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1. Al di là del relativismo e dell’universalismo.

1.1

La necessità di adozione di una misura neutra comune contro

l’etnocentrismo

La conoscenza personale e la consapevolezza di ciò che incarniamo si misura, secondo Wierzbicka, sulla nostra esperienza. Noi apparteniamo ampiamente allo stato di cose in cui veniamo ad essere, ovvero quello che può considerarsi come il nostro punto di partenza. Cambiando il contesto culturale, cambiano non solo i modelli comunicativi cui dobbiamo far riferimento, ma cambiamo anche noi stessi sulla base delle nuove esperienze di cui siamo parte. L’adattamento al modello culturale di fondo diviene cruciale nella psicologia di chi si trova a vivere in una realtà diversa, apparentemente incomprensibile. Il risultato di una buona integrazione si misura in benefici sociali, arricchimento personale e maggior coinvolgimento a livello di relazioni interpersonali1. La

posizione di Wierzbicka rispetto alla possibilità di rinvenire canoni universali di comunicazione e di interazione appare manifestamente motivata: “I could never believe in the “universal maxims of politeness” and in the “universal logic of conversation” promulgated in influential works such as Grice (1975), Leech (1983) or Brown and Levinson (1978, 1987).”2. L’esperienza personale di cui si è fatta

menzione poche righe sopra, dunque, non è puramente teoretica, ma è prima di tutto pratica. Wierzbicka non ha dubbi sul fatto che l’insistenza sulle differenze

1 Anna Wierzbicka si basa sulla sua personale esperienza di immigrata, parlando del suo sconforto, di ciò che

si mostrava disposta a modificare in se stessa, spinta dall’istintiva rivelazione in lei dei benefici suddetti e di ciò che in se stessa ha sempre inteso come un rinnegare le sue origini. Cfr Wierzbicka (2003), Introduction to the second edition, cit.

2 Ivi, p. xiii, cit. Qui Wierzbicka cita due importanti punti teorici affermati da Grice e Leech: il primo si è

concentrato sulle massime conversazionali della comunicazione, dando a questa un nuovo aspetto inferenziale e, a suo parere, universalmente valido; il secondo si è occupato di integrare tale modello con gli aspetti riguardanti l’educazione e il nostro modo di interagire nel rispetto dell’altro. Cfr. Grice (1993), cit.; G. Leech (1983), cit; Jaszczolt (2002), cit.; e, Sperber & Wilson, (1995), cit.

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culturali sia non solo teoreticamente giustificata, ma anche praticamente visibile e tangibile. Tali distinzioni sono indubitabilmente reali e si può cogliere la loro essenza solo nel contesto del quotidiano confronto. “Does language reflects culture?”3. Tale domanda appare come estremamente problematica, se non la si

riduce ad una pura comparazione lessicale. Ciascun linguaggio codifica un certo mondo di significati: alcuni universali, altri no. Il significato, inteso come relazione fra elementi linguistici ed extralinguistici, non è altro che un’interpretazione umana del mondo e, in quanto tale, è soggettiva, antropocentrica e pilotata da interessi, attitudini e valori specifici del caso4. Quello che interessa a Wierzbicka è

lo studio della correlazione linguaggio-cultura e quali presupposti sono necessari perché questo possa intraprendersi5.

Nel corso degli anni la diversità è divenuta motivo di celebrazione, ma dietro questa coltre di entusiasmo pare non filtrare altro che un crescente sospetto di mancanza di chiarezza sulla natura di tali differenze6. Il rischio è che tale enfasi

sulla distinzione non rappresenti altro che il vano fascino per qualcosa di non catturabile, che così spesso nel corso della storia del pensiero umano ha pervaso la ragione e le pagine filosofiche. Dunque, il miglior modo per sbaragliare questi acuti sospetti è il cercare di tracciare i contorni di queste diversità culturali. Tale operazione pare impossibile se si assume che le distinzioni su cui opera sono un qualcosa di assolutamente evanescente e difficile da raffigurare7. Stando a questo

presupposto, emerge ora ancor più la necessità di consapevolezza di ciò che

3 Domanda che apre e titola un interessante articolo di Wierzbicka (1986b), cit. 4Cfr. Wierzbicka. (1988), introduction, cit.

5 Interessante a tale proposito il lavoro di Paul Skandera, in particolare cfr., Skandera (2007), introduction, cit. 6 Cfr. Introduzione, par. 2.

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l’alterità rappresenta, non solo per aver cognizione di noi stessi, ma anche per comprendere quanto si appartenga al mondo culturale in cui si viene ad essere e quanto sia possibile capire del mondo esterno.

Da dove cominciare la trattazione del diverso? E’ essenziale rintracciare chiaramente quella “soglia di là dalla quale vi sarà differenza e di qua da cui vi sarà similitudine – è indispensabile per il più semplice degli ordini”8, difatti non

possiamo eludere la nostra necessità estrema, ovvero: “il suolo muto in cui gli esseri possono giustapporsi”9. L’assunzione aristotelica di una giusta distanza

dall’oggetto di studio è oltremodo fondamentale per riuscire a liberarci del tutto del presupposto etnocentrico. Questo si è manifestato copiosamente nelle convinzioni di molti linguisti, che promulgavano la possibilità di dar descrizione di ogni tipo di cultura attraverso una terminologia specificatamente inglese. Tutto quello che si può ottenere da un lavoro del genere è l’illuminazione su come appaia il mondo da una prospettiva strettamente anglo-centrica, così come quella di Grice e delle sue massime10. Gli artefatti concettuali codificati nella lingua

inglese, così come negli Anglo-cultural scripts11 non possono essere legittimamente

usati come strumenti analitici per l’interpretazione di un qualsiasi linguaggio di qualsiasi parte del mondo, in quanto non garantiscono l’assenza di distorsione e manipolazione dell’oggetto di studio12. Finché si procederà imponendo il proprio

8 Foucault (2004), prefazione, p. 10, cit. 9 Ivi, p. 7.

10 Cfr. Wierzbicka (2003), Introduction to the second edition, cit. In tale testo Wierzbicka vuole darci

dimostrazione dell’assolta mancanza di validità delle massime di Grice attraverso lo studio di linguaggi dove queste non trovano alcuna conferma.

11 Elementi codificati all’interno della stessa cultura. Cfr.Trattazione della teoria dei Cultural Scripts nel

Capitolo V.

12 A questo proposito Wierzbicka fa riferimento a Nick J. Enfield, il quale esprime una notevole apprensione

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modo di vedere la realtà, la nostra prospettiva linguistica, la nostra gerarchia di valori, non riusciremo mai ad avvicinarci agli altri mondi culturali: il relativismo esiste, non si può abbattere. La stessa idea di libertà dalle imposizioni, promulgata da Brown e Levinson come principio portante dell’interazione umana è un valore culturale tipico anglosassone, che non riflette affatto un requisito dell’educazione conversazionale13.

Dove cercare allora la neutralità? Dove sta l’originalità del lavoro di Wierzbicka? Sicuramente nel partire dal presupposto che il relativismo culturale può essere osservato, descritto e assunto solo attraverso un punto di vista neutro, culturalmente indipendente che possa dirsi universale14. L’ammissione della

differenza che intercorre fra le culture, di cui ci rendiamo conto ogni giorno, dipende allora dalla possibilità di coglierla e osservarla dall’esterno, e questa possibilità riposa a sua volta sulla capacità di astrarre dal nostro ambiente circostante. Quanto possiamo allontanarci da ciò che siamo? Wierzbicka è assai scettica al riguardo: noi abbiamo bisogno di un forte senso di appartenenza alla realtà che sussiste intorno a noi. Dunque, l’unica carta da giocare che resta è che in questa realtà vi sia qualcosa che possa essere assunto come universale e indipendente da ogni forma culturale specifica. “A meaningful comparison requires a tertium comparationis, that is, a common measure”15: senza tale punto di

vista indipendente possiamo solo descrivere il mondo visto attraverso il prisma

disparate e la conseguente assunzione di universalità di tali rappresentazioni. Enfield, dal canto suo, propone di partire sempre da tali immagini per chiederci prima di tutto quali popoli le condividono.

13 Cfr. Brown & Levinson (1987), cit.

14 Cfr. ultimo paragrafo del Capitolo precedente.

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della nostra cultura. Le cornici16 o il foucaultiano piano di comparazione sono

necessari. E’ ovviamente impossibile studiare qualsiasi cosa da un punto di vista del tutto estrinseco, poiché si è inevitabilmente guidati da certi principi, ideali o modelli, che anche inconsciamente vanno a costituire parte di ciò che siamo e che non sono minimamente condivisi da tutto il genere umano. D’altro canto, non possiamo concederci nessun tipo d’indagine partendo da un vuoto concettuale assoluto “…as human beings we cannot place ourselves outside all cultures”17;

dunque è necessario portare avanti il nostro approccio empirico al mondo e alla diversità, iniziando da un tentativo di distinzione fra ciò che assume caratteristiche specifiche e ciò che può osservarsi come semplicemente umano all’interno del nostro apparato di nozioni18. Questa operazione non è certo facile:

vari psicologi, secondo Wierzbicka, sono caduti nella fallacia di considerare la nostra mente, le nostre emozioni basilari o le nostre paure come aspetti essenziali della natura umana di per sé, senza minimamente sospettare la loro specificità culturale. Analogamente, molti filosofi e sociologi hanno intenzionalmente fatto affidamento a ideali come libertà o giustizia, senza considerare il fatto che fossero creazioni figlie di una particolare cultura di riferimento. Persino i linguisti spesso hanno affermato l’universalità di alcune “simple words” catturate deliberatamente dalla loro lingua madre19. Il fulcro di questi esempi non è affatto innato,

essenzialmente umano o universale20. Com’è possibile, allora discernere fra ciò che

16 Cfr. Goddard (2003), par. 3, cit.

17 Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 7, p. 26, cit. 18 Cfr., ivi pp. 25-27.

19 Wierzbicka si accorda spesso a molti autori che hanno attaccato l’uso acritico di termini culturalmente

specifici, soprattutto inglesi, come self, mind, emotion, depression, anger… Alcuni, fra quelli che ricorrono più frequentemente nei suoi scritti, sono: Rosaldo, Lutz, Kondo, cfr. Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 6, cit.

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è culturalmente specifico e ciò che non lo è? Wierzbicka crede si debba mantenere cautela e consapevolezza: “...we should beware of using concepts provided by our own culture as culture-free analytical tools, but we should also be aware that we do need some culture-free analytical tools”21. Liberarci della prospettiva culturale

di fondo è un compito arduo e impossibile, possiamo solamente rintracciare ciò che si estende oltre i confini di questa, attraverso un’indagine dello scenario di vita che la caratterizza, andando così alla ricerca di ciò che è familiare, semplice, intimo e vicino al nostro sentirci umani. In questo modo, si tende a voler ricercare ciò che è umano al di là dei confini degli artefatti culturali, e lo scopo di questo studio è non solo il puntare verso una maggiore consapevolezza antropologica della natura dell’uomo, ma anche il raggiungimento della capacità di riconoscere e descrivere tutti gli aspetti idiosincratici fra tutti i mondi culturali che osserviamo. I termini chiave che plasmano il pensiero e le attitudini umane sono diversi in ciascuna cultura e sono anche l’unico spiraglio che esternamente possiamo utilizzare per renderla intelligibile22.

La teoria dei cultural scripts offre, così, una cornice neutra all’interno della quale il presupposto etnocentrico può definitivamente essere dissolto. Wierzbicka crede fermamente in questo approccio cognitivo alla cultura e alla società, e non lo considera solo un obiettivo definitivo di studio, ma un vero e proprio sentiero verso la comprensione del diverso23.

La ricerca di concetti universali condivisi si ferma di fronte al Natural

Semantic Metalanguage, il metalinguaggio neutro e culturalmente indipendente

21 Ivi, p. 26.

22 Cfr Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 7, cit. 23 Wierzbicka (2002c), cit.

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ideato da Wierzbicka, che ci permette di trattare e visualizzare lo iato sussistente fra ogni cultura senza che questa operazione richieda troppi sforzi astrattivi. Il cosiddetto “NSM” non è altro che una lingua franca, utile per articolare e comprendere convenzioni, valori, norme, attitudini e significati che non fanno parte del nostro bagaglio d’esperienza. La teoria dei cultural scripts, difatti, rigetta ogni pratica d’imposizione di termini tecnici, visioni teoriche o scientifiche che siano prodotto culturale specifico e che tendano a voler conferire a determinate lingue o culture una posizione privilegiata. Lavorare su un terreno neutro come quello del “NSM” è un modo pratico e innovativo per poter decodificare qualsiasi tipo di significato racchiuso in qualsiasi tipo di espressione, fornendo sempre un’alternativa costituita di equivalenti universali, che non operi alcuna distorsione a livello interpretativo. Questa è un’importante possibilità che abbiamo per tentare di catturare, in ogni circostanza, il punto di vista interno della cultura oggetto di studio, rendendolo intelligibile dall’esterno e conferendogli possibilità di articolarsi al di fuori della nicchia originaria di cui fa parte24.

E’ sicuramente inestimabile il valore di una ricerca come questa, capace di offrire l’opportunità di una prospettiva neutra, naturalmente predisposta all’assunzione di forme diverse, che permetta di tentare di aggirare, così, un potenziale problema di eccessiva astrazione o di alienazione.

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1.2

I contorni della prospettiva inter-culturale: l’importanza delle

storie personali e dei test empirici di valutazione

Anna Wierzbicka conferisce un’estrema importanza alle esperienze personali di biculturalismo e bilinguismo. La sua ricerca parte, difatti, dalla sua stessa storia di immigrata in un paese assai lontano dalle sue origini. Il forte impulso allo sviluppo della pragmatica inter-culturale nell’ultimo decennio è sicuramente stato suscitato dalla crescente necessità di comunicare attraverso le barriere e i confini delle culture. “The future of the earth depends on cross-cultural communication”25, scrive la celebre linguista americana Deborah Tannen, ed è

davvero difficile immaginare una prospettiva diversa in un mondo ricco di contrasti non solo fra paesi, ma anche fra linguaggi ed individui. Le potenzialità di una ricerca tale sono notevoli, sia dal punto di vista antropologico-sociale che politico. Un interessante punto di riferimento in proposito, che spiega l’importanza del confronto pratico fra le culture e i linguaggi, si può rinvenire in Wierzbicka (1997c), dove l’autrce affronta dettagliatamente il dilemma di chi vive a metà fra due universi a contrasto. Seppur in piccola scala, questo scritto svela la stretta alleanza fra la pragmatica linguistica, che si fonda sull’analisi rigorosa del linguaggio, e le esperienze individuali di vite intersecate da diverse culture, quelle che l’autrice ama definire i “soft data”26. I riferimenti alla vita personale di

Wierzbicka sono numerosi nelle sue pubblicazioni, in particolar modo all’interno di questa opera, dove preferisce adottare un punto di vista soggettivo piuttosto che oggettivo. A suo parere, è proprio l’adozione di una prospettiva strettamente

25 Tannen (1986), That’s not what I meant! How conversational style makes or breaks relationships, cit. Citato in

Wierzbicka (2003), Introduction to the second edition, p. viii, cit.

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privata a legittimare l’insistenza sugli studi in campo di pragmatica inter-culturale, difatti scrive: “The realization of the close links between my ways of speaking, my personality and my Polishness raised for me the question that countless other immigrants are constantly confronted with: to what extent was it desirable, or necessary, to change myself in deference to my new cultural context?”27. La differenza fra ciò che siamo e il mondo che ci sta intorno, del resto,

la si coglie con mano nella vita quotidiana, ed è proprio questo scarto che fa sorgere il problema dell’integrazione, dell’alienazione e della necessità di un dialogo attraverso canoni diversi. La domanda che Wierzbicka si pone nasce dalla sua esperienza di migrante, che ha suscitato in lei la questione del confronto col diverso. Considerate tutte queste motivazioni, è a questo punto ovvia la necessità di uno spazio d’azione pratico-empirico su cui operare per l’elaborazione di teorie pragmatiche inter-culturali.

L’acuto sconforto, l’angoscia, l’incomprensione, la difficoltà ad interagire e l’incapacità di assimilare abitudini e routines conversazionali di uno straniero valgono molto di più di qualsiasi tipo di analisi esclusivamente teorica. Persino i valori facenti parte della nostra cultura di fondo restano inconsci e vaghi finché non siamo costretti a metterli in gioco con mille altre possibilità. Ad esempio, nella seconda introduzione a Cross-Cultural Pragmatics. The Semantics of Human Interaction, Wierzbicka racconta di come si sia resa conto dell’importanza che i polacchi danno alla spontaneità e alla franchezza trovandosi incastonata all’interno della leggera e cerimoniosa ipocrisia conversazionale inglese, un

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“lubrificante comunicativo”28 che, a suo dire, non è mai riuscita ad imparare.

D’altro canto, la schiettezza polacca verrebbe definita come rudezza da parte di qualsiasi inglese: lentamente emerge, così, la rispettiva assenza di termini polacchi per le cosiddette “white lies” inglesi e di espressioni indicanti un dissenso vigoroso e un netto rifiuto nel mondo anglosassone. La maniera migliore per scorgere tali scale di valori culturalmente diverse sta proprio nello studio dei casi “borderline”, ovvero nell’analisi e nello scrutinio delle vite di chi vive in due mondi contemporaneamente, quello d’origine e quello attuale: “As I meditated on my experience, and as I discussed it with other immigrants, I developed a strong theoretical interest in the problems of cross-cultural understanding and a deep conviction that the universalist theories of human interaction dominant of the time were fundamentally flawed”29.

Wierzbicka si rende conto di quanto siano etnocentricamente sbagliate le massime conversazionali di Grice o l’universale logica della conversazione di Leech attraverso la sua stessa vita e i suoi dilemmi quotidiani. E’ per questo motivo che essa giunge alla totale rivalutazione e riabilitazione della prospettiva pratico-empirica. Sarà proprio questo il motivo, secondo il suo parere, del fallimento di tutti i precedenti tentativi di studio dell’interazione umana e dei principi universali30. L’unica via per aprire un sentiero culturalmente

indipendente come spazio neutrale di confronto riposa, allora, sul valore delle esperienze personali e pratiche del linguaggio. Il dominio, difatti, di cui Wierzbicka si rende consapevole non è di tipo politico, ma riflette l’egemonia

28 Così lei stessa definisce la cerimoniosità tipica delle brevi conversazioni inglesi, delle tag questions e dei

saluti (‘Lovely day, isn’it? – Oh, isn’t it beautiful?’). Ib.

29 Wierzbicka(2003), introduction to the second edition, p. xiii, cit. 30 Cfr. Wierzbicka (1997c), , cit.

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inglese sul mondo: lo studio del linguaggio è prerogativa inglese e di conseguenza gli assiomi, i principi teorici e i termini tecnici sono di stampo inglese. Con un’attrezzatura del genere non ci si avvicina minimamente al dialogo interculturale e alla prospettiva universalista31.

Il Natural Sematic Metalanguage è stato redatto con una metodologia particolarmente legata allo studio e all’analisi pratica dei diversi linguaggi del mondo, come si vedrà meglio fra qualche paragrafo. Sicuramente, non si rinnega ogni principio teorico, piuttosto lo si vuole ancorare ad un’applicazione empirica, in modo che non si abbiano dubbi sull’universalità e neutralità di tale “NSM”32.

In questo contesto, il leitmotiv del lavoro di Wierzbicka è il dare la maggior enfasi possibile alle esperienze derivanti dal biculturalismo e bilinguismo contro ogni tipo di cliché o stereotipo culturale. Il linguaggio, dunque, rappresenta la possibilità tangibile di verifica di ogni conclusione cui si giunge e anche l’unico mezzo d’ispirazione da cui possiamo partire per cogliere le differenze culturali. Tuttavia, potremmo obiettare che tale metodologia di raccolta dati è interessante tanto quanto ad alto rischio di mancanza di sistematicità, organicità e attendibilità.

31 Cfr. Wierzbicka (2003), introduction to the second edition, cit.

32 Molti elementi della lista di universali lessicali che Wierzbicka sta elaborando devono ancora essere testati

empiricamente, questo è un tema assai ricorrente nei suoi scritti; difatti, l’autrice vuol sottolineare come ancora la sua ricerca sia in progresso e che i soddisfacenti risultati finora ottenuti si devono proprio alla costanza con cui si è dedicata all’analisi empirica e allo studio pratico di vari linguaggi del mondo.

(13)

2

L’alfabeto dei pensieri umani

33

.

2.1

Presentazione

La fine del ottocento e l’inizio del novecento segnano il grande avvento delle ipotesi relativiste (considerate in breve più sopra) elaborate da studiosi come Humboldt, Sapir, Whorf (solo per citarne alcuni). In una tale prospettiva, il linguaggio appare solamente una griglia di lettura per categorizzare il mondo che ci fornisce un’immagine mediata della realtà, diversa da cultura a cultura. Wierzbicka accoglie questa posizione, credendo che sia assolutamente legittimo sottolineare le differenze che intercorrono fra i vari modi di schematizzare l’ambiente esterno. Chiunque abbia tentato un simile confronto fra linguaggi naturali non può non giungere alla conclusione che i lessici di lingue diverse suggeriscono veramente diversi universi concettuali e che non tutto ciò che può essere detto in una lingua può dirsi, senza aggiunte o sottrazioni, in un’altra: “it is a common conviction of bilingual and bicultural people all over the world that they lead a ‘double life’, and that the meanings they express in one language differ from those expressed in the other”34.

D’altro canto, però, Wierzbicka sottolinea come si abbiamo buone ragioni per credere che ogni lingua disponga di parole per i concetti umani fondamentali, e che tutto possa esprimersi tramite una precisa combinazione di questi. In questo senso, dunque, qualsiasi cosa esprimibile in una lingua può tradursi, senza mutamenti di significato, in un’altra35. Tutto, allora, ruota attorno

all’individuazione di questi concetti umani universali: la studiosa polacca

33 Idea introdotta da Leibniz nel corso dello sviluppo del suo pensiero e definito mathesis universalis 34 Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 2, p. 7, cit.

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intraprende così la sua ricerca di qualcosa che sia connotabile come simply human36. Dunque, non ha più senso chiedersi quanto di un linguaggio possa

trasportarsi in un altro; piuttosto, è importante capire fino a che punto questo possa essere plasmato dalla natura umana e fino a che punto dalla cultura37.

Quello che dobbiamo indagare è: “...whether there really are some meanings which can be expressed in separate words (or perhaps separate morphemes) in all the different language of the world”38. Se esistono dei termini che hanno degli

esatti equivalenti semantici in tutte le lingue possiamo identificarli senza dubbio come concetti innati universali: questa è, in sintesi, l’idea portante del progetto di Wierzbicka. Dunque, i primitivi concettuali possono rintracciarsi grazie all’analisi profonda del linguaggio naturale: la lista di concetti individuati non è altro che la manifestazione diretta dell’universale all’interno del linguaggio specifico, da cui la ricerca è partita.

La novità che caratterizza questo tipo di approccio al problema è proprio l’immaginare la sussistenza di tracce dei concetti umani fondamentali all’interno del linguaggio stesso, aspettativa che si basa sull’assunzione che tali elementi sono innati e quindi, in un certo senso, fanno parte del corredo genetico dell’umanità39.

Su di essi si basa, di conseguenza, tutto il sistema semantico del linguaggio, difatti se tali fondamenti fossero diversi fra cultura e cultura, ciascun parlante sarebbe imprigionato in un sistema concettuale non confrontabile con quelli delle altre lingue, senza nessuna possibilità di raggiungere e comprendere l’universo al di là

36 Così Wierzbicka definisce ciò su cui lei vuol focalizzare la sua ricerca. 37 Cfr. Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 2, cit.

38 Ivi, p. 7.

39 Cfr. interessante presentazione e distinzione dei primitivi semantici e degli universali lessicali, trattati in

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della propria realtà, che diverebbe così una vera prigione40. Una conclusione

simile sarebbe contro ogni tipo di esperienza di dialogo interculturale, dalla quale emerge contemporaneamente l’esistenza di somiglianze e differenze, altrimenti impossibili anche solo da visualizzare. Il sostegno di queste considerazioni, quindi, è “...the assumption that all languages, however different, are based on isomorphic sets of semantic primitives”41.

2.2

Prospettiva storica

L’idea che i concetti umani universali siano da ricercare nel mondo interiore e non in quello esteriore sorge già nel diciassettesimo secolo, grazie alle riflessioni dei grandi filosofi razionalisti come Leibniz, Descartes, Pascal e altri42.

In particolare, Leibniz, come già accennato, aveva ricavato dai suoi studi scolastici l’idea di costruire “un alfabeto dei pensieri umani”, cioè di trovare i componenti semplici dai quali derivano tutti i pensieri e tutte le nozioni. Questa rimarrà una linea costante dei suoi interessi che si rifletterà ampiamente nelle sue elaborazioni filosofiche e matematiche in un coinvolgimento reciproco. Ritornando a più riprese sull’idea giovanile di un sapere universale che parte da nozioni semplici, esprimibili in simboli altrettanto semplici, come quelli della matematica, e combinabili con regole uniformi, egli progettò un’enciclopedia dalla quale ricavare l’elenco dei principi necessari per ordinare le conoscenze già acquisite e per acquistarne di nuove. Il filosofo immagina, così, di riformulare il linguaggio naturale in matematica per facilitare l’apprendimento attraverso gli

40 Immagine che Wierzbicka sfrutta spesso nei suoi tesi, cfr. Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 3, cit. 41 Ivi, p. 14.

(16)

strumenti formali messi a disposizione dall’algebra43. Leibniz ricupera la tesi di

Hobbes, secondo cui l’unica forma corretta di ragionamento è la computazione, fantasticando, poi, che un giorno tutte le dispute si sarebbero risolte non verbalmente ma tramite dei calcoli44. Questo può senza indugio ritenersi il primo

caso di paragone fra la mente e una macchina computazionale, che ha riscosso negli ultimi decenni un notevole successo nella scienza cognitiva e presso molti noti linguisti.

Ciò che interessava e ossessionava Leibniz era l’idea che la conoscenza e l’educazione dipendessero dal linguaggio. Il filosofo aveva cognizione dei problemi relativi alla lessicografia e si era anche personalmente impegnato nel tentativo di riuscire a dare definizioni complete, esaustive e non circolari. Amante della semplicità, Leibniz riteneva che ciascun essere umano nascesse con un set predisposto di idee innate latenti, che si sarebbero poi attivate e sviluppate attraverso l’esperienza quotidiana. La chiave di volta è proprio la loro semplicità, che rappresenta il requisito fondamentale di queste nozioni, grazie a cui nasce la capacità d’interpretare il mondo e di rendere possibile ogni percezione. L’insieme di queste idee semplici venne definito “alfabeto dei pensieri umani” proprio perché permette lo sviluppo di ogni idea complessa attraverso diverse possibili combinazioni, esattamente come avviene nell’elaborazione degli enunciati complessi tramite la composizione delle singole lettere dell’alfabeto45. “Although

the number of ideas which can be conceived is infinite, it is possible that the

43 Leibniz arriva ad ideare ilcharacteristica universalis, un linguaggio artificiale dove la struttura grammaticale e

quella logica coincidono. Gli elementi base di questo linguaggio sono caratteri pittografici per rappresentare in modo non ambiguo un numero limitato di concetti elementari, ovvero “l’alfabeto die pensieri umani”.

44 Cfr. l’introduzione di Francesco Barone a Leibniz (1992), cit. 45 Per tutto questo cfr. Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 2, cit.

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number of those which can be conceived by themselves is very small; because an infinite number of anything can be expressed by combining very few elements. On the contrary, it is not only possible but probable, because nature usually tends to achieve as much as possible with as little as possible, that is, to operate in the simplest manner…The alphabet of human thoughts is the catalogue of those concepts which can be understood by themselves, and by whose combination all our other ideas are formed”46.

L’idea di Leibniz riposa, in realtà, su alcuni precedenti suggerimenti di René Descartes, il quale sosteneva che il lessico di un linguaggio universale dovesse necessariamente consistere in elementi primitivi, la cui combinazione sistematica, in accordo con le regole sintattiche stabilite, dovesse poter generare un infinita serie di possibilità. Descartes si concentra maggiormente sulla nostra necessità di semplicità come inizio della comprensione, credendo fermamente nell’esistenza di oggetti evidenti e chiari nella nostra mente, fondamenti della conoscenza tutta. Per entrambi questi due filosofi, non c’è questione sul come scegliere tali concetti innati, dal momento che essi sono cognitivamente talmente chiari ed espliciti da non lasciare spazio a nessun tipo di dubbio sulla loro natura di universali: “they cannot be understood better than by themselves; and [we can] explain everything else in terms of these”47.

Noam Chomsky ha sempre considerato la grammatica generativa come una continuazione della linguistica cartesiana48; tuttavia, non ha mai menzionato

queste considerazioni relative ai concetti universali e la loro semplicità, né ha mai

46 Leibniz, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, trad. da Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 2, pp. 8-9, cit. 47 Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 2, p. 12, cit.

48 Wierzbicka tratta questo aspetto relativamente a Noam Chomsky, Cartesian Linguistics, New York, Harper &

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preso in considerazione il leibniziano “alfabeto dei pensieri umani”. Wierzbicka considera molto strana questa omissione, del resto però, gli interessi di Chomsky si sono orientati verso altri aspetti di universalità, allacciati più a degli universali sintattici che a concetti umani naturali. La competenza linguistica innata cui fa riferimento è la conoscenza che soggiace alla nostra capacità di formulare frasi e di comprenderle. Tale conoscenza linguistica è mentalmente rappresentata e deve essere in grado di dar ragione delle sfumature grammaticali delle diverse lingue del mondo come variazioni relativamente minori rispetto al modello universale della lingua umana. La vera comprensione delle strutture dei linguaggi individuali, poi, può essere raggiunta solo attraverso lo studio comparato di una vasta gamma di lingue, postulando che esse siano tutte intessute allo stesso modo. Dunque, Chomsky si orienta su modelli universali di diverso tipo: più che di concetti si tratta di principi grammaticali, schemi e strutture e di formazione del linguaggio. Sicuramente queste conclusioni hanno dominato lo spazio che nella seconda metà del ventesimo secolo la linguistica si è aperto, affiancandosi alla psicologia e alla biologia; ma ciò che la ricercatrice polacca contesta è l’eccessivo focalizzarsi sulla sintassi, la mancanza di dati empirici e l’estremo formalismo, da lei ritenuto nemico dello studio del significato in rapporto anche alle diversità culturali49. Certo, queste considerazioni sono da valutare all’interno della

prospettiva di ricerca che la studiosa si schiude.

Wierzbicka resta profondamente affascinata, d’altro canto, dalla prospettiva leibniziana. Il suo interesse si è sviluppato attraverso la lettura che l’università di Varsavia le fornì di questo argomento ad opera del noto linguista Andrzej

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Bogusławski. Il famigerato Golden Dream dei filosofi del diciassettesimo secolo50,

abbandonato al corso degli eventi come utopia irrealizzabile, comincia ad acquisire delle nuove forme che gli conferiranno la possibilità di un nuovo slancio: si trasferisce la questione di tali concetti dalla prospettiva filosofica a quella linguistica. L’esperienza acquisita dagli sviluppi moderni di questa disciplina rende possibile, infatti, un nuovo approccio al problema dei primitivi concettuali, dando ad esso spessore scientifico e possibilità empirica. Wierzbicka immagina che i significati più complessi, codificati in vari termini, differiscano fra lingua e lingua poiché ciascuna può scegliere quali di questi etichettare separatamente51.

L’elemento interessante è che, stando a questa ipotesi, ciascuna parola va a contrassegnare una diversa combinazione di elementi semplici universali, esistenti in tutti gli apparati concettuali dell’umanità dispersa nel mondo. Le migliori congetture, dunque, su come questa tavola di concetti fondamentali dovrebbe essere nascono dallo studio comparato dei linguaggi. In questo senso, la linguistica ha una chance in più di riuscire dove la speculazione filosofica è fallita52.

Sullo sfondo teorico in cui Wierzbicka si va ad inserire va notato anche il contributo di Humboldt, che si può considerare un insigne anticipatore della linguistica moderna per quanto riguarda lo studio delle lingue a livello sincronico53: “The idea that all languages share an identificable core is by no

means new. Wilhelm Humboldt emphasized that in both lexicon and grammar,

50 Cfr. Capitolo I.

51 Cfr. Wierzbicka (1997a), cap. 1, par. 8, cit. 52 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 2, cit. 53 Cfr. von Humboldt (2000), cit.

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there is a ‘midpoint’ around which all language revolve’”54. Molti hanno visto in

lui il precursore del relativismo linguistico, ma l’aspetto che più interessa Wierzbicka, che farà riferimento al filosofo tedesco assai frequentemente nei suoi scritti, è il suo constatare che, nonostante la presenza di universali, l’intero apparato semantico incorporato nei diversi linguaggi diviene senza dubbio culturalmente specifico. Humboldt infatti scrive: “Three is a number of things which can be determined completely a priori, and which can be separated from the conditions of a particular language. On the other hand, there is a far greater number of concepts, and also grammatical peculiarities, which are so inextricably woven into the individuality of their language”55. E’ evidente, quindi, che la

tangibile presenza degli universali all’interno del linguaggio non è assolutamente indice di una perfetta corrispondenza d’uso di questi. Le congetture Humboldtiane hanno interessato anche Chomsky, centocinquanta anni dopo la loro elaborazione. La delusione che investe la ricercatrice polacca è che ad esse non è stata conferita nemmeno in tale occasione la base empirica di studio che lei stessa tenta di costruire, tanto da spingerla a considerare futili ed evanescenti i tentativi Chomskyani volti ad illustrare il carattere innato di alcuni concetti. Il problema è che le considerazioni del linguista paiono davvero fondarsi più su speculazioni teoriche che su investigazioni empiriche e falliscono nel momento in cui questo menziona termini come chase, table o persuade in virtù di “etichette

54 Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 6, cit. Wierzbicka cita qui da Whilhelm von Humboldt Werke, vol. 17, Laitzmann

A.(ed.), Berlin B. Behr, 1903-1936.

55 Whilhelm von Humboldt Werke, vol. XVII, A.Laitzmann (ed.), citato da Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 1,

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inglesi” stanti per concetti umani fondamentali56. E’ in questo modo che l’autrice

liquida completamente il progetto di Chomsky.

Infine, non possiamo dimenticare il lavoro di Sapir e Whorf. Seppur appartenenti alla visione relativista, hanno contribuito notevolmente alla correlazione fra il linguaggio e la cultura o il modo di pensare specifico di una certa società. Sapir nel 192957 e Whorf, suo allievo, nel 195658, rispolverando le

vecchie teorie Humboldtiane, hanno elaborerato interessanti considerazioni in proposito, come già ricordato sopra. L’ipotesi da cui Sapir muove è la diversità delle concettualizzazioni della realtà extralinguistica da parte di parlanti appartenenti a culture diverse. Ciò è sicuramente ben osservabile nella frammentazione e differenziazione del lessico59, che, nella sua diversità, costruisce

modelli culturali estremamente distinti. Wierzbicka tiene in considerazione queste riflessioni, ma rimprovera a Sapir e soprattutto a Whorf, che ha avuto modo di sviluppare le analisi del primo, di aver dato cornici poco adeguate allo studio della relazione fra linguaggio e cultura e di non aver predisposto esaustivamente una metodologia60. La connessione con Whorf è in ogni modo rilevante, tanto che Cliff

Goddard, uno dei maggiori collaboratori di Wierzbicka, tratterà dettagliatamente le corrispondenze e le distinzioni nel loro pensiero come facenti parte di un unico progetto61. Sapir, dal canto suo, rimarrà sempre nell’immaginario di molti

56 Wierzbicka sottolinea come tali esempi siano assolutamente fuori luogo e come diano segno di una netta

mancanza di esplorazione empirica della questione. Cfr. Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 1, cit.

57 Cfr. Sapir (1973), cit. 58 Cfr. Whorf (1956), cit.

59 Wierzbicka critica molto questa visione: secondo il suo parere le differenze lessicali non riflettono

necessariamente differenze culturali, cfr. Wierzbicka (1986b), introduction, cit.

60 Cfr. Skandera (2007), Introduction, cit.

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linguisti, come Hymes62, il vero ideatore della questione. Resta comunque il fatto

che prima della studiosa polacca non era stata in nessun caso approntata una metodologia davvero soddisfacente, infatti la stessa Wierzbicka ha definito il suo

Natural Semantic Metalanguage come una della maggiori conquiste in questo

campo: “The Natural Semantic Metalanguage based on universal semantic primitives provides us with sharper methodological tools that those which were used by our predecessors”63. Certo, resta in ogni caso poco chiaro il processo

d’incanalazione di tutti i dati empirici rilevati nell’elaborazione stessa di tale metalinguaggio. Come sarà più evidente nei prossimi paragrafi, infatti, anche Wierzbicka procede per tentativi ed errori, rivedendo spesso le sue posizioni fino a raggiungere anche una certa punta di enigmaticità. Tuttavia, l’interesse della ricercatrice per l’esamina di qualsiasi tipo di esperienza, a scapito della derivante complessità che investe così il suo progetto, provoca un’inevitabile rischio di errore, dovuto proprio all’impossibilità umana di cimentarsi con tutte le prospettive qui considerate empiricamente rilevanti.

2.3

Dove cercare?

“Leibniz…recommended a comparative study of different languages of the world as a way to discover the “inner essence of man” and, in particular, the universal basis of human cognition”64. Questo progetto ruota attorno al

presupposto che l’uomo sia lo stesso dappertutto e già Leibniz proponeva

62 Cfr. quanto Hymes scrive a proposito di Sapir in On typology of cognitive styles in language, Antropological

Linguistics vol. 3, n. 1, 1961, trattoda ivi.

63 Wierzbicka (1992a), sez. VI, cap. 12, par. 6, p. 441, cit. 64 Wierzbicka (1996), cap. 6, par. 7, p. 206.

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un’analisi comparata del tipo di quella che Lévy-Bruhl65 presenterà due secoli

dopo e che trova oggi pieno accordo. Il fatto è che la premessa da cui il filosofo sviluppava il suo studio, ovvero la fissità e l’uniformità del genere umano, è difficilmente conciliabile con le recenti teorie in proposito66. Quello che fa

Wierzbicka non è altro che riabilitare l’idea di Leibniz, così scetticamente scartata dal nuovo impianto teorico del relativismo linguistico: “Leibniz was right, and there is, behind the variability of cultures, a universal, “fixed and uniform” set of underlying human concepts”67. I sistemi linguistici e culturali del mondo

differiscono enormemente, ma esistono comunque degli elementi universali condivisi sia semantici che lessicali68.

Come stabilire, dunque, cosa è universale e cosa no? La metodologia stessa da adottare per il riconoscimento dei cosiddetti primitivi semantici potrebbe essere motivo di fallimento o abbandono del compito prefissato: testare empiricamente ciascun termine di un linguaggio per verificare l‘esistenza di equivalenti semantici in tutte le altre lingue del mondo è sicuramente un compito impossibile. L’unica via d’uscita resta, allora, l’ipotesi. E’ infatti possibile ridurre il campo d’azione a pochi elementi sospetti, in maniera da dare un prospetto assai più realistico a questo progetto. Chiaramente, questo modo di procedere implica che si abbia almeno una vaga idea dell’orientamento da seguire. Leibniz stesso era piuttosto scettico riguardo la possibilità di individuare gli atomi ultimi del pensare

65 Seguendo il pensiero del sociologo francese Emile Durkheim egli considera la morale come scienza dei

costumi, basata su regole di comportamento che, in un determinato contesto sociale, appaiono obbiettive e necessarie come le leggi della natura.

66 Quando Wierzbicka parla di teorie recenti pensa a Needham. Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 6, par. 7, cit. 67 Ivi, p. 207, cit

68 Anticipazione di quanto verrà chiarito meglio successivamente. Wierzbicka crede nell’esistenza di primitivi

semantici e di universali lessicali. Questi ultimi non sono altro che le proiezioni di tale apparato di concetti umani universali nel lessico, esistono, quindi in tutte le lingue del mondo.

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dell’umanità, tale compito appariva agli occhi dell’inventore dell’alfabeto dei pensieri umani come impossibile e dunque come un’inutile perdita di tempo. Immaginava la necessità di perseguirlo procedendo per errori, attraverso un sistematico insieme di tentativi di schemi di definizione. Selezionando i termini dal significato più semplice ed immediato, considerati da noi come potenziali universali semantici, Leibniz credeva che si potesse misurare la loro “universalità” tentando di definire tramite questi più termini possibile, in modo da identificare su base empirica quei concetti che paiono essere davvero indispensabili semanticamente e quelli che, invece, si possono scartare. La linea guida del filosofo era che i concetti universali umani devono essere come blocchi necessari alla definizione di tutti gli altri concetti possibili nella mente umana. Ciò che Leibniz ricercava sono le componenti di significato che possono considerarsi come autoesplicative, intuibili e non conoscibili sebbene necessarie al conoscimento di tutti gli altri significati.

Anche Wierzbicka, a modo suo, lavora con il linguaggio. La sua novità sta nell’aver compreso l’importanza dell’analisi sincronica di diverse lingue. Stando a quanto detto in precedenza riguardo alla necessaria lessicalizzazione dei concetti umani fondamentali all’interno dell’apparato linguistico, sarà a questo punto fondamentale ricercarne i termini corrispondenti, operazione che coincide, praticamente, col catturare la loro manifestazione. La lista di universali, che nei suoi scritti l’autrice polacca ci propone, viene più volte sottolineata come assolutamente ipotetica, del resto il suo interesse è di riuscire a trovare una prospettiva per la comunicazione interculturale e, se tale lista in ciò funziona,

(25)

possiamo a piena voce considerarla come manifestazione lessicale dei concetti connaturati nell’umanità stessa69. Tale approccio empirico è stato pienamente

consolidato in Goddard & Wierzbicka (eds.) (1994a), in modo da accertare definitivamente l’idea già proposta nell’universalismo semantico di John Lyons, che lanciava l'idea dell’esistenza di una serie fissa di elementi universali ricorrenti in ogni lingua del mondo70. La sfida, allora, non sta tanto nel proporre una lista

possibile, ma nell’essere in grado di giustificarla. Un esempio di chiaro fallimento ci viene proposto, da parte della ricercatrice, nell’analisi Chomskyana, che, a suo parere, non specifica mai i criteri empirici che la guidano - a quanto dice, lasciandogli poche altre alternative71- a sostenere l’esistenza di questo apparato

innato di concetti che l’uomo deve semplicemente scoprire in se stesso. Effettivamente la mancanza di base empirica nella teoria di Chomsky è un dato tangibilmente constatabile, d’altro canto, però, anche Wierzbicka, pur dilungandosi molto sull’importanza dell’analisi empirica si scontra con una fattiva impossibilità di vagliare tutte le prospettive che vorebbe e dovrebbe, nonché con l’indubbia incapacità di manneggiare i risultati in tal modo ottenibili72.

2.4

Caratteristiche e requisiti dei concetti umani universali.

Come più volte Wierzbicka puntualizza, l’idea che i semantic primes, ovvero i concetti umani fondamentali, siano universali è strettamente correlata al fatto che

69 Data l’assoluta ipoteticità dell’indagine, il fatto che la lista di universali resti comunque in una sorta di

perenne sperimentazione pare aprire ampio spazio alle critiche.

70 Cfr. Goddard & Wierzbicka (eds.) (1994a), dove Wierzbicka fa più volte riferimento all’opera di Lyons

(1977), cit.

71 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 6, par. 7, cit. Qui l’autrice fa riferimento a Chomsky, Language in a psychological

setting. Sophia Linguistica vol. 22, n. 1, Tokyo, 1987.

72 L’elaborazione dell’ipotetica lista (destinata, per ora, a restare tale sotto alcuni aspetti) prosegue dall’analisi

di un discreto numero di lingue, appartenenti a ceppi diversi, tuttavia irrisorio rispetto alle prospettive globali.

(26)

questi siano innati. Negli ultimi trenta anni ci si è sempre più mossi verso l’idea che l’uomo non sia rispetto al mondo e all’acquisizione linguistica una passiva tabula rasa, ma un attore equipaggiato di alcuni concetti basilari per orientare cognitivamente il suo processo di apprendimento. Dobbiamo a Bowerman73, cui

Wierzbicka non dimentica di dare merito, l’allacciamento fra lo sviluppo autonomo di certi concetti fondamentali nel bambino e gli universali linguistici. La novità di questa visione riposa sull’eliminazione definitiva dell’idea di configurazioni sintattiche astratte e sull’approdo ad uno stock di concetti semantici primitivi, che, combinati secondo regole generali o specifiche, diano origine a termini ed enunciati74. Sono i linguisti totalmente invischiati nella semantica

generativa (fiorita fra gli anni sessanta e settanta e fallita, secondo Wierzbicka, proprio per l’assenza di una lista ipotetica di primitivi semantici75) che hanno

plasmato così astrattamente la questione degli universali. I semantic primes, cui Wierzbicka fa riferimento nei suoi testi, sono invece assai più simili, come essa stessa stabilisce, all’idea di “spazio semantico” o di “significati pre-linguistici” di Slobin76, che, a suo parere, evidenzia la costanza dell’espressione grammaticale

che puntualmente ricevono certe nozioni base nell’approccio linguistico dei bambini77. Certamente l’organizzazione di questo spazio semantico iniziale non

73 Melissa Bowerman, è ricercatrice al Max Planck Institute of Psycholinguistics, esperta nel campo

dell’acquisizione linguistica e nelle relazioni fra linguaggio, cognizione, rappresentazione spaziale e temporale. Il tema ricorrente dei suoi studi è proprio la correlazione fra sviluppo concettuale e linguistico, soprattutto a livello inter-culturale, nel tentivo di cogliere ciò che è universale e innato da ciò che viene appreso, quindi imparato.

74 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 4, cit. 75 Cfr. Wierzbicka (2003), cap. 1, par. 10.3, cit.

76 Cfr. Slobin (1985), vol. II, cit. Slobin è professore di linguistica e psicologia all’università di Berkeley, che si è

concentrato sullo studio dell’apprendimento linguistico dei bambini, approntando una prospettiva inter-culturale di psicolinguistica.

77 Slobin sviluppa l’ipotesi di una precisa BGC, Basic Child Grammar, cui Bowerman si mostra fermamente

(27)

può essere eccessivamente rigida, poiché deve per necessità mostrarsi flessibile a variazioni specifiche del caso. In questo modo ci si riallaccia anche alla concezione di nucleo primario di concetti assolutamente essenziali di Sapir, i quali devono potersi esprimere perché il linguaggio risulti un soddisfacente mezzo di comunicazione78. La convergenza migliore di tutte queste prospettive teoriche

riguardanti l’innatismo dei primitivi semantici, secondo Wierzbicka, si trova in Bruner, il quale sostiene che il modo in cui noi “entriamo nel linguaggio” poggia su “a selective set of prelinguistic ‘readiness for meaning’”79. Stando a questa

conclusione, ci saranno sicuramente certe categorie di significati per cui gli esseri umani sono naturalmente propensi e per cui essi mostrano un’innata ricerca attiva: queste forme esistono già prima del linguaggio come rappresentazioni protolinguistiche primitive del mondo, la cui piena realizzazione dipende, poi, dallo specifico strumento culturale, ovvero dal linguaggio.

Trattando dell’innatezza dei concetti fondamentali e della loro complessità semantica, Chomsky precisa che questi devono essenzialmente essere disponibili a priori, devono quindi essere antecedenti rispetto la comune esperienza. In questa prospettiva, avanzata poi con più decisione da Fodor, il bambino non fa altro che acquisire dei termini con cui etichettare dei concetti che già risiedono nella sua mente80. Ciò che questa teoria irragionevolmente ignora è il fatto che i significati di

moltissime parole differiscono da linguaggio a linguaggio, segno che ci conduce alla decisiva conclusione che questi non siano altro che artefatti culturali, creati e

dove il bambino non appare come passivamente in attesa di impressioni ma si mostra concettualmente pronto all’apprendimento linguistico.

78 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 4, cit.; e cfr. Sapir (1973), cit. 79 Bruner (1990), cit, riportato da Wierzbicka: ivi, p. 18, cit.

80 Cfr ivi, Wierzbicka cita ancora una volta. Chomsky, Language in a psychological setting. Sophia Linguistica

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radicati nei particolari aspetti della cultura di fondo. Wierzbicka critica, dunque, non solo la mancanza di una debita considerazione dell’importanza dell’apporto di valutazioni e verifiche empiriche nella teoria Chomskyana, ma anche l’idea che i significati di molti termini comuni siano innati invece che costruiti tramite una serie di primitivi semantici culturalmente indipendenti. Quello che Chomsky sbaglia, nella sua ottica, è l’attribuzione di status di concetto innato e questo suo errore è motivato dalla sua necessità di dover rinunciare alle definizioni. In un certo senso, quello che interessa al celebre linguista è assolversi dall’arduo compito di definire le parole, cosa che è pienamente comprensibile, da un certo punto di vista.

Il problema delle definizioni è stato costantemente sollevato nella storia della linguistica, fin dai tempi più remoti. Leibniz stesso, come accennato in precedenza81, si cimenta attivamente nell’evidenziare il fatto che la nostra

conoscenza poggi su un’ineludibile circolarità di infiniti rimandi da parola a parola: “if nothing can be understood by itself, nothing at all can never be understood”82. Non è possibile definire tutti i vocaboli, perché l’idea di definizione

implica che non ci sia solo qualcosa da definire, ma anche qualcosa con cui definire, una sorta di definientia, ovvero gli elementi da utilizzare per enunciare il significato di tutti gli altri termini del linguaggio, o definiendum83. Una definizione,

così com’è intesa dai linguisti, non è altro che un’espressione, capace di mostrare,

81 Cfr. par. 2.2 di questo capitolo.

82 Leibniz, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, cit., trad. Wierzbicka (1992a), Introduction, par. 4, p. 17, cit. 83 Cfr. Wierzbicka (1997a), Introduction, par. 9.1, cit. L’esempio di definizione circolare che Wierzbicka utilizza

più spesso, anche all’interno del paragrafo qui menzionato è quello della definizione della luce da parte di Blaise Pascal “light is the luminary movement of luminuos bodies”, cosa si comprende attraverso una spiegazione come questa? Tale esempio è tratto da. Pascal, De l’espirit géométrique et de l’art de persuader. In Oeuvres complètes, J. Chevalier (ed.), Paris, Gallimard, pp. 570-604, 1954 [1667], trad. Wierzbicka.

(29)

attraverso la sua articolazione in componenti base, il significato di una parola. Dal momento che definire una parola vuol dire decomporla nelle suoi parti costitutive, solo i concetti complessi sono allora definibili. I comuni dizionari sono, secondo Wierzbicka, viziati da una fortissima circolarità, da cui nessuno è immune: ogni risposta genera nuovi quesiti, riconducendoci sempre al punto di partenza. Il problema è che si cerca di spiegare il significato di un termine attraverso altri e questi attraverso altri ancora84. E’ proprio per aggirare un cerchio continuo di

definizioni che Leibniz, come prima di lui Descartes, formula l’idea di uno stock innato di concetti umani, identificabili sulla base del loro essere intuitivamente chiari, autoesplicativi e da accettare come impossibili da definire. “One cannot define everything”85: l’esistenza di un qualcosa di indefinibile ci conduce

immediatamente alla possibilità di un linguaggio semplice, che non sia d’ostacolo alla comunicazione, lontano perciò dall’essere, come Gassendi lo definiva, la piaga della civilizzazione occidentale. Questo ci conduce direttamente al cogito ergo sum, premessa fondamentale per la nostra indagine conoscitiva del mondo proprio grazie al suo apparire indubitabilmente chiaro ed evidente, tanto da rendere complesso ogni tentativo di spiegazione o semplificazione di ciò che esso rappresenta. Non c’è motivo di definire i concetti che sono già ovvi alla nostra mente e intuitivamente chiari, sostiene Descartes, e la prova della loro innatezza poggia proprio sull’impossibilità di stabilirne una definizione che sia più chiara del loro stesso sussistere di per sé86.

84 Interessante la trattazione che Wierzbicka fa del problema della circolarità delle definizioni, criticando il

lavoro di molti lessicografi. A questo proposito cfr. Wierzbicka (1996), parte II, cit.

85 Idea chiave che nasce in maniera sistematica con Descartes e Leibniz e che Wierzbicka ripresenta nel suo

lavoro: ivi, cap. 9, par. 11, p. 278, cit.

(30)

Il bisogno estremo di trovare un punto chiaro ed evidente da cui far partire la nostra investigazione del mondo, che funga buona base per la nostra conoscenza senza che necessiti esso stesso di ulteriori spiegazioni, è un problema che ha interessato tutta l’umanità. Nella circolarità delle definizioni dei termini si rinviene, a livello linguistico, questa questione. Dunque, per spiegare qualsiasi significato, abbiamo bisogno di un set di indefinibili, e per spiegare i significati oltre i confini del linguaggio e della cultura specifici, abbiamo bisogno di un set di universali.

Sebbene le idee semplici di Locke non corrispondano esattamente ai primitivi semantici qui concepiti, il suo argomento può comunque applicarsi ad entrambi: “I saw that the names of the simple ideas, and those only, are incapable of being defined. The reason whereof is this, That the several terms of a definition, signifying several ideas, they can all together by no means represent an idea which has no composition at all: and therefore a definition, which is properly nothing but the showing the meaning of one word by several others not signifying each the same thing, can in the names of simple ideas have no place”87. Per definizione,

quindi, Wierzbicka intende ciò che lo stesso Locke intende: mostrare il significato di elementi definibili in termini di elementi indefinibili semanticamente semplici88.

Descartes ha fallito, in un certo senso, nella mancata identificazione di quella precisa lista di innati indefinibilia che Wierzbicka sta cercando. Quello che manca è un terzo criterio fondamentale (determinato dallo stesso Leibniz), che ci offre una linea guida operativa assai utile: la richiesta che i primitivi semantici non solo

87 Locke (1959), p. 34, cit.

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siano chiari e indefinibili, ma che fungano anche da blocchi base per la costruzione di tutte le altre definizioni in modo attivo89. Questa conclusione ha dato modo a

Leibniz di cimentarsi in difficoltose sperimentazioni lessicografiche per riuscire a visualizzare, come detto in precedenza, quali apparati di concetti hanno il potere di riuscire a definire tutti gli altri. Grazie alla ricerca linguistica più recente, Wierzbicka ha aggiunto due ulteriori condizioni necessarie per ottenere lo status di concetti innati universali: il fatto che tali elementi debbano dare prova di se stessi come primitivi semantici e come universali lessicali in una prospettiva di analisi inter-linguistica. Il merito di Leibniz sta, perciò, nell’aver scoperto la mutua dipendenza che sussiste fra conoscenza di concetti semplici e comprensione dei complessi: per capire questi ultimi, difatti, siamo necessariamente costretti a decomporli in ciò che assumiamo come semplice90. Certo, per scoprire quali

concetti possono essere ragionevolmente considerati tali dobbiamo testare diversi candidati, verificando il loro potere di generare concetti complessi e le loro capacità. Dunque, i primitivi sono componenti indefinibili e basilari nell’apparato concettuale umano che, combinati assieme in modi differenti e specifici, originano una miriade di diversi significati. Sono pochissimi gli elementi sospettati di soddisfare tutti i criteri che Wierzbicka pone, considerate anche le ultime aggiunte al precedente lavoro dei filosofi del diciassettesimo secolo. La ricercatrice non manca, comunque, di esprimere sconforto, aspetto che va sicuramente ad avvalorare i dubbi precedentemente sollevati riguardo all’impostazione della sua metodologia: “ I don’t know whether there are any indefinible words in terms of

89 Cfr. Wierzbicka (1992a), introduction, par. 3.1, cit.

90 Cfr. Wierzbicka (1996), cap. 7, par. 2, cit. Wierzbicka sottolinea qui anche l’importanza del contributo di

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