colpi.

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Ci sono poi le scene delle cariche su Corso Italia, il 21 Luglio; l’ondata di Forze dell’Ordine è passata, restano stesi sull’asfalto decine di manifestanti. Uno di loro è prono, solleva la testa per guardare verso gli altri che sono stati pestati insieme a lui, un’agente passa e lo colpisce con un calcio sulla nuca, facendogli sbattere la faccia sul terreno.

C’è poi il già citato episodio che vede protagonista il vice capo della Digos genovese, che infierisce con un calcio in faccia ai danni di un giovane manifestante bloccato e picchiato da altri agenti. Il calcio in faccia purtroppo non è l’unico elemento a destare interesse in quella scena. L’espressione sul volto del dirigente della Digos tradisce concitazione, rabbia. Nell’affrettarsi a colpire il ragazzo Perugini si aggrappa ai colleghi, viene colpito accidentalmente da una manganellata e sferra un calcio che colpisce il giovane all’occhio sinistro.

Il sadismo non si esaurisce con i pestaggi gratuiti. Merita di essere citato, almeno in sede conclusiva non riguardando le valutazioni più tecniche dei capitoli precedenti, un episodio alquanto dubbio relativo all’uccisione di Carlo Giuliani e citato spesso da tutte le pubblicazioni che hanno trattato dei fatti del G8. Carlo viene circondato da un folto gruppo di agenti di polizia e carabinieri, indossa il passamontagna, sanguina dallo zigomo in cui è stato colpito. Alcuni fotogrammi di una ripresa amatoriale ritraggono un carabiniere che si piega all’altezza del capo del giovane appena morto, sembra avere qualcosa in mano. L’autopsia evidenzierà, oltre alla ferita d’arma da fuoco, una ferita lacero-contusa a forma di stella sulla fronte1

. Con tutta probabilità, forse in un approssimativo tentativo di sviare l’attenzione dal foro di proiettile, il carabiniere, tutt’oggi anonimo, ha voluto infierire sul corpo del giovane con un sasso.

Carlo è stato poi vittima di un linciaggio mediatico che lo ha dipinto come sbandato, perdigiorno, punkabbestia, anarchico, black bloc, ed altre definizioni che anche se si fossero rivelate corrette avrebbero reso più giustificabile o legittima la sua morte?

Questi fatti senza spiegazione restano episodi non marginali di quelle giornate che è comunque doveroso ricordare ed enumerare. Il G8 di Genova non è stato solo il fallimento dell’ordine pubblico e l’inizio della fine del Movimento anti-globalizzazione per come si era sviluppato nel corso dei due anni precedenti. Genova è stata anche la cieca violenza degli uomini e delle donne che componevano i reparti delle Forze dell’Ordine, è stata l’esultanza di fronte alla morte, la smania di colpire con qualsiasi mezzo i corpi dei fermati; fatti che a stento trovano una spiegazione nel portato ideologico o nel sapere interno alle caserme.

Ma quelle che possono sembrare solo congetture, dettate anche dalla suggestione dovuta alla necessità di misurarsi con una documentazione disseminata di episodi di questo tipo, hanno trovato spiegazione nelle parole estratte dal citato blog “Doppia Vela” e meritano di essere riprese:

“Un turbinio di emozioni ti pervade. Colpi dati, colpi presi. [...] E in quel frangente stai godendo di tutto ciò!!! In quel momento, e solo in quel momento, potrai capire di amare il lavoro che stai facendo, la missione. Perchè tale è l’istinto del guerriero che contraddistingue il celerino dal resto.”2

Al di là dell’interpretazione sociologica o della ricerca di motivazioni da un punto di vista sistemico che cosa può rendere possibile una violenza che voglio definire “nuda”, estendendovi la categoria di derivazione foucaultiana di G.Agamben. Le forze che intervengono a Genova sui corpi dei manifestanti, sulla loro umanità e sul loro essere individui, l’intervento sulla “nuda vita” dell’altro individuato come nemico è a sua volta il risultato di un processo che rende partecipe l’agente o il carabiniere autori delle percosse o delle torture, di un patrimonio culturale che ho definito nel capitolo precedente come elemento costituente di un nuovo sapere di

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“In regione frontale mediana si osserva una ferita lacero contusa, di forma irregolarmente stellata, inserita in un'area escoriata di circa cm. 3x2. Il fondo della ferita è sottominato con presenza di lacinie connettivali. Ai lati di detta lesione si osservano altre piccole contusioni escoriate a stampo, di forma irregolare. [...]Alla regione frontale è inoltre osservabile una ferita lacero-contusa di forma irregolarmente stellata, prodottasi verosimilmente prima della lesione d’arma da fuoco, senza tuttavia poter escludere che sia stata determinata in un momento successivo.(grassetto mio)” Dalla relazione dell’esame autoptico ordinata dal Pubblico Ministero Dott. Silvio Franz, disponibile all’indirizzo http://www.misteriditalia.it/genova/giuliani/atti-giudiziari/AutopsiaGiuliani.pdf.

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polizia. Sullo stesso tema indaga il lavoro diretto da Fabio Dei e Caterina Di Pasquale “Grammatiche della violenza” che, partendo dalle considerazioni di carattere psicologico e sociologico senza metterne in dubbio la validità, afferma:

“Nell’ottica antropologica si tratta invece di ricostruire i modelli culturali che in positivo plasmano una

soggettività capace di compiere il male. Modelli culturali da intendersi naturalmente come incorporati. Non è la coscienza astratta che impara a compiere la violenza e della violenza serba una memoria specifica: è il corpo, sono le mani. È come andare in bicicletta: non è una conoscenza astratta e discorsiva, ma un saper fare talmente introiettato da apparire “naturale”.[...]per fare quelle cose [le azioni violente sul corpo di altri esseri umani,ndr] bisogna impararle tecnicamente-come altri saperi pratici che mettono in relazione il corpo e la mente con la materia (come per i contadini e gli artigiani) e con la vita (gli allevatori, i macellatori, i medici e gli infermieri). Proprio da qui dovremmo invece partire per comprendere la dimensione culturale della violenza.”3

Quello che colpisce delle immagini citate, che determina anche un particolare coinvolgimento emotivo di chi scrive, non è tanto il contesto che può aver favorito, reso legittimo un uso eccessivo della forza, ma quale sia il modello culturale che permette al singolo di utilizzare il proprio corpo per agire in maniera violenta. Se la vittima è oggetto di un potere che può disporre del suo corpo, in quel momento l’interazione non è con un apparato repressivo astratto, ma con un altro corpo, altre mani, un’altra fisicità che mette in pratica non solo le conoscenze “tecniche” per rendere il dolore, la frustrazione e l’umiliazione più efficaci, ma supera ogni possibile freno inibitore per effetto del modello culturale del gruppo di appartenenza che, nello specifico, è composto dal doppio livello di corpo delle forze di polizia che si compenetra con quello di membro della comunità di cittadini. A questo proposito, nell’indagare il contesto delle torture all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) attraverso il reportage di E. Gatti (pubblicato su “L’Espresso” nel 2005), Dei propone una riflessione applicabile anche al contesto genovese. All’interno del CIE sono rintracciabili due modelli culturali di riferimento: quello dato dallo “statuto”, le leggi che stanno alla base della sua creazione e le norme che ne regolano il funzionamento e quello dato da una “cultura pratica sedimentata nelle forze dell’ordine, che segue una suua peculiare e autonoma logica”(Dei, De Pasquale 2013, pp. 15-16). La violenza all’interno dei centri, secondo l’autore, si manifesta con una certa ambiguità, è una “tentazione della violenza che discende dall’ambiguità strutturale del luogo. Il CPT media fra le istanze di accoglienza e soccorso e le pressioni delle forze politiche più xenofobe, favorevoli alla logica del “respingimento” e a un certo grado di criminalizzazione dell’immigrazione clandestina”.4

Anche in una realtà come il CIE di Lampedusa, o i suoi omologhi nel resto dell’Italia, è rintracciabile quindi un’importante influenza della cultura populista promossa dalla demagogia di alcuni schieramenti politici (ai quali si è visto le forze dell’ordine rivolgono la loro attenzione) sulla concezione del proprio ruolo e dello scenario in cui tale ruolo è inserito.

La violenza a Genova può essere letta quindi come il prodotto di una legittimazione, sistemica e culturale, e di un sapere tecnico che favorisce l’uso punitivo, sadico di una forza “nuda”, spogliata da qualsiasi schermo che potrebbe renderne più sopportabile l’effetto.

6.2 Memoria di Genova

Nel corso di questo lavoro, attraverso una narrazione anche analitica dei fatti, ho cercato di motivare o spiegare ciò che è avvenuto nel corso delle giornate genovesi del G8 2001. Un evento che ha costituito un momento di rottura e di novità con il periodo immediatamente precedente. Gli aspetti di tale rottura sono stati esaminati nelle

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Da F. Dei, C. Di Pasquale (a cura di); “Grammatiche della violenza. Esplorazioni etnografiche tra guerra e pace.”, Pacini Editore, Pisa, 2013.

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pagine del capitolo V. Lo shock prodotto dai fatti di Genova è in realtà un risveglio della coscenza collettiva rispetto ad una realtà che era stata messa momentaneamente a tacere, relegando le conflittualità esplosive all’interno delle curve degli stadi e riuscendo a domare tutte le pulsioni che invece si richiamavano ad una tradizione di agitazione sociale. Si potrebbe aggiungere anche che le esperienze di lotta tradizionalmente attraversate da conflitti di portata violenta erano riusciti a sublimare il carattere conflittuale in forme più mediatiche e di ricerca di un’efficacia comunicativa e di un’incisività politica che non aveva bisogno o non incontrava lo scontro di piazza. Con Genova si torna indietro di vent’anni non solo per l’inefficacia della riforma della Polizia, per gli aspetti che sono emersi ancora bisognosi di una soluzione democratica, ma anche dal punto di vista della conflittualità.

La lotta alla globalizzazione, seppure arricchita da una componente che affondava le proprie radici nella cultura delle lotte degli anni settanta, aveva aggregato una maggiornaza di cittadini estranei alla politica tradizionale e soprattutto alle forme di violenza. Le sigle che, nel panorama del Social Forum, potevano essere ricondotte ad una cultura di opposizione sociale erano indubbiamente in minoranza e costrette al compromesso dal dialogo aperto per la costituzione dei coordinamenti. Era un movimento che riusciva ad utilizzare i canali di comunicazione, sollevava temi sensibili ed interveniva su tematiche accessibili al resto dell’opinione pubblica. L’attività del movimento non mirava a sovvertire l’ordine, ma ne criticava energicamente i fondamenti e le analisi su cui si fondava la contestazione provenivano da “testimonial” attendibili come economisti, medici e politici estranei ad una sinistra extraparlamentare più tradizionale.

Non è azzardato supporre che questi elementi di novità abbiano allarmato i governi mondiali preoccupati di far proseguire le politiche liberiste riservandosi di discuterne i rischi quando si fossero presentati in modo più pressante. I poteri su cui normalmente si poteva fare affidamento per screditare o silenziare le istanze stavano dando segni di inefficacia, la televisione, monopolio informativo dei governi e delle elite industriali, nel 2001 cedeva già il passo alle potenzialità della rete Web e i giornali, benchè ancora diffusi in maniera capillare nel tessuto sociale, avevano già passato il testimone al piccolo schermo per ciò che riguardava il dibattito politico. A livello internazionale non esistevano leggi globalmente valide per impedire la contestazione e il sistema liberista aveva creato le condizioni per la costituzione di un movimento che ne rispecchiava le caratteristiche sovrannazionali.

Un’ipotesi è quella che la risposta repressiva messa in atto a Genova, per quanto possa essere stata il risultato di una spirale violenta, abbia potuto offrire anche a posteriori, una soluzione alla questione del dissenso. Sebbene a Seattle la repressione non fosse stata troppo blanda, aveva mancato di fermezza ed era stata seguita da polemiche riguardanti i metodi coercitivi che aveva giocato a favore del proselitismo dei No Global. Le scelte successive di isolare fisicamente i Vertici mondiali aveva sottolineato la forza prorompente del movimento e la ragionevolezza delle sue vertenze.

Anni dopo, a proposito di un’altra ondata di protesta, quella contro la riforma dell’istruzione firmata dal Ministro Gelmini, l’ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga concede un’intervista in cui spiega quali dovrebbero essere gli atteggiamenti da tenere per garantire allo Stato una vittoria sul movimento. Proviamo a leggerle guardando a Genova:

“A questo punto, Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno. In primo luogo,

lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito...Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti

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senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano.”5

Le dichiarazioni dell’ex presidente, dal tono indubbiamente provocatorio, ricalcano quella che è stata per anni l’analisi proposta dal movimento rispetto ai fatti di Genova.

Gli eventi del 2001 hanno però prodotto anche una memoria specifica, quasi traumatica, che ha indotto nel movimento delle scelte rispetto alle pratiche da adottare nella protesta.

Personalmente ho avuto modo di conoscere il periodo successivo ai fatti che ho analizzato in questo lavoro, un periodo caratterizzato dal dibattito su violenza e non-violenza, dal trauma costituito dalla brutalità della repressione, dalla paura del fraintendimento di qualsiasi atteggiamento adottato nel corso delle manifestazioni. Eppure è come se il G8avesse anche “rotto il tabù” della violenza e dello scontro di piazza. Negli anni successivi assistiamo ad un moltiplicarsi delle situazioni di tensione: dalle lotte in Val di Susa per il blocco dei cantieri per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, alle campagne di protesta contro la riforma dell’istruzione voluta dal ministro Gelmini e quelle più recenti degli “indignados” in opposizione alle misure di

austerity promosse dai governi per far fronte alla recessione economica.

Genova ha dimostrato che la violenza di piazza era un’eventualità e il clamore mediatico suscitato dagli eventi del 2001 ha avuto inoltre l’effetto di dimostrare come questa potesse avere anche una funzionalità politica. La rottura del tabù ha messo il movimento di fronte all’alternativa di poter sostenere un livello di scontro e di repressione dai tratti particolarmente duri oppure abbandonare un livello ritenuto forse troppo radicale della protesta a favore di campagne di opinione che non si prestavano a fraintendimenti, ma con meno capacità di determinare il dibattito politico.

Le componenti del movimento, che ha continuato ad essere comunque animato da una pluralità di aree di riferimento, che hanno deciso via via di confrontarsi anche con il livello del conflitto di piazza fino a conferirgli una centralità scenica nel corso dei cortei, hanno corso però il rischio di essere facilmente assimilate, dai mass media e quindi dall’opinione pubblica, all’immagine del Black Bloc.

Il Black Bloc, che ai tempi di Genova rappresentava semplicemente l’insieme delle frange dichiaratamente ostili non solo alle tematiche della globalizzazione, ma anche ai suoi simboli nei territori e che faceva del sabotaggio e del danneggiamento il suo linguaggio politico, oggi si è estesa a designare, per esclusione, chiunque abbia la volontà o la capacità di concepire e sostenere lo scontro diretto con le Forze dell’Ordine. Le componenti del movimento che in piazza resistono e non subiscono passivamente le cariche vengono così inserite in una cornice che non appartiene più alla sfera del legittimo diritto di manifestare, ma sono considerate come un’espressione delle pratiche proprie del Black Bloc benchè le modalità di scontro e le scelte operate per alcune azioni dimostrative, anche radicali, non siano in alcun modo riconducibili alle strategie messe in atto a Genova dai “neri”. A sostegno dell’estensione di questa categoria alla quasi totalità del movimento oggi esistente in Italia, vi sono anche operazioni giornalistiche singolari, come le interviste a presunti aderenti al Blocco Nero, sul modello di alcune fatte in vista di Genova. Eccone uno stralcio dalla Repubblica del 2011:

“Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva

quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i "capetti" del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare. Perché ci prepariamo da un anno.[...]Per un anno, una volta al mese, siamo partiti in traghetto da Brindisi con biglietti di posto ponte, perché non si sa mai che a qualcuno viene voglia di controllare. E i compagni ateniesi ci hanno fatto capire che la guerriglia urbana è un'arte in cui vince l'organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare

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tutto. Ora sappiamo come sfasciare. A Roma, abbiamo vinto perché avevamo un piano, un'organizzazione.”6

L’originalità dell’articolo emerge nelle battute conclusive, dove cronista ed intervistato si alternano in un botta e risposta che carica il presunto Black Bloc di un’aurea irriverente, sfacciata e provocatrice:

Parli come un militare."Parlo come uno che è in guerra".Ma di quale guerra parli? "Non l'ho dichiarata io. L'hanno dichiarata loro".Loro chi? "Non discuto di politica con due giornalisti". E con chi ne discuti, ammesso che tu faccia politica? "Ne discuto volentieri con i compagni della Val di Susa". Sei stato in val di Susa? "Ero lì a luglio". A fare la guerra. "Si. E vi do una notizia. Non è finita.”

L’operazione di divisione indotta nel movimento o di lettura delle componenti che lo animano è resa possibile proprio dallo spettro creato a Genova. Se l’immagine delle Forze dell’Ordine è stata ricostruita e l’insuccesso è stato congelato all’interno di quei tre giorni, quella parte di Movimento che ha raccolto almeno nelle piazze, l’eredità delle pratiche della protesta, è costretta spesso a potersi solo difendere dagli attacchi mediatici e dalle strategie repressive.

Come ho detto l’innalzamento sproporzionato e forse premeditato del livello dello scontro costringe la controparte ad operare una scelta: sostenere e confrontarsi con il nuovo livello o considerare la dissimmetria tra la posta in gioco e il valore della protesta e abbandonare il campo a favore di uno più praticabile.

È un fatto che quello sceso in piazza a Genova fosse un movimento senza precedenti storici paragonabili, è un fatto altrettanto certo che Genova ne abbia determinato, o perlomeno indotto, il riassorbimento.

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