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PAESAGGI IN ROVINApost-produzione di un paesaggio industriale nel sud della Sardegna CAMPO di segni

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Academic year: 2021

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C A M P O d i s e g n i

PA E S A G G I I N R O V I N A

p o s t - p r o d u z i o n e d i u n p a e s a g g i o i n d u s t r i a l e n e l s u d d e l l a S a r d e g n a

Politecnico di Milano, Scuola di Architettura e Società Laurea Magistrale in Architettura

tesi di

Federica Rasenti 798672

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Politecnico di Milano, Scuola di Architettura e Società Laurea Magistrale in Architettura

tesi di

Federica Rasenti 798672

relatore

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Abstract. 7

Costruzione della forma del territorio. 11 Cartoline da un’appendice incerta dell’Italia. 19

Ruinenlust. 31 Rovine al contrario. 37

Post-produzione di un paesaggio industriale. 45

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una costellazione di architetture industriali che contribuiscono a dare forma al paesaggio, luoghi della memoria collettiva, macerie, che nella dissoluzione del nesso tra funzione e forma possono essere rilette attribuendogli un valore artistico-architettonico, alla luce del quale si può ritrovare un nuovo rapporto con questi stessi luoghi. Queste opere che si impongono prepotentemente sul paesaggio, sono diventate obsolete e superate da tutti i punti di vista, ma elevandole al rango di rovina, si può in un qualche modo rafforzare ulteriormente la loro presenza sul paesaggio, legandole alla memoria condivisa e ad un processo di riappropriazione, necessario per evitare che queste strutture occupino e modellino il paesaggio senza avere un ruolo attivo sul territorio. Dalla rovina, intorno alla sua immagine iconica, si indaga la possibilità di uno spazio pubblico condiviso e collettivo per la comunità, al di fuori dai limiti della città. Il percorso di ricerca che ho deciso di seguiure per la formulazione del progetto di tesi, parte da un’excursus sulle diverse interpretazioni e rappresentazioni della rovina architettonica. Questo studio mi ha portato ad individuare nella rovina, che sia essa dell’antichità o

appartenente al più recente passato industriale, non solo un’icona o un’immagine suggestiva, ma un’esperienza estetica soggettiva, che ci lega al tempo, al paesaggio e alla memoria. In funzione di questo, nel mio progetto, , le emergenze architettoniche industriali vengono lasciate inalterate, soggette come sono alla Nella definizione di territorio data da André

Corboz, territorio come palinsesto (1), il

territorio deve essere letto alla luce delle tracce del passato e come il prodotto delle lentissime stratificazioni che si sono succedute nel corso del tempo. La doppia manifestazione di ambiente segnato dall’uomo da un lato e di luogo di relazione psichica privilegiata con la natura, fa si che sia un’ entità molto complessa da analizzare. Il territorio sud occidentale della Sardegna, che solo dieci anni fa ha assunto una sua autonomia politica, con l’istituzione della provincia Carbonia-Iglesias, porta i segni dell’attività dell’uomo sul suo territorio nel corso dei secoli. Le tracce della storia mineraria che ha segnato la vita della regione a partire dall’età nuragica fino quasi ai giorni nostri, hanno dato luogo a vere e proprie rovine contemporanee. Diverse crisi del settore si sono verificate nei secoli, fino a quella decisiva, che nei primi anni ‘90 ha portato alla cessazione di tutte le attività, facendo sprofonadare l’area del Sulcis-Iglesiente al rango di provincia più povera d’Italia. La smobilitazione della Sardegna mineraria, porta non solo ad un tasso mai raggiunto di disoccupazione, con il conseguente tracollo delle comunità cittadine, ma anche ad uno stato di totale abbandono e disamore nei confronti di quel territorio che per anni aveva ospitato l’apparato industriale e economico dell’intera provincia.

Il territorio del Sulcis, è rimasto portatore di una serie di valori culturali, identificati oggi in

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progressiva azione di modificazione e al

dialogo con la natura e con il tempo. Lo spazio privilegiato di intervento sarà invece il luogo “tra” questi elementi iconici, con la creazione di nuove dinamiche di attraversamento e percezione dello spazio, per una parziale riconfigurazione del territorio del Sulcis. Questo processo di riconfigurazione passa attraverso la valorizzazione del patrimonio di questi paesaggi dal fascino decadente, con la costruzione di una serie di visuali privilegiate sulle stesso, ottenute attraverso il progetto di dispositivi spaziali, all’interno dei siti dominati dagli scheletri delle architetture industruali, che possono aiutarci a eleborare una nuova lettura del territorio, e a creare nuove forme di percezione e conoscenza dello stesso.

Per favorire queste dinamiche di

rappropriazione e fruizione del territorio, questi elementi devono assumera la forma di dispositivi spaziali semplici, operazioni di manipolazione del terreno, che lascino un alto livello di libertà. Elementi semplici per l’esplorazione spaziale e l’indagine del territorio che possono essere definite playscapes,

strutture che, nell’accezione di Isamu

Noguchi, si liberano di tanti gradi di vincolo per intervenire sul movimento nello spazio. Tramite questi nuovi segni architettonici che si sovrappongono a quelli già presenti e abbandonati sul territorio, si può sperimentare una diversa fruizione dello spazio. Il progetto prova a risolvere nel territorio del Sulcis il problema di relazione

tra le iconiche emergenze architettonche in decadimento e il paesaggio circostante, inserendo anche la possibilità di un vero spazio pubblico fondato sui resti di una

memoria condivisa, che passa per una modalità di appropriazione dello spazio nuova e

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C O S T R U Z I O N E

d e l l a f o r m a d e l

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(1) Sandro Roggio, C’è di mezzo il mare, Cuec, Cagliari, 2007, pag.19

(2) Giovanni Murgia, Giuseppe Mazzini e La Sardegna in Malta and Mazzini, Proceeding of history week, La Valletta, Simon Mercieca, 2007

(3) Alberto La Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, vol.3, tipografia A.Alagna, Cagliari, 1874, pag.59 La Sardegna è speciale per la sua condizione

geografica.(1)

Giuseppe Mazzini, all’indomani dell’unità d’Italia la definiva ‘un’appendice molto incer-ta dell’Iincer-talia’(2). Nonostante un forte senso di

adesione al territorio da parte della comunità, questo è stato a più riprese trattato alla stregua di un giacimento disponibile per prelievi senza limitazioni. Le più grandi trasformazioni terri-toriali che nel corso degli ultimi secoli hanno caratterizzato l’isola sono da imputarsi a due fattori principali, gli insediamenti industriali e quelli turistici. Si può dire a ragion veduta che entrambi i processi di trasformazione territoria-le siano stati in qualche modo determinati da fattori esterni, la Sardegna ha subito gli effetti della modernità in uno stato

di inferiorità, a causa spesso della sua bassissi-ma densità insediativa, quindi un esiguo nume-ro di abitati per una porzione territoriale molto ampia. Entrambi i processi di modificazione territoriale si sono localizzati prevalentemente lungo le coste, che tradizionalmente fatta qual-che eccezione, erano rimaste intatte per secoli. Antiche e fondate diffidenze avevo tenuto gli insediamenti sardi lontanti dalla fascia costiera, dal mare erano arrivati gli invasori, le malattie, le terre esposte al vento salmastro erano diffi-cilmente raggiungibili e non erano giudicate adeguate nè per le coltivazioni,

nè per il pascolo.

Proprio lungo le coste invece per la maggiore facilità di trasporto verso l’esterno per quanto riguarda gli insediamenti industrilali e per l’ incontaminata bellezza delle spiagge in riferi-mento a quelli turistici, si è andata a delineare una nuova fase nelle trasformazioni del

territorio Sardo.

Questo è anche il caso del Sulcis-Iglesiente, dove i principali insediamenti minerari si sono localizzati non solo per l’abbondanza di mi-nerali e metalli nel sottosuolo ma anche per il più facile trasporto degli stessi verso l’esterno. Qui a differenza di altre zone, il consumo delle risorse territoriali, ha origini più antiche, anche se i segni più forti sul paesaggio sono quel-li lasciati a partire dalla fine dell’ ottocento, epoca in cui l’attività estrattiva si strutturata in maniera più coerente raggiungendo lo status di industria moderna.

Il circondario di Iglesias può dirsi un oceano metallifero.(3)

Per secoli, l’attività estrattiva nei territori del Sulcis-Iglesiente, ha rappresentato motivo di crescita e rimodellazione del territorio natu-rale. Si può dire che il paesaggio del Sulcis, sia stato definito e disegnato dalla sovrapposizione, in diversi momenti della sua storia, dell’archi-tettura e dei segni dello sfruttamento delle sue risorse minerarie. Oggi, alla luce delle scoperte archeologiche effettuate nell’isola, è interessan-te notare

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(4) Piero Bartoloni, Miniere e Metalli della Sardegna in età Fenicio-Punica, pag. 2

(5) Ibidem, pag. 15

(6) Salvatorico Serra, Un’antica civilità del futuro_Profilo storico del settore minerario sardo nella storia della Sardegna dalle origini ai nostri giorni,

pag. 66

Bizantina, si realizza in Sardegna una fase storica che non ha precedenti nè euguali in nessuno dei paesi del Mediterraneo, portando l’isola ad una soluzione politico-amministrativa in forma originale e autoctona, che si concretiz za con forme codificate di Autogoverno e di Autonomia attraverso la ripartizione dell’isola in quattro Giudicati, governati da figure di Magistrati che assumono il titolo di Judex et Re.(6) Durante questa fase storica le notizie

dell’attività mineraria non sono di grande rilievo, verossimilmente si presume che anche se con un’intensità diversa rispetto al passato, anche in quegli anni non sia stata del tutto abbandonata.

Uno dei maggiori meriti della successiva domi-nazione pisana sull’area del Sulcis, fu proprio quello di aver dato nuovo impulso all’attività di estrazione mineraria.

Tutto il territorio fu sottoposto a ricerca e sfruttamento intenso e sistematico facendolo crescere di importanza e di prestigio.(7) Durante

questa fase crebbe di importanza anche la città di Iglesias, al tempo conosciuta come Villa di Chiesa, la quale venne dotata di un ordina-mento amministrativo all’avanguardia per l’e-poca e da questo momento in poi la sua storia e il suo sviluppo è intimamento collegato con quello della storia mineraria nel Sulcis. Scam-pato miracolosamente all’incedio della città nel 1354, solo nell’ottocento è stato ritrovato un come i centri più antichi e spesso di maggiore

importanza fossero collocati nelle vicinanze anche immediate dei più impotanti giacimenti metalliferi.(2) Questa affermazione, è valida in

modo particolare a partire dagli insediamenti di età fenicio-punica. Se fino a quel momento in tutta l’isola l’attività estrattiva e le risorse metallifere naturali erano già state scoperte e utilizzate, con l’arrivo dei Fenici, la ricerca dei metalli divenne più strutturata e sistematica, tanto da portare alla costruzione, nelle prossi-mità dei giacimenti, di numerosi insediamenti, adibiti al controllo, alla produzione e al traffico dei prodotti. Sin da allora, vediamo comparire una tendenza che sarà poi comune a quasi tutte le epoche successive, infatti una volta superato l’interesse per un determinato filone metallife-ro, o con il progressivo esaurirsi di alcuni rap-porti commerciali, gli stessi insediamenti sono stati spesso dismessi e abbandonati. In età romana, nelle prossimità di Iglesias, divenne fa-mosa la località conosciuta allora come Metal-la, scelta dagli imperatori come luogo di esilio per i condannati ai lavori forzati nelle miniere. Le miniere della zona di Metalla erano ben note già in età nuragica a tal punto che, forse attorno al 1000 a.C., nel cuore del giacimento fu edificato un tempio dedicato al Sardus Pater, massima divinità nuragica.(4)

Alla caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) e la conseguente dominazione

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circondario di Iglesias, da un punto di vista normativo, non fossero soggetti a nessuna restrizione per lo sfruttamento delle risorse minerarie e la libertà di scavare fosse piena e assoluta. All’inizio del trecento è proprio dal Sulcis che incomincia l’avanzata della coro-na d’Aragocoro-na nei territori dell’isola. Sotto la dominazione spagnola, la Sardegna verrà totalmente infeudata e per quasi quattrocento anni, sistematicamente depredata. Le miniere come il resto del territorio saranno sottoposte a rapina con ingiustizie ed eccessi che vedranno vanificati tutti gli sforzi precedenti di un’ammi-nistrazione seppur sommaria del territorio. In seguito alle guerre di successione, nel 1720, dopo 396 sotto la corona d’Aragona, la Sar-degna sarà assegnata alla casa Savoia, e con il Pemonte, andrà a costituire il regno Sar-do-Piemontese. Dalla fine dell’800 quindi, si apre per l’isola un’epoca nuova e di rinascita, che influenzerà più di ogni altra fase storica la forma del territorio Sulcitano. Dal 1850 circa si apre infatti il così detto periodo eroico delle miniere Sarde, in particolare quelle del Sul-cis-Iglesiente. Da metà ottocento fino al 1971, si vedrà la comparsa sui territori di una miriade di piccoli e grandi impianti a sostegno dell’atti-vità mineraria, e questo sottoposto a indagini e scavi a più riprese. Monteponi, Campo Pisano, San Giorgio, San Giovanni, Nebida, sono solo alcuni dei siti più grossi che

compaiono in questi anni. In tutta questa zona si può dire sia nata la metallurgia del piombo e dello zinco in Italia.(8) Fino agli anni

fra le due guerre, l’espanisione territoriale e la continua indagine e sfruttamento del territorio proseguirà senza soluzione di continuità, gli scarti delle lavorazioni dei materiali estratti incominciano lentamente a dare una nuova morfologia al territorio, tanto da costituire delle proprie montagne: i fanghi rossi, nei pressi di Monteponi, scarti dell’elettrolisi. Dagli anni ‘40 in poi incominciano a profilarsi i primi tentativi di smantellamento di una parte delle miniere, sia per il prograssivo depauperamento delle risorse che per l’ingresso sul mercato di minerli estratti in paesi in via di sviluppi, più competitivi da un punto di vista economico. Ovviamente la fase di cessazione delle attività ha avuto forti ripercussioni non solo sugli operai ma sull’intera comunità che aveva sempre visto in questo tipo di attività la principale fonte di sostentamento e guadagno. Non di minore importanza sono le conseguenze avvertite a livello territoriale dalle operazioni di dismissione: una costellazione di architetture minerarie capeggiano sul territorio del Sulcis-Iglesiente in una fase di sospensione temporale che rende ancora più interessante e ricco di potenzialità questo paesaggio in rovina con le sue contraddizioni. Il paesaggio, inteso in questa occasione come somma

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delle componenti naturali e antropiche, è stato riletto e interpretato a più a riprese, nel corso del tempo, attraverso il filtro della produzione artistica che ha aiutato a fissarne un’immagine identitaria. Lo sguardo sull’architettura e archeologia industriale in Sardegna, in particolare nel Sulcis, risente nella prima parte della produzione di immagini, di inevitabili influenze rispetto alla committenza. Le prime rappresentazioni, spesso catturate durante il periodo di attività della miniera, hanno risentito dell’influenza della volontà politica e sono state usate come propaganda in particolare sotto il regime fascista. Un esempio in tal senso è l’opera dell’architetto Giuseppe Pagano, il quale intorno agli anni ‘30 indegherà con lo strumento fotografico il territorio industriale del Sulcis, in particolare immortalando le monumentali strutture della miniera di Serbariu a Carbonia, ancora in attività. Le immagini del territorio del sud-ovest dell’isola diventano un veicolo per illustrare la politica energetica del duce. Solo con la dismissione abbiamo uno sguardo più critico sul territorio e una riflessione sugli esiti dell’attività industriale sia sulla società che sul territorio. La comparsa di alcune immagni degli impianti abbandonati nell’atlante 007_Rischio Paesaggio del 2007, evidenzia la vicinanza della vicenda del territorio del Sulcis ad una più ampia perdita di “figura” del

e la necessità di un suo restauro. La condizione del paesaggio italiano è talmente grave che non ha più molto senso provvedere alla sua conservazione, sosteneva Purini già nel 1991, è necessario e urgentissimo procedere al suo restauro, una ‘renovatio’. (9)

Altri strumenti come quelli propri del cinema hanno indagato questa realtà territoriale, nel 1997 il regista sardo Gianfranco Cabiddu, con la collaborazione di Giuseppe Tornatore, ha osservato e registrato la realtà del Sulcis. Il film ‘Il figlio di Bakhunin’, tratto da un romanzo di Sergio Atzeni, ambientato a cavallo tra anni trenta e quaranta, si presenta ancora una volta come tentativo di contribuire alla creazione di una memoria collettiva su un passato industriale che ha lasciato oltre a forti presenze architettoniche, tante domande aperte nella gestione del territorio Sardo e in particolare quello del Sulcis-Iglesiente.

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Mappe con evidenziati i maggiori siti estrattivi in Sardegna e nel Sulcis-Iglesiente

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C A R T O L I N E .

d a u n ’ a p p e n d i c e i n c e r t a d e l l ’ I t a l i a

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I hear the ruin of all space, shattered glass and toppling masonry, and time one livid final flame.

What’s left us then? Ulysses. James Joice The ruins are still standing, but what do they stand for? (1) Le rovine nonostante tutto, si

conservano, restano in piedi, ma cosa ci rap-presentano? Questa è la domanda che si pone Brian Dillon, nella pubblicazione che accomm-pagna la mostra Ruin Lust, tenutasi a Londra, presso la Tate Britan dal 4 Marzo al 18 Maggio 2014. La rovina, può essere percepita come un promemoria, un richiamo ad un inevitabile tramonto al quale giunge ogni fase della storia umana e ogni civiltà. Ha rappresentato un ide-ale estetico, affascinante e attrattivo proprio per la sua allusione al fluire del tempo, o ancora ha colpito l’osservatore per il suo essere simbolica di un determinato stato d’animo. Le macerie e l’azione congiunta della natura, si sono in alcuni casi imposte come immagine di un sempre ricercato equilibrio tra natura e civilità o al contrario dimostrazione di una tensione irrisolta.

Una visione più propositiva della rovina è quel-la che nel paesaggio in decadenza legge poi lo

spazio e il tempo per immaginare un futuro diverso. Nella cultura architettonica inglese, come illustrato nella sezione ‘Utopia of ruins’ del Padiglione della Gran Bretagna all’ ultima Biennale di Architettura Venezia diretta da Rem Koolhaas, le rovine sono state infatti spes-so sinonimo di modernizzazione. L’immagine, l’idea e la possibilità delle rovine si sono fuse con gli ideali modernisti per creare un nuovo linguaggio architettonico, il linguaggio bru-talista come nella magastruttura bugnata del Barbican Center a Londra.(2)

La studiosa tedesca Rose Macaulay, nel suo ‘Pleasure of Ruins’, usa il termine Ruinenlust, per indicare la fascinazione per la bellezza in decadenza. Questo tipo di fascinazione, è rap-presentazione di un gusto essenzialmente mo-derno, post-medievale. Discende direttamente da un lungo processo di rivalutazione della storia, e di conseguenza delle tracce e macerie del passato, ma in particolare da una mutata concezione del tempo rispetto alle epoche pre-cedenti, non più ciclico ma lineare, ci si mette in linea di continuità con le civiltà precedenti e questo fa assumere valore alle loro produzioni, siano esse artistiche o architettoniche.

Tantissimi studiosi hanno cercato di individua-re quel qualcosa che nella rovina ancora ci at-trae e affascina, questa è stata rappresentata dai più diversi punti di vista . La bellezza brutale della rovina è leggibile anche nei territori del Sulcis-Iglesiente, qui il fascino è rappresentato

(1) Brian Dillon, Ruin lust, Tate Publishing, pag.5

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(3) Geroge Simmel, The ruin, MIT press, pag.10

(4) Marc Augè, Rovine e macerie, Bollati Borighieri, pag.26

La rovina, inoltre ha il potere di sovvertire il tradizionale ordine delle cose, la gerarchia tra natura e “spirito” creatore dell’uomo. La prima normalmente vista come materia sulla quale intervenire, prodotto semi-finito come la definisce Simmel, qui utilizza come suppor-to, il lavoro dell’arte e dell’uomo quindi, per trasformarlo. Nella rovina è la natura ad avere il potere di “realizzare”, di “costruire”, potere formativo che si manifesta nella lenta distruzio-ne. In questo processo di distruzione un ruolo fondamentale è quello che va ad assumere la così detta “patina”, una nuova superficie che si sovrappone a quella originale, conferendo al prodotto dell’arte umana un nuovo significato, non intenzionale, ma compiuto in se stesso. Mentre però per Simmel, l’azione della natura sul prodotto dell’azione artistica dell’uomo, va a conferirgli una nuova unità, una compiutez-za ricca di nuovi significati, per Marc Augé è l’incompiutezza che deriva dallo scarto tra per-cezione passata e presente ad avere il potere di affascinare, proprio in virtù di una mancanza. I valori espressi da un’opera antica non sono più contemporanei: si sono deteriorati, non ci parlano più. (...) questo scarto fra la percezione scomparsa e la percezione attuale che l’opera originale esprime oggi (...) è la ragione essen-ziale del nostro piacere. (4)

Augé racconta la rovina come un elemento “in bilico”, a cavallo tra un senso passato e una percezione attuale incompleta.

da quegli stessi elementi attraverso i quali si legge il tramonto di un paradigma, quello in-dustriale e dalla loro fusione con la natura.

The ruin of a building, however, means that where the work of art is dying, other forces and forms, those of nature, have grown; and that out of what of art still lives in the ruin and what of nature already lives in it, there has emerged a new whole, a characteristic unity. (3)

George Simmel Nel saggio The Ruin, George Simmel, ci illustra i motivi per cui lo spettacolo della rovina, quel-la architettonica in particoquel-lare, abbia sempre avuto il potere di affascinare il suo osservato-re. Con il suo essere per certi versi tragica, la rovina, è stata oggetto di osservazione, studio e riproduzione per secoli nella storia dell’arte e dell’architettura. Il filosofo tedesco, indi-vidua in questa forma di decadimento delle strutture prodotte dall’uomo, una sintesi, una sorta di pacificazione, qui la distruzione non è insensata o determinata da fattori esterni, ma la realizzazione di una tendenza naturale, la rappresentazione di un ciclo che viene così a compimento. L’edificio o il complesso, che prima della decadenza, in un qualche modo si imponeva sul paesaggio, una volta divenuto ro-vina si pacifica con lo stesso senza uno strappo o una rottura, ma per fattori naturali.

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(3) Manfredo Tafuri, La Sfera e il Labirinto, pag. 35 (4) Ibidem pag. 38

tra le diverse forze.

Numerose sono state declinazioni del concetto di sublime nel corso del tempo, già in Piranesi, la rappresentazione del connubio tra archi-tettura e natura si allontana dalla cornice di conciliazione tipica del pittoresco.

Nelle incisioni di Giambattista Piranesi, l’elemento di tensione è determinato dallo scardinamento delle leggi prospettiche, che fanno apparire reali successioni inesistenti di strutture. Per Tafuri, l’operazione di Piranesi di frazionare, distorcere, moltiplicare, scom-porre vuole esprimere una critica al concetto di luogo e di centro. Il dissolversi della forma nel Campo Marzio, esclude la possibilità di imma-ginare la città come una struttura formale in se compiuta. La decadenza architettonica, induce straniamento nello spettatore, che difronte a questa frammentazione è chiamato ad una ‘ricostruzione mentale dei frammenti di un puzzle insolubile’ (3). Mentre nella visione di

Simmel la natura, la buona madre, che tutto avvolege, ha in un qualche modo il ruolo ordi-natore, collante e cornice dell’elemento archi-tettonico con il quale va a formare una nuova unità compiuta in se, per Piranesi è l’elemento che contribuisce a dissolvere ogni residuo d’or-dine, la sinuosità e la dirompenza del Tevere nel Campo Marzio, ne sono un esempio. (4)

Quindi se da un lato per Simmel la rovina è compimento di un ciclo naturale, con il ritor-no alla “buona madre” come la chiama

Goethe, per il quale tutto quello che di umano è stato prodotto derviva dalla terra, dalla natu-ra e trova la sua pacificazione nel ritorno alla natura; dall’altro per Augé la rovina esprime la tensione tra un tempo passato e uno presente. In entrambi i casi però possiamo dire sia valida l’affermazione, secondo cui la contemplazione delle rovine non sia equivalente ad un viaggio nella storia, ma sia un modo di fare esperienza del tempo e dello spazio. Il tempo che nella visione di Simmel è un tempo ciclico, in cui la dissoluzione lenta della forma evidenzia il com-pimento di un ciclo vitale, o un tempo sospeso, in tensione tra un passato significante e un pre-sente privo dello stesso siginficato, che proietta l’osservatore in una condizione atemporale. Le due differenti visioni, quella di Simmel e quella di Augé, in un qualche modo, possono essere associate ai due diversi linguaggi con cui sono state filtrate le rappresentazioni della rovina nel corso dei secoli: la grammatica del pittoresco e l’estetica del sublime. La prima che quindi in una cornice idilliaca, mette in scena una pacificazione tra architettura e natura, in un insieme compiuto e coeso; la seconda che inserisce un elemento di tensione tra gli attori in gioco, fa emergere delle contraddizioni

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R O V I N E

a l

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non c’è nessun tipo di drammaticità, diventano rappresentazione pura del tempo che passa e segnano il tramonto di epoche che lasciano il loro marchio sul paesaggio.

Queste nuove archeologie, nella dissoluzione del nesso tra funzione e forma, si cristallizzano nel tempo, diventando obsolete e superate da un punto di vista produttivo, ma continuano a imporsi e modellare il territorio che occupano, diventando dei veri e propri monumenti. Nel corso del novecento, numerosi artisti hanno cercato di operare una rilettura di questi paesaggi post-indutriali, attraveso un’oggettivazione estetica di queste rovine. Bernard e Hilla Becker, Gordon Matta-Clark, attraverso la fotografia e l’intervento artistico, contribuiscono all’affermazione del ruolo culturale delle rovine del moderno, che avendo perso la loro funzione originaria, entrano a far parte di una categoria estetica.

Altri come Robert Smithson, Peter Latz, George Hargraves, Anselm Kiefer, nel loro lavoro, si interrogano sulle relazioni che intercorrono tra paesaggio industriale e natura, ripensando le categorie estetiche di ‘bello’ e ‘brutto’. I legami tra le nuove archeologie e il paesaggio si fanno sempre più forti, fino alla realizzazione del primo parco archeologico industriale, l’Associates Gas Works Park di Seattle (‘71-’75), che si configura come primo progetto di disegno di un paesaggio postindustriale, realizzato da Richard Haag. That zero panorama seemed to contain ruins

in reverse, that is - all new construction that would eventually be built. This is the opposite of the romantic ruin because the buildings don’t fall into ruin after they are built but rather rise into ruin before they are built. This anti-romantic mise-en-scene suggests the discredited idea of time and many other out of date things.(1)

Robert Smithson Nel Novecento, il comparire di un nuovo tipo di rovine, ruderi di edifici moderni o edifici industriali, apre lo studio per una nuova cate-goria del sublime.(2)

L’affermazione di Smithson, mette un’altra volta in discussione l’idea di tempo, le rovine industriali sono in un qualche modo fuori dalla storia, esistono anche se non sono rappresenta-tivi dei ‘grandi eventi’ che hanno segnato l’u-manità. Questo introduce una nuova e diversa concezione del tempo, i nuovi ‘monumenti’ non sono più costruiti in funzione della durata e non perdono il loro valore simbolico cadendo in rovina, ma nascono senza la pretesa di aver-ne uno, esclusivamente per esigenze funzionali e produttive. In questo tipo di rovine, nelle macerie del moderno,

(1) Robert Smithson, A tour of monuments of Passaic_ New Jersey, pag.72

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Nuovi mezzi e nuovi strumenti sono stati messi in campo dalle diverse discipline atistiche per comprendere, analizzare e intervenire su questa materia inesplorata. Il cinema ha contribuito a registrare un’immagine forte di questi paesaggi, la desolazione e la rovina dell’architettura industriale ha infatti affinascinato registi come David Lynch, che in Erasehead cattura immagini di interni abbandonati e spogli, che assumono profili inquietanti e oscuri, immortalati anche nella sua produzione fotografica. Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, all’inizio della loro carriera nei loro ‘Viaggi Randagi’ si sentono di dover capire e catturare le immagini di qualcosa che stava svanendo nel paesaggio Modenese, le sue macerie. Il mondo dell’arte, spesso con strumenti diversi da quelli tradizionali si è fatto portatore in prima istanza di questa oggettivazione estetica dell’architettura industriale, della sua rovina e dell’analisi dei suoi effetti sulla forma territorio e sulla figura del paesaggio. I principali mezzi usati sono stati: fotografia, cinema e scultura che seppur reputata un’espressione artistica tradizionale, si è intorno agli anni ‘60, in parte trasformata per dare delle nuove risposte a questi paesaggi desolati e abbandonati diventado ‘sculpture in expanded fields’.

Un’opera artistica e di denuncia delle problamatiche del territorio sud occidentale della Sardegna è ad esempio quello del

fotografo Andrea Botto che nel 2007 partecipa al progetto “Atlante 007_Rischio paesaggio”, immortalando alcuni paesaggi del Sulcis, come territorio ‘congelato’ in una dimensione sospesa. Impegnato spesso in questo tipo di tematiche il fotografo ha dichiarato “Nel mio lavoro provo a restituire un senso di precarietà, senza voler risolvere in modo assoluto e diretto le immagini e nemmeno suggerendo una neutralità e un’assenza di giudizio impossibili da mettere in pratica. Mi interessa una fotografia che non mostri i luoghi solo per quello che sono, ma piuttosto per quello che potenzialmente potrebbero o avrebbero potuto essere, sia in positivo, sia in negativo.”(3)

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P R O G E T T O . C a m p o d i s e g n i

If you want to call the earth a playground, well, we are making a kind of playground. Isamu Noguchi

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(1) Aldo Rossi, “Architettura e città: passato e presente” (Scritti scelti sull’Architettura e la città. 1956-1972 ), CLUP, Milano, 1988

antichi sono immersi in una convulsa zona industriale, dove il teatro romano è un campo di pallone per i ragazzi del quartiere, e un’affollata linea tranviaria segue i resti dell’acquedotto.”(1) L’idea di intervenire con

degli elementi che inseriscano il movimento, nuove dinamiche di fruizione dello spazio deriva proprio da questo: provare ad avere una migliore conoscenza e percezione del territorio e del paesaggio inteso come entità che somma ambiente naturale e le sue modificazioni. La rovina industriale, si impone non solo come un elemento forte e rappresentativo all’interno del paesaggio, ma anche come emergenza architettonica simbolica per la storia del lavoro in questi territori. Ripartire dal luogo del lavoro per suggerire gesti di appropriazione e riappropriazione del territorio secondo modalità diverse e inconsuete è uno degli obiettivi che si pone questo progetto. Per far questo, vengono utilizzati elementi caratterizzati da un’estrema riduzione linguistica e formale, il ruolo che assumono deriva essenzialmente dal modo in cui vengono vissuti e attraversati non sempre è necessario sia univoco o predeterminato, in questo senso si configurano come strutture ludiche che devono essere “usate” in maniera soggettiva, non vengono tracciati percorsi o strade privilegiate per la fruizione del paesaggio, ma indicati una serie di suggerimenti, attraverso queste Il progetto indaga il luogo della rovina

indu-striale, come elemento centrale per la rifonda-zione di uno spazio pubblico da realizzare oltre i limiti della città. Dopo aver identificato nella rovina stessa un elemento iconico e evocativo all’interno del territorio del Sulcis-Iglesiente, portatore e immagine di una serie di valori condivisi della comunità e della sua storia, si è deciso di lasciare intatto il suo valore di land-mark e di lavorare sulla progettazione dello spazio nelle immediate adiacenze.

Dall’osservazione e dallo studio delle rappre-sentazioni della rovina nel corso della storia, emrge un elemento, la sua immagine, monu-mentale, forte, imponente, destibilizzante o incompleta, rimane sempre come scolpita nel tempo e nello spazio. Raramente in nessuna delle sue rappresentazioni artistiche, che siano esse pittoriche o fotografiche compare in alcun modo il movimento, non ci sono elementi dinamici se non la natura. La rovina è un topos letterario, come l’arcadia, immagine di un mondo a tratti lontano, e a tratti utopico. For-se è proprio questa contraddizione che rende poetica e suggestiva l’esperienza della rovina, ci mette in relazione con il tempo, con lo spazio e con una dimensione altra. Come ha scritto Aldo Rossi : “ … Come architetto non ho mai avuto maggiore comprensione dell’architettura romana che di fronte al teatro e all’acquedotto romano di Budapest; dove questi elementi

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architetture di relazione con lo spazio e il paesaggio per conoscerlo.

Il progetto mira a creare uno spazio di investigazione e di esplorazione del territorio intorno a questi elementi iconici che sono appunto le rovine.

Nell’ area di progetto ‘Monteponi Scalo’, denominata così perchè un tempo sede dello scalo ferroviario della più grande Miniera di Monteponi, il progetto non si pone il solo obiettivo di rinaturalizzare un territorio prepotentemente modificato dall’intervento umano e inadatto alla crescita spontanea della vegetazione. Il punto di arrivo del progetto sarebbe piuttosto quello di riformulare le relazione tra il paesaggio e il suo uso. La struttura insediativa del territorio è nata in funzione delle esigenze di produzione e dell’attività mineraria, ma questa configurazione, rimasta immutata nei decenni, appare oggi come un limite alla permeabilità del luogo, sia per la comunità delle vicine cittadine sia per chi dall’esterno si avvicina a questi paesaggi.

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masua nebida iglesias

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tesi di

Federica Rasenti

relatore

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