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Imparo a uccidere per bene

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Academic year: 2021

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Imparo a uccidere per bene

Era da così tanto che mi dicevo che bisognava creare una scuola per formare killer e assassini, che alla fine ne ho aperta una io. Ero convinto che con un insegnamento rigoroso e degli studenti motivati avremmo ottenuto a breve risultati tangibili: omicidi veramente anonimi, prigioni vuote, morti che siano morti per davvero e colpevoli introvabili. Ma per questo lo Stato avrebbe dovuto sostenere la mia iniziativa, cosa che si guardava bene dal fare. Ero in anticipo sul mio tempo, e l’Education

nationale non era ancora pronta a sussidiare il mio settore di

formazione.

Di conseguenza, il mio progetto non riscuoteva grandi risultati e il settore era ancora monopolizzato da amatori senza qualifiche, pivelli formati sul campo, assassini per caso o per noia, che si davano al crimine come ci si dà al golf, tardi e senza una reale convinzione. O, peggio ancora, per fare come tutti gli altri. Costretti a trovare un’altra occupazione per guadagnarsi da vivere, non dedicavano alla loro passione che il tempo che restava a fine giornata, una volta messi a

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Nessuno si rendeva conto di quanto questo stato di fatto, che perdura tuttora, sia nocivo per la società. Un delitto passionale che finisce male, è una lama di coltello che colpisce il midollo spinale al posto dei polmoni e lascia una madre paralizzata sulla sedia a rotelle. Una rapina a mano armata organizzata con i piedi dura un’eternità e mette in pericolo la vita di centinaia di pedoni, con i malviventi che sfrecciano a manetta sui boulevard per tornare nelle loro topaie, il tutto senza uno straccio di bottino e con la polizia attaccata al culo. Per questo avevo avviato una formazione privata che approdasse al diploma – chiaramente non ufficiale– di delinquente noto. “Imparo a uccidere per bene”, così si chiamava.

Ma questa volta la fortuna non doveva essere dalla mia parte.

Non potevo mettere annunci, né ottenere delle sovvenzioni per la mia attività. E visto che non avevo un locale adatto ad accogliere gli studenti, facevo lezioni serali a casa mia, in salotto, e il solo tipo che fossi riuscito a convincere era il mio dirimpettaio, un ciccione calvo con le mani sudaticce, convinto che i Neri fossero troppo cotti e che le donne avessero lo stesso cervello poco sviluppato degli Ebrei e dei Napoletani. Ce l’aveva a morte con i Napoletani perché era nato in Sicilia - in un paese di cui ora mi sfugge il nome - e proprio a Napoli l’avevano pestato la prima volta, in una serata di sbronze durante il servizio militare. Da questo non si era mai ripreso. Fisicamente sì, non c’erano postumi, ma nella testa la cosa continuava a tormentarlo.

Si chiamava Mario. Era forse il peggiore idiota che avesse mai visto la luce su questo pianeta, ma era il mio allievo. Un allievo penoso. Assiduo, sì, ma negato fino al midollo. Io gli davo appuntamento ogni giorno alle

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e ogni giorno, invariabilmente, lui bussava alla mia porta a mezzogiorno in punto, sfaccendato, per sapere a che ora sarebbero iniziate le lezioni di pratica. Moriva dalla voglia di passare al tiro a fuoco. Ma io avrei preferito morire strangolato dalle sue grosse dita grasse piuttosto che arrischiarmi a dargli in mano un’arma da fuoco. Allora, dato che non gli rispondevo subito, lui attraversava l’ingresso, si lasciava cadere nella poltrona del pianoterra, si toglieva gli stivaletti e le calze e reclamava il suo caffè. Non avevo nessunissima voglia di passare i miei pomeriggi in compagnia di questo tizio un po’ appassito, con i suoi ricordi di macellaio, le storie sul servizio militare e tutte le barzellette riguardanti i Romani e i finocchi. Ma il tizio in questione non solo era il mio allievo – il che sarebbe già stato una scusa sufficiente per aprirgli la porta - ma in più viveva con una nipote orfana (avevo avuto diritto una decina di volte al racconto di quella notte tempestosa in cui la carovana dei suoi genitori era stata trascinata via da una piena del Semois, lasciando a Mario il dovere di crescere la figlia di suo fratello). Orfana, sì, ma soprattutto gnocca, bella da mozzare il fiato. Ma a lasciarmi senza fiato era prima di tutto Mario, che mi sciroppavo per ore e ore nella speranza che a metà pomeriggio lei venisse a bussare alla porta per sapere se lo zio era da me, con il suo sorriso d’angelo, quella chioma di fuoco e, soprattutto, un paio di stivali che le facevano delle gambe da nitrire di piacere, non fosse che per i tacchi. E a nitrire non era mica lei, ovvio, ma gli uomini come me, che avevano l’onore di vederla in piedi, in carne e ossa. Anche solo per quegli istanti di piacere, avrei accettato di fare lezione a tutti i Quasimodo del mondo, servito il caffè a Gargamella e offerto la mia poltrona migliore, quella con vista sulla strada, a Rastapopoulos in persona.

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E poi, chi mi dice che il tipo che in quella poltrona ci passava pomeriggi interi non fosse peggio di tutti loro?

Fatto sta che a forza di attraversare la strada la signorina in questione, Linda, la nipote di Mario, aveva finito per prenderci gusto a passare da me tutti i pomeriggi, per chiedere di suo zio e fare due chiacchere con me. Bisogna dire che nel quartiere non c’era tutta questa vita: i bidoni della spazzatura due volte a settimana, sacchetto giallo, sacchetto blu, il postino la mattina e gli allarmi delle macchine la notte. Niente di granché divertente. Mentre io, beh, forse non ero uno spasso, ma almeno duravo più del passaggio del camion della spazzatura e non rompevo le palle come una sirena in piena notte. E poi rispondevo al sorriso di Linda, gliene rimandavo uno mio, ancora più grande, ancora più sorridente, e lei se lo prendeva in piena faccia, senza schivarlo. E poi non era contraria. Tutt’altro che contraria, visto che si è messa a venire tutti i giorni e le nostre conversazioni davanti alla porta duravano sempre più a lungo, tanto che, a forza di aspettarmi, a volte Mario finiva per addormentarsi, le gambe posate sul mio portagiornali. Linda aveva fatto la parrucchiera, Linda aveva cantato in un bar. Linda aveva anche servito da bere a dei ministri e aiutato un mago nei suoi giochi di magia. L’avrei ascoltata per dei giorni interi.

A Mario tutto questo non piaceva per niente. Lui aveva a cuore solo le sue lezioni di tiro e di camuffamento, e pensava che Linda sarebbe dovuta restare a casa, una giovane donna come lei non doveva uscire da sola, soprattutto con tutti i drogati e gli Zingari che si incontravano per il quartiere e il pericolo dell’antrace, delle bombe

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e dei mangiatori di lokum in giro per strada, che se li avessero presi, tutti questi tizi, lui gli avrebbe mostrato la sua .22 Long. Per farlo tacere, Linda riattraversava la strada, non senza lanciarmi uno sguardo da pesce rosso che ne ha le palle piene dell’acqua. E io me ne rientravo mogio mogio a non fare lezione al mio allievo insopportabile.

Dopo qualche mese di questo va-e-vieni, abbiamo iniziato ad approfittare dei sonnellini di Mario per fare un salto in camera, o in cantina, o entrambe, a secondo della voglia del momento, e Linda e i suoi stivali non chiedevano altro. Dal canto suo, Mario, lui non chiedeva più niente, faceva la nanna come un bimbo da quando Linda mi aveva dato dei sonniferi da aggiungere al primo caffè di mezzogiorno. Un decaffeinato, naturalmente. Infallibile. Due ore di intimità garantite.

Tutto questo sarebbe potuto durare per mesi e mesi, forse per degli anni. Visto che Mario non era un buon allievo, la formazione si sarebbe potuta trascinare per decenni, prima che lui fosse in grado di far sparire un cadavere o di inventarsi un alibi credibile. Ma ecco che a forza di pianificare tutto si scivola sui minimi dettagli, e a furia di odiare il mondo intero uno diventa preda dall’odio e se la prende con la prima mosca che passa.

Con Linda avevamo fatto un sacco di progetti, un sacco di sogni. Speravamo che forse un giorno Mario si sarebbe finalmente tolto dalle palle. E sapevo bene che Linda era pronta al peggio, se necessario. Ma che fosse pronta a sbarazzarsi di suo zio, questo no.

Un bel giorno, Mario è arrivato da me sudato fradicio, con in mano un sacchetto di carta marrone di Quick. Me l’ha consegnato e poi è andato a buttarsi sulla sua poltrona.

- Grazie, Mario, ma ho già mangiato. Vuoi un caffè?

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- Non è quello che pensi. Guarda cosa c’è dentro, è un regalo. Ho aperto il sacchetto, con lo sguardo perso nel vuoto.

C’era una mano. Tranciata all’altezza del polso.

Una mano di donna con le unghie smaltate, imballata in un sacchetto da congelatore.

- Sono passato alla pratica, mi fa lui con un’aria divertita.

- Ma è Linda, rispondo io a denti stretti.

- Shhhh! ha continuato lui, un dito sulla bocca, afferrandomi per

un braccio. Fa’ silenzio! Guarda come l’ho camuffata: è impossibile riconoscerla. Ho tolto gli anelli.

- Ma sei pazzo, Mario?! È tua nipote, e non aveva fatto niente di

male!

- Non sono pazzo, anzi, ho seguito tutti i tuoi consigli alla lettera

e posso dire di essere coperto come un omino Michelin.

- Non è divertente, Mario. Perché l’hai fatto?

- È un segreto! Se svelo il movente, sarà più facile risalire fino a

me. Non basta nascondere gli indizi materiali, bisogna dissimulare anche il movente. Ho imparato la lezione.

Avevo un nodo allo stomaco, mi sentivo male anche solo a parlare. Avevo le gambe molli.

- Ma tutto questo non vale per me, Mario. Questo è per la polizia.

Io lo so che sei stato tu, puoi spiegarmi, mica ti denuncio.

- Ah, d’accordo. Mi stava avvelenando. Ne ho le prove. Del veleno

per i topi nella roba da mangiare, ho ritrovato il sacchetto in cantina. E credi che te la caverai così? La polizia penserà subito che sei stato tu.

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Te l’ho detto mille volte: mai assassinare qualcuno che conosci personalmente. Tanto meno un parente. Mai uccidere un parente. Mai uccidere per interesse. È così difficile da ricordare?!

- È proprio lì che sta la mia idea geniale. Mi sono detto che

questo lo sanno tutti, anche il più imbecille degli sbirri: solo un decerebrato può fare a pezzi sua nipote, per di più a casa sua. Non si immagineranno mica che sono abbastanza idiota per fare una cosa del genere. E così cercheranno altrove.

- Ti chiederanno comunque un alibi, e poi sarai tu il primo ad

essere interrogato.

- L’alibi ce l’ho: ero qui per il mio corso da killer. In fondo me lo

devi, dopo tutte le lezioni che ti ho pagato. Allora, mi copri, dirai che abbiamo passato la notte insieme, no?

Cominciavo a tremare. Avevo a che fare con il più grande idiota che l’essere umano femmina avesse mai dato alla luce. Il suo cranio doveva essere attraversato dal vento, come il parcheggio del Carrefour la domenica mattina.

- Voleva i miei soldi, sai.

- No, non lo voglio sapere, Mario. E del corpo, che ne hai fatto?

- Beh, in effetti sono venuto proprio per questo. Ho già portato

una mano, e volevo chiederti se per caso non potevi nascondere i pezzi nella tua cantina per qualche settimana, finché non si calmano le acque…

- Mario…

- Vale lo stesso ragionamento che per la parentela: nessuno

crederà che il corpo non è stato seppellito né dissimulato, ma semplicemente depositato dal vicino di fronte. È così stupido che la polizia non ci penserà neanche.

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Mi girava la testa. Vedevo il sacchetto di Quick e la mano di Mario nascosta sotto la sua giacca a vento.

- Cos’hai nascosto sotto la giacca?, gli ho chiesto.

- È la mia lama da macellaio, è con questa che l’ho fatta a pezzi –

spiegò, esibendo fiero un grande coltello dalla lama insanguinata. Allora, tutto ad un tratto, il mio cervello si è messo in funzione. Ho ripensato a Linda. A tutte le parole che mi aveva detto. Ai momenti di felicità che ci eravamo ripromessi. Non vedevo più Mario, no, vedevo solo un macellaio sudato con la sua giacca a vento sporca.

- Ho un’idea, gli ho detto, prendendogli l’attrezzo dalle mani.

- Sapevo che se dovevo contare su qualcuno, quel qualcuno eri

tu. Sei un vero professionista.

- Nascondiamo tutto in cantina, dietro la caldaia.

- Sei proprio un vero professionista, lo sapevo.

Ho aperto la porta e ho fatto passare quel povero idiota. Mi ha sfiorato, e in quel momento ho sentito il profumo di Linda sul suo collo. Non appena ha posato un piede sulla scala, io gli ho sferrato un calcio nella schiena con i miei stivaletti. L’ho visto rotolare di scalino in scalino, il tutto stridendo come un maiale sgozzato.

In tre falcate ho raggiunto il mio ex allievo e l’ho afferrato per il collo. Avevo la lama da macellaio nella mano destra e ho sentito il suo alito che sapeva di caffè.

I suoi occhi mi supplicavano.

- Cosa stai facendo?

- Vendico Linda, ho gridato.

Avevo il sangue caldo, ma dei riflessi isotermici. Ho afferrato un sacco

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prima di sferrare il primo colpo. Al terzo, Mario aveva smesso di muoversi.

Ho affondato il naso nella giacca a vento. L’odore di Linda! Ho chiuso gli occhi.

Poi ho messo in pratica la teoria.

Ho impacchettato Mario in un tappetino, ho aspettato che fosse notte e quindi ho portato il corpo in macchina. Ho guidato per mezz’ora finché sono arrivato in fondo a un bosco, e lì, alla luce dei fari, gli ho strappato gli occhi e tagliato le dita. Ho infilato gli organi in un pacchetto vuoto di sigarette, l’ho annaffiato di benzina e l’ho lasciato bruciare sul posto. Poi gli ho strappato i denti e li ho ridotti a pezzettini su una grande pietra blu, infine ho usato la pietra come zavorra per il corpo, che avevo precedentemente svestito. Ho guidato verso l’Escaut, con la finestra aperta, lanciando i resti dei molari, un pezzo alla volta, ogni duecentocinquanta metri. Ho buttato il corpo in acqua, poi ho lasciato i miei vestiti e i suoi nel bidone del riciclaggio dei Petits Riens all’entrata di un Delhaize deserto.

Sono rientrato a casa. L’adrenalina stava calando.

Non avrei mai dovuto fare lezione a quel tizio. Era stata una cattiva idea. Ma ormai era troppo tardi.

Ho spinto la porta, attraversato il corridoio, e mi sono lasciato cadere sulla poltrona.

Stavo già meglio. Sono restato così, in silenzio, per un bel po’.

Linda mi ha raggiunto con una birra fresca. Sorrideva come non mai.

- Allora?, mi fa lei.

- Fatto, le rispondo.

Abbiamo passato la notte a letto. Senza paura che Mario si risvegli. E così le altre notti.

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Linda è venuta a vivere da me. O viceversa. Ci siamo sistemati, siamo felici, e io ho smesso di fare lezione. Penuria di clienti: non avevo la stoffa dell’insegnante, tanto vale ammetterlo.

Abbiamo continuato a vivere felici così a lungo. Come minimo qualche mese. Con la mano finta nel suo sacchetto di Quick in bella mostra sul camino. Il ricordo di Mario e del pesce d’aprile che pensava di farmi con sua nipote. Il ketchup intorno al polso era diventato marroncino.

Un giorno, un tizio ha suonato alla porta. Un tizio come tanti altri, in completo e cravatta. Un tizio che voleva vedere Mario e consegnargli un premio. La vincita alla lotteria europea. Fascia speciale. Un milione di euro. Mario aveva inviato il suo biglietto firmato, mi ha spiegato il tizio, è la procedura per le grandi somme, e ora erano venuti a portargli i soldi. Non ne aveva parlato neanche a Linda.

- È in viaggio, faccio io.

- Dove?

- Non lo sappiamo, non l’ha detto.

- Siete dei parenti?

Non ho detto di sì, non ho detto di no.

- Potete dargli questo?

Era un assegno personale barrato e tutto, a nome di Mario. L’abbiamo messo sul camino, accanto al sacchetto marrone, e ogni tanto lo guardiamo ancora. All’inizio ci eravamo detti che avremmo fatto riapparire Mario per farlo morire ufficialmente, ma poi mi sono ricordato un principio di base: mai uccidere per interesse.

Per passione, sì, si può. Senza dubbio.

Perché per una donna si può fare tutto.

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