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CAP. 2 LA PIETRA VERDE NELLA STORIA

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CAP. 2 LA PIETRA VERDE NELLA STORIA

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La produzione e l’uso di manufatti in pietra levigata e scheggiata diminuiscono gradualmente nel tempo fino a cessare del tutto con lo sviluppo della metallurgia. Si perde così non solo la conoscenza dei metodi di produzione, ma anche il ricordo del loro uso quotidiano come strumenti.

L’ importanza di questi oggetti è però sopravvissuta nelle tradizioni popolari dando vita a tutta una serie di credenze magico-religiose rimaste vive fino ai nostri giorni. Già a partire dalla prima Età del Ferro si hanno testimonianze in corredi funerari europei dell’uso ornamentale o apotropaico di antichi manufatti litici. La sepoltura di asce nelle vicinanze di mehnir e in alcune tombe centroeuropee (asce in miniatura in tombe di Hallstatt e asce trovate in Bretagna, a Carnac ai piedi di un menhir) potrebbe anche rappresentare una testimonianza del mito celtico del “cuneo del tuono” o “Donnerkeil” una pietra nera usata dal Dio per produrre la folgore che cadrebbe dal cielo durante le tempeste.

Nel mondo greco-romano venivano attribuiti poteri magici a pietre di forma particolare: ad esempio, reperti preistorici come manufatti litici erano cosparsi di oli e considerati come veri e propri oggetti sacri, di culto. Altri invece erano considerati come cose di origine e celeste da usare come amuleti portafortuna, prodotti dalla caduta in terra di fulmini scagliati da Zeus e per tale motivo venivano

definiti con il termine di “ceraunia”, parola che in greco (Keraunòs) vuol dire

appunto fulmine.Facevano parte dei “ceraunia” non solo manufatti litici preistorici,

ma anche rocce di forma strana, pietre preziose, meteoriti e gemme che erano custoditi, dedicati agli dei e venerati anche nei templi del Vicino Oriente.

Troviamo accenni casuali alle “pietre dei fulmini” in numerose opere latine, in Tito Livio, in Strabone e in Lucrezio, ma è di sicuro Plinio nella sua “Naturalis Historia” (XXXVII,51,65), l’autore che ne parla più ampiamente, facendone anche una sorta di classificazione. Egli afferma che oltre alle ceraunie esisterebbero altre pietre con la stessa origine, la pietra del tuono “brontea” e la pietra della pioggia ”ombria” o “nozia”. Le ceraunie sarebbero, secondo alcuni delle pietre bianche che

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imprigionerebbero il bagliore delle stelle, secondo altri invece delle pietre che conterrebbero una stella e ne esisterebbero diverse tipologie, bianche, rosse, nere e opache, dotate di forme (rotonde o asciformi) e virtù particolari come la capacità di impedire che gli oggetti posti sugli altari potessero bruciare oppure il potere di sconfiggere flotte e facilitare la conquista di una città.

E' molto probabile che queste credenze derivino dalle tradizioni religiose preclassiche e siano state mescolate nel tempo ad errate spiegazioni dei fenomeni naturali, nonostante già in epoca romana numerosi studiosi avessero già compreso l'origine di questi oggetti.

Alcuni testi antichi di magia, inoltre, come ad esempio il “Cyranidés”,2 consigliano

di usare la “pietra lucertola” o “saurite” per le magie d’amore; altri testi invece si riferiscono alla presenza delle pietre verdi in riti d’iniziazione (“…un falcone si drizzerà davanti a te; dopo aver sbattuto le ali in aria lascerà cadere una pietra oblunga……Tu solleverai questa pietra…”).

Le credenze sulle “pietre dei fulmini” continuarono nel Medioevo e nella epoche successive, quando iniziarono i primi studi per capirne l’origine e dal Rinascimento i reperti preistorici iniziarono ad essere collezionati come oggetti particolari nei “gabinetti delle meraviglie”,

Nonostante la scoperta dell'America ed i numerosi viaggi nel Nuovo Mondo avessero permesso di entrare in contatto con popolazioni che ancora facevano uso di strumenti in pietra, ancora nel Seicento erano in molti a dare una spiegazione scientifica al fenomeno basandosi però su antiche superstizioni: ad esempio nel 1672 il veronese Lodovico Moscardo affermò che “…nel folgore si genera la pietra d’una essalatione molto terrestre, e densa, la quale attratta dalla nube umida, si converte in massa…..e questa di subito cuocendosi si indura in pietra…”.

Un grande passo avanti venne compiuto nel XVI secolo da Michele Mercati (1541-1593) e da tutti coloro che successivamente, studiando gli oggetti presenti nelle collezioni private e paragonandoli a manufatti provenienti dalle Americhe, capirono che le “pietre dei fulmini” erano prodotte dagli uomini e non dalla natura. (Gambari 1997, p.23-27;Guidi 1988, p.3-33;Otte 2007, p.26-32)

Ma è soprattutto con l’Illuminismo che ebbe inizio lo studio scientifico dei reperti preistorici, anche se la nascita e lo sviluppo della “scienza preistorica”, intesa in

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senso moderno, si ha soltanto a partire dagli inizi del XIX secolo. Nel 1833 fu utilizzato per la prima volta il termine “preistoria” dal francese P. Turnal in una

pubblicazione sui risultati degli scavi nella grotta di Bize (Gambari 1997, p.23-27)

ma la vera innovazione nella storia della Paletnologia fu compiuta nel 1836 dallo studioso danese C.J. Thomsen.

Egli propose una sequenza cronologica, la cosidetta “teoria delle tre età”, in base alla quale i manufatti antichi potevano essere suddivisi in età della pietra, età del ferro ed età del bronzo. Nel corso dell’ Ottocento questa classificazione fu migliorata ed ampliata.

J. Lubbock, divise l’ età della pietra in due grandi periodi: il Paleolitico o Antica Età della pietra (fase antica con strumenti di selce scheggiata) ed il Neolitico o Nuova Età della pietra (fase recente con strumenti di pietra levigata e comparsa della ceramica). Si capì inoltre che durante il Neolitico era stata introdotta l’agricoltura dal Vicino Oriente e che esso è separato dal Paleolitico da un periodo più o meno lungo chiamato Mesolitico. Anche l’età del ferro fu ulteriormente suddivisa in Antica o età di Hallstatt e Recente o età di La Tène e tra l’età del bronzo ed il neolitico fu inserita l’età del rame. Tali suddivisioni, applicabili all’Europa, sono importanti in quanto si è capito che, classificando in maniera sistematica i reperti in una griglia cronologica, era possibile creare una sequenza di riferimento per lo studio dei manufatti preistorici. Da ricordare sono inoltre le ricerche condotte dal francese Jacques Boucher de Perthes (1788-1868) fin dal 1825. Egli raccolse numerosi resti di animali estinti in associazione con reperti in pietra scheggiata. I suoi studi (1841) dimostrarono l’alta antichità dell’uomo, facendolo risalire ad un passato molto remoto, addirittura prima del diluvio universale.

Dal 1865, con la pubblicazione dell’opera “Prehistoric Times” di J. Lubbock, il termine “preistoria” entrò definitivamente a far parte delle parole di uso comune (Guidi 1988, p.3-33;Renfrew, Bahn 2006, p.12-33).

Nella nostra Penisola gli studi paletnologici si sviluppano soltanto dopo il 1860, a partire dall’unità d’Italia, anche se già da tempo erano noti ritrovamenti di sepolture dell’età del ferro e di abitati dell’età del bronzo. Nel 1843 e nel 1850 furono pubblicate da S. Marchetti e da G. Scarabelli descrizioni di raccolte di manufatti litici preistorici (Guidi 1988, p.3-33).

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Tra gli studiosi che contribuirono allo sviluppo degli studi preistorici nel XIX secolo, vanno ricordati Luigi Pigorini ed il geologo piemontese Bartolomeo Gastaldi, importante per lo studio dei manufatti in pietra verde.

Luigi Pigorini (1842-1925) è considerato il padre della moderna paletnologia italiana. Nel 1875 fondò con il naturalista P. Strobel e l’ archeologo G. Chierici il “Bullettino di Paletnologia Italiana”, rivista di riferimento per gli studiosi italiani ed europei. Entrò nella Direzione Generale dei Musei e degli Scavi d’Antichità del Regno a Roma ed occupò la cattedra di paletnologia presso l’università di Roma. A lui si deve inoltre l’istituzione del Museo Preistorico ed Etnografico di Roma che oggi porta il suo nome. Il museo fu concepito come un centro di studio dove era possibile raccogliere reperti preistorici italiani ed europei e compararli con i manufatti delle società definite primitive dell’Africa, dell’America e dell’ Oceania. Bartolomeo Gastaldi (1818-1879) fu il primo a studiare il contesto ambientale e culturale nel quale venivano prodotti i manufatti in pietra levigata e a cercare di capire l’origine delle rocce utilizzate; ebbe anche il merito di creare a Torino una raccolta che potesse essere utilizzata come punto di partenza per gli studi su

questimanufatti litici. Dopo la sua morte gli studi continuarono grazie ai suoi allievi

tra cui l’ingegnere minerario G.B. Traverso che si dedicò alla ricerca e all’analisi di reperti preistorici tra cui manufatti finiti e semilavorati in pietra verde, costituendo una grande collezione che entrò a far parte del Museo preistorico-etnografico Pigorini a Roma. Un altro allievo, il geologo S. Franchi riuscì agli inizi del XX secolo a localizzare nelle Alpi occidentali e nell’Appennino ligure gli affioramenti primari delle rocce utilizzate nella produzione dei reperti litici piemontesi.

Nonostante fosse stata oramai finalmente capita l’origine umana di questi oggetti, si continuò a raccogliere le “cerauniae” fino alla metà del Novecento: in Francia ad esempio i contadini mettevano una pietra levigata nelle fondamenta delle case per proteggerle dai fulmini o da altre disgrazie; pastori e marinai usavano le accette in pietra per proteggere le greggi e le navi.

In Italia, dopo un forte temporale, i bambini uscivano a cercare se alla base degli alberi colpiti dai fulmini ci fossero oggetti litici da portare a casa: nel meridione le punte di freccia e le accettine levigate erano conservate come talismani e forate (fig.6) per essere appese al collo e nel Piemonte meridionale le accette venivano

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invece usate come coti per affilare gli arnesi da lavoro ed erano chiamate pietre del tuono, cote del fulmine o folgorine.

Tutt' oggi nella provincia di Cuneo si trovano toponimi dialettali come pere del trun e cou del losn legati alla tradizione delle cerauniae. Termini simili o con il medesimo significato sono diffusi in altre regioni italiane, in Sardegna “piedra de lu

trono”, in Liguria “prie du trun”3 e in Calabria “cugni de lampo”.

Numerosi sono anche i paesi in Europa4, in Asia e in Africa in cui sono diffuse le

credenze sulle ceraunie.

FIG.6: Asce levigate con foro di sospensione (da Mano 1997)

Nel Novecento le due Guerre mondiali causarono l’interruzione delle ricerche

(Pétrequin et alii 2006, p.630-639) sulle pietre verdi che ripresero in modo sistematico negli anni ‘50 e ’60 grazie all’opera di geologi inglesi interessati soprattutto all’analisi delle rocce con cui erano realizzati i manufatti, lasciando in secondo piano lo studio del contesto archeologico di provenienza.

Grazie agli studi archeometrici condotti, si è capito che i manufatti litici rinvenuti nei siti preistorici piemontesi sono costituiti nella maggior parte dei casi da ofioliti (pietre verdi) affioranti nella Zona Piemontese interna (Chiari G., Compagnoni R., Giustetto R., Rricq De Bouard M., 1997, p.35-56)

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Le accette erano messe come portafortuna nelle fessure dei muri o vicino alle finestre a protezione dei vigneti dalle tempeste e per scacciare il malocchio.

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Negli ultimi decenni sono stati editi in Italia ed in Francia importanti lavori di classificazione (Courtin, Gutherz 1976, p.352-369; Tanda 1977, p.111-155; Auxiette 1989, p.13-64); una delle pubblicazioni italiane più recenti da ricordare è la monografia del 1997 “Le vie della pietra verde” (a cura di M. Venturino Gambari) in cui non viene data importanza soltanto alla divisione tipologica dei manufatti in ofiolite ma, si tiene conto anche di altri aspetti quali la materia prima e la sua provenienza ed i metodi di lavorazione. Importanti sono inoltre gli studi compiuti in Francia da P. e A.M. Petréquin sulle asce in pietra verde e sui confronti etnografici con popolazioni che ancora oggi utilizzano in Nuova Guinea strumenti in pietra levigata.

Gli studi etno-archeologici continuano ancora oggi avvalendosi della collaborazione di ricercatori di varie discipline come la geologia e l’ archeologia preistorica con lo scopo di trovare i giacimenti primari sfruttati durante il Neolitico, capire meglio il processo di lavorazione delle pietre verdi, le modalità di reperimento della materia prima e provare l’esistenza di accampamenti temporanei di alta quota (vicini agli affioramenti primari) in cui venivano lavorati o abbozzati i manufatti litici.

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