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Proiezione del film «Il pranzo di Babette», vincitore dell Oscar al miglior film straniero, con cinedibattito

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Proiezione del film «Il pranzo di Babette», vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, con cinedibattito

Proiezione del film «Il pranzo di Babette»

sceneggiato e diretto da Gabriel Axel, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen e presentato nella sezione «Un Certain Regard»

al 40° Festival di Cannes (1987), ottenendo la menzione speciale della Giuria ecumenica, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero (1988)

Titolo originale | Babettes gaestebud Paese di produzione | Danimarca

Anno | 1987

Durata | 102 min

Genere | commedia, drammatico

Temi per il cinedibattito: a tavola, convivialità familiare, condivisione fraterna, inclusione umana, attenzione alla vera fame del corpo e dell’anima

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Trama

Alla fine dell’Ottocento in un piccolo villaggio della Danimarca vivono due anziane sorelle, Martina e Philippa, così chiamate in onore di Martin Lutero e Filippo Melantone. Figlie di un pastore protestante, decano e guida spirituale del posto, dopo la sua morte hanno ereditato la direzione della locale comunità religiosa respingendo le proposte di matrimonio e continuando a vivere una vita semplice e frugale, per aiutare i compaesani in difficoltà. Un giorno si presenta alla loro porta, stremata, la parigina Babette Hersant, sfuggita alla repressione del Comune di Parigi, durante la quale il generale Galliffet le ha fatto uccidere il figlio e il marito. Babette viene accolta dalle anziane signorine grazie alla lettera di Achille Papin, un vecchio corteggiatore di una delle due, e si guadagna l’ospitalità facendo da governante e contribuendo all’attività di beneficenza.

Dopo quattordici anni da Parigi arriva a Babette la vincita di diecimila franchi d’oro alla lotteria. Le due sorelle pensano che Babette userà la grossa somma per tornare in Francia, ma lei chiede di poter dedicare un pranzo alla memoria del pastore loro padre, nel centenario della sua nascita. Martina e Philippa, anche se lusingate, vedono il banchetto come una minaccia alla loro vita tranquilla, e ottengono dagli abitanti del villaggio la promessa di non proferire parola sul cibo. I dodici invitati arrivano e con loro il generale Lorens Lowenhielm, in gioventù spasimante di una delle sorelle, che capisce subito che quello sarà un pranzo speciale.

Aiutati dalla bontà del cibo, dall’atmosfera e dall’amore con cui i piatti sono stati cucinati da Babette, tutti diventano gioviali e f e l i c i . M e n t r e i r i c o r d i p a s s a t i riaffiorano, arrivano le splendide quaglie en sarcophage. Il generale racconta del Café Anglais di Parigi, dove cucinava uno chef

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donna che avrebbe fatto poi perdere le proprie tracce, una persona che riusciva con la sua cucina sublime a trasformare un banchetto «in una avventura amorosa». I commensali, seguaci di una vita priva di piaceri, saranno letteralmente sedotti ed inebriati dal pranzo che Babette – è proprio lei la cuoca del Café Anglais, ma loro non lo sanno – ha voluto organizzare per poter nuovamente esprimere il suo talento di artista. Pur evitando ogni commento sulle vivande e eludendo i commenti entusiasti del generale, trovano la forza per superare le discordie che li dividevano, arrivando alla fine a danzare tutti insieme tenendosi per mano sotto il cielo stellato, prima di riguadagnare le proprie abitazioni.

Dirà il generale durante il brindisi, che a quel pranzo

«rettitudine e felicità si sono baciate», riprendendo le parole che il decano aveva pronunciato in sua presenza molti anni prima. Babette, per procurarsi gli ingredienti, le bevande, i cristalli e le stoviglie, senza dirlo a nessuno ha speso tutto il suo denaro e, nuovamente povera, rimane in Danimarca – del resto, in Francia non ha più nessuno – ma, come lei sottolinea alle due sorelle quando tutti gli invitati sono andati via ignari della sua identità, «un artista non è mai povero».

Recensione

«Trasformare un pranzo in una specie di avventura amorosa, nobile e romantica, in cui non si è più capaci di fare distinzioni tra l’appetito del corpo e quello dell’anima». E’

il senso profondo di questa magica e sensibile opera danese, tratta da un racconto di Isak Dinesen (che poi è Karen Blixen, l’autrice de «La mia Africa»), contenuto nel volume «Capricci del destino», Oscar e Bafta Awards come miglior film straniero nel 1987, premio della Giuria ecumenica al Festival di Cannes del 1987, Nastro d’Argento a Stéphane Audran come migliore attrice straniera «ex aequo» con Cher per «Stregata dalla Luna», nomination ai Golden Globes (battuto, ahimè, dal

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connazionale «Pelle alla conquista del mondo» di Bille August, ma in gara c’erano anche gli ottimi «Donne sull’orlo di una crisi di nervi» di Pedro Almodovar e «Salaam Bombay!» di Mira Nair).

Non si tratta solo di un felicissimo ed intelligente esempio di adattamento cinematografico. «Il pranzo di Babette» è anche e soprattutto un film sulla bellezza e l’unicità dell’essere artisti, sui talenti da coltivare e manifestare, su una fede che non può essere solo opprimente, impositiva, bigotta e proibitiva, sull’amore come dono, attesa, rinuncia (splendido ed umano l’ultimo, consapevole, dialogo tra Marina ed il generale Lowen, prima di salutarsi), sulla carità e sul sacrificio (la vita delle due sorelle), sulla vera e gratuita riconoscenza (il dono di Babette alle sue padrone, ma anche la sua scelta finale), sull’importanza e la necessità del piacere nell’esistenza di ogni uomo, sulle incredibili sorprese che la vita può regalare anche in un posto sperduto, monotono e lontano come il villaggio danese in cui è ambientata l’intera vicenda.

«La delicatezza delle atmosfere trasmette il senso mistico di un’esperienza che, attraverso il piacere del gusto, avvicina l’essere umano all’infinita grandezza di Dio per calare in una forma concreta il concetto filosofico di felicità» (Ettore Cecchi). Opera permeata di un profondo e mai banale o risaputo senso religioso, toccata da una struggente, ma serena malinconia, ravvivata da inattesi siparietti ironici (i commenti del generale Lowen alle ottime pietanze che contraddistinguono il sontuoso pranzo nel silenzio generale degli altri commensali, i cui volti però esprimono, più di ogni altra parola, un evidente apprezzamento), immersa in straordinari scenari naturali valorizzati dalla sublime fotografia di Henning Kristiansen, impreziosita da una recitazione di altissimo livello e da una regia che regala grazia, poesia e finezza ad ogni inquadratura (bellissimo il f i n a l e c o n l a f i a m m a d e l l a c a n d e l a c h e s i s p e g n e

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sull’abbraccio caloroso tra Babette e Filippa). Esempio perfetto di quanto basti poco per confezionare film delicati, intimi ed intensi, da amare incondizionatamente per tutto quello che dicono e soprattutto per come lo dicano, quasi sottovoce, senza plateali o fastidiosi esibizionismi né facili o telefonate sottolineature.

Un’opera contemplativa, ma mai fredda o accademica, che brilla e conquista per la sua luminosa semplicità e la sua naturale leggerezza. Nello spirito un film fortemente truffautiano (soprattutto nella prima parte ricorda molto «Le due inglesi», capolavoro non ancora pienamente apprezzato del celebre regista francese). Quasi cinque milioni di dollari di incasso negli States, 48° nella classifica generale del box office italiano nella stagione 1987/1988 (davanti a titoli ben più commerciali come «Arma letale» o «Chi protegge il testimone» o film italiani d’autore come «Intervista» di Fellini e «Ultimo minuto» di Avati). (Degoffro)

F o n t e :

http://www.filmtv.it/film/5432/il-pranzo-di-babette/recensioni /535290/#rfr:film-5432

Triste una famiglia in cui non si parla

All’inizio dell’udienza generale dell’11 novembre 2015 in Piazza S. Pietro, a Roma, Papa Francesco ha svolto la sua catechesi «su una qualità caratteristica della vita familiare che si apprende fin dai primi anni di vita: la convivialità, ossia l’attitudine a condividere i beni della vita e ad essere felici di poterlo fare».

Famiglia: insieme a tavola, esperienza fondamentale

«Condividere e saper condividere – ha detto Papa Francesco – è

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una virtù preziosa! Il suo simbolo, la sua “icona”, è la famiglia riunita intorno alla mensa domestica. La condivisione del pasto – e dunque, oltre che del cibo, anche degli affetti, dei racconti, degli eventi… – è un’esperienza fondamentale.

Quando c’è una festa, un compleanno, un anniversario, ci si ritrova attorno alla tavola. In alcune culture è consuetudine farlo anche per un lutto, per stare vicino a chi è nel dolore per la perdita di un familiare».

Una famiglia che non parla a tavola è poco famiglia

«La convivialità è un termometro sicuro per misurare la salute dei rapporti: se in famiglia c’è qualcosa che non va, o qualche ferita nascosta, a tavola si capisce subito. Una famiglia che non mangia quasi mai insieme o in cui a tavola non si parla ma si guarda la televisione o lo smartphone è una famiglia “poco famiglia”. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato».

Gesù insegnava volentieri a tavola

«Il cristianesimo ha una speciale vocazione alla convivialità, tutti lo sanno. Il Signore Gesù insegnava volentieri a tavola, e rappresentava talvolta il regno di Dio come un convito festoso. Gesù scelse la mensa anche per consegnare ai discepoli il suo testamento spirituale – lo fece a cena – condensato nel gesto memoriale del suo sacrificio: dono del suo Corpo e del suo Sangue quali Cibo e Bevanda di salvezza, che nutrono l’amore vero e durevole».

Famiglia che partecipa all’Eucaristia vince tentazione chiusura

«In questa prospettiva, possiamo ben dire che la famiglia è

“di casa” alla Messa, proprio perché porta all’Eucaristia la propria esperienza di convivialità e la apre alla grazia di una convivialità universale, dell’amore di Dio per il mondo.

Partecipando all’Eucaristia, la famiglia viene purificata

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dalla tentazione di chiudersi in sé stessa, fortificata nell’amore e nella fedeltà, e allarga i confini della propria fraternità secondo il cuore di Cristo».

Tempo segnato da troppi muri

«In questo nostro tempo, segnato da tante chiusure e da troppi muri, la convivialità, generata dalla famiglia e dilatata dall’Eucaristia, diventa un’opportunità cruciale. L’Eucaristia e le famiglie da essa nutrite possono vincere le chiusure e costruire ponti di accoglienza e di carità. Sì, l’Eucaristia di una Chiesa di famiglie, capaci di restituire alla comunità il lievito operoso della convivialità e dell’ospitalità reciproca, è una scuola di inclusione umana che non teme confronti! Non ci sono piccoli, orfani, deboli, indifesi, feriti e delusi, disperati e abbandonati, che la convivialità eucaristica delle famiglie non possa nutrire, rifocillare, proteggere e ospitare».

Proteggere i figli degli altri

«La memoria delle virtù familiari ci aiuta a capire. Noi stessi abbiamo conosciuto, e ancora conosciamo, quali miracoli possono accadere quando una madre ha sguardo e attenzione, accudimento e cura per i figli altrui, oltre che per i propri.

Fino a ieri, bastava una mamma per tutti i bambini del cortile! E ancora: sappiamo bene quale forza acquista un popolo i cui padri sono pronti a muoversi a protezione dei figli di tutti, perché considerano i figli un bene indiviso, che sono felici e orgogliosi di proteggere».

Recuperare convivialità familiare

«Oggi molti contesti sociali pongono ostacoli alla convivialità familiare. E’ vero, oggi non è facile. Dobbiamo trovare il modo di recuperarla: a tavola si parla, a tavola si ascolta. Niente silenzio, quel silenzio che non è il silenzio delle monache, è il silenzio dell’egoismo: ognuno ha o la sua televisione o il suo computer… e non si parla. No, niente

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silenzio. Recuperare quella convivialità familiare pur adattandola ai tempi. La convivialità sembra sia diventata una cosa che si compra e si vende, ma così è un’altra cosa. E il nutrimento non è sempre il simbolo di una giusta condivisione dei beni, capace di raggiungere chi non ha né pane né affetti.

Nei Paesi ricchi siamo indotti a spendere per un nutrimento eccessivo, e poi lo siamo di nuovo per rimediare all’eccesso.

E questo “affare” insensato distoglie la nostra attenzione dalla fame vera, del corpo e dell’anima. Quando non c’è convivialità c’è egoismo, ognuno pensa a se stesso. Tanto più che la pubblicità l’ha ridotta a un languore di merendine e a una voglia di dolcetti. Mentre tanti, troppi fratelli e sorelle rimangono fuori dalla tavola. E’ un po’ vergognoso».

Mistero del Convito eucaristico

«Guardiamo al mistero del Convito eucaristico. Il Signore spezza il suo Corpo e versa il suo Sangue per tutti. Davvero non c’è divisione che possa resistere a questo Sacrificio di comunione; solo l’atteggiamento di falsità, di complicità con il male può escludere da esso. Ogni altra distanza non può resistere alla potenza indifesa di questo pane spezzato e di questo vino versato, Sacramento dell’unico Corpo del Signore.

L’alleanza viva e vitale delle famiglie cristiane, che precede, sostiene e abbraccia nel dinamismo della sua ospitalità le fatiche e le gioie quotidiane, coopera con la grazia dell’Eucaristia, che è in grado di creare comunione sempre nuova con la sua forza che include e che salva».

Chiesa è Madre di tutti

«La famiglia cristiana mostrerà proprio così l’ampiezza del suo vero orizzonte, che è l’orizzonte della Chiesa Madre di tutti gli uomini, di tutti gli abbandonati e gli esclusi, in tutti i popoli. Preghiamo perché questa convivialità familiare possa crescere e maturare nel tempo di grazia del prossimo Giubileo della Misericordia. Grazie».

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