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6 0.1. Le parole per i numeri Introduzione

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Introduzione

0.1. Le parole per i numeri

Esiste un problema di ordine filosofico: stabilire che cosa sia un numero.Ed è una questione meno banale di quel che sembri. Per mia fortuna, questa è una tesi in Linguistica e non in Filosofia: ecco perché si occuperà, più che dei numeri in quanto concetti, dei numerali in quanto elementi della lingua. Infatti, qualunque cosa siano i numeri, i numerali ne costituiscono l’aspetto linguistico, sono cioè le parole con le quali li chiamiamo.

Oggi viene riconosciuto che all’interno del lessico di una lingua essi costituiscono un settore autonomo, con caratteristiche specifiche. Tuttavia i numerali hanno dovuto conquistarsi la propria demarcazione con una certa “lotta di classe” (grammaticale, s’intende). Non è raro, sfogliando qualche grammatica antica o moderna, leggere che i numerali “sono aggettivi”. In effetti dal punto di vista (morfo)sintattico essi non si individuano come classe autonoma, ma condividono i comportamenti tipici di altre parti del discorso, in particolare aggettivi e sostantivi. Comunque sia, che si comportino in

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maniera simile a aggettivi o sostantivi, essi non sono né gli uni né gli altri. Si possono invocare almeno due prove a sostegno di questo. Prima di tutto, i numerali considerati aggettivi non hanno, a differenza di questi ultimi, la categoria del grado. E poi, mentre in belle ragazze l’aggettivo “belle” predica una qualità vera per ciascuna delle entità cui si riferisce, in due ragazze il numerale “due” indica una caratteristica dell’insieme, ma non qualcosa di predicabile per ciascuno degli elementi: una sola ragazza può essere bella ma non può “essere due” (cfr. Menninger 1969: 11).

Dunque l’individuazione dei numerali come classe autonoma si fonda su criteri semantici: sono tali perché significano un numero. A loro volta, possono essere suddivisi al loro interno in sottogruppi, ancora su base semantica (sebbene questi sottogruppi si differenzino poi anche nella morfosintassi); la più classica delle suddivisioni è quella tra numerali cardinali e ordinali (su cardinalità e ordinalità si veda avanti, §1.6). Se tutto questo è vero, è pur vero che in semantica non esistono campi assoluti e chiusi. Quello dei numeri può essere visto come un sottoinsieme del campo semantico della quantità. Quindi i parenti più stretti dei numerali sono i quantificatori, di cui questo studio non si occupa. Meglio allora chiarire subito la differenza tra numerazione e quantificazione:

[…] per quantificazione si intende la totalità delle pratiche e convenzioni che permettono in una data cultura la gestione delle quantità, includendo le misurazioni di quantità, dimensioni, tempo, etc.; per numerazione invece si intende l’utilizzazione di una sequenza continua di etichette con valore numerico, nata essenzialmente per la determinazione della numerosità di insiemi di oggetti. Si può dire che la numerazione rientra nella fenomenologia globale della quantificazione, ma in una posizione gerarchica particolare, per così dire trasversale rispetto ai vari moduli quantificativi. (Pannain 1993: 282)

È bene chiarire che questa distinzione è, per così dire, epistemologica, o perlomeno riguarda lo stato di cose attuale; dal punto di vista storico-evolutivo invece si può ipotizzare una fase remota in cui i confini tra i moduli della quantificazione e della numerazione non erano così netti. Molte lingue del mondo, pur avendo sviluppato sistemi numerali completi, recano tracce di uno stadio più antico caratterizzato da un’aritmetica approssimativa, uno

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stadio, cioè, in cui le parole indicavano quantità approssimative più che i numeri in senso pieno.

I numerali, per loro stessa natura, sono oggetto di interesse da molti punti di vista. In una dimensione storica e antropologica essi costituiscono un risultato di grandissima portata in termini di progresso umano. L’Homo sapiens dispone, nel vasto ambito del numero/quantità, di alcune abilità cognitive che vengono riconosciute come innate (v. §§1.1, 1.2, 1.12). Se da un lato esiste questa dotazione naturale, dall’altro “dare dei nomi” ai numeri è un processo tutt’altro che spontaneo o scontato. Ci sono ad esempio lingue australiane che non dispongono di un sistema numerale (cfr. Dixon 1980). Molte altre ne hanno uno, ma ridotto a pochissimi elementi. Un caso, che ha avuto peraltro una certa eco nella stampa internazionale, è quello descritto dal linguista-antropologo Daniel L. Everett in merito alla popolazione amazzonica dei Pirahã, i quali farebbero fatica a contare numeri superiori a pochissime unità (cfr. Everett 1986, 2005). In uno degli articoli divulgativi comparsi in Italia1 si spiegava ai lettori che i Pirahã non possiedono parole

per indicare i numeri (se non pochissime) perché semplicemente “nella loro vita l’astrazione e la quantificazione non sono utili”, vivendo da epoca immemorabile in condizioni di vita primitive. Per loro l’assenza di un sistema numerale si spiegherebbe in termini di economia linguistica: sarebbe semplicemente inutile lessicalizzare concetti tanto lontani dalla loro vita pratica quanto quelli, mettiamo, della telefonia o dell’automobilismo.

Senza voler prendere parte alla discussione, ho richiamato questo esempio per ricordare che la costruzione di un sistema numerale in una lingua non è un fatto obbligatorio (non è un universale linguistico, cfr. Hurford 1987: 68-78) ed è determinato, nella sua genesi e nel suo sviluppo storico, da molti fattori contingenti.

Sanga (1997: 34) afferma che “lo sviluppo del linguaggio appare come un processo di progressiva distinzione, di specificazione e separazione di un tratto discreto da un insieme caotico”. Possiamo leggere all’interno di questa dinamica l’individuazione e creazione dei singoli concetti numerici, il loro “battesimo” per mezzo dei numerali e la strutturazione dei loro sistemi. Lo sviluppo di tali sistemi è strettamente legato a quello integrale della comunità parlante. La facoltà del linguaggio permette, usando una felice

1 L’articolo di Paolo Sacconi “Piraha, il popolo che sa contare solo fino a due”,

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espressione di de Martino (1977: 96, cit. in Sanga 1997: 27), la “domesticazione del mondo” attraverso l’individuazione di nuclei concettuali e la conseguente attribuzione di forme linguistiche. Aggiungo però che il linguaggio fa di più: gli compete in certa misura la “creazione” del mondo. Lo studio dei numerali – visti come espressione del rapporto tra i distinti moduli cognitivi del linguaggio e del numero – metterà in luce questo potere (v. §1.12).

Se “creazione” e “domesticazione” sono parzialmente dovute all’innato spirito di conquista e controllo del mondo da parte dell’uomo, esse sono anche soggette a spinte esterne. È probabile infatti che in una società di raccoglitori o di allevatori il sistema di numerazione sia collegato alle esigenze pratiche di controllo di quelle specifiche realtà. Si può supporre che le necessità di conteggio di una società preindustriale e isolata siano ridotte rispetto a quelle della nostra. Una società primitiva potrebbe in linea di principio essere esposta a un contesto in cui le necessità basilari per la sopravvivenza prevedono l’individuazione di poche unità numeriche di base. Se ne ha una testimonianza interessante in un articolo di Comrie (1999) a proposito degli Haruai della Papua Nuova Guinea. Questa popolazione dispone infatti di tre sistemi numerali, collocabili in ordine cronologico. Il primo sistema possiede soltanto due elementi, il numero 1 e 2.2 Il secondo sistema, basato sulle parti

del corpo, ne possiede una trentina; il terzo infine è il sistema del tok pisin, il pidgin a base inglese che fa da lingua franca in buona parte della Papua Nuova Guinea. Quest’ultimo ha introdotto, almeno potenzialmente, tutti i numeri come in inglese. Dunque seguiamo, lungo le fasi storiche di questa popolazione, l’affermarsi di modi di vita e di condizioni diverse, accompagnate dalla necessità di disporre di un sistema di numerali sempre più esaustivo.

È evidente che nella nostra società industrializzata e altamente specializzata lo sviluppo tecnologico ha alimentato e continua ad alimentare la necessità di numeri molto grandi e molto piccoli, multipli e sottomultipli, ecc. La millenaria riflessione matematica accompagna, in maniera anche indipendente dai condizionamenti pratici, questo sviluppo: numeri naturali, interi, razionali, naturali, ecc.

2 Anche in questo caso la motivazione di un così ridotto repertorio numerico viene

ricondotta alle condizioni di vita della comunità: “The earliest, abstract native system, operates efficiently only for the very lowest numerals […] This fits in with the world described in Haruai traditional stories, in which numerals above ‘two’ rarely if ever occur: there are stories about two brothers, but no analogues of seven dwarfs or forty thieves.” (ibid.: 85).

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Basta accostarsi appena all’argomento per rendersi conto che i numeri e i sistemi numerali possono essere studiati da molte prospettive. Si tratta, a mio avviso, di uno dei migliori esempi di aspetti della realtà al confine tra molti ambiti di ricerca. Lo dimostra da un lato la varietà di approcci con cui ci si è accostati ad essi (filosofico, matematico, antropologico, storico, linguistico, psicologico, ecc.), dall’altro il fatto che siano stati spesso esclusi da varie ricerche proprio perché collocabili alla periferia di ciascun campo. Ma è forse proprio in questo loro essere “di frontiera” il segreto del fascino che i sistemi numerali serbano per chi vi si accosti, come esprime efficacemente Hurford (1987: 4):

Areas where intellectual domains border on each other are of great importance. They can provide windows through which the central doctrines of any one domain may be viewed from the perspective of another. For the scholar, work in such area is something of high-risk enterprise, because understanding of concepts from more than one discipline is required.

Per sgombrare il campo da equivoci, si dirà che in linguistica esiste un particolare approccio allo studio del numero, considerato come categoria grammaticale (flessionale) allo stesso modo del genere, del caso, della persona, ecc. Un esempio calzante per questo tipo di studio è il volume di G.G. Corbett, Number (Cambridge Univ. Press, 2000). Secondo una possibile e approssimativa distinzione lessico vs. grammatica, i numerali – essendo elementi lessicali – non sono di particolare interesse in quest’ultimo approccio.

È bene dunque chiarire subito che in questo studio l’attenzione non sarà tanto per il numero come categoria grammaticale, quanto per i numerali come classe lessicale (con specificità grammaticali).

Una breve digressione, utile a chiarire l’impostazione teorica generale qui adottata: in entrambi i casi di cui sopra, il punto di partenza è la categoria naturale del numero, ovvero il fatto che nella realtà esiste un’opposizione tra un oggetto, due oggetti, ecc. e che la mente umana è capace di percepirla. La categoria grammaticale del numero codifica questa opposizione della realtà attraverso opposizioni linguistiche quali singolare, plurale, duale, triale, paucale. È evidente che categorie naturali e categorie linguistiche non corrispondono se non approssimativamente: a fronte di una realtà in cui i

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numeri sono teoricamente infiniti, in italiano disponiamo di due soli numeri grammaticali (singolare, plurale). I numerali, invece, sono strutturati in modo tale da annodare in una più stretta corrispondenza lingua e realtà: teoricamente in un sistema numerale pienamente sviluppato esistono parole infinite per infiniti numeri. Certamente questa ricchezza non è affidata al solo repertorio lessicale (sarebbe impossibile per i parlanti imparare infinite parole diverse!) ma anche e soprattutto ai meccanismi sintattici e ricorsivi della lingua, i quali permettono la costruzione di forme infinite a partire da un ristretto repertorio di base.

Alla luce di questo, si noterà che l’approccio teorico qui proposto permette di ridurre le distanze tra i due modi di intendere il numero: in entrambi i casi il nucleo di partenza è un aspetto della realtà naturale al quale la lingua si trova a far fronte con mezzi linguistici ora flessivi – singolare, plurale, ecc. – ora lessicali – “uno”, “due”, ecc. Come argomenterò più avanti (§1.12), ritengo che al numero non si possa negare un’esistenza extralinguistica, che prescinde dalla capacità dell’uomo di percepirlo, di chiamarlo in qualche modo, di contarlo, di utilizzarlo. Per fortuna, l’uomo è poi anche capace di percepirlo e comprenderlo, e in questo del resto non è solo: la vasta letteratura al proposito mostra che anche alcuni animali sanno distinguere le opposizioni elementari tra uno e due, tra il singolo e il molteplice. Le popolazioni umane che hanno un ristretto repertorio di lessico numerale non sono affatto incapaci di comprendere che nella realtà i numeri non finiscono laddove finiscono le loro parole.

Tuttavia si deve fare una precisazione: se la priorità ontologica va alla realtà extralinguistica del numero, non significa che la lingua sia soltanto un insieme di segni che si sforzano di “mimare” la realtà o di costringerla in strutture grammaticali (peraltro sempre perdenti rispetto a quelle naturali). Credo invece che il linguaggio sia anche uno strumento attivo e fondamentale per conoscere la realtà stessa. Si vedrà che proprio nei numerali convivono queste due funzioni della lingua: se in certi casi una realtà percepita e conosciuta prelinguisticamente è codificata dalle “parole per i numeri”, in certi altri sono queste ultime che ci permettono di raggiungere e conoscere concetti altrimenti inaccessibili all’intuizione e alla percezione. In tali casi si

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fa massimamente vera l’idea saussuriana che “niente è distinto prima dell’apparizione della lingua”.3

Sempre come chiarimento sull’impostazione teorica generale del lavoro, voglio introdurre il concetto di trasparenza, da declinare in due modi: trasparenza semantica e di struttura. La trasparenza semantica permette di risalire al significato originario dei singoli numerali, la trasparenza di struttura rivela il modello di riferimento dell’intero sistema (che spesso, come vedremo, è quello corporeo). Quando la semantica originaria di una forma numerale è opaca, la si può indagare attraverso l’etimologia; per la struttura invece si osserva principalmente la base (o le basi, v. §1.9) e il riproporsi ciclico di modelli morfologici. In questo lavoro si mostrerà che per l’analisi strutturale dell’intero sistema, sia in prospettiva sincronica che diacronica, un altro parametro molto utile è il comportamento sintattico del numerale nel sintagma NUM.-SOST.

Tra i due tipi di trasparenza, quella strutturale è a tenuta più lunga. Infatti si danno casi di lingue con struttura chiara e forme semanticamente opache, ma non viceversa. Le lingue indoeuropee ne sono un esempio evidente. La cosa è comprensibile:

[…] it happens that the etymology of the linguistic forms is buried in the darkness of prehistory, while the structural characteristics on which these forms are built are still recoverable. (Heine 1997: 32)

È evidente che lo studio etimologico delle forme numerali presuppone l’idea di fondo che esse abbiano origine da qualche referente, ovvero che siano motivate. Ferdinand de Saussure (1922: 181) invece faceva rientrare i numerali tra le forme completamente (p. es. vingt) o relativamente (p. es. dix-neuf) immotivate. C’è da credere che Saussure sia stato spinto verso questa posizione dall’opacità semantica dei numerali indoeuropei.

L’ipotesi che invece qui adotto, in accordo con Heine (1997), è che in generale i numerali siano motivati sia strutturalmente che semanticamente. La presenza di una struttura basata su qualche modello implica la motivazione delle singole forme.

A sostegno di questa ipotesi vi sono dati di vario tipo. Da un lato i riscontri tipologici nelle lingue del mondo mostrano che la motivazione è la norma,

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mentre sarebbe da dimostrare l’arbitrarietà; questa, però, non può essere dimostrata in negativo, cioè per mancanza di trasparenza semantica, dal momento che l’etimologia può opacizzarsi nel tempo. Dall’altro lato la storia del numero e dei numerali, come si vedrà nel Capitolo 1, è un intreccio di vicende concrete, pratiche legate a oggetti, supporti, strumenti materiali grazie ai quali, nei millenni, l’uomo ha preso sempre più confidenza con il numero ed è arrivato a formalizzarlo in maniera astratta e operativa.

0.2. I numerali in linguistica: breve storia

Sin dagli albori della moderna scienza linguistica, i numerali hanno costituito un settore particolarmente interessante per la comparazione, in grado di indicare legami genealogici tra le lingue. Alla fine del XVIII secolo, sir William Jones – giudice inglese attivo a Calcutta per la East India Company, orientalista e glottologo ante litteram – riportava tra i vari esempi le parole sanscrite sapta e nava come chiari indizi di una comune origine tra sanscrito, latino e greco, ritenendo impossibile la casuale somiglianza con septem, novem, επτά, εννέα. Ad ogni modo il fiorentino Filippo Sassetti, uno che era stato in India duecento anni prima di William Jones, aveva già notato la somiglianza di parole sanscrite e italiane, tra cui i numerali. E forse non tutti sanno che nella storia della lingua lituana vi fu, nel Cinquecento, un periodo “latinizzante” durante il quale vari umanisti proposero dimostrazioni della parentela fra latino e lituano. Principale esponente di questo movimento fu Michalo Lituanus, autore di un Tractatus nel quale, a dimostrazione della “semilatinità” della lingua lituana, proponeva una serie di parole simili; tra queste ben otto numerali (cfr. Dini 1997: 309-312). Del resto ancora oggi nei corsi e nei manuali di linguistica storica si ricorre spesso all’esempio dei numerali, i quali conservano somiglianze sorprendenti anche nelle lingue moderne: basti come esempio it. tre, sp. tres, port. três, ted. drei, oland. drie, dan. tre, ingl. three, rus. три, pol. trzy, ceco i, lit. trys, lett. trīs, ecc. È naturale pertanto ritenere i numerali elementi particolarmente conservativi e antichi, da ascrivere al repertorio lessicale della fase comune indoeuropea.

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4 Tuttavia oggi alcuni studiosi ritengono che solo i numerali più bassi si possano

attribuire ad una fase comune, mentre gli altri sarebbero sorti dopo la disgregazione dialettale (cfr. Winter 1992, Lehmann 1993).

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Alla luce di questo, un primo interesse della linguistica verso i numerali fu determinato dalla loro conservatività. Grazie all’arcaicità attribuibile alle loro forme, essi furono un terreno privilegiato di indagine durante tutto il XIX secolo, allorché si indagavano le parentele tra le lingue e si cercava di individuare le leggi fonetiche delle singole famiglie linguistiche. La prospettiva di indagine era naturalmente quella dell’approfondimento diacronico attraverso gli strumenti della morfologia e della fonologia storica (per citare un esempio, si veda Benfey 1876 sulla ricostruzione del numero 2). Tuttavia i numerali, più che in maniera esclusiva, venivano indagati in questo periodo all’interno di opere generali sulle strutture delle lingue. Ne è un esempio il Compendium der vergleichenden grammatik der

indogermanischen sprachen di A.Schleicher (1861-62), con una sezione

dedicata ai numerali, o il contributo di K.Brugmann Die Bildung der Zehner und der Hunderter in den indogermanischen Sprachen all’interno della più ampia opera Morphologische Untersuchungen auf dem Gebiete der indogermanischen Sprachen, scritta insieme a H.Osthoff e pubblicata nel 1890.

In quello stesso anno anche J.Schmidt intervenne sul tema con Die Uhrheimat der Indogermanen und das europäische Zahlsystem. Si nota così che sul finire del secolo l’attenzione per i numerali non era più soltanto rivolta alle singole forme. Almeno dalla metà del secolo5 infatti si era venuto

affermando all’attenzione scientifica il concetto di sistema numerale, grazie al quale si passò dall’analisi delle singole forme a quella degli interi sistemi numerali, indagandone le caratteristiche, la strutturazione, la distribuzione, la diffusione.

I due filoni di indagine (analisi diacronica delle singole forme e studio di sistema) hanno mostrato la loro fecondità per tutto il Novecento, continuando a ispirare studi, articoli, interventi. Nel XX secolo però la ricerca non si è limitata a questo, ma ha anche introdotto grandi novità. Prima di tutto, l’abbattimento del tipico “indoeuropeocentrismo” degli inizi.6

L’interessamento verso lingue non indoeuropee ha portato frutto anche nell’indagine sui sistemi numerali, introducendo nella discussione materiale

5 Cfr. ad es. Pott 1849.

6 Ciò sia inteso con tutte le riserve del caso: il panorama ottocentesco è infatti ricco di

eccezioni e non si deve sminuire l’impegno di molti eruditi anche al di fuori delle lingue indoeuropee. Esemplare il caso di W.von Humboldt, il quale si interessò alla lingua Kawi dell’isola di Giava.

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nuovo. Negli ultimi decenni dunque l’attenzione per questo settore della lingua è cresciuto moltissimo. Ad oggi la letteratura sui numerali è sterminata; per rendersene conto sono utili i due saggi di bibliografie sui numerali di Pannain 1998 e Manco 2000. Soltanto nel decennio 1990-99 preso in considerazione da Manco si contano 351 contributi. Oltre a tutto questo, ogni grammatica descrittiva di qualunque lingua contiene una sezione dedicata ad essi.

L’ampliamento di orizzonte determinato dall’entrata in gioco di lingue “esotiche” ha dato sempre più forza a un tipo di indagine linguistica ricca di sviluppi per tutto il Novecento, quella tipologica.7 Questo approccio è molto

fecondo ancora oggi: i numerali vengono studiati soprattutto come sistema, la comparazione e tipologizzazione avviene sulla base dei diversi modelli ravvisabili nelle lingue del mondo. Questi studi, che nascono dalla frequentazione pratica di molte lingue, finiscono per fornire un apparato teorico induttivo basato su regolarità più o meno universali. Figure di riferimento in questo caso sono J.Greenberg e G.G.Corbett. Altri contributi molto preziosi in questa direzione sono rappresentati dal volume curato da J.Gvozdanović (1992), contenente una raccolta di articoli dedicati ai numerali di diverse famiglie linguistiche, e dal progetto di studio sui numerali portato avanti dal Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico dell’Università “L’Orientale” di Napoli, concretizzatosi nel volume n. 17 di AIΩN (1997). Quest’ultimo, più che come studio tipologico vero e proprio, si propone come una raccolta miscellanea di contributi sul tema dei numerali in varie famiglie linguistiche.

Al confine tra linguistica e psicologia, troviamo poi gli studi cognitivisti concentrati sul rapporto tra pensiero e lingua. Anche questo filone, molto fecondo a partire dal secolo scorso, ha prodotto una mole di risultati utili per intuire quali siano i modi, i tempi e i processi di apprendimento dei concetti numerici e degli elementi linguistici ad essi collegati. La letteratura in questo ambito è amplissima (v. §1.10, nota 28); qui si è fatto riferimento in modo particolare a Hurford 1975, 1987, Heine 1997, Wiese 2003, 2007.

Ci sono poi molti altri contributi che, pur non rientrando nella ricerca linguistica in senso stretto, sono utili per la comprensione globale della

7 Gli esordi degli studi tipologici vanno invece collocati ben più addietro, almeno nei

primi decenni dell’Ottocento. Come è noto, studiosi quali F.Schlegel, A.W.Schlegel e il già citato W.von Humboldt proponevano a quest’epoca suddivisioni per “tipi” di lingue sulla base della struttura morfologica.

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“questione del numero” in rapporto alla lingua. Ad esempio ricostruzioni della storia del numero e del suo emergere nelle società (cfr. Menninger 1969), storie del calcolo e dei suoi strumenti (cfr. Dantzig 1959, Ifrah 1985), fondamenti del pensiero matematico antico (cfr. Bartocci & Oddifreddi 2007), lavori di etnomatematica (cfr. Ascher 1991, Saxe 1981, Esmonde & Saxe 2004), ecc.

Nella varietà e ricchezza di studi in questo campo, un limite della ricerca attuale, a mio avviso, consiste nella scarsa compenetrazione dei diversi contributi; per averne conferma basterà sfogliare le bibliografie di molti di questi lavori, in cui raramente vengono citate ricerche prodotte in ambiti diversi dal proprio.

Per questo motivo ho ritenuto utile strutturare il lavoro nel seguente modo. Dapprima si tenterà di ripercorrere una storia “unitaria” del numero (Capitolo 1), capace di tener conto dei risultati raggiunti nei diversi campi. Questo permetterà di mettere in luce qual è il versante linguistico dell’indagine sul numero, cioè chiarire il rapporto tra lo studio generale del numero e quello specifico dei numerali.

Il Capitolo 1 condurrà alla materia principale della tesi: i numerali delle lingue baltiche, che verranno prima presentati (Capitolo 2) e poi studiati (Capitolo 3). Le lingue prese in considerazione sono il lituano antico e moderno, il lettone antico e moderno, il prussiano antico. A fronte della vasta letteratura prodotta sui numerali di molte lingue, la linguistica baltica ha fino ad oggi dedicato relativamente poco spazio a questo tema. In ambito baltico si trovano pochissimi studi specifici, mentre il grosso delle informazioni si può trarre da manuali e lavori di più ampio respiro, quali le grammatiche storiche (che invece non mancano). Laddove la linguistica baltica si è soffermata sui numerali, l’ha fatto quasi sempre ed esclusivamente per analizzarne le forme in prospettiva comparativa indoeuropea.

Io ho scelto di approfondire l’indagine su delle piste meno battute, in particolare soffermandomi sul comportamento sintattico dei numerali nel sintagma NUM.-SOST. Prima di tutto questo non era mai stato fatto, e poi – come spero emergerà chiaramente nel lavoro – questo aspetto, osservato in prospettiva storica, suggerisce notevoli connessioni con la storia generale del numero e con quello che ipotizzo essere stato l’antico sistema indoeuropeo.

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Prima delle Conclusioni, si troverà una Appendice al Capitolo 3, dove si è intrapresa un’ulteriore prospettiva di analisi, quella computazionale sulla frequenza d’uso. Si tratta anche in questo caso di un tipo di indagine nuova (almeno per le lingue baltiche) che sembra confermare le relazioni tra la salienza psicologica di alcuni punti del sistema rispetto ad altri, la frequenza con cui questi vengono impiegati nella lingua, il loro comportamento sintattico, le ipotesi sulla loro remota origine referenziale.

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