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CAPITOLO I L'EUTANASIA OGGI

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CAPITOLO I

L'EUTANASIA OGGI

SOMMARIO: 1. Eutanasie. - 2. L'eutanasia nella storia. - 3. Eutanasie pietose. - 3.1. Eutanasia attiva e

passiva. - 3.2. Eutanasia indiretta. - 4. Eutanasia come diritto.

1. Eutanasie

E' sufficiente digitare la parola “eutanasia” nella maschera di ricerca di un motore di ricerca per rendersi conto della molteplicità di attributi cui può trovarsi accompagnata. Nel corso dei secoli, infatti, è stata usata promiscuamente tanto da finire con il denotare, a seconda delle materie di cui era oggetto di riflessione e degli autori, eventi diversi se non diametralmente opposti della vita reale.

Si è parlato di eutanasia “eugenetica”, consistente nella soppressione di individui fisicamente o psichicamente tarati allo scopo di migliorare la razza umana; “economica”, laddove l'uccisione riguardava persone considerate inutili ed economicamente onerose per la società; “criminale”, intendendosi l'eliminazione di individui socialmente pericolosi; “sperimentale”, presupponente il sacrificio di esseri umani per effettuare sperimentazioni ai fini del progresso medico e scientifico; “profilattica”, indicante la soppressione di individui affetti da malattie epidemiche al fine di evitare il contagio; “solidaristica”, consistente nel sacrificare la vita di alcuni esseri umani per salvare la vita di altri; “pietosa”, volta a porre fine allo stato di particolare sofferenza in cui versa una persona1.

Alla luce di ciò, si rivela dunque prioritario operare alcune chiarificazioni di tipo

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lessicale e concettuale, al fine di comprendere cosa propriamente si intenda quando parliamo di eutanasia, donde evitare fraintendimenti ed equivoci di sorta.

2. L'eutanasia nella storia

L'eutanasia non è parola di nuovo conio. Nasce nell'antica Grecia, dalla sintesi delle radici ευ- e -θανατος, ad indicare la “buona morte”: esprimeva l'ideale greco della vita felice come vita ben riuscita, perché conclusasi con una bella morte. Non si trattava necessariamente di una morte indolore o facile, ma di un fine di vita tale da garantire al suo autore l'immortalità del ricordo2.

La ritroviamo nel mondo latino, impiegata dallo storico Svetonio (I sec d.C.) seppur in termini parzialmente diversi, per indicare una morte rapida e senza sofferenze, quella che l'imperatore Augusto desiderava per sé ed augurava agli altri, e che poi venne effettivamente a coglierlo3.

Nelle sue prime apparizioni, dunque, l'eutanasia è lungi dal denotare qualsivoglia fenomeno di morte volontariamente procurata, afferiva piuttosto ad una dimensione “individualistico-umanitaria”; la dolce morte era il trapasso naturale, sereno ed indolore, dalla vita alla morte. Tale dimensione viene di fatto messa in crisi dal diffondersi di

2 A tal proposito si può ricordare la discussione tra Creso e Solone. Creso, ricco re della Lidia, chiede al suo ospite chi sia l'uomo più felice che abbia mai incontrato. Solone afferma che il più felice degli uomini è Tello di Atene, il quale <<ebbe figli buoni e valenti, e a tutti loro vide nascere figli>>; dopo aver vissuto <<in condizioni di agiatezza, ebbe una splendida fine di vita>> perchè <<morì nel modo più glorioso>> durante una battaglia combattuta ad Eleusi dagli Ateniesi; e i suoi compatrioti gli resero i più grandi onori. Vengono, dopo di lui, gli argivi Cleobi e Bitone, <<i quali ebbero sempre di che vivere>> e dopo le imprese vittoriose che i due riportarono nelle gare atletiche, si addormentarono nel tempio di Hera senza più risvegliarsi; furono elevate statue alla loro memoria. Solone conclude che non si può dire se un uomo è felice, prima di sapere se la sua morte è stata bella. Di un uomo che possiede salute, bellezza, agiatezza, si potrà dire che è fortunato; ma lo si potrà dire felice solo se a questi vantaggi si aggiungerà una bella fine di vita; ERODOTO, Le storie, Sansoni, Firenze 1951, 29-33.

3 In particolare, si ritiene che Svetonio sia stato il primo in assoluto ad aver impiagato esplicitamente il termine “eutanasia” nel descrivere la morte di Augusto: <<Ed ebbe così una fine dolce, come sempre aveva desiderato. Infatti, ogni volta che aveva sentito dire di qualcuno che era morto rapidamente e senza soffrire, augurava a sé e ai suoi familiari una simile euthanasia (com'era solito chiamarla)>>; SVETONIO, Vite dei Cesari, Rizzoli, Milano 1982, libro II, XCIX.

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alcune pratiche esistenti sin dall'antichità classica, che impropriamente, dato il significato etimologico sopra richiamato, furono qualificate come eutanasiche. Mi riferisco, ad esempio, all'expositio degli infanti deformi prevista dal diritto romano; all'usanza degli Spartani di gettare i neonati minorati nel Taigeto4.

Si ritiene che il primo teorizzatore dell'eutanasia eugenetica, ancorchè di fatto non impieghi tale termine, sia Platone. Infatti, nella costruzione del suo Stato ideale, asseriva che gli individui fisicamente e psichicamente deboli dovessero essere lasciati morire, al fine utilitaristico di migliorare la specie e di liberare la società dal peso del loro mantenimento e della loro inutile esistenza5. Da qui, dunque, “eutanasia” inizia ad indicare quelle pratiche di “selezione” poste in essere dai poteri pubblici o dai soggetti privati, pubblicamente autorizzati, al fine di realizzare quello che viene prospettato essere il bene della società. Si compie in questo modo il passaggio da un'accezione individualistico-umanitaria ad una collettivistico-statutaria ed utilitaristica del concetto di eutanasia.

T. More (XVI sec), nell'ipotizzare la sua società ideale nell'isola di Utopia, è il primo a profilare per la prima volta l' “eutanasia pietosa” come morte procurata su volontà di un malato inguaribile per porre fine alle sue sofferenze; tuttavia continua ad ammettere altresì l' “eutanasia economica”, nei casi in cui il malato, senza più speranze di guarigione, diviene un peso per sé e per gli altri6. Occorre però precisare che, pur avendo per la prima volta prospettato il tema morale dell'eutanasia, non ha mai utilizzato esplicitamente tale termine.

4 C. TRIPODINA, Il diritto nell'età della tecnica. Il caso dell'eutanasia, Jovene, Napoli 2004, 20. 5 PLATONE, La Repubblica, trad. it. in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 2003, libro III, 406c-e. 6 <<Nella migliore forma di repubblica i malati incurabili sono assistiti nel miglior modo possibile. Ma se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente continue sofferenze allora sacerdoti e magistrati, visto che il malato è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri, gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a morire liberandosi lui stessi da quella vita amara, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri... sarebbe un atto religioso e santo>>; T. MORE, Utopia, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1991, libro II, 5.

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Di importanza cruciale sono le riflessioni di F. Bacon, che finalmente colloca la questione dell'eutanasia in campo medico. Infatti, dopo aver distinto tra eutanasia interiore (intesa come preparazione spirituale alla morte) ed eutanasia esteriore (ossia fisica), in relazione a quest'ultima sosteneva fosse altamente desiderabile che i medici <<imparassero l'arte di aiutare gli agonizzanti ad uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità>>7.

Il trascorrere del tempo, però, non ha giovato al termine in commento che, anzi, ha continuato ad essere oggetto di declinazioni più o meno positive, per poi precipitare definitivamente nel campo della più tremenda dimensione “collettivistico-statuale” ai tempi del nazionalsocialismo. Mi riferisco al “programma eutanasico” denominato Aktion T4 inaugurato da A. Hitler nel 1939; dietro la maschera della ricerca sulle malattie ereditarie celava uno sterminio a larga scala di persone inguaribili o affette da malformazioni fisiche. Si stima che l'attuazione del programma, in un solo triennio, abbia portato all'uccisione di qualcosa come 70.000 vittime.

I dibattiti sull'eutanasia, tuttavia, non si sono interrotti con il nazismo. Al contrario, occupano tutt'oggi un posto di primo piano, ma ne sono mutati il senso e l'ispirazione, per un ritorno ad un'accezione individualistico-umanitario più aderente alla sua originaria etimologia. I progressi della medicina, infatti, consentono oggi di mantenere in vita il malato anche quando questi non può più guarire, finendo per tenere in pugno le redini dell'esistenza, cancellando le soglie naturali della morte, affidate ora a macchinari e terapie in grado di allungare la vita per un tempo indefinito, in condizioni di sofferenza più o meno tollerabili, in stati fisici che fanno la persona un “essere” spesso non più molto “umano”. La morte si è trasformata da “evento” di separazione dalla vita

7 F. BACON, Della dignità e del progresso della scienza, in Opere filosofiche, in F. de Mas (a cura di), Laterza, Bari 1965, vol. II, 214.

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a “processo” più o meno lungo di perdita progressiva delle funzioni vitali8, attraversato dalla tecnologia, dalla competenza dei medici e, dunque, da scelte. Di queste il malato vuole appropriarsi, per imprimere la sua soggettività anche a questa nuova fase dell'esistenza, decidendo per se stesso come vivere il processo del morire, così come accade abitualmente nell'ambito delle relazioni personali, affettive, professionali di ogni giorno. Di fronte a tali nuove sfide negli ultimi decenni si parla di “eutanasia pietosa”, intesa come atto di liberazione del malato dalla sofferenza che gli procura la sua patologia.

3. Eutanasie pietose

Attestato che oggi “eutanasia” è solo quella pietosa, dobbiamo constatare come in realtà manchi ancora una definizione univoca che la descriva puntualmente9.

Sulla base della carrellata di definizioni rintracciabili in letteratura, sono principalmente tre i caratteri che identificano il perimetro della nozione di eutanasia pietosa: a) l'oggettiva sofferenza in cui versa il malato, correlato al suo essere in una condizione di terminalità o comunque di inguaribilità; c) le intense sofferenze sono la sola condizione che animano la “pietà” del soggetto agente; d) la possibilità di agevolare la morte in modo indolore.

Dunque, operando una prima generale scrematura alla luce di tali elementi, si

8 S.RODOTA', Il paradosso dell'uguaglianza davanti alla morte, in S. Semplici (a cura di), Il diritto di

morire bene, il Mulino, Bologna 2002, 39.

9 Per un elenco di definizioni proposte in campo internazionale, si veda J. Y. GOFFI, Pensare l'eutanasia, Gli struzzi Einaudi, Cles (Trento) 2006, 3.

Con riferimento al panorama italiano, si consideri la definizione di F. MANTOVANI, Problemi giuridici

sull'eutanasia, in Archivio giuridico, 1970, 37 ss., che la identifica come quell' <<uccisione indolore posta

in essere per un sentimento di compassione nei confronti del particolare stato in cui versa la vittima>>. Ancora, D. NERI, Eutanasia, valori, scelte morali, dignità delle persone, Laterza, Roma-Bari 1995, 13. L'autore ritiene identificative del termine: le condizioni oggettive del malato, il rapporto medico-paziente, la beneficialità della morte per il paziente.

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possono a priori escludere talune azioni dall'ambito dell'eutanasia; così possono essere accantonate tutte quelle ipotesi in cui la morte è cagionata dallo stesso soggetto della cui vita si tratta, ovvero le uccisioni perpetrate nei confronti di soggetti perfettamente sani o comunque non affetti da patologie dolorose, ovvero per interessi che esulano dal sentimento di “altruismo” (ad esempio, interessi pubblici, economici).

Tuttavia, la nozione risulta ancora troppo vaga e generica, in quanto non fornisce un quadro completo di tutte le fattispecie che sono state nel tempo ricondotte entro l'alveo del “fine pietoso”. La dottrina, infatti, distingue tradizionalmente tre tipi di pratiche eutanasiche, a seconda del diverso atteggiarsi della condotta del medico: eutanasia attiva, eutanasia passiva ed eutanasia indiretta. Si tratta di distinzioni che poco hanno di descrittivo, rilevando piuttosto su un piano assiologico e in un eventuale giudizio di liceità.

3.1. Eutanasia attiva e passiva

Risalente è il binomio eutanasia attiva e passiva, che evoca le due diverse situazioni sostanziali dell'uccidere e del lasciar morire (mercy killing e letting die). Tali espressioni mettono in luce il diverso nesso causale sussistente tra l'azione del medico e l'esito infausto. Infatti, mentre nel primo caso siamo difronte ad un comportamento commissivo a cui è direttamente riconducibile la morte del paziente (ad esempio, un'iniezione letale); nel secondo caso, invece, il medico omette un'azione che la potrebbe evitare, lasciando che la malattia segua il suo decorso.

Fino ad un certo momento la differenza sostanziale tra le due fattispecie è stata di facile accertamento; ciò fino a quando, con lo sviluppo della tecnologia, la linea di demarcazione è andata assottigliandosi, portando alla luce situazioni di ambiguità, dove

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il lasciar morire richiede molto spesso un quid pluris, ovvero che il medico compia un'azione, come il distacco di un respiratore o di un macchinario atto ad alimentare il paziente.

Peraltro, non sempre l'omissione è fonte di responsabilità, in quanto, secondo la visione maggioritaria, lo stesso intervento medico incontra dei limiti alla sua doverosità. Si tratta di quelle ipotesi in cui il paziente, nel pieno delle sue facoltà mentali e debitamente informato, rifiuta di essere sottoposto a cure o a trattamenti salvavita. Tale conclusione viene giustificata alla luce dell'art 32 Cost., che vieta i trattamenti terapeutici coatti, consentendo il rifiuto alle cure. Se dunque il rifiuto alle cure costituisce esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, il sanitario ha il dovere di rispettare la volontà del paziente, anche quando si esprima nel rifiuto di una terapia vitale. Ne deriva che, al contrario, una responsabilità del sanitario si configurerà laddove non segua la volontà del paziente, violando il suo diritto all'autodeterminazione. Per queste ragioni sono in molti a ritenere improprio qualificare il rifiuto alle cure come atto eutanasico10.

Da un diverso angolo di visuale, sia l'eutanasia attiva che quella passiva si distinguono ulteriormente in base alla presenza o meno del consenso del malato della cui vita si tratta. Volendo partire dall'eutanasia attiva consensuale, essa costituisce propriamente l'oggetto degli attuali dibattiti, risolvendosi nella richiesta del sofferente affetto da una patologia incurabile di porre fine alla propria vita. Quanto alla sua forma non consensuale, essa è considerata all'unanimità non tanto come pratica eutanasica, quanto piuttosto una vera e proprio ipotesi di omicidio.

Per quanto concerne l'eutanasia passiva consensuale, invece, si può rimandare a

10 Così F. MANTOVANI, Eutanasia, cit., 427; P. CENDON, I malati terminali e i loro diritti, Giuffrè, Milano 2003, 202; F. D'AGOSTINO, Non è di una legge che abbiamo bisogno, in S. Semplici (a cura di)

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quanto sopra detto, precisando tuttavia come la rinuncia alle cure possa intervenire dal paziente cosciente e in grado di intendere e di volere, ovvero anche non in grado di intendere e volere attraverso le c.d. “direttive anticipate”. Indicate anche con il termine “testamento biologico” o living will, consistono in una dichiarazione con la quale una persona, dotata di piena capacità di intendere e volere, esprime la propria volontà circa i trattamenti sanitari ai quali desidera o non desidera essere sottoposta per il caso in cui non sia in grado di esprimere il proprio consenso a causa di gravi evenienze patologiche11. Si tratta di una tematica attinente al genus delle decisioni di fine vita, ma che tuttavia non rientra in un discorso sull'eutanasia pietosa in stretto senso. Stessa conclusione si delinea con riguardo all'eutanasia passiva non consensuale, che si configura qualora il paziente non abbia mai manifestato o non sia più in grado di manifestare le proprie determinazioni in ordine alle terapie di sostegno vitale. Si tratta di situazioni in cui il soggetto versa in stato vegetativo permanente o con danni cerebrali di gravissima entità12, che sollevano un delicato problema circa la legittimità della richiesta eutanasica ad opera di un familiare, magari dietro consiglio del medico, in virtù di un “consenso presunto” del malato. In tal caso si registrano posizioni discordanti nel ricondurre tale tematica nell'alveo dell'eutanasia pietosa, per il fatto che possono difettare i requisiti oggettivi propri della fattispecie, ovvero la terminalità della malattia e la sofferenza fisica13.

Ulteriore elemento di equivocità è il c.d. accanimento terapeutico, spesso richiamato per legittimare, come rimedio, l'eutanasia passiva non consensuale, spesso è richiamato

11 Nell'ambito dell'Unione Europea le direttive anticipate hanno trovato un riconoscimento di principio nella Convenzione sui diritti umani e la bioetica (Oviedo 1997), la quale all'art. 9 afferma genericamente che i desideri antecedentemente espressi dal paziente <<debbono essere presi in considerazione>>. 12 In virtù della legge 578/1993, che definisce la morte come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo (c.d. morte cerebrale), i malati incoscienti sono considerati comunque vivi.

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il c.d. accanimento terapeutico, che in realtà non ha nulla a che fare con l'eutanasia, configurandosi, al contrario, come suo opposto. Consiste infatti non nell'abbandono, ma nell'eccesso delle terapie, cioè in terapie “sproporzionate” alle condizioni cliniche, che prolungano l'agonia del paziente in modo forzato e macchinoso, e solo per breve tempo14.

3.2. Eutanasia indiretta

L'eutanasia indiretta consiste nel somministrare analgesici per lenire le sofferenze del malato terminale. Da ogni campo ne è sempre stata sostenuta la liceità, tanto da configurarla addirittura come atto dovuto dal medico15. Ciò fino a quando non si è imposto con vigore il problema legato alle sostanze analgesiche che come effetto collaterale abbreviano la vita del malato. Si tratta infatti di una zona dai confini non nettamente tracciabili, che presenta numerosi caratteri di somiglianza con la fattispecie dell'eutanasia attiva.

Una soluzione è stata prospettata dalla dottrina tedesca, che ha contrapposto il c.d. aiuto nel morire (Hilfe bei Sterben), ovvero il caso in cui il medico pone in essere un'attività finalizzata primariamente ad alleviare le sofferenze del malato senza l'intenzione di abbreviarne l'esistenza e, pertanto, sempre lecita, al c.d. aiuto a morire

14 Sul punto rileva quanto previsto nel Codice di deontologia medica predisposto dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, il quale, nella versione approvata dal comitato il 3 ottobre 1998, afferma espressamente all'art 14 che <<il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita>>.

In questo senso, anche la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede ha affermato la liceità della rinuncia alle cure salvavita nei casi in cui l'opera del medico non sia in grado di fornire nemmeno una minima possibilità di miglioramento della malattia, in Dichiarazione Iure et bona, 5 maggio 1980, www.vatican.va

15 Nel senso del “diritto” dei morenti a non soffrire si sono pronunciate numerose istituzioni, dal Consiglio d'Europa nel 1976 (diritto dei morenti a non soffrire inutilmente) ai vari codici di deontologia medica di tutto il mondo.

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(Hilfe zum Sterben), dove invece lo scopo è proprio quello di abbreviare la vita del malato, ipotesi, questa, che confluisce con tutta evidenza nella fattispecie dell'eutanasia attiva. Ciò che differenzierebbe le due forme sarebbe dunque l'intenzione con la quale l'atto è compiuto: calmare la sofferenza, a rischio di indurre la morte da un lato; indurre la morte, per porre fine alla sofferenza dall'altro.

Si parla a tal proposito di “terapia del dolore” o “cure palliative” per indicare che tale pratica, pur qualificata da molti come eutanasica, in realtà non lo è: l'effetto secondario, non intenzionale, del decesso, è l'effetto lecito di un atto altamente etico, quale quello di operare per il bene del malato; è un effetto secondario, probabile o possibile, ma comunque non voluto16.

Sull'eutanasia indiretta si sono espressi in senso favorevole esponenti del pensiero religioso17 e del pensiero laico18, tuttavia non mancano manifestazioni di perplessità che mettono in dubbio la solidità della costruzione teorica. Infatti, alcuni notano che, in entrambi i casi non cambia l'effetto finale (la morte del paziente) e neppure quello causale19. Inoltre, indugiare sulla distinzione tra la sedazione del dolore, che porta poi

16 Si tratta della c.d. <<teoria del doppio effetto>>, dove il duplice effetto sta ad indicare che quando un'azione, definibile buona in relazione al suo oggetto, può raggiungere un effetto buono solo con il rischio di provocare un evento negativo secondario ma inevitabile, l'atto è lecito e può essere realizzato. Sul punto P. CENDON, op. cit., 68.

17 Così, PIO XII, Risposte a tre quesiti religiosi e morali concernenti l'analgesia, in Discorsi e

radiomessaggi di Sua santità Pio XII, 24 febbraio 1957, www.vatican.va: <<si tratta unicamente di

evitare al paziente dolori insopportabili, per esempio nel caso di cancri inoperabili o di malattie inguaribili. Se tra narcosi e l'abbreviamento della vita non esiste alcun nesso causale diretto, posto per volontà degli interessati o dalla natura delle cose (come nel caso in cui il dolore non potrebbe essere alleviato se non abbreviando la vita), e se, al contrario, la somministrazione di narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l'alleviamento dei dolori, dall'altro l'abbreviamento della vita, essa è lecita>>; così anche la SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE del 1980,

Dichiarazione sull'eutanasia, III. Il cristiano di fronte alla sofferenza e all'uso di analgesici, in

www.vatican.va; ed infine GIOVANNI PAOLO II, Evangelium Vitae, <<Sono io che do la morte e faccio

vivere>>: il dramma dell'eutanasia, sempre in www.vatican.va

18 Così la Raccomandazione n.779 sui diritti dei malati e dei morenti, approvata dall'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa il 29 gennaio 1976; in Italia tali orientamenti sono stati recepiti con la legge 12/2001, Norme per agevolare l'impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore e, ad ultimo, con la legge 38/2010, Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia

del dolore.

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alla morte, e causare la morte per lenire la sofferenza, significa collocarsi su un crinale scivoloso, anteporre la considerazione della finalità delle diverse condotte alla centralità della persona del malato20.

4. Eutanasia come diritto

Attualmente l'eutanasia è adottata come bandiera da parte di quanti rivendicano un diritto a decidere quale sia il modo più dignitoso di terminare la propria vita, a fronte di un nuovo modo di avvertire il valore stesso dell'esistenza. Il riferimento è all'eutanasia attiva consensuale, diventato tema politico e giuridico di primo piano, a causa dell'intensificarsi della discussione in merito in tutti i paesi del mondo e dell'approvazione, in alcune nazioni, di leggi che la depenalizzano.

La discussione vede scontrarsi molteplici paradigmi ideologici-morali; oggetto di discordia è lo stesso concetto di vita, o meglio il valore da attribuirle. Da un lato troviamo i sostenitori della c.d. dottrina della sacralità, nata in ambito religioso, che considera la vita umana un bene assoluto, inviolabile ed intoccabile, da difendere incondizionatamente21. Ad essa si contrappone la teoria della qualità della vita umana, che non si richiama ad un valore assoluto, ad un dogma morale, ma si fonda sulla ragione: è il singolo a dover misurare il valore della propria vita, la quale non va dunque protetta in ogni caso, ma solo a fronte di una ponderazione che abbia ad oggetto l'aspetto “qualitativo e biografico”, che verifichi se e in che misura certi deficit biologici

della stessa opinione F. D'AGOSTINO, Non è di una legge che abbiamo bisogno, cit., 31, il quale ritiene invece che <<è chiarissimo che c'è un abisso che separa l'intenzione che muove il medico che pratica la palliazione da quello che pratica l'eutanasia>>.

20 V. PUGLIESE, Nuovi diritti: le scelte di fine vita tra diritto costituzionale, etica e deontologia medica, Cedam, Padova 2009, 184.

21 <<La vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale “fa vivere e morire”. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro il suo padrone>>; TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologica, parte II, trad. it. Salani, Firenze 1966, vol. XVII, 178.

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15 incidano sui profili emotivi e sociali della vita22.

Proprio la mancanza di un sentire sociale uniforme è forse alla base dell'astensionismo del legislatore, quantomeno italiano, il quale preferisce tacere piuttosto che affrontare l'eutanasia con atteggiamento laico, “senza bandiere ideologiche”23, nel luogo a ciò deputato, ovvero la Costituzione.

22 M. B. MAGRO, Eutanasia e diritto penale, Giappichelli, Torino 2001, 28.

23 La citazione è tratta dal titolo di un articolo di U. GALIMBERTI, Discutere di “buona morte” senza

bandiere ideologiche, in La Repubblica, 25 settembre 2006, nel quale tenta una chiarificazione

terminologica e concettuale della “buona morte” a fronte delle equivocità che ritiene essere sorte intorno al problema.

Riferimenti

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