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Gli uomini d oro, quelli veri

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Academic year: 2022

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Gli uomini d’oro: quando la cronaca nera diventa cinema

Gli uomini d’oro: una storia noir con personaggi di provincia, una “Banda Cavallero” composta dai soliti ignoti.

La cronaca

E’ l’estate del 1996, in particolare mercoledì 26 giugno: in

serata si giocano le semifinali degli Europei di calcio (Francia vs Rep. Ceca e Germania vs Inghilterra), e la vita torinese è scossa da una notizia di cronaca nera. La rapina miliardaria al furgone postale.

Protagonisti della vicenda un poker di sgangherati ed

improvvisati delinquenti, ma con in mente un’idea geniale: sostituire i sacchi colmi di denaro, ritirati in diversi uffici postali, con sacchi identici, pieni di carta straccia.

Nessuna vittima, tanti soldi. Un futuro a base di cocktails

e belle donne, al posto di una vita di merda, scandita da orari insopportabili e magre entrate. Il sogno di tutti, a ben guardare.

Una banda insospettabile. Un bottino mai ritrovato. Due omicidi premeditati.

Gli uomini d’oro, quelli veri

Gli uomini che formavano la “banda” che poi venne soprannominata “uomini d’oro”, non erano criminali abituali, ma uomini perfettamente integrati nel sistema economico e sociale, con un lavoro che all’epoca era considerato il più sicuro, in quanto erano dipendenti statali e solo uno era imprenditore. Le loro vite erano piatte e banali, ma non certo disagiate.

Giuliano Guerzoni

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In tasca un biglietto di sola andata per il volo Torino-San

Josè (Costarica), via Francoforte-Varsavia-Caracas, del 27 Giugno. La sveglia attaccata al muro con un coltello nel suo squallido appartamento, rimane solo l’icona di un sogno spezzato.

Enrico Ughini

40 anni, baby pensionato delle Poste. L’amico del cuore di Giuliano. Nascosto nella cassaforte del furgone, ha il compito di scambiare i sacchi buoni con quelli taroccati. Dopo il furto, sarebbe dovuto fuggire anche lui in Costarica. Finirà invece avvolto in un sacco a pelo, nella fossa vicino a Bussoleno.

Domenico Cante

39 anni, “scambista” sui furgoni portavalori delle Poste. Sposato, padre di una bambina di 11 anni. Non ha problemi di soldi: come secondo lavoro è titolare di una ditta di impianti elettrici e possiede un ingente patrimonio, fatto di denaro ed appartamenti.

Cardiopatico e diabetico.

Cacciatore esperto. Si dichiara fin da subito estraneo ai

fatti, completamente innocente e preso in giro dal Guerzoni. Ma le prove, diverse e circostanziate lo inchioderanno alle proprie responsabilità: l’aver ucciso, solo per avidità, due persone a sangue freddo. Morirà in carcere, di infarto, pochi anni dopo.

Ivan Cella

42 anni, amico di infanzia di Domenico. Contitolare della ditta di impianti elettrici, proprietario di pub e birrerie in Val di Susa. Prende il volo, non appena l’atmosfera comincia a farsi pesante. Sospettato di essere coinvolto sia nel furto, sia nell’omicidio. Una fuga lunga e rocambolesca, da Tirana a Cochabamba, in Bolivia. Arrestato, estradato e condannato, di lui (e del bottino), non si sa più nulla.

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Il resto della banda

Gabriella Regis, moglie di Domenico Cante. Incastra il marito riconoscendo come suoi, il plaid e il sacco a pelo, con cui sono stati avvolti i cadaveri. Non fornisce un alibi al marito, per la notte del delitto.

Cristina Quaglia, 28, la fidanzata di Ivan Cella. E’ la vera “dark lady” di tutta la storia. Colei che convincerebbe i futuri uomini d’oro, a smetterla di trasportare soldi degli altri, a prenderseli e a goderseli. Femme fatale.

Pasquale Leccese, 40 anni, dipendente delle Poste di Alessandria. Una sberla per farlo tacere, due per farlo parlare. Vuota il sacco immediatamente, confessando di essere stato l’incaricato della consegna di “buone uscite” a due amiche (intime) del Guerzoni, a fronte di una buona uscita personale. Informato su tutto e su tutti.

Giorgio Arimburgo, sesto uomo della banda, trentenne di Alessandria. Nel 1995 scappa in Costarica, inseguito dai creditori. Torna in Italia e conosce il Guerzoni. Sospettato di essere il basista della fuga in Sud America del Guerzoni stesso e dell’Ughini. Consegna le buone uscite, insieme al Leccese.

Torino noir

Una storia che finisce male, che più male non si può. Un furto che porta ad un delitto. Un delitto più che premeditato, dettato dalla ferocia e dall’avidità. Forse una storia come tante, determinata da motivazioni come tante, ma di quelle che lasciano il segno. Un copione già scritto: denaro facile, donne, lusso, bella vita, rabbia, frustrazione. Un mix esplosivo che sfocia nel sangue.

Non manca un lato mediatico, che si tramuta in gossip e nella

morbosità dell’interesse pubblico: durante il processo, Ivan Cella e la sua compagna, Cristina Quaglia, annunceranno il loro matrimonio.

Con le condanne di Cante e Cella, si conclude la saga degli

uomini d’oro, del loro rocambolesco piano, con tanto di fughe, il denaro mai

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Domenico Cante morirà in carcere qualche tempo dopo, colpito

nuovamente da un infarto. Di Ivan Cella e di Cristina Quaglia, si sono perse le tracce.

Qui non è il paradiso

Una storia del genere, noir tendente al thriller, non poteva certo non solleticare la fantasia di sceneggiatori e registi. La prima trasposizione cinematografica è del 2000, per la regia di Gianluca Maria Tavarelli.

La trama parla di un colpo perfetto: un furgone blindato

delle Poste viene svuotato senza che nessuno se ne accorga, senza armi, né sparatorie. Parte una indagine e subito viene individuato un sospetto.

Si tratta di Renato, l’autista del furgone. A casa non c’è,

ma ha lasciato, attaccata al muro, una sveglia trafitta da un coltello che sta a significare addio routine. La caccia è aperta e il commissario Lucidi si mette sulle tracce del migliore amico di Renato, anche lui misteriosamente scomparso.

Narrato interamente in flashback, è un film valido e toccante, ma amaro, un poliziesco tipicamente italiano, con toni da commedia. Una trama a cui non interessa descrivere un colpo perfetto, ma delinearne i perché.

Il protagonista, Fabrizio Gifuni nella parte di Renato è ben calato nel ruolo; così come Antonio Catania, che interpreta il Commissario Lucidi. Menzione particolare per Adriano Pappalardo, bravissimo nell’interpretare quella che nella realtà era la figura di Domenico Cante.

Film che, nonostante la buona fattura, passa quasi inosservato, e non ottiene il giusto e meritato riconoscimento.

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Gli uomini d’oro

Non è un remake del film di Tavarelli, ma un’opera a sé stante.

Torino, 3 aprile 1996. Il giorno della semifinale di coppa

dei campioni Juventus-Nantes, una banda di criminali improvvisati, mette in opera quello che dovrebbe essere il colpo perfetto. La rapina ad un furgone portavalori. Protagonisti Luigi, playboy di periferia, che agogna la baby pensione, di cui già usufruisce il suo amico Luciano, un ex postino.

Il sogno è aprire un chiringuito in Costa Rica. Ma è un

sogno destinato a rimanere tale, vista la riforma sulle pensioni del governo Dini: “Meglio vent’anni di galera, che venti alle poste”. Non resta che sfruttare le falle nella sicurezza della società per cui lavora Luigi e nella quale transitano ogni giorno svariati milioni di lire.

Nel piano vengono coinvolti Alvise, persona ambigua, un

collega frustrato e incatenato ad un matrimonio che non sopporta più, e un ex pugile, il Lupo, gestore di una birreria, sommerso dai debiti.

Il film

Gli uomini d’oro, prevedono un colpo facile facile, senza

armi e senza spargimenti di sangue. Sarà più o meno così, ma con un finale tutto da scrivere, e che Luigi e Luciano non immaginano neanche lontanamente.

Montaggio serrato ed incalzante, colonna sonora martellante con canzoni d’epoca, regia precisa.

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Gli interpreti

Ottima la scelta degli interpreti, degli uomini d’oro, da parte del regista Vincenzo Alfieri: Giampaolo Morelli nei panni del cervello della banda Luigi. Straordinariamente misurato Fabio De Luigi, ossia Alvise, lontano anni luce dalle solite macchiette comiche.

Quindi Giuseppe Rangone, il pensionato Luciano, perfetto nel

ruolo. Lupo è interpretato da Edoardo Leo, bravo ma che, in certi momenti, sembra abbia bisogno della maschera d’ossigeno.

Assolutamente bravo Gianmarco Tognazzi, che interpreta Boutique, sarto-strozzino: personaggio però del tutto improbabile.

Dalla realtà alla finzione

Diversamente dalla trama originale, cioè il fatto di cronaca

realmente accaduto, qui l’evento scatenante non è l’avidità, ma il calcio. Si, perché Luciano è gobbo che più gobbo non si può, e nel momento più sbagliato, trova il modo di sfottere Alvise sul Toro e su Superga. Quello che succede, vi lascio il gusto di scoprirlo.

Nota a latere: i personaggi della banda, nella realtà Giuliano Guerzoni e Domenico Cante, nella pellicola si chiamano rispettivamente Guigi Meroni e Alvise Zago.

Il primo, la farfalla granata, tragicamente scomparso il 15

ottobre 1967, investito da un’auto guidata da Attilio Romero, mentre

attraversava corso Re Umberto, a Torino. Il secondo una grande promessa del calcio granata, una carriera spezzata da Víctor Muñoz, durante una maledetta

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partita a Marassi, contro la Sampdoria.

Due fuoriclasse, due destini diversi, due destini bastardi.

Voglio pensare che, tra regista e sceneggiatori, qualcuno sia tifoso granata, altrimenti non si spiegherebbe tale scelta.

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