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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

Tesi di Laurea:

“ALZHEIMER E PARKINSON: MISFOLDING E AGGREGAZIONE DI PROTEINE COME NUOVO BERSAGLIO TERAPEUTICO”

Relatore:

Prof.ssa Maria Letizia Trincavelli

Correlatore: Candidato:

Dr.ssa Chiara Giacomelli Francesco Casini

ANNO ACCADEMICO 2016/2017 SSD BIO/10

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1

Alla mia famiglia

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INDICE

Riassunto

...5

1 Introduzione generale

………6

2 Morbo di Alzheimer

……….8 2.1 Introduzione………..………8 2.2 Manifestazioni cliniche………..………9 2.3 Tipologie di Alzheimer……….………...11 2.4 AD come proteinopatia……….……….12

2.4.1 Placche amiloidi o senili ………..12

2.4.2 Proteina tau………..14

2.4.3 Stress ossidativo e AD……….16

3 Morbo di Parkinson

………17

3.1 Epidemiologia……….………..17

3.2 Etio-patogenesi……….………19

3.3 Fisiopatologia……….20

(4)

3

3.5 PD come proteinopatia: il ruolo dell’accumulo di α- sin……….24

3.5.1 Il ruolo fisiologico dell’α-sin………..…….25

3.5.2 La struttura dell’α-sin……….………26

3.5.3 Oligomeri e fibrille di α-sin, effetti sulle cellule………28

3.5.4 Propagazione e trasmissione di α-sin nella patogenesi di PD….28

4 Aggregazione proteica

……….……….. 29

4.1 Struttura terziaria, misfolding e aggregazione di proteine………..…..30

4.2 Misfolding come meccanismo alla base delle amiloidosi……..…..……32

4.3 Meccanismi e intermediari di aggregazione……….……….35

4.4 Aggregati e neurodegenerazione: meccanismi di morte neuronale 37 4.4.1 Ipotesi della perdita di funzionalità………..37

4.4.2 Ipotesi di un aumento di funzionalità……….38

4.4.3 Ipotesi dell’induzione dell’infiammazione cerebrale………..…….38

4.5 Nuove conoscenze sull’aggregazione di proteine nelle patologie neurodegenerative: oligomeri o eteromeri?...39

4.5.1 Aβ, tau and α-sin misfolding nelle oligomeropatie………39

4.5.2 Etero-aggregazione di aβ, tau e α-syn……….…………..40

4.6 Nuove prospettive sull’inibizione dell’aggregazione proteica come targets innovativi per le malattie neurodegenerative………43

(5)

4

5 Farmaci per il trattamento dell’Alzheimer

………..43

5.1 Altre ipotesi di approccio farmacoterapico……….47

5.2 Farmaci in fase di sviluppo………..………48

5.2.1 Farmaci sperimentali………50

6 Farmaci anti Parkinson

……….………51

6.1 Potenziamento del sistema dopaminergico………51

6.2 Farmaci anticolinergici……….………..55

7 Modulatori dell’Aggregazione proteica come nuovo

target nella terapia delle malattie neurodegenerative

…..57

7.1 Inibitori dell’aggregazione di Aβ……..………..58

7.2 Inibitori dell’aggregazione di tau…………..……….59

7.3 Inibitori dell’aggregazione di α-syn……….……….60

7.4 Inibitori ad ampio spettro………..………..62

8 Ringraziamenti

………..……….63

(6)

5

RIASSUNTO

Le malattie neurodegenerative (Neurodegenerative diseases, ND) sono un insieme eterogeneo di malattie del sistema nervoso centrale, accomunate da una morte progressiva delle cellule neuronali. Le cause che portano alla morte neuronale non sono ancora chiare, tuttavia, molte di queste patologie sono accomunate dall’accumulo di aggregati proteici insolubili. Tra queste troviamo il morbo di Alzheimer (AD), che rientra nella categoria delle “demenze” e il morbo di Parkinson (PD), appartenente ai “disordini del movimento”. Le proteine per assumere la loro conformazione tridimensionale subiscono un processo di “folding”. Se durante il processo avvengono degli errori si arriva ad avere delle proteine “misfolded”, con una conformazione errata che favorisce la loro aggregazione. L’aggregazione di proteine, come l’amiloide beta (Aβ), l’alfa-sinucleina (α-sin) e la tau, è un tema di grande interesse nella ricerca di terapie per le malattie degenerative come AD e PD. Nel presente lavoro di tesi saranno trattati i meccanismi e le nuove conoscenze sull’aggregazione proteica nelle patologie neurodegenerative e le nuove prospettive sull’inibizione di questa aggregazione come target innovativo per le suddette malattie. Successivamente verranno presentate le varie ipotesi di approccio farmacoterapico con tutte le tipologie di farmaci attualmente adottati nelle due patologie. Infine, saranno discusse le prospettive sullo sviluppo di nuovi farmaci capaci non solo di diminuire i sintomi delle patologie, ma di ridurne e/o bloccarne la progressione.

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1. Introduzione generale

Le malattie neurodegenerative (Neurodegenerative diseases, ND) sono un insieme eterogeneo di malattie del sistema nervoso centrale, accomunate da una morte progressiva delle cellule neuronali. Il deterioramento neuronale può comportare deficit cognitivi, demenza, alterazioni motorie, disturbi comportamentali e psicologici che variano nelle diverse patologie. Tra le principali ND troviamo: il morbo di Alzheimer (Alzheimer's disease, AD), il morbo di Parkinson (Parkinson's disease PD), il morbo di Huntington, la sclerosi laterale amiotrofica e molte altre. Queste si classificano in due principali gruppi:

-Demenze: tra cui il Morbo di Alzheimer (AD), nelle quali predominano disordini cognitivi, caratteriali e di memoria

-Disordini del movimento: tra cui il Morbo di Parkinson (PD), caratterizzato da ipercinesia, acinesia, paralisi.

Le cause e i meccanismi alla base dell'insorgenza e della progressione di queste patologie sono ancora poco chiari. Tuttavia è ben chiaro che per avere lo sviluppo di tali patologie non è sufficiente la presenza di un solo fattore scatenante, ma piuttosto sia fondamentale il coinvolgimento di più fattori, che concorrono l'uno con l'altro nel dare origine alla degenerazione neuronale. Fra questi fattori, spiccano certamente quelli di origine genetica ed ereditaria, e quelli di tipo ambientale (Caltagirone C. 2005). In alcuni casi, come nelle ND genetiche rare, la mutazione di un gene specifico causa l'espressione di una proteina mutata che può alterare la funzionalità del neurone, causandone la degenerazione e quindi la morte (Ballard C. et al. 2011). Alterazioni genetiche sono alla base anche delle forme familiari di alcune tra le patologie neurodegenerative più comuni, come la AD e PD. Una delle caratteristiche che accomunano le ND è la presenza di proteine incorrettamente foldate, che presentano un aumentata capacità di

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interagire, aggregarsi e accumularsi sia all’interno dei neuroni che negli spazi tra gli stessi (placche amiloidi e corpi di Lowry) (Ballard C. et al. 2011).

Normalmente, le proteine prodotte dalla cellula assumono conformazioni tridimensionali (folding) specifiche che ne permettono una corretta funzionalità. Le proteine, quando non correttamente conformate, vengono normalmente degradate dalla cellula che ne reimpiega i costituenti essenziali, gli amino acidi. Se tale degradazione non avviene o è insufficiente, queste tendono ad aggregare, accumulandosi. Nelle patologie neurodegenerative, si pensa che tali accumuli proteici possano contribuire alla neurodegenerazione. In altri casi, tali accumuli proteici possono però anche costituire un tentativo del neurone di preservare la sua integrità confinando queste proteine incorrettamente conformate. Le ND possono manifestarsi e avere decorsi peculiari, a seconda dell'area del cervello interessata dalla perdita neuronale e a seconda del tipo di neuroni che vengono colpiti. Ogni patologia colpisce inizialmente specifiche aree del cervello, determinando quindi uno spettro di sintomi caratteristici della patologia stessa, tuttavia, tutte le ND sono purtroppo accumunate dalla progressione della patologia che porta inevitabilmente all'autoinsufficienza ed, eventualmente, alla morte (Tiraboschi P. et al. 2004).

Le ND hanno un decorso progressivo che si evidenzia fenotipicamente quando il danno anatomico cerebrale è già in fase avanzata: a tal riguardo la letteratura riporta che il paziente al momento della diagnosi ha già perduto fino al 70% dei neuroni (Katzung B.G. 2009) riducendo così la possibilità di intervenire terapeuticamente in modo efficace. Le malattie neuro degenerative sono ad elevato impatto sociale ed in rapida espansione se pensiamo che stime di previsione indicano che entro il 2050 almeno 50 milioni di persone nel mondo saranno colpiti dalla malattia di Alzheimer (Brookmeyer R. et al. 2007).

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Nel presente lavoro saranno prese in esame principalmente l'AD e il PD. In particolare delle due patologie saranno presi in esame i meccanismi patologici e le terapie attualmente utilizzate. Infine, saranno discusse le prospettive nello sviluppo di nuovi farmaci capaci non solo di diminuire i sintomi delle patologie, ma di ridurne o bloccare la progressione.

MORBO DI ALZHEIMER

2.1 Introduzione

La malattia di Alzheimer o AD (Alzheimer desease) consiste in un processo degenerativo che distrugge in modo lento e progressivo le cellule del cervello provocando un deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive superiori quali la memoria, il ragionamento e il linguaggio fino ad una compromissione totale dello stato funzionale e della capacità di svolgere le normali attività quotidiane di base (Brookmeyer R. et al. 1998). La malattia colpisce “in modo conclamato circa il 5% delle persone dai 60 in su: in Italia si stimano almeno 500.000 malati di Alzheimer” (Marfisi S. 2012). Nel 2006 vi erano 26,6 milioni di malati in tutto il mondo e si stima che nel 2050 una persona su ottantacinque a livello mondiale ne sarà affetta (Brookmeyer R. et al. 2007). I sintomi iniziali vengono spesso, erroneamente, scambiati per normale invecchiamento. La sua ampia e crescente diffusione, con tutte le conseguenze associate, emotive ed economiche, la rendono una delle patologie a maggior impatto sociale nel mondo.

La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906 dal neuropatologo Alois Alzheimer (1863-1915): fu durante la Convenzione psichiatrica di Tubingen che Alzheimer presentò il caso di una donna di 51 anni affetta da una sconosciuta forma di demenza. La scoperta della

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malattia però risale al 1901 quando il dottor Alois Alzheimer, interrogando una sua paziente, le mostrò alcuni oggetti domandandole che cosa le fosse stato indicato, domanda alla quale non seppe rispondere. Alzheimer registrò il suo comportamento come “disordine da amnesia di scrittura” senza sapere che la signora sarebbe stata la prima paziente a cui veniva diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di Alzheimer. Dopo la morte della signora (1906), il dottor Alzheimer eseguì una serie di indagini autoptiche che portarono alla identificazione della malattia (1907). A livello macroscopico notò una diminuzione sia del volume che del peso del cervello dovuta ad atrofia corticale, un appiattimento delle circonvoluzioni cerebrali ed allargamento dei solchi. A livello microscopico la malattia si evidenziò con una riduzione del numero dei neuroni, accumulo extracellulare di materiale sotto forma di placche e ammassi fibrillari a livello dei neuroni. Successivamente, a metà degli anni 60, fu dimostrato che gli ammassi neurofibrillari (NFT) erano costituiti da proteina tau iperfosforilata che associandosi ai microtubuli formava una struttura elicoidale di filamenti intrecciati (Boller F., Forbes M.M. 1998). Nel 1984 Glenner e Wong scoprirono che le placche senili erano costituite dalla proteina amiloide (Boller F., Forbes M.M. 1998).

2.2 Manifestazioni cliniche

Il decorso clinico della malattia è caratterizzato da un deterioramento cognitivo cronico progressivo e viene suddiviso in quattro fasi:

-Predemenza

I primi sintomi, spesso erroneamente attribuiti allo stress o all'invecchiamento, possono fare la loro comparsa fino ad otto anni prima che la malattia sia conclamata. Uno dei sintomi più frequenti è l’amnesia anterograda (difficoltà a ricordare i fatti più recenti) e la incapacità di

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acquisire nuove informazioni (Arnáiz E., Almkvist O. 2003). L'apatia, che si osserva in questa fase, è il sintomo neuropsichiatrico che permane per tutto il decorso della malattia (Murray E.D. et al. 2012). La fase preclinica della malattia è stata chiamata "mild cognitive impairment". Quest'ultima si trova spesso ad essere una fase di transizione tra l'invecchiamento fisiologico e la demenza.

-Fase iniziale

È caratterizzata da una crescente compromissione della memoria e dell’apprendimento correlate ad una difficoltà nel linguaggio, aprassia (incapacità di compiere azioni comuni come ad esempio radersi o vestirsi) e agnosia (l'incapacità di riconoscere cose prima note). La memoria episodica, che riguarda i vecchi episodi della vita e la memoria procedurale che riguarda il modo di fare le cose, sono colpite in misura minore rispetto alle nozioni più giovani. Esistono anche problemi linguistici caratterizzati principalmente da un impoverimento nel vocabolario che portano ad un depauperamento generale del linguaggio orale e scritto anche se rimane la capacità di comunicare adeguatamente idee di base (Frank E.M. 1994).

-Fase intermedia

Con il progredire della malattia i soggetti colpiti diventano sempre meno indipendenti non essendo quasi più in grado di svolgere le normali attività quotidiane. Le difficoltà linguistiche diventano evidenti a causa dell’afasia (perdita della capacità di comprendere e produrre il linguaggio) e della parafasia (sostituzione in un determinato contesto di parole con altre errate). I problemi di memoria peggiorano fino al mancato riconoscimento persino dei parenti più stretti.

-Fase finale

Durante questa fase il paziente diventa non autosufficiente, il linguaggio è ridotto a semplici frasi o parole fino alla perdita completa. Nonostante

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possa essere presente ancora aggressività da parte del malato di AD, egli più comunemente è apatico e stanco.

2.3 Tipologie di Alzheimer

In base all' età in cui la malattia insorge si possono classificare due tipi di Alzheimer:

1) Alzheimer precoce o FAD (early onset AD)

L’età di insorgenza è compresa tra i 30 e 65 anni e rappresenta circa il 6% dei casi di AD. L’insorgenza è generalmente legata a fattori genetici e in particolare a mutazioni su:

– APP (proteina precursore dell’amiloide) – P-SEN1 (Pre-senilina 1)

– P-SEN2 (Pre-senilina 2)

Una mutazione del gene per l'APP facilita la via proteolitica amiloidogenica con conseguente incremento della produzione dei peptidi Aβ40 e Aβ42. Le mutazioni dei geni che codificano per la SEN1 e P-SEN2, con un meccanismo non del tutto conosciuto ma che presumibilmente coinvolge l’accumulo di amiloide.

2) Alzheimer tardivo o sporadico (late onset AD)

L' età di insorgenza supera i 65 anni ed è la forma più comune di Alzheimer. In particolare dopo i 65 anni il rischio di sviluppare AD raddoppia ogni 5 anni soprattutto in soggetti ipertesi, diabetici o obesi. Questo dimostra il fatto che l’insorgenza dell’AD non sia riconducibile ad una singola causa ma che più fattori cooperino ed interagiscano tra loro per promuovere il decorso. Per quanto riguarda la malattia di Alzheimer ad esordio tardivo sembra esserci correlazione con un particolare gene

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che si trova sul cromosoma 19 e che codifica per una proteina chiamata apolipoproteina E (ApoE). L’APOE è una proteina plasmatica, coinvolta nel trasporto del colesterolo, che si lega alla proteina amiloide, e della quale esistono tre forme: APOE2, APOE3, APOE4, codificate da tre diversi alleli (E2, E3, E4). L’ApoE4, sebbene poco comune, aumenta la probabilità di sviluppare la malattia (Mahley R.W. et al. 2006).

2.4 L’AD come proteinopatia

L’AD è caratterizzata dalla progressiva formazione di zone di necrosi neuronale, la formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari (Mohamed T., Shakeri A., Rao P.P. 2016).

2.4.1 Placche amiloidi o senili

Figura 1: Corteccia cerebrale di una persona sana e di una persona affetta da Alzheimer

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Le placche amiloidi sono aggregati insolubili di Aβ: le placche, di forma irregolare e di dimensioni variabili, sono circondate da neuroni morfologicamente alterati (Konno T. 2001). Queste sono particolarmente numerose nella sostanza grigia della corteccia cerebrale e nell’ippocampo, tuttavia, si osservano, anche nel talamo e nei gangli della base.

Il precursore della Aβ è una proteina trans-membrana costituita da circa 770 amminoacidi (presente oltre che nel sistema nervoso centrale anche nelle cellule cardiache, di milza e reni) e codificata da un gene situato sul cromosoma 21: si tratta della proteina APP (Amiloide Precursor Protein) avente un domino N-terminale (Ammino terminale) extracellulare ed un domino C-terminale (Carbossi terminale) citoplasmatico. Inizialmente si credeva che la Aβ fosse il risultato di una scissione anomala di APP mentre Hass (1992) dimostrò essere normalmente prodotta durante il metabolismo del suo precursore.

L' APP segue due vie proteolitiche principali: una via non amiloidogenica e una via amiloidogenica.

- Nella via non amiloidogenica l'APP viene scissa da una α-secretasi che libera un frammento sAPPα dalla porzione N terminale nello spazio extracellulare ed un frammento C83 al c-terminale che rimane ancorato alla membrana. Quest'ultimo può essere ulteriormente scisso da una γ-secretasi che rilascia un frammento AICD e un piccolo frammento proteico detto P3 totalmente innocuo dal punto di vista biologico.

- La APP può in alternativa entrare nella via amiloidogenica che porta alla formazione di Aβ (Aβ40-42). In questo caso la β-secretasi effettua il primo taglio sulla porzione extracellulare di APP a livello dell' amminoacido 671 rilasciando il peptide sAPPβ. Successivamente la γ-secretasi agisce sul tratto transmembranale rilasciando il frammento AICD e la Aβ: a seconda del punto in cui avviene il taglio si può così avere un peptide formato da

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40 amminoacidi (Aβ 40) o da 42 amminoacidi (Aβ 42). Se intervengono delle mutazioni geniche che determinano la sostituzione anche di un singolo amminoacido a livello dei siti di clivaggio, viene alterata la normale proteolisi di APP producendo un incremento sia di Aβ 40 che 42 che si depositano negli spazi extracellulari. In seguito i monomeri di Aβ iniziano a depositarsi costituendo dimeri, oligomeri ed infine placche. Varie ipotesi suono state formulate sul ruolo della Aβ e dei suoi aggregati sull’insorgenza e la progressione della malattia (Konno T. 2001). Ma perché le placche di Aβ sono tossiche? Uno dei meccanismi ipotizzati è la loro azione neuroinfiammatoria (Mohamed T., Shakeri A., Rao P.P. 2016). Un ruolo chiave in questo processo è svolto dalle cellule della glia. Le cellule gliali sono fondamentalmente cellule di supporto: alcune come gli astrociti prendono parte al mantenimento di un ambiente appropriato per i neuroni, altre come gli oligodendrociti fungono da rivestimento per gli assoni aumentando la velocità di propagazione dell' impulso nervoso ed infine le cellule della microglia che hanno un ruolo immuno-modulatorio. Tuttavia è evidente che, nonostante l'ipotesi amiloide sia stata uno dei modelli di riferimento più influenti nelle ricerche sulla patogenesi di AD, il reale ruolo della Aβ nello sviluppo della sintomatologia clinica rimane ancora non chiaro (Konno T. 2001).

2.4.2 Proteina tau

La proteina tau è una proteina MAP (microtubule associated proteins) la cui funzione è quella di stabilizzare i microtubuli partecipando così alla costituzione del citoscheletro, necessario per mantenere sia la struttura che la forma della cellula eucariota. Questa funzione viene esplicata in collaborazione con un' altra proteina globulare, la globulina. La proteina tau si trova in grande quantità nelle cellule nervose sia nel soma che soprattutto nelle parti distali degli assoni. Essa presenta varie isoforme e

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vari siti di fosforilazione che ne regolano l’attività (Bulic B., Mandelkow E.M., Pickhardt M. 2010).

Nel tessuto nervoso esistono sei isoforme di tau, derivate dal gene MAPT (Tau Microtubule Associated Protein), che differiscono tra loro per la presenza di tre (3R) o quattro (4R) sequenze ripetute carbossi terminali di 31-32 amminoacidi. Tutte le isoforme sono di carica positiva in modo da legarsi ai microtubuli che hanno carica negativa. Il rapporto 3R-4R è paritetico nell'encefalo di soggetti normali, mentre è alterato in condizioni patologiche.

La fosforilazione della tau (figura 2), mediata dalla chinasi PKN (Protein Chinasi N), causa una perdita dell'organizzazione dei microtubuli i quali di conseguenza si aggrovigliano fra loro formando dei neurofilamenti. Questo provoca la degenerazione del citoscheletro neuronale con conseguente alterazione della trasmissione dell'impulso nervoso lungo l'assone per disconnessione sinaptica. Le neurofibrille si addensano nel corpo cellulare creando quelli che sono stati definiti corpi di Lewy. Esistono diverse patologie a carico del SNC associate ad una iperfosforilazione della proteina tau, e per questo sono state classificate come taupatie (Liao H., Li Y., Brautigan D.L., Gundersen G.G. 1998). Queste comprendono condizioni cliniche fenotipicamente eterogenee accomunate dalla presenza di degenerazione neuronale con accumulo di tau patologica: tra queste si comprendono condizioni caratterizzate dalla compromissione delle funzioni cognitive (Alzheimer-demenza fronto temporale-malattia di Pick) e forme dominate dalla presenza di disturbi del movimento (paralisi sopranucleare-degenerazione cortico-basale).

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Figura 2: In alto l'assone di un neurone sano con i microtubuli intatti stabilizzati dalla tau sana. In basso

l'assone di un neurone malato con i microtubuli distrutti dai grovigli di proteina tau fosforilata (Associazione Alzheimer Onlus ;

https://www.alzheimer-riese.it/contributi-dal-mondo/ricerche/5139-studio-scopre-come-si-propagano-nel-cervello-i-grovigli-di-proteina-tau ).

2.4.3 Stress ossidativo e AD

Oggi siamo a conoscenza che nell' AD sono numerosi i processi metabolici alterati e tra questi vi è lo stress ossidativo. Con questo termine si intende una eccessiva produzione di radicali liberi da parte dell' organismo. La letteratura abbonda di studi che evidenziano come quest’ultimo, principalmente prodotto da metalli di transizione quali il rame ed il ferro, possa causare danni irreparabili al cervello (Meda L., Cassatella M.A., Szendrei G.I., Otvos L., Baron P., Villalba M., Ferrari D., Rossi F. 1995).

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Studi degli anni 90 hanno dimostrato la capacità del Cu++ di precipitare nelle placche di Aβ e della capacità di agenti chelanti il rame di solubilizzare tali placche (Reaume A.G., Elliott J.L., Hoffman E.K., Kowall N.W., Ferrante R.J., Siwek D.F., Wilcox H.M., Flood D.G., Beal M.F., Brown Jr. R.H., Scott R.W., Snider W.D. 1996). Recentemente è stata dimostrata l’efficacia degli agenti anti-rame in modelli umani (Ancelina M.L., Christenb Y., Ritchiea K. 2007); oggi infatti è consolidato che il disturbo metabolico del rame è correlato con la progressione della perdita delle facoltà cognitive e che quindi può essere considerato un fattore di rischio per l' insorgere della malattia. Alcuni ricercatori hanno dimostrato che una percentuale di pazienti affetti da Alzheimer tardivo ha un disturbo metabolico del rame che porta la frazione libera circolante a raggiungere il cervello (Ancelina M.L., Christenb Y., Ritchiea K. 2007).

Il rame libero è in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e di arrivare a livello del parenchima cerebrale dove può interagire con la Aβ fisiologica conferendogli proprietà di ossidoriduzione e conseguente stress ossidativo. Alternativamente può reagire con la Aβ promuovendone la sua precipitazione in placche insolubili o infine reagire con l' H2O producendo radicali ossidrili (OH) verso i quali l' organismo non ha difese.

MORBO DI PARKINSON

3.1 Epidemiologia

Il Parkinson (PD) fa parte di un gruppo di patologie definite “disordini del movimento” (Godwin-Austen R. 2001). È una malattia neuro degenerativa ad evoluzione lenta e progressiva che coinvolge principalmente alcune funzioni quali il controllo del movimento e dell’equilibrio. L’incidenza è

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simile in entrambi i sessi con una lieve prevalenza in quello maschile. L’età media di esordio è intorno ai 60 anni, ma in casi molto rari (circa il 5% dei pazienti) i sintomi parkinsoniani possono manifestarsi in persone con meno di 20 anni di età: questa condizione è chiamata parkinsonismo giovanile. Sopra i 60 anni colpisce l’1-2% della popolazione (Collins K.L., Lehmann E.M., Patil P.G. 2010). L'incidenza della malattia di Parkinson è tra 8 e 18 per 100000 persone-anno. Il PD si manifesta quando la produzione del neurotrasmettitore dopamina, essenziale per il controllo dei movimenti corporei, nel cervello cala in maniera considerevole in seguito alla degenerazione neuronale nella substantia nigra (Collins K.L., Lehmann E.M., Patil P.G. 2010).

La storia della sindrome di Parkinson idiopatica inizia nel 1817, quando James Parkinson (1755–1824) pubblicò a Londra la sua monografia “Essay on the Shaking Palsy” (“Saggio sulla paralisi agitante”). Nel suo libro Parkinson descrisse i sintomi della malattia destinata a prendere il suo nome con le parole: “tremore involontario associato a diminuzione della forza muscolare; a volte immobilità totale persino con un sostegno; propensione a inclinare il corpo in avanti e a passare da un’andatura normale a un movimento di corsa; i sensi e l’intelletto rimangono intatti.” Inizialmente Parkinson attribuì la causa della malattia alla rivoluzione industriale in Inghilterra, e all’inquinamento atmosferico da essa provocato. Nel suo saggio però Parkinson non formulò alcuna raccomandazione terapeutica. Egli infatti riteneva che non fosse opportuno effettuare un trattamento farmacologico prima di conoscere meglio le cause della malattia. Circa 50 anni dopo Jean-Martin Charcot descrisse più accuratamente il quadro clinico di tale sindrome, riconoscendo l’indipendenza dei tre sintomi cardine (bradicinesia, rigidità e tremore) e dandole il nome di malattia di Parkinson. Nel 1919, Konstantin Tretiakoff scoprì che la principale struttura cerebrale colpita era la “substantia nigra” anche se questa scoperta non fu ampiamente accettata fino a quando non fu confermata da successivi studi nel 1938 da

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Rolf Hassler. Sebbene diversi aspetti fossero stati ben descritti e documentati, fino alla prima metà del XX secolo ben poco si sapeva sulla fisiopatologia e sui trattamenti farmacologici. Successivamente verso la fine degli anni ’50 avvennero due scoperte importanti: la scoperta della presenza di dopamina nel cervello umano, e lo studio degli effetti parkinsonizzanti della reserpina (Schulz-Schaeffer W.J. 2010). Queste due scoperte portarono presto all’ipotesi della deplezione di dopamina nella patogenesi della malattia di Parkinson, e del coinvolgimento dello striato nel controllo del movimento. L’intuizione di somministrare levodopa, per sopperire alla mancanza di dopamina, si deve però allo scienziato svedese Arvid Carlsson negli anni Sessanta, che per primo somministrò levodopa ai roditori con sintomi di Parkinson, ottenendo risultati sorprendenti. Il ricercatore svedese gettò così le basi di quella che presto divenne la più importante cura della malattia di Parkinson, scoperta che gli valse il premio Nobel nel 2000.

3.2 Etio-patogenesi

La maggior parte delle persone con malattia di Parkinson presenta una condizione idiopatica (che non ha una causa specifica nota). Una piccola percentuale di casi tra il 5-15% in età compresa fra i 20 e i 50 anni, può essere attribuita a fattori genetici: circa il 15% degli individui con malattia di Parkinson ha un parente di primo grado (genitore, fratelli e sorelle) malato, mentre il 5% delle persone ha PD legato ad una mutazione genica dove quello che viene ereditato è la predisposizione a sviluppare la malattia (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute 2011). I geni individuati ad oggi sono 11, denominati PARK e numerati da 1 ad 11 dei quali 6 sono stati identificati (PARK1-2-5-6-7-8). I geni PARK2-6-7 funzionano con un meccanismo recessivo ed in genere sono responsabili delle forme ad esordio giovanile prima dei 40 anni con una progressione della malattia lenta e con una risposta alla terapia

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molto buona. I geni che funzionano con un meccanismo dominante sono il PARK1 e 8 entrambi coinvolti nelle forme ad esordio tardivo e con un quadro inizialmente indistinguibile dalle forme idiopatiche (Godwin-Austen R. 2001). La trasmissione è di tipo autosomico dominante a penetranza incompleta per cui la maggior parte delle persone che hanno una mutazione di questi geni non sviluppano la malattia. La scoperta di queste mutazioni geniche ha permesso una maggior comprensione dei meccanismi etio-patogenetici.

3.3 Fisiopatologia

I sintomi principali della malattia di Parkinson sono il risultato di una attività molto ridotta delle cellule secernenti dopamina, causata dalla morte cellulare nella regione pars compacta della substantia nigra. (Godwin-Austen R. 2001). Nel cervello vi sono cinque circuiti principali che collegano le aree cerebrali ai gangli basali. Questi circuiti sono noti come: circuito motorio, circuito oculomotore, circuito associativo, circuito limbico e circuito orbitofrontale, con nomi che indicano le principali aree che vengono servite da ogni circuito. Nella malattia di Parkinson, tutti i circuiti elencati possono venire influenzati e ciò spiega molti dei sintomi. Infatti, una varietà di funzioni sono controllate da questi circuiti, tra le quali quelle del movimento, dell'attenzione e dell'apprendimento. Dal punto di vista scientifico, il circuito motorio è quello che è stato studiato con maggiore attenzione. In questo modello, i gangli della base normalmente esercitano una costante influenza inibitoria su una vasta gamma di sistemi motori, impedendo loro di attivarsi nei momenti inopportuni (Stern G., Lees A. 1991). Quando si decide di effettuare una determinata azione, l'inibizione viene ridotta. La dopamina agisce per facilitare questo cambiamento nell'inibizione: livelli elevati di dopamina tendono a promuovere l'attività motoria, mentre bassi livelli, come avviene nella malattia, richiedono maggiori sforzi per compiere un dato

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movimento. Così l'effetto reale della deplezione di dopamina è il verificarsi dell'ipocinesia, una riduzione complessiva dell'uscita dei segnali motori. I farmaci che vengono usati per trattare la malattia di Parkinson, viceversa, tendono a produrre una quantità troppo elevata di dopamina, portando i sistemi motori ad attivarsi nel momento non appropriato e causando pertanto discinesia. (Godwin-Austen R. 2001)

3.4 Sintomatologia

La malattia di Parkinson colpisce prevalentemente il movimento, producendo sintomi motori. Sono anche comuni sintomi non motori, che comprendono insufficienza autonomica, problemi neuropsichiatrici (alterazioni dell'umore, della cognizione, del comportamento o del pensiero), difficoltà sensoriali e del sonno (Jankovic J. 2008).

Sono quattro le caratteristiche motorie del PD: - Tremore a riposo

È il sintomo più comune anche se all’ esordio della malattia circa il 30% degli individui non lo mostra. Il tremore è tipicamente presente a riposo, peggiora nelle situazioni di stress emozionale, scompare durante i movimenti volontari e durante il sonno (Stern G., Lees A. 1991).

- Bradicinesia

La bradicinesia o lentezza nei movimenti è un’altra caratteristica della malattia ed è associata all’inizio ed esecuzione del movimento stesso: essa risulta essere il sintomo più invalidante nei primi stadi della malattia. Associato alla bradicinesia vi è anche un disturbo dell'equilibrio che compare nelle fasi avanzate della malattia dovuto ad una riduzione dei riflessi di raddrizzamento per cui il paziente non è in grado di correggere spontaneamente eventuali squilibri: ciò si può evidenziare quando la

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persona cammina o cambia direzione durante il cammino stesso (Jankovic J. 2008).

- Rigidità

È causata da una contrazione muscolare continua ed eccessiva e può essere uniforme (a tubo di piombo) oppure a scatti (a ruota dentata). Il principio più importante del movimento del corpo è che tutti i muscoli hanno un muscolo opposto: il movimento è possibile non solo perché un muscolo diventa più attivo, ma perché l’opposto si rilassa. Nel morbo di Parkinson la rigidità si avverte quando, in risposta ai segnali dal cervello, il delicato equilibrio muscolare è disturbato. I muscoli rimangono costantemente tesi e contratti (Jankovic J. 2008).

- Instabilità posturale

È tipica delle ultime fasi della malattia comportando disturbi dell’equilibrio con frequenti cadute che possono causare fratture ossee. L’instabilità posturale comporta problemi di deambulazione che avviene in genere a piccoli passi, striscianti e con un avvio molto problematico. Si osserva spesso il fenomeno della “festinazione” cioè la progressiva accelerazione della camminata sino a cadere. Si possono avere anche disturbi della deglutizione e il linguaggio può diventare monotono, poco espressivo e lento (bradilalia). Infine sempre tra le instabilità posturali vi è la postura curva nella quale il tronco è flesso in avanti con braccia flesse vicino al tronco e ginocchia anch’ esse flesse (figura 3) (Jankovic J. 2008).

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Figura 3: Un uomo con il morbo di Parkinson; si noti la postura flessa. (Foto apparsa in Nouvelle

Iconographie de la Salpêtrière, vol. 5)

Oltre ai sintomi motori troviamo anche: -Sintomi neuro-psichiatrici

Possono essere da lievi a gravi e comprendono disturbi del linguaggio, dell’umore, del pensiero, del comportamento e della cognizione. Il deficit cognitivo più comune è la disfunzione esecutiva, che può comprendere difficoltà nella pianificazione, nella flessibilità cognitiva, nel pensiero astratto, nell'avvio di azioni appropriate e nell'inibizione delle operazioni inappropriate. Una persona con malattia di Parkinson ha un rischio di soffrire di demenza da 2 a 6 volte maggiore rispetto alla popolazione in generale. I problemi più frequenti sono la depressione, l'apatia e l'ansia. Possono verificarsi difficoltà nel controllo degli impulsi, che possono portare all'abuso di farmaci, all'alimentazione compulsiva e al gioco d'azzardo patologico (Caballol N., Martí M.J., Tolosa E. 2007).

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-Cambiamenti nel linguaggio. Circa la metà di tutti i pazienti hanno problemi di linguaggio.

-Problemi del sonno: I problemi del sonno, comuni con il morbo di Parkinson, includono difficoltà a mantenere il sonno di notte, sonno agitato, incubi e sogni emotivi, sonnolenza o improvviso sonno durante il giorno.

-Demenza o altri problemi cognitivi. Alcune persone, ma non tutte, con il morbo di Parkinson potrebbero sviluppare problemi di memoria e pensiero lento. In alcuni di questi casi i problemi cognitivi si aggravano portando ad una condizione chiamata demenza di Parkinson nel tardo corso della malattia. Questa demenza potrebbe colpire la memoria, la capacità di giudizio sociale, linguaggio, ragionamento o altre abilità mentali.

Molti di questi sintomi possono verificarsi anche anni prima che venga fatta la diagnosi della malattia.

3.5 Il PD come proteinopatia: il ruolo dell’accumulo di α-sin

Vi sono diversi meccanismi proposti per cui le cellule cerebrali, nella malattia, vanno incontro alla morte. Uno di questi prevede che un accumulo anomalo della proteina α-syn danneggi le cellule. Questa proteina insolubile si accumula all'interno dei neuroni formando delle inclusioni, chiamate corpi di Lewy (figura 4). Secondo Braak e coautori (2005) i corpi di Lewy prima appaiono nel bulbo olfattivo, nel midollo allungato e nel tegmento pontino, con i pazienti che risultano asintomatici. Col progredire della malattia, i corpi di Lewy si sviluppano nella substantia nigra, nelle aree del mesencefalo e prosencefalo basale e, nell'ultima fase, nella neocorteccia. Queste zone del cervello sono le aree principali della degenerazione neuronale nella malattia di Parkinson.

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Tuttavia, i corpi di Lewy non possono essere la causa diretta della morte delle cellule. Nei pazienti con demenza una presenza generalizzata dei corpi di Lewy è comune nelle aree corticali. Ammassi neurofibrillari e placche senili di altre proteine come la Aβ e la tau, riscontrabili nella malattia di Alzheimer, non sono comuni a meno che il paziente non presenti una forma di demenza.

Figura 4: Formazione dei corpi di Lewy nella malattia di Parkinson

(http://medmedicine.it/articoli/69-neurologia-e-psichiatria/122-malattia-di-parkinson-html).

3.5.1 Il ruolo fisiologico dell’α-sin

Anche se la normale funzione (o funzioni) di α-sin rimane poco chiara, la sua localizzazione nei terminali pre-sinaptici (Withers G.S., George J. 1997), la sua associazione con la “distal reserve pool” di vescicole

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sinaptiche e le carenze nelle trasmissioni sinaptiche che si osservano in risposta ad un abbattimento o over-espressione di α-sin, suggeriscono che α-sin giochi un ruolo chiave nella regolazione del rilascio di neurotrasmettitori, e nel mantenimento della funzionalità e plasticità sinaptica (Zhang L. et al. 2008). Una diminuzione di α-sin (ottenuta attraverso l’uso di oligonucleotidi anti senso) induce una diminuzione nella disponibilità di vescicole nella reserve pool nei neuroni ippocampali (Murphy D.D., Rueter S.M. 2000). Inoltre un’over-espressione di α-sin induce una riduzione delle vescicole immediatamente disponibili al rilascio, inducendo una riduzione della grandezza della “recycling pool” delle vescicole sinaptiche (Nemani V.M. et al. 2010). Scott D. e Roy S. (2012) hanno dimostrato che un eccesso di α-sin causa una riduzione della ricaptazione (“reuptake”) di dopamina nei terminali dopaminergici, e inibisce il traffico inter-sinaptico di vescicole (Scott D., Roy S. 2012). Il ruolo di α-sin nella regolazione della omeostasi sinaptica non è esclusivamente legato alla sua diretta interazione con le vescicole sinaptiche. α-sin interagisce con le proteine sinaptiche controllando l’esocitosi delle vescicole, come la fosfolipasi D2 e la famiglia di piccole RAB GPTasi (Payton J.E., Perrin R.J. 2004). Studi recenti hanno mostrato come α-sin possa agire come una proteina chaperone per il complesso presinaptico delle proteine SNARE (recettori di SNAP, soluble NSF attachment protein, dove NSF sta per fattore sensibile alla N-etilmaleimide). Le SNARE controllano e mediano l’aggancio delle vescicole alla membrana citoplasmatica influenzando il rilascio di neurotrasmettitori, dopamina inclusa (Burre J. et al. 2010).

3.5.2 La struttura dell’α-sin

Poiché la sequenza e la struttura di una proteina sono legate alla sua funzione, molti studi si sono focalizzati nel cercare di caratterizzare le determinanti di struttura e frequenza che governano le proprietà

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cellulare di α-sin e il suo comportamento anomalo nel morbo di Parkinson e altre sinucleinopatie. α-sin è una proteina di 14kDa (140 amminoacidi; 4.7 pK), caratterizzata da tre domini caratteristici. La regione N-terminale (1-95), caratterizzata da un motivo conservato (KTKEGF) tipico della classe A2 delle apolipoproteine ha un ruolo cruciale nella modulazione delle interazioni di α-sin con le membrane (Ueda K. Et al. 1993). La regione C-terminale con una tail (coda) acidico-carbossilica disordinata che è implicata nella regolazione della localizzazione nucleica di α-sin e nelle sue interazioni con metalli, piccole molecole e proteine. La regione centrale contiene una struttura molto idrofobica che comprende residui amminoacidi 65-90 ed è conosciuta come la componente non-amiloide-β (NAC) delle placche amiloidi in AD (Spillantini M.G. et al. 1997). La regione NAC è risultata indispensabile per l’aggregazione di α-sin. Vari studi con l’utilizzo di diversi metodi biofisici (come NMR, dispersione della luce e dicroismo circolare CD), hanno dimostrato come α-sin, in condizioni denaturate, esista prevalentemente in forma di monomeri unfolded (non ripiegati) e stabili (Ueda K. Et al. 1993). Tuttavia la sua particolare struttura favorisce la sua aggregazione in aggregati o oligomeri. Inoltre, la flessibilità caratteristica di questa proteina, che permette alla proteina di assumere conformazioni diverse e di interagire con svariati composti e proteine, potrebbe essere alla base delle varie attività mediate dall’α-sin. Tuttavia, si conosce ancora molto poco sulla conformazione (o conformazioni) di α-sin e c’è una carenza di dati sul possibile ruolo funzionale degli oligomeri di α-sin sulle membrane biologiche (Ullman O.,Fisher, C.K., Stultz C.M. 2011). Si ipotizza che l’α-sin esista in equilibrio tra diversi stati conformazionali e/o oligomerici. Vari fattori, tra cui lo stress ossidativo, modificazioni post-traslazionali, proteolisi, la concentrazione di acidi grassi, fosfolipidi e ioni metallici, inducono e/o modulano la struttura e l’oligomerizzazione in vitro di α-sin; effetto che potrebbe avere anche sull’equilibrio monomero-oligomero in vivo (Sharon R. et al. 2003). Perciò questi studi suggeriscono che α-sin esista

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prevalentemente come monomero, ma che possa esistere sotto forma di un multimero stabile e/o possa adottare strutture diverse in specifiche condizioni stress-indotte o quando interagisce con altre proteine, ligandi specifici, lipidi e/o membrane biologiche.

3.5.3 Oligomeri e fibrille di α-sin, effetti sulle cellule

Data la complessità degli oligomeri che si formano e dell’eterogeneità dei fattori che condizionano l’aggregazione di α-sin, è probabile che le varie specie oligomeriche di α-sin giochino un ruolo nel mediare la tossicità di α-sin nei neuroni e, potenzialmente, anche nelle cellule gliali. Dati raccolti in vitro e in vivo supportano l’ipotesi che gli oligomeri prefibrillari siano le principali specie tossiche di α-sin. Gli oligomeri α-sin potrebbero mediare tossicità attraverso il danneggiamento dei mitocondri (Hsu L.J. et al. 2000), l’induzione di una perdita lisosomiale o danneggiando i microtubuli. Inoltre, uno studio recente ha mostrato come gli oligomeri di α-sin interferiscano con il trasporto assonale di proteine sinaptiche come la sinapsina 1, portando alla disfunzionalità nelle sinapsi e quindi alla neurodegenerazione (Alim M.A. et al. 2004). L’ipotesi più probabile è che la tossicità della α-sin non derivi dall’effetto citotossico di una sola specie della proteina, ma piuttosto da una sommatoria degli effetti dell’interazione degli oligomeri e/o fibrille a vari livelli e su vari pathways intracellulari. Infatti, studi recenti suggeriscono che anche il processo di conversione degli oligomeri in fibrille di per se contribuisca alla tossicità di α-sin e alla progressione della neurodegenerazione (Winner B. et al. 2011).

3.5.4 Propagazione e trasmissione di α-sin nella patogenesi di PD

I meccanismi attraverso cui gli oligomeri extracellulare α-sin si trasferiscono in altre cellule sono: endocitosi, penetrazione diretta,

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disseminazione trans-sinaptica e accesso tramite recettore di membrana (Danzer K. M. et al. 2011). Una volta dentro la cellula ricevente (acceptor), gli oligomeri di α-sin possono agire come punto focale di ulteriore aggregazione intracellulare, oppure la proteina potrebbe diventare target per degradazione. Anche se non conosciamo l’esatto processo di propagazione intracellulare degli oligomeri e fibrille, i risultati degli studi biofisici in vitro hanno mostrato più volte come la formazione di fibrille di α-sin segua un meccanismo di polimerizzazione nucleata (Conway K. A. et al. 2000). Questo meccanismo si caratterizza per una fase di nucleazione che inizialmente coinvolge la formazione di oligomeri responsabili dell’assemblaggio (nuclei), seguita da una crescita collettiva degli oligomeri e la formazione di fibrille tramite l’aggiunta di monomeri. Questo processo può essere indotto e accelerato aggiungendo fibrille pre-formate e sembra essere il meccanismo sottostante alla diffusione della patologia α-sin nel cervello.

4. AGGREGAZIONE PROTEICA

L’aggregazione proteica è una delle principali cause di varie patologie neurodegenerative negli uomini. L’aggregazione è un processo molto complesso che, a seconda del tipo di proteina coinvolta porta alla formazione di aggregati che differiscono per struttura, meccanismo di formazione e morfologia. Le malattie che derivano dalla formazione di aggregati proteici vengono chiamate generalmente “patologie da aggregazione proteica” o proteinopatie; tra le proteinopatie le più conosciute e studiate sono le patologie neurodegenerative tra cui il morbo di Alzheimer (AD) e il Parkinson (PD) (Chiti F., Dobson C.M. 2006) nelle quali una o più proteine aggregano in modo anomalo e si

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depositano in specifiche regioni del cervello ostacolandone le sue funzioni.

Negli ultimi decenni molti studi hanno dimostrato l’esistenza di un meccanismo patogenico comune associato a queste patologie neurodegenerative: l’aggregazione di proteine misfolded e loro deposizione in diverse regioni del cervello che porta alla degenerazione del sistema nervoso centrale (Forman M.S., Trojanowsky J.Q., Lee V.M. 2004). Queste proteine, che in condizioni normali sono altamente solubili, assumono una conformazione, definita appunto misfolded, che ne aumenta la capacità di interagire tra loro e di aggregarsi creando dei polimeri filamentosi e insolubili che contengono la caratteristica struttura a foglietto β. Queste strutture filamentose si accumulano come fibrille definite amiloidi e successivamente si depositano nel nucleo o nel citoplasma di cellule cerebrali o nello spazio extracellulare, esercitando un’azione tossica e promuovendo l’insorgenza di fenomeni neurodegenerativi (Zaidi S., Hassan M.I.,Islam A., Ahmad F. 2014).

4.1 Struttura terziaria, misfolding e aggregazione di proteine

Il folding proteico è il processo attraverso cui una proteina arriva ad avere una struttura tridimensionale ben definita, la struttura terziaria, che è il risultato di una serie di ripiegature della catena polipeptidica (Khan P., Islam A., Ahmad F. 2016). La proteina non ripiegata presenta alti livelli di entropia ed energia libera. Secondo l’ipotesi di “folding funnel”, l’alta entropia è conseguenza dell’alto numero di stati conformazionali che può assumere, mentre l’alta energia libera è indice dell’instabilità della proteina (Khan P., Parkash A., Islam A., Ahmad F., Hassan M.I. 2016). Quando la proteina inizia a ripiegarsi, l’energia libera diminuisce, fino ad arrivare alla conformazione finale, in cui l’energia libera è al minimo.

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Tuttavia, minimi locali possono intrappolare la proteina a uno stadio intermedio, rallentando l’intero processo di ripiegamento.

Il misfolding è causato da errori nel processo di ripiegamento della proteina; questo può essere dovuto a vari motivi (Soto C. 2003; Kelly J.W. 1996): 1) mutazioni somatiche; 2) errori di trascrizione o traslazione; 3) avaria del meccanismo di ripiegatura da parte delle proteine chaperone; 4) modifiche post-traslazionali errate; 5) modifiche strutturali dovute a cambiamenti ambientali.

Il misfolding di una proteina è alla base del fenomeno dell’aggregazione proteica. Questa è dovuta principalmente da forze idrofobiche che fanno sì che due proteine, simili o diverse, interagiscano formando oligomeri o fibrille amorfe. Le variabili che sono state identificate come cruciali fattori che determinano la conversione della proteina originale in aggregati sono: alta idrofobicità, tendenza a formare strutture β a pieghe e bassa carica elettrica netta (Konno T. 2001). Vari studi hanno dimostrato come le strutture secondarie “reverse turn” abbiano un ruolo importante nel folding proteico e nella sua stabilità (Kelly J.W. 1996). I “reverse turn” sono definiti come quelle regioni del polipeptide dove avviene un’inversione della catena; queste strutture secondarie influenzano la ripiegatura del polipeptide ed hanno un ruolo fondamentale nel corretto folding proteico.

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Figura 5: Folding e Misfolding proteico (http://people.du.ac.in/~pbiswas/research.html).

4.2 Misfolding come meccanismo alla base delle amiloidosi

Le malattie correlabili al misfolding proteico sono state raggruppate sotto il nome di “disordini conformazionali proteici” e comprendono il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson, e più di 15 altre meno note patologie accomunate dalla deposizione nei tessuti di aggregati fibrillari proteici (Merlini G., Comenzo R.L., Seldin D.C., Wechalekar A., Gertz M.A. 2014). In tutte queste malattie, le proteine che sono normalmente solubili si trasformano in aggregati insolubili che possono formare depositi intrattabili e generalmente tossici nel tessuto scheletrico, muscolare o in organi come il cuore, fegato e cervello (figura 6) e che prendono il nome di placche di amiloide .

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Figura 6: Organi principalmente coinvolti nelle varie forme di amiloidosi (Merlini G., Comenzo R.L., Seldin

D.C., Wechalekar A., Gertz M.A. 2014).

Ogni tipo di amiloidosi deriva dall’aggregazione di una proteina sierica diversa, con un’alta inclinazione al misfolding, che sfugge a tutti i meccanismi protettivi che i sistemi biologici hanno messo a punto per assicurarsi che le proteine si strutturino correttamente, o per degradare le forme de-strutturate che potrebbero arrecare seri danni all’organismo. Nonostante la loro diversità biochimica, queste proteine formano fibrille con morfologia e struttura a foglietti β simili e strettamente influenzate dalle condizioni nelle quali è avvenuto il processo di formazione. Molti fattori ambientali, pH, ioni metallici, stress ossidativo possono contribuire alla destabilizzazione di una molecola nativa e, presumibilmente, incrementare gli stati “misfolded”, caratterizzati da un aumento delle zone con struttura a β-foglietto (Berk J.L. et al. 2013). Infatti, frequentemente, durante la formazione di fibrille, si assiste ad un cambiamento conformazionale, coinvolgente una transizione da α-elica a foglietto β (figura 7).

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Figura 7: Le fibrille assumono un’inusuale struttura a foglietto β (Berk J.L. et al. 2013).

La classificazione delle varie forme di amiloidosi si basa su:

 distribuzione tissutale dei depositi di amiloide (amiloidosi locale o sistemica);

 assenza o presenza di malattie preesistenti (amiloidosi primaria-idiopatica o secondaria);

 caratteristiche chimiche della proteina precursore.

L’amiloidosi sistemica coinvolge il deposito di un precursore proteico amiloidogenetico in numerosi organi, incluso cuore, polmone e reni. L’amiloidosi locale comprende un numero di malattie caratterizzate dal deposito di amiloide in organi bersaglio.

L’aggregazione di depositi di amiloide è generalmente lenta e prevede la formazione di specie oligomeriche come risultato di interazioni non specifiche. Questi aggregati amorfi o micelle si trasformano in specie con morfologie più caratteristiche, definite “protofibrille o protofilamenti”. Queste strutture, comunemente corte, sottili, a volte ricciolute, si associano a formare fibrille mature (Nicoll J.A. et al. 2003).

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La formazione di amiloide in vitro avviene sottoponendo le proteine interessate a condizioni denaturanti come basso pH, calore o presenza di alcoli. L’intero processo consiste di tre stadi:

1. formazione di dimeri di proteina denaturata; 2. formazione di protofilamenti;

3. formazione di fibrille di amiloide attraverso l’associazione di protofilamenti.

Durante la formazione di dimeri avvengono grandi cambiamenti nella struttura secondaria della proteina, dovuti ad un aumento dei foglietti β rispetto alle α-eliche. Questa conversione strutturale rappresenta un evento chiave nella formazione di fibrille in quanto i dimeri fungono da nuclei per la formazione di protofilamenti. La formazione di questi ultimi, probabilmente, avviene attraverso una polimerizzazione nucleazione-dipendente. Sebbene la struttura dei nuclei e dei protofilamenti è diversa da proteina a proteina, il meccanismo di formazione sembra essere comune, basato cioè sull’associazione di dimeri a partire dall’estremità della fibrilla. L’associazione laterale di protofilamenti dà, infine, origine alle placche di amiloide.

4.3 Meccanismi e intermediari di aggregazione

La formazione di aggregati proteici segue un meccanismo di polimerizzazione che dipende dalla nucleazione. La formazione dei nuclei di aggregazione segna l’inizio del processo di aggregazione della proteina. Lo stadio più lento del processo è la formazione di un aggregato di nuclei; questo stadio è quindi considerato un “rate-limiting” step (stadio che rallenta la velocità di aggregazione) (Bemporad F., Chiti F. 2012). Le specie che si formano negli stadi intermedi sono di solito oligomeri o protofibrille solubili che appaiono come globuli di 2.5-5.0 nm (o più) in diametro, con una tendenza intrinseca ad assemblarsi ulteriormente

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come strutture anulari o tubulari. Una volta che il nucleo si è formato, la fibrilla cresce in modo esponenziale associandosi con monomeri o oligomeri al nucleo (Moreno-Gonzalez I., Soto C. 2011). La presenza di aggregati insolubili è correlata con la progressione di varie malattie e molti studi suggeriscono che i componenti più tossici che innescano l’aggregazione sono le forme prefibrillari e non le fibrille mature. Tuttavia, il meccanismo specifico col il quale queste specie mediano i propri effetti tossici non è ancora chiaro. Un ipotesi è che la tossicità sia mediata da proprietà strutturali comuni ai precursori pre-fibrillari (Cecchi C., Stefani M. 2013).

A seconda degli equilibri tra meccanismi associativi, si possono quindi formare diversi tipi di aggregati (Foderà V., Donald A.M. 2014):

• Aggregati amorfi: questi sono aggregati proteici sopramolecolari senza una forma o struttura definita che sono prodotti come risultato d’interazioni non specifiche.

• Oligomeri: questi sono piccoli aggregati globulari (<50 nm) formati da poche unità parzialmente ripiegate. Gli oligomeri sono specie intermedie che presentano un’alta reattività e che formano fibrille stabili nel processo di aggregazione.

• Protofibrille: queste sono sottili strutture filamentose con un’alta percentuale di aggregati β durante la formazione di amiloidi.

• Aggregati di amiloidi/fibrille: tradizionalmente per amiloide s’intende un deposito proteico extracellulare spesso trovato in casi di AD e patologie amiloidi sistemiche.

• Superstrutture: queste possono avere sia proprietà simili a quelle degli amiloidi sia differenti, e possono essere formate da ammassi di filamenti simili ad amiloidi.

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• Sferuliti: queste sono superstrutture sferiche simili ad amiloidi che tipicamente presentano un nucleo denso e una corona a bassa densità. Presentano anche un caratteristico motivo a croce maltese quando osservate con microscopio ottico a polarizzazione trasversale. Le sferuliti contengono una parte centrale probabilmente formata a causa di un processo di aggregazione proteico non specifico ed è circondata da fibrille amiloidi orientate radialmente. Il raggio del nucleo presenta varie dimensioni (da pochi μm a mm). Sono assemblate in vitro ad alte temperature in soluzione acida.

4.4 Aggregati e neurodegenerazione: meccanismi di morte

neuronale

Le malattie neurodegenerative presentano alcune caratteristiche comuni, come la perdita neuronale selettiva, alterazioni sinaptiche e l’infiammazione neuronale (Hyman B.T., Van Hoesen G.W. 1987; Myers R.H. ., Vonsattel J.P., Paskevich P.A., Kiely D.K., Stevens T.J., Cupples L.A., Richardson Jr. E.P.,Bird E.D., 1991). Tuttavia, la regione del cervello affetta cambia a seconda della patologia. La perdita neuronale in queste patologie si verifica a causa dell’induzione della morte programmata o “apoptosi”. Sono state suggerite tre ipotesi che possono spiegare come il misfolding proteico e l’aggregazione siano correlate alla neurodegenerazione (Mattson M.P. 2000): perdita di funzionalità; aumento di funzionalità e induzione dell’infiammazione cerebrale.

4.4.1 Ipotesi della perdita di funzionalità

Questa ipotesi suggerisce che la morte neuronale possa essere causata dalla perdita della normale attività della proteina a causa del misfolding proteico e dell’aggregazione che ne riducono i livelli. Questo modello è applicabile nei casi della malattia di Huntington (HD), PD, encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE) e sclerosi laterale amiotrofica (ASL). Ad

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esempio, l’esaurimento dell’enzima superossido dismutasi Cu-Zn (SOD1) per misfolding e aggregazione, nell’ALS, può portare all’accumulo di specie reattive dell’ossigeno che possono provocare danni irreversibili alla cellula interessata (Gurney M.E., Pu H., Chiu A.Y., Dal Canto M.C., Polchow C.Y., Alexander D.D., Caliendo J., Hentati A., Kwon Y.W., Deng H.X. et al. 1994).

4.4.2 Ipotesi di un aumento di funzionalità

Questa è l’ipotesi più accettata che suggerisce che il misfolding e l’aggregazione proteica siano il risultato dell’azione neurotossica (Loo D.T., Copani A., Pike C.J., Whittemore E.R., Walencewicz A.J., Cotman C.W. 1993). Questa nozione si basa sull’osservazione in vitro della morte di cellule cerebrali causata dal trattamento con varie proteine misfolded (Loo D.T., Copani A., Pike C.J., Whittemore E.R., Walencewicz A.J., Cotman C.W. 1993). Gli aggregati extracellulari inducono apoptosi interagendo con specifici recettori cellulari , mentre gli aggregati intracellulari danneggiano le cellule mobilitando le vie di segnale implicate nella promozione della vitalità cellulare (Ii K., Ito H., Tanaka K., Hirano A. 1997). La rottura e la depolarizzazione della membrana mediata da canali ionici porta alla disregolazione della trasduzione del segnale e all’alterazione dell’omeostasi ionica, e di conseguenza alla morte cellulare (Lin M.C., Mirzabekov T., Kagan B.L. 1997). Gli aggregati di proteine inducono anche stress ossidativo, producendo specie reattive dell’ossigeno che causano l’ossidazione di proteine e lipidi, l’incremento del calcio intracellulare e le disfunzioni mitocondriali (Behl C., Davis J.B., Lesley R., Shubert D. 1994). 4.4.3 Ipotesi dell’induzione dell’infiammazione cerebrale

Secondo questa ipotesi, gli aggregati proteici causano un’infiammazione cronica nel cervello, che ha come risultato la neurodegenerazione (Wyss-Coray T., Mucke L. 2002). Questa ipotesi è supportata da varie osservazioni: a) la presenza di una astrocitosi estesa e attivazione

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microgliale; b) accumulo di proteine infiammatorie in aggregati proteici cerebrali; c) incremento dei livelli di proteine infiammatorie nel cervello; d) l’efficacia di terapie con NSAId (farmaci non steroidei anti infiammatori) che hanno diminuito l’incidenza di AD in modelli animali e umani (Soto C. 2003).

Recentemente è stato scoperto che α–syn, Aβ e tau, le tre principali proteine coinvolte in PD e AD, possono interagire l’una con l’altra e con altre “proteine patologiche” per formare omo-aggregati o etero-aggregati tossici (Pedersen J.T., Heegaard N.H. 2013). Questi ultimi risultati dimostrano che l’idea che ogni patologia neurodegenerativa sia connessa con una singola specifica proteina affetta da misfolding è superata (Yates S.L., Burgess L.H., Kocsis-Angle J., Antal J.M., Dority M.D., Embury P.B., Piotrkowski A.M., Brunden K.R. 2000).

4.5 Nuove conoscenze sull’aggregazione di proteine nelle

patologie neurodegenerative: oligomeri o eteromeri?

4.5.1 Aβ, tau and α-sin misfolding nelle oligomeropatie

Sono stati fatti diversi tentativi di estendere la comprensione dei meccanismi di ripiegamento delle proteine prioniche e le loro caratteristiche strutturali dopo l’oligomerizzazione e l’aggregazione. Tuttavia, i meccanismi patologici responsabili per la graduale transizione tra una conformazione altamente solubile e funzionale a un aggregato patologico filamentoso contenente la caratteristica struttura a β-foglietto non sono ancora chiari. L’incremento di aggregati proteici aumenta con l’età poiché il sistema ubiquitina/proteosoma e i processi di autofagia perdono la loro abilità di controllare e scomporre i monomeri misfolded (Dantuma N.P., Bott L.C. 2014).

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Le forme oligomeriche di Aβ sono solubili in natura e sono in larga misura le più tossiche di tutte le tipologie di aggregati (Breydo L., Uversky V.N. 2015). α-sin genera specie oligomeriche, protofibrille e fibrille simili a quelle di Aβ ma con una cinetica più lenta, e le sue forme più tossiche sembrano essere gli oligomeri invece che le fibrille. In particolare, è stato provato che il componente non-amiloide (NAC) del frammento fibrillogenico centrale di α-sin induce direttamente effetti tossici (Forloni G., Bertani I., Calella A.M., Thaler F., Invernizzi R. 2000).

La tau viene fosforilata in aree specifiche, che spingono le proteine ad aggregarsi riducendo la loro affinità con i microtubuli. Per questo motivo, l’iperfosforilazione di tau è l’elemento caratterizzante (hallmark) di tutte le taupatie, anche se lo stato d’iperfosforilazione si presenta in forme diverse a seconda della patologia presa in considerazione e talvolta all’interno della stessa patologia (Noble W., Pooler A.M., Hanger D.P. 2011). La specifica identità e struttura della forma tossica di tau è ancora oggetto di dibattito, ma la forma più tossica sembra essere la sua forma oligomerica. Nonostante le sopra citate differenze tra Aβ, α-syn e tau, queste proteine sottostanno ad un’ipotesi comune: sono gli oligomeri più piccoli e solubili, e non le fibrille amiloidi insolubili con struttura cross-β-sheet, ad avviare il processo degenerativo. Questa ipotesi afferma che le forme oligomeriche sono prodotte dall’aggregazione monomerica ma possono anche essere conseguenza della frammentazione di fibrille pre-formate o di una scomposizione di fibrille da parte dei lisosomi o protesomi non andata a buon fine.

4.5.2 Etero-aggregazione di aβ, tau e α-syn

In aggiunta alla coesistenza di placche, ammassi e corpi di Lewy (LBs), recenti studi hanno suggerito che Aβ, tau e α-syn possono promuovere l’aumento dei livelli l’una dell’altra, il che crea un circolo vizioso nella patogenesi delle malattie neuro-degenerative, oltre a supportare l’ipotesi

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che sussiste una cooperazione strutturale e funzionale tra le proteine misfolded.

È stato dimostrato che α-syn può promuovere la polimerizzazione di tau o il suo aumento in vivo e che Aβ influenza anche l’aggregazione di α-syn e tau. Per esempio, il modello topo con doppio-transgene della proteina α-sin/amiloide (APP) presentava una maggiore deposizione di α-sin rispetto al topo con transgene singolo. Inoltre, usando un approccio genetico nel combinare le patologie di AD e demenza con corpi di Lewy, Clinton e co-autori (2010) hanno confermato che Aβ, tau e α-syn interagiscono in vivo per favorire l’aggregazione e l’aumento l’una dell’altra e accelerare quindi la disfunzionalità cognitiva.

L’ipotesi della cooperazione strutturale e funzionale tra proteine misfolded è stata confermata da svariate osservazioni cliniche, dimostrando un’alta comorbidità e sovrapposizione tra sinucleinopatie pure e taupatie. Infatti, la concomitanza di inclusioni di tau e α-syn è molto frequente in molte NDs, come PD, DLB, una variante di AD con presenza di corpi di Lewy, e persino nella sindrome di Down (Forman M.S., Schmidt M.L., Kasturi S., Perl D.P., Lee V.M., Trojanowski J.Q. 2002). Inoltre, α-syn sembra contribuire anche alla patogenesi di AD, con 30-40% dei casi di AD che presentano anche LB (Mandal P.K., Pettegrew J.W., Masliah E., Hamilton R.L., Mandal R. 2006).

Come per gli oligomeri della stessa proteina, anche il ruolo degli eterocomplessi nelle NDs ha acquisito sempre più importanza. E’ stato dimostrato che Aβ e α-syn formano complessi e co-immunoprecipitano allo stesso modo in campioni di cervello umano e modelli di topo transgenico, dando un chiaro segnale della loro diretta interazione. Aβ si accumula in primis nelle aree extracellulari, ma è stata anche trovata in diverse aree subcellulari, inclusi i mitocondri e l’apparato di Golgi. Questa localizzazione anomala permette ad Aβ di interagire con un ampio range di proteine intracellulari, tra cui α-syn.

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