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LE VICENDE DEL CONFINE ORIENTALE E LE ORIGINI DELLE FOIBE

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LE VICENDE DEL CONFINE ORIENTALE E LE ORIGINI DELLE FOIBE

Contesto generale: Le vicende del confine Adriatico, rappresentano uno degli episodi più tragici e dolorosi della storia dell’Italia contemporanea e molto probabilmente, nelle intenzioni delle istituzioni, l’aver voluto fissare una giornata dedicata al ricordo, risponde all’esigenza di sottrarre la tragedia vissuta dalle popolazioni della Venezia Giulia non solo dal culto della memoria, ma in particolare da una coscienza nazionale che le aveva rimosse, cioè dalle interpretazioni selettive, egocentriche e cariche d’emotività, che erano state generate dagli strascichi ideologici che ha portato con sé l’ultima e più cruda fase della Seconda guerra mondiale, quando questa è degenerata in una guerra civile combattuta a partire dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana nel Nord Italia. In questo senso, è necessario oggi provare a guardare a quegli eventi con un rinnovato senso critico indispensabile ad un’autentica e libera ricerca storica, che esige distanza dai fatti in esame, revisione delle percezioni soggettive e di parte, ed emancipazione dai pregiudizi ideologici e morali. Troppe volte, infatti, valutazioni politiche e timori di sollevare un argomento considerato scomodo, in particolare nel contesto dei difficili equilibri internazionali innescati con la guerra fredda, hanno caratterizzato una storiografia prevalentemente orientata, soprattutto a sinistra, impedendo, per lungo tempo, di aprire la strada a quella

«ricostruzione di una comune coscienza civile», a cui accennava Claudio Pavone nella Prefazione all’edizione 1994 del suo celebre lavoro, Una guerra civile.

Come su altre vicende legate al «drammatico ciclo di eventi connesso alla seconda guerra mondiale», anche su questa sorta di processo di rimozione che ha gravato sull’Esodo dei giuliano-dalmati, in effetti, hanno sicuramente pesato considerazioni di carattere politico determinate dalla particolare situazione dell’Italia fuoriuscita dalla guerra, in cui le interpretazioni della storia fornite dai partiti sono state considerate come le uniche legittime. Vi ha probabilmente gravato, però, anche la «consuetudine, favorita dalla tradizione cattolica, a lavarsi con facilità la coscienza e a rimuovere sbrigativamente i traumi», in modo da evitare di fare i conti con le responsabilità della violenza esercitata dal regime

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fascista in quell’area geografica 1. Come ricorda Raoul Pupo, uno degli storici che con maggior acume si sono occupati della tragedia delle foibe e dell’Esodo, perlomeno fino alla metà degli anni Ottanta, le poche pubblicazioni sull’argomento «circolavano solo all’interno del mondo della diaspora istriana», con la conseguenza che il dibattito storiografico ha ristagnato fino ad un periodo estremamente recente all’interno di un contesto «inevitabilmente autoreferenziale e assolutamente periferico», dando luogo ad una situazione a dir poco paradossale per la quale, in fondo, «un pezzo d’Italia era scomparso, come se si fosse inabissato nel mare, ma di questo gli italiani (…) sembravano assolutamente inconsapevoli» 2. E’ significativo, ad esempio, il fatto che perlomeno fino ai primi anni Novanta, fossero davvero pochissimi i testi delle scuole superiori che ne facevano cenno. A partire da questo momento, però, è seguita una fase di studi indubbiamente più vivace che ha riguardato non solo il nostro paese, ma anche una nuova sensibilità a livello internazionale. Si è giunti, così, all’istituzionalizzazione del cosiddetto Giorno del Ricordo delle foibe e dell’Esodo istriano, una solennità civile nazionale italiana, decretata con la legge n. 92 del marzo 2004, che si celebra ogni anno nella data del 10 febbraio. L’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – a cui va riconosciuto un grande coraggio, data la provenienza dalle fila del Partito Comunista Italiano che in quelle vicende ha svolto un ruolo perlomeno ambiguo – ha affermato senza mezzi termini il dovere di assumersi «la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica il dramma del popolo giuliano-dalmata», avendo sostanzialmente preferito rimuoverlo «per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, quindi, eventi drammatici che lo stesso Napolitano ha definito chiaramente come «un moto di odio e di furia sanguinaria (…) che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”», mira a ridare valore al ricordo ed a respingere ogni tendenza volta a sottostimare o a nascondere momenti o eventi del passato considerati scomodi, affinché la verità storica si affermi sempre al di là di qualsiasi valutazione d’opportunismo o calcolo di ordine politico o ideologico 3. Ogni forma di ricordo, però, più che ridursi alle forme di un culto celebrativo e retorico della memoria spesso privo di contenuti, ma comunque funzionale a distribuire patenti d’eredità politica, dovrebbe pur sempre orientarsi a sviluppare l’analisi, l’approfondimento e la riflessione storica, gli unici mezzi capaci di produrre conoscenza di un fenomeno ed un’autentica

1 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. X-XVI.

2 Raoul Pupo, Il lungo Esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005, p. 7.

3 Foibe, Napolitano consegna le medaglie d’oro, in La Repubblica, 10 febbraio 2007.

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comprensione del perché e del come si sono svolti gli eventi, e di cui la scuola dovrebbe restare uno strumento indispensabile al fine di sedimentare una proficua coscienza civica nelle nuove generazioni. Il testo della legge, perciò, si esprime nei seguenti termini per definire gli scopi, l’importanza e la funzione di memoria storica di questa giornata commemorativa, affinché la coscienza civica della Repubblica italiana possa finalmente e serenamente portare a termine quel processo di emancipazione dal fascismo e di fuoriuscita dalla Seconda guerra mondiale che ancora non sembra del tutto compiuto.

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio – data in cui nel 1947 fu firmato il trattato internazionale di pace che assegnava alla Jugoslavia l’Istria e gran parte della Venezia Giulia – quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» 4.

Che cosa sono le foibe e l’Esodo: I tragici eventi che negli anni Quaranta del secolo scorso coinvolsero le popolazioni giuliano-dalmata, affondano le loro radici in una storia complessa – che concerne lo sviluppo dei sentimenti nazionalisti nell’area balcanica nel corso dell’Ottocento, la disgregazione dell’Impero austro-ungarico alla fine della Grande guerra, l’occupazione nazifascista nel corso della Seconda guerra mondiale e l’instaurazione dei regimi comunisti nell’Europa dell’est alla fine del conflitto – in cui è difficile orientarsi ed identificare origini e cause precise. In primo luogo, al fine di fare un po’ di chiarezza, è importante cercare di inquadrare, a grandi linee, quali furono quegli eventi che a distanza di tanti anni lo Stato italiano ha deciso di commemorare, di modo che essi non vengano dimenticati come invece hanno fatto per tanto tempo;

quali sono i contesti storici e geografici in cui quelle vicende si svolsero; quali i significati autentici, letterali o simbolici delle parole chiave che vengono utilizzate nell’ambito storiografico che se ne è occupato; e quali sono le motivazioni fondamentali che hanno reso questa storia così importante da meritare che alla sua memoria si stata ufficialmente dedicata una giornata di celebrazioni storiche da parte della Repubblica italiana.

− Le tappe principali. Nel settembre-ottobre 1943, e più tardi nella primavera del 1945, con la progressiva presa del potere da parte del Movimento Popolare di Liberazione jugoslavo agli ordini del maresciallo

4 Legge n. 92, 30 marzo 2004, Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, in Gazzetta Ufficiale, n. 86, 13 aprile 2004.

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Tito, diverse migliaia d’italiani che vivevano nelle terre del cosiddetto confine Adriatico, duramente contese dagli slavi, da una parte, e dalle forze nazi-fasciste, dall’altra, vennero arrestati e deportati, generalmente perché considerati compromessi con il fascismo o con le istituzioni dello Stato italiano, o perché ritenuti preventivamente oppositori del futuro governo comunista che andava instaurandosi. Molti di loro non fecero più ritorno alle loro case, né si seppe più nulla della loro sorte. Una parte di queste persone furono gettate nelle foibe, cavità naturali che si trovano in gran numero nei terreni carsici della Venezia Giulia, dove le loro salme non avrebbero dovuto più essere ritrovate. Questi fatti, per molti anni, sono stati sottaciuti, ricoperti di menzogne, nascosti dal governo jugoslavo e ignorati dalla storiografia ufficiale, molto spesso per motivazioni ideologiche e politiche, al punto che, ancora oggi, risulta piuttosto difficile togliere completamente il velo di nebbia che li avvolge e portare alla luce tutta la drammatica verità che sconvolse la vita delle popolazioni di quelle terre.

− Le foibe e gli infoibati. Il termine foibe indica delle cavità naturali, «spesso delle vere e proprie voragini a forma d’imbuto», che sprofondano «più o meno verticalmente nel terreno per decine di metri, talvolta con dei salti di due o trecento metri», assumendo le sembianze di «abissi» che fendono improvvisamente il terreno. Come chiariscono gli studi di Guido Rumici, però, a prescindere dalla sua contestualizzazione geologica, il termine foibe, nel corso del tempo, è divenuto «rappresentativo della fine di tutte le migliaia di persone scomparse senza dare più notizia di sé, uccise a seguito di due distinte ondate di violenza» scatenate dall’esercito di liberazione jugoslavo, «indipendentemente dal luogo fisico preciso della loro morte».

Va precisato, quindi, che con il termine infoibati si vuole intendere

«l’intera categoria delle persone deportate e scomparse a seguito dell’occupazione jugoslava di Trieste e della Venezia Giulia», ossia un fenomeno più vasto rispetto a coloro che vennero effettivamente gettati nelle voragini naturali, e che comprende tutti coloro che vennero eliminati in modo violento o «prelevati dai partigiani di Tito o dai loro fiancheggiatori locali» ed uccisi in aree geografiche diverse, e quindi, anche di «tutti coloro di cui si persero le tracce durante la deportazione».

Nelle fasi convulse dell’esplosione della violenza partigiana, infatti, alcuni furono fucilati e seppelliti in fosse comuni, assassinati nel corso delle esecuzioni sommarie di cui furono vittime, altri trovarono il decesso per malattia o gli stenti dovuti alle condizioni inumane a cui furono obbligati

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«nei lunghi periodi di detenzione nelle carceri o nei campi di concentramento situati nelle varie regioni della Jugoslavia» 5.

− L’Esodo dei giuliano-dalmati. Il fenomeno della scomparsa della pressoché «intera componente nazionale italiana residente nei territori passati alla Jugoslavia» in seguito alla Seconda guerra mondiale, s’inserisce nel quadro più ampio dell’incapacità di gestire il problema delle cosiddette minoranze nazionali in cui incorsero numerosi paesi europei sia nel primo che nel secondo dopoguerra. Generalmente, con il termine Esodo, si vuole intendere quel fenomeno migratorio che, tra la fine del 1944 e la fine degli anni Cinquanta, interessò più di 250.000 persone, in massima parte italiane, che «dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza», vale a dire le città di Zara, di Fiume, le isole del Quarnaro e la penisola istriana «passate sotto il controllo jugoslavo». I giuliani dell’epoca, come ricorda Raul Pupo, chiamarono Esodo questo massiccio spostamento di popolazione, volendo fare un chiaro riferimento ai testi biblici, proprio per rimarcare che «un intero popolo, con le sue articolazioni sociali, le sue tradizioni e i suoi affetti, era stato cacciato dalla propria terra», segnando nel complesso «la cancellazione pressoché integrale di un gruppo nazionale». Dal punto di vista della narrazione storiografica, nel corso degli anni, sono state offerte diverse interpretazioni e letture dei fatti, che vanno dalla negazione-rimozione di quegli eventi con l’accento posto sulla parola d’ordine della fratellanza italo-jugoslava lanciata da Tito, tipica della «cultura di sinistra d’ascendenza marxista», da una parte, all’indicazione di una precisa volontà di pulizia etnica di stampo nazionalista perpetrata dalle istituzioni jugoslave nei confronti della popolazione rimasta «dalla parte sbagliata della frontiera», appartenente invece alla cultura nazionalista-irredentista, ancora molto viva fino agli anni Sessanta, dall’altra 6. Gli studi storiografici più recenti, invece, si sono concentrati sul come il nuovo stato comunista jugoslavo, all’indomani dell’occupazione dei territori del confine Adriatico in seguito alla fine della Seconda guerra mondiale, non avesse l’intenzione sistematica di ripulire l’Istria dagli italiani, in base a valutazioni di ordine espressamente etnico o nazionale, ma la volontà di eliminare, spesso anche attraverso l’uso della forza, quelli che considerava come i nemici del popolo, ovvero coloro che, in diverso modo, erano imputati di opporsi all’instaurazione del regime socialista, all’annessione dei territori da parte

5 Guido Rumici, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002, p. 9, 11, 217.

6 R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 13-24.

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della Jugoslavia e, in generale, alle linee del Partito comunista. Tuttavia, questo processo avvenne molto spesso in base all’identificazione degli italiani con il fascismo, un presupposto ideologico che derivava dall’esperienza traumatica del ventennio e da tutta una serie di pregiudizi culturali profondamente radicati. Il quadro storiografico che si presenta, perciò, è profondamente articolato e complesso, e nell’esplosione della violenza che caratterizzò la liberazione del Litorale Adriatico dal nazi- fascismo, non solo sembrano essersi sovrapposte più logiche – dalle rivendicazioni territoriali alle differenze etniche, dai pregiudizi di stampo razzistico sedimentati nel tempo alle radicali inimicizie ideologiche – ma è oltremodo difficile risalire indietro nel tempo nel tentativo di identificarne ed isolarne tutte le cause.

Il difficile equilibrio dei confini dell’Alto Adriatico: Per comprendere pienamente le vicende che sconvolsero la vita di migliaia d’italiani che vivevano nelle terre del Litorale Adriatico, bisogna cercare di ripercorrere a ritroso il corso della storia per provare a mettere in luce e ad individuare le cause, le pulsioni, le motivazioni ideologiche, nazionali o culturali, che hanno lentamente condotto all’esplodere della violenza nelle fasi convulse che seguirono l’8 settembre 1943 e poi la liberazione dal nazifascismo nel 1945. In questo percorso temporale, infatti, si possono individuare alcune tappe decisive che hanno caratterizzato il procedere degli eventi e che hanno rappresentato altrettante cesure fondamentali, in cui la microstoria di quelle terre e di quei popoli si è fusa e si è intrecciata con gli eventi che hanno scandito la grande storia delle due guerre mondiali.

− 1866 La Terza guerra d’indipendenza. Con il compimento dell’unificazione nazionale, il Regno d’Italia di recente formazione, si trovò, per la prima volta, ad occupare dei territori in cui, accanto ad una popolazione italiana largamente maggioritaria, era presente un piccolo nucleo di popolazione che si esprimeva in lingua slovena. Allo stesso tempo, il Litorale Adriatico rimasto in mani austriache, e costituito dalle città di Trieste, Gorizia e dalla penisola dell’Istria, finì per ospitare una popolazione composita, formata da italiani, sloveni, croati e tedeschi.

− 1918 La Prima guerra mondiale. Con la conclusione della Grande guerra, fra le cui cause l’inasprimento dei sentimenti nazionalistici nei Balcani aveva svolto un ruolo di primo piano, la definitiva disgregazione dell’Impero austro-ungarico, che sostanzialmente cessò all’improvviso di esistere, aveva prodotto dei mutamenti politici di straordinaria importanza tali che, al suo posto, erano sorti dei nuovi stati, fra cui la Jugoslavia. Il

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«criterio fondamentale» a cui si ispirarono i nuovi trattati fu generalmente

«quello di nazionalità» – su cui aveva abbondantemente insistito il presidente statunitense Woodrow Wilson con i suoi celebri Quattordici punti e la fondazione della Società delle Nazioni – in base al quale si era cercato di «costruire degli Stati nazionali, il più possibile omogenei sotto il profilo etnico e linguistico», anche se, «a causa della complessità della distribuzione delle popolazioni, all’interno di ogni nuovo Stato si vennero a trovare consistenti minoranze» 7. Nell’ambito della conferenza di pace di Parigi del 1919, si era poi tentato di stabilizzare i confini fra l’Italia e la Repubblica austriaca, con l’annessione italiana del Trentino e dell’Alto Adige ed il mantenimento del confine friulano sulla linea delle Alpi Carniche. Tuttavia, la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, aveva lasciato aperte tutta una serie di problematiche che non erano state previste al momento della stipulazione del Patto di Londra e dell’entrata in guerra dell’Italia, quando nessuno avrebbe potuto immaginare il collasso totale di quell’Impero, né il nuovo corso che avrebbero preso le relazioni internazionali in seguito alla discesa in campo degli Stati Uniti ed al nuovo assetto caldeggiato dal presidente Wilson. Nel patto di Londra, in effetti, era stato stabilito che la Dalmazia, abitata prevalentemente da slavi, sarebbe stata annessa al Regno d’Italia, mentre la città di Fiume, dove gli italiani erano la maggioranza, restasse sotto l’Austria. La diplomazia italiana si trovò, così, di fronte ad una scelta dalle sembianze del vicolo cieco: o pretendere il rispetto delle clausole del Patto di Londra, oppure abbracciare i principi wilsoniani ispirati alla nuova politica dell’autodeterminazione dei popoli, rinunciando in questo modo ai vantaggi territoriali che si sarebbero conseguiti in Dalmazia, per puntare ad una politica di distensione con il neonato stato della Jugoslavia. La delegazione diplomatica italiana alla conferenza di pace, però, dando come si dice un colpo al cerchio ed uno alla botte, cercò di ottenere dalla situazione problematica in cui era venuta a trovarsi tutti i vantaggi possibili, chiedendo, da una parte, l’annessione di Fiume in base al principio di nazionalità, e dall’altra, l’ottenimento dei territori promessi nel 1915 al momento del suo ingresso in guerra, sorvolando su quello stesso principio invocato in precedenza. Com’era ampiamente prevedibile, tali richieste scatenarono la reazione ostile degli alleati ed in particolare degli Stati Uniti, andando a determinare una condizione di stallo al tavolo delle trattative che finì per provocare in Italia una serie di vibranti proteste

7 Francesco Maria Feltri, Maria Manuela Bertazzoni, Franca Neri, Chiaroscuro, vol. 3, Dal Novecento ai giorni nostri, Società Editrice Internazionale, Torino 2012, p. 473.

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di stampo nazionalistico, infiammate dall’immagine della vittoria mutilata lanciata da D’Annunzio e dall’impresa di Fiume.

− 1920 Il Trattato di Rapallo. La conclusione della Grande guerra, aveva comportato per il Regno d’Italia l’annessione del Trentino e dell’Alto Adige, a grande maggioranza abitato da una popolazione di lingua tedesca, nonché il Friuli, la Venezia Giulia e l’Istria, zone nelle quali la distribuzione della popolazione era tutt’altro che omogenea e variava ampiamente a seconda delle diverse aree, anche se, generalmente, le campagne erano abitate in prevalenza da slavi, mentre gli italiani, i maggiori protagonisti di una vivace borghesia dedita all’imprenditoria ed al commercio, si concentravano nelle città. In questo contesto, gli accordi di Rapallo definiti sulla base di negoziati bilaterali fra Italia e Jugoslavia, cercarono di chiarire ulteriormente la situazione dei confini, generando un trattato per il quale il Regno italiano rinunciava all’annessione della Dalmazia ex austriaca, ad eccezione della città di Zara, ma ottenne quasi interamente il Litorale Adriatico con le città di Gorizia, di Trieste e l’Istria, mentre la città di Fiume, dove si era creata la situazione più esplosiva, venne a costituire un territorio indipendente ed autonomo.

− 1941-1943 L’espansione italiana. A partire dall’aprile del 1941, la guerra fascista avviata dal governo di Mussolini si allargò improvvisamente ad una nuova impresa con l’invasione della Jugoslavia, a cui parteciparono anche le altre forze dell’Asse, in primo luogo la Germania nazista, poi l’Ungheria e la Bulgaria, ma da cui, come ha ricordato Giorgio Bocca, ne seguirà «un’usura terribile delle nostre forze senza alcun visibile vantaggio» 8. La penetrazione delle truppe italiane a fondo nel territorio balcanico, segnò una profonda modificazione di confini che si allargarono in direzione della costa dalmata verso sud e verso est. Queste zone non furono solamente occupate militarmente, ma direttamente annesse al Regno tramite apposite leggi, determinando così la massima estensione italiana che contemplava anche l’esercizio del protettorato sulla Croazia, realizzando, in tal modo, una delle massime aspirazioni del regime mussoliniano. Tuttavia, il controllo di un territorio così vasto ed impervio, manifestò fin da subito tutta una serie di problemi insormontabili e fu tenuto solamente al prezzo di uno stato continuo di guerra, caratterizzato dalla difficoltà crescente di controllare le aree annesse, soprattutto quelle rurali abitate esclusivamente da sloveni e da croati, le cui organizzazioni di

8 Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Mondadori, Milano 2005, p. XI.

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resistenza contribuirono in maniera massiccia ad impegnare ed a dissanguare le forze armate italiane fino al 1943.

− 1943-1945 L’occupazione nazista. Nel settembre del 1943, a seguito del cedimento politico e militare del fascismo e della firma dell’armistizio dell’Italia con le potenze alleate, il territorio delle province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana, con un’ordinanza del 10 settembre, venne fin da subito occupato dalle forze naziste che lo esclusero definitivamente dal controllo delle autorità italiane, persino da quelle collaborazioniste della Repubblica Sociale che sorsero di lì a poco e che, invece, mantennero una qualche forma d’autorità nel resto del Nord Italia, pur esercitata nell’orbita della strategia di potere hitleriana. Quelle zone presero il nome di Zona di Operazione Litorale Adriatico, furono amministrate direttamente dalle autorità naziste attraverso un Commissario supremo nominato direttamente da Hitler, Friedrich Rainer, un atto che rappresentò un’annessione di fatto al Reich ed una chiara violazione territoriale ai danni dell’Italia destinata a rappresentare «per il governo di Salò una diminuzione di prestigio e di ruolo che rasenta l’intollerabile» 9. Le terre dell’Adriatisches Kunstenlad, al pari delle province di Bolzano, Trento e Belluno riunite sotto l’Alpenvorland, furono l’epicentro di un’occupazione durissima, come avvenne del resto in varie parti dell’Europa sconvolta dal dominio nazista, fatta di violenze e di terribili rappresaglie, al punto che nella primavera del 1944 entrò in funzione la tristemente nota Risiera di San Sabba, al cui interno era in attività un forno crematorio per eliminare i cadaveri dei prigionieri uccisi, in particolar modo partigiani sloveni, croati ed italiani.

− 1945-1947 La pace di Parigi. Con gli avvenienti che segnavano il passo della fine della Seconda guerra mondiale e della disfatta dell’esercito tedesco, la Venezia Giulia divenne il teatro dell’incontro fra due eserciti di liberazione fra di loro alleati: la 4° Armata jugoslava, che aveva da tempo ricevuto l’ordine di puntare immediatamente su Trieste, e l’8° Armata anglo-americana, che fino ad un certo momento si era interessata unicamente a tagliare le vie di fuga alle forze naziste in rotta verso la Germania sulla via del Brennero. In un primo tempo, per evitare pericolose tensioni con la Jugoslavia, il controllo delle maggiori città della zona fu lasciato alla responsabilità degli slavi, poi, nel giugno del 1945, venne firmato un accordo provvisorio fra Inghilterra e Stati Uniti, da una parte, e Jugoslavia, dall’altra, con cui si stabiliva la divisione della

9 Luigi Ganapini, La Repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Garzanti, Milano 1999, p. 326.

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Venezia Giulia in due zone distinte e delimitate dalla Linea Morgan: la Zona A, assegnata all’amministrazione dell’esercito anglo-americano e comprendente la parte occidentale, e la Zona B, assegnata all’amministrazione militare degli slavi. Nel febbraio del 1947, poi, con le clausole stabilite dalla pace di Parigi, la sistemazione dei territori orientali determinò l’aggravarsi della situazione per le popolazioni italiane residenti. In sede di trattative, infatti, all’Italia, venne riconosciuta la responsabilità delle aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia ed alla Jugoslavia, e fu costretta pertanto a cedere a quest’ultima le città di Fiume, Pola e Zara, mentre Trieste venne nominata momentaneamente Territorio Libero. Solo nel 1954, a fronte di una situazione internazionale del tutto mutata con l’evolversi della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti, al confine Adriatico fu applicata una sistemazione conclusiva, quando all’Italia fu definitivamente assegnata la Zona A, con la città di Trieste, ed alla Jugoslavia la Zona B.

Le premesse storiche di un conflitto nazionale: Come si nota da un rapido sguardo ai vari momenti storici che hanno fatto sentire il loro peso sui destini delle popolazioni giuliano-dalmata e dagli stravolgimenti dei confini che portarono all’inasprirsi di tensioni latenti che poi esplosero definitivamente nel corso della Seconda guerra mondiale, la genesi e le radici di questo processo possono essere identificate nella Grande guerra. Non per niente, la Prima guerra mondiale, i suoi esiti ed i trattati di pace che ne seguirono, ispirati, da un lato, al principio di autodeterminazione dei popoli sostenuto in primo luogo dalla diplomazia americana, ma dall’altro, anche da una volontà punitiva da rivolgersi contro i paesi considerati responsabili, Germania ed Austria, avevano prodotto una sistemazione territoriale che, come ha brillantemente intuito Martin Gilbert, avrebbe rappresentato la fucina ed il laboratorio degli odi di molte delle guerre future nel corso del Novecento, al punto che, ancora oggi, alcuni di quei confini costituiscono motivi «di disputa e di conflitto». Le terre del Litorale Adriatico, a lungo contese dall’Italia, prima all’Austria e poi alla Jugoslavia, e simbolo di un irredentismo capace anche di raggiungere punte estreme di acceso nazionalismo e di attivismo spontaneista e militante, come dimostra il caso di Fiume e dell’impresa dannunziana, sono state attraversate per un lungo periodo da una linea di confine che si potrebbe definire fluida, cioè che è stata modificata e si è spostata nel corso del tempo, a seconda delle diverse congiunture internazionali e degli accordi di pace che l’hanno interessata. La guerra del 1914-1918, in questo

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senso, ha costituito un momento centrale, poiché «cambiò la mappa e il destino dell’Europa, così come ne marchiò a fuoco la pelle e ne ferì l’anima» 10.

• La formazione delle identità nazionali: Con il collasso dell’Austria- Ungheria al seguito della Prima guerra mondiale, si crearono anche le condizioni per l’esacerbarsi della questione nazionale nell’area balcanica e del conseguente destino politico delle minoranze prive della possibilità di realizzare le proprie aspirazioni statali, problema che era rimasto sostanzialmente sopito e latente fintanto che aveva retto il sistema di larghe autonomie locali concesse dagli austriaci sotto l’ombrello dell’Impero. Come ha mostrato Raul Pupo, con il crollo della duplice monarchia la lotta nazionale, in una realtà fortemente diversificata dal punto di vista linguistico e delle tradizioni culturali come quella giuliano- dalmata, «divenne lotta per l’inserimento in uno Stato nazionale esclusivista, disposto a gettare tutto il peso delle sue istituzioni in favore della propria “scheggia” nazionale redenta, schiacciando nel contempo gli avversari storici». La fine di quell’immensa carneficina che fu la Grande guerra, quindi, per l’area giuliana, segnò «l’inizio di un dramma nel senso profondo del termine, cioè di una crisi senza alcuna possibilità di soluzione» se non tramite il ricorso a mezzi violenti, poiché ciascuno dei gruppi nazionali coinvolti ritenne «che la salvaguardia della propria identità fosse possibile soltanto all’interno di uno Stato nazionale di riferimento» 11.

Nel processo storico in cui hanno attecchito e si sono sviluppati i vari nazionalismi, un aspetto fondamentale da tenere in conto, è che il concetto di nazione, scoperto o inventato nel corso dell’Ottocento, si caricò di una portata fortemente identitaria e fu abbracciato dai due gruppi antagonisti, quello italiano e quello slavo, manifestandosi secondo forme e modalità profondamente divergenti, al punto che il primo terreno di confronto può considerarsi quello culturale. Da questo punto di vista, le terre del confine Adriatico possono costituire un archetipo rappresentativo delle due diverse concezioni di nazione che nella storia del pensiero si sono affermate lungo il corso del XIX secolo nel cuore dell’Europa: quello democratico- volontaristico di matrice francese, facente capo a Ernest Renan, e quello cosiddetto conservatore risalente alle riflessioni di Johann Gottfried Herder, particolarmente diffuso nell’area germanofona. Non è un caso, che anche sull’onda di questa sua funzione paradigmatica connessa alle varie

10 Martin Gilbert, La grande storia della Prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 2012, p. 3- 11. 11 R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 17.

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declinazioni del nazionalismo, sia stata coniata la formula di laboratorio giuliano, volendo intendere con questa espressione «il fatto che l’area tra il fiume Isonzo e il golfo del Quarnaro, con la fondamentale appendice della costa dalmata, ha visto concentrarsi alcuni dei fenomeni più caratteristici della contemporaneità nell’Europa centro-orientale». Nella Venezia Giulia, in effetti, le comunità italiane, generalmente conformi alla cultura politica rinascimentale in cui spiccava la tradizione mazziniana, avevano sviluppato una concezione della nazione volontaristica, tesa a rimarcare l’importanza della scelta individuale, fornendo così una risposta alle esigenze della comunità locale che favoriva «la componente dotata di maggior potere sociale e più robuste tradizioni culturali, tutti fattori capaci di sostenere i processi di integrazione all’interno della civiltà italica». La compagine slava, al contrario, aveva abbracciato una visione della nazione di stampo etnicista, «secondo il modello tedesco riassumibile nell’espressione sangue e terra», costruendo così un sentimento nazionalista che, probabilmente, «consentiva meglio di difendere le popolazioni slave socialmente subalterne e povere di retaggio culturale dai rischi dell’assimilazione» 12. Questa sostanziale differenza ideologica e culturale, si sarebbe poi resa evidente anche negli attriti che attraversarono il fronte antifascista nel pieno della Seconda guerra mondiale, quando si manifestarono due concezioni profondamente divergenti della lotta di liberazione. I partigiani jugoslavi, infatti, perseguirono generalmente una politica ispirata al concetto di territorio etnico, una visione con la quale si voleva intendere una zona geografica che si andasse ad identificare con l’area abitata dalle popolazioni rurali di una determinata etnia. Tuttavia, una tale impostazione di pensiero era del tutto estranea alla cultura politica italiana, e quindi a tutte le varie tendenze che partecipavano all’arco antifascista, e questa distanza avrebbe inevitabilmente finito per determinare la nascita di attriti, incomprensioni ed equivoci, con conseguenze talvolta anche violente, fra il movimento di liberazione italiano e quello slavo.

In questo gioco di specchi e d’inimicizia crescente tipici delle aree di confine multietniche e plurilingui, com’era appunto la Venezia Giulia, dove si sovrapponevano una molteplicità di soggetti nazionali e di tradizioni a confronto, un ruolo decisivo nella costruzione artificiale dei vari profili identitari è stato assunto da quel processo culturale che Eric J.

Hobsbawm ha definito l’invenzione della tradizione, e che tanto ha

12 Raoul Pupo, Il laboratorio giuliano: panoramica storiografica dell’ultimo decennio, in Perlastoria mail, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, n. 28, gennaio 2010.

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contribuito a forgiare le diverse genealogie nazionali. Questo processo, riscontrabile nella formazione di tutti i nazionalismi che hanno attraversato l’Europa dalla Rivoluzione francese in poi, in genere, è stato caratterizzato dal ricorso alla continuità con un passato risuscitato ed eretto simbolicamente a mito fondatore di un’identità dotata di una storia unificata, elemento che avrebbe poi dovuto rafforzare l’appartenenza alla comunità e legittimare così la compagine nazionale. In realtà, però, se sottoposte ad un’attenta analisi storica, ogni affermazione di continuità storica su cui si sono edificati i processi identitari che hanno sorretto la fondazione delle nazioni moderne, facendo spesso ricorso ad un momento originario o all’immutabilità della comunità nazionale, sono avvenuti sempre sulla base di un «passato storico opportunamente selezionato», isolato dalla storia e poi modellato sulle esigenze del momento, quando non inventato di sana pianta 13. Qualsiasi ricorso al passato, infatti, richiede necessariamente la presenza di un’operazione di cernita e di preferenza, per cui qualsiasi scelta di un passato da rivendicare come proprio non può che essere, in ultima analisi, del tutto arbitrario.

Il problema, nelle «società di confine» come quelle del Litorale Adriatico, fu che i «processi di nazionalizzazione» non si fermarono solamente ad inculcare «credenze e nuovi valori», o a creare una serie di ritualità simboliche funzionali alla coesione della comunità, ma presero la forma di una «pratica che legittimò il primato di un’etnia sull’altra». Nel corso di tutto l’Ottocento, la diffusione di una sorta di frenesia nazionalista nell’intero continente europeo coinvolse intellettuali, associazioni culturali, circoli e correnti varie di pensiero, che si dedicarono anima e corpo ad un’operazione di rimodellamento storico del passato di modo da

«ribadire la presenza della propria stirpe sul territorio dall’antichità alla contemporaneità». Per plasmare quella che può essere definita una vera e propria mitologia nazionale, la cui identità avrebbe dovuto giustificarsi nel passato, si attinse a piene mani al «magazzino simbolico» delle più diverse tradizioni, da cui il ricorso al bagaglio valoriale della religione o alla discendenza da questa o da quella civiltà antica. Fu così che anche la

«tradizione giudaico cristiana permise a nazioni concorrenti di presentarsi come comunità redentrici nei confronti di popolazioni presenti sullo stesso territorio». In diversi contesti geografici, ma in particolare nei Balcani, convinzioni di questo tipo che si richiamavano a valori religiosi o culturali ritenuti assoluti, trasformarono i «membri della nazione avversaria in

13 Eric J. Hobsbawm, Terence Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 2002, p. 3- 17.

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nemici mortali che ostacolano il compito della missione» nazionale, al punto che «l’atteggiamento di odio verso i propri nemici costituì spesso un elemento integrante della socializzazione nazionale». Nell’area del confine Adriatico, così, le tensioni latenti fra le varie comunità linguistiche esistenti, sfociarono nella teorizzazione, da una parte e dall’altra, della necessità storica per la propria etnia di dotarsi di un’organizzazione statuale legata in modo viscerale ed esclusivista ad un dato territorio, trasformando allo stesso tempo le comunità limitrofe in nemici mortali e, quindi, in minoranze indesiderate che ostacolavano il compimento della coesione nazionale. Nella visione nazionalistica italiana, pertanto, gli slavi o gli austriaci nel loro complesso, finirono per essere rappresentati come

«usurpatori delle terre italiane», in nome della continuità tra la civiltà romana e la stirpe italica, mentre da parte slava, in maniera speculare, il ruolo di usurpatore fu ovviamente assegnato agli italiani a cui si negava ogni tipo di ospitalità «in base al “diritto naturale” ricevuto nella precedenza acquisita nell’insediamento territoriale» 14.

La fine della Grande guerra e l’avvento del fascismo: Uno dei grandi eventi europei che incisero più in profondità sulla storia dell’Alto Adriatico fu senza alcun dubbio la conclusione della Prima guerra mondiale e la sistemazione dei confini che ne seguì. Dal 1918, il Regno d’Italia si trovò improvvisamente ad occupare al suo confine orientale il Friuli, la Venezia Giulia e l’Istria, territori in cui la composizione nazionale era tutt’altro che omogenea e presentava caratteristiche multietniche in cui la componente slava, come ricorda Fabio Todero, era radicata e diffusa, con la «presenza di forti comunità slovene e croate – che nel loro insieme risultavano maggioritarie rispetto alla presenza italiana – oltre che di più piccoli gruppi nazionali» 15. La situazione, era ulteriormente complicata dal sovrapporsi di problematiche economiche e sociali alle tensioni etniche, oltre alla complessità del nuovo sistema di equilibrio internazionale fuoriuscito dalle trattative di pace che avevano cercato di stabilizzare i confini europei all’indomani della Grande guerra. Da una parte, infatti, tutto il territorio di nuova annessione era sottoposto ad una grave crisi economica, dovuta principalmente alla perdita di prestigio e conseguentemente al ridursi del flusso commerciale del porto di Trieste che, fino al 1914, era stato il primo sbocco sul mare dell’Impero austro-ungarico. Ne derivava, perciò, l’inasprimento di certe

14 Marta Verginella, Comunità di confine e miti nazionali, in Perlastoria mail, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, n. 28, gennaio 2010.

15 Fabio Todero, Regime forte – stato debole al confine orientale d’Italia, in Ibidem.

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considerazioni delle comunità italiane che, gelose dei propri privilegi e del proprio ruolo commerciale e cittadino, cominciarono a guardare con sospetto un eventuale sviluppo economico e culturale della componente slava che, fino ad allora, era rimasta legata prevalentemente alla dimensione rurale. Dall’altra, la formazione del neonato Regno di Jugoslavia, a cui aspiravano di unirsi gli slavi sottoposti all’amministrazione italiana, determinò il primo fattore di instabilità nelle relazioni con l’Italia, la cui politica estera alla fine del conflitto mirava ad estendere la propria influenza nell’area balcanica, fino ad aspirare al controllo unilaterale dell’Adriatico.

L’annessione delle terre del confine orientale, dal lato italiano della barricata, aveva rappresentato per molti il definitivo coronamento del sogno risorgimentale, duramente conquistato al prezzo d’immensi sacrifici e degli oltre 680.000 militari caduti durante la guerra 16. La propaganda di guerra, in effetti, aveva abbondantemente insistito nel presentare il conflitto nelle vesti di un’ultima e definitiva guerra d’indipendenza e nel dipingere gli Imperi centrali come i grandi oppositori della liberazione dei popoli oppressi sulla via dell’autodeterminazione.

Già prima della guerra, come ha ricordato Enzo Collotti, l’emergere di un forte movimento nazionalista dalle tinte sempre più aggressive e radicali, «aveva avviato un processo di decantazione delle posizioni più intransigenti dell’irredentismo», in base al quale la «differenziazione in irredentismo democratico ed irredentismo nazionalista», aveva lentamente finito per assottigliarsi in favore di quest’ultimo, rendendo del tutto marginale quel sentimento di «democratismo mazziniano che guardava all’accordo con i fratelli slavi». Su queste basi, lo scoppio del grande conflitto europeo, presentato come l’evento epocale in cui si sarebbe compiuto il destino dei popoli, e la conseguente comparsa sulla scena politica italiana di un dibattito feroce in merito alla possibilità dell’intervento che avrebbe prodotto un’autentica spaccatura nel tessuto civile italiano, determinò il saldarsi dell’irredentismo più estremo connotato da tinte antislave, con le posizioni interventiste fautrici di una politica imperialista e di forza. La guerra, poi, produsse un ulteriore radicalizzarsi delle posizioni, andando a formare non solo un «nuovo imperialismo italiano» a livello strategico ed istituzionale che si sarebbe riverberato nelle relazioni con la Jugoslavia, ma anche un sentire diffuso nell’intendere i «rapporti con le popolazioni slave in termini non di convivenza e di accordi ma di esclusione (…), o noi o loro, con un’intransigenza che rasentava il razzismo nel suo assolutismo senza alternative né compromessi» 17.

16 Mark Thompson, La guerra bianca, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 401-402.

17 Enzo Collotti, Sul razzismo antislavo, in Alberto Burgio a cura di, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999, p. 33-61.

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Già lo stato liberale italiano, appena assunto il controllo amministrativo delle nuove province, aveva instaurato delle relazioni con le popolazioni slave sotto la sua giurisdizione seguendo «una linea dettata dalla diffidenza» che si concretizzò nelle prime «forme di controllo e di repressione» rivolte contro gli esponenti di maggiore spicco delle minoranze croata e slovena che potevano «rappresentare un pericolo», come intellettuali, associazioni sindacali, circoli dell’irredentismo slavo, «ma anche militari ex austroungarici rientrati dal fronte» 18. In sostanza, già prima dell’avvento del fascismo – interpretando il sentimento prevalente nel paese che vedeva nel confine orientale il perno attorno al quale si erano consumati i sacrifici immensi della guerra e, quindi, il luogo privilegiato in cui avrebbe dovuto incanalarsi maggiormente il culto della patria – lo stato liberale, seppur debolmente, si era profuso in una sottile opera d’italianizzazione attraverso la quale si sarebbe dovuta cementare l’identità nazionale. Non per niente, Marina Cattaruzza, in uno dei rari saggi che hanno voluto affrontare la storia del confine orientale secondo un’ottica temporale di lungo periodo, e quindi studiandone le dinamiche fin dalla Terza guerra d’indipendenza, ha avanzato una chiave interpretativa delle vicende di queste terre in cui si denuncia una cronica inefficienza dello stato italiano. La gestione del Regno d’Italia nelle aree di nuova annessione, infatti, avrebbe da sempre reso evidente «debolezza delle istituzioni, propensione a soluzioni di emergenza e debolezza rispetto al controllo del territorio», manifestando, perciò, alla fine della Prima guerra mondiale, l’incapacità di superare un rapporto di continuità con un difetto cronico ereditato fin dal processo risorgimentale. L’Italia, in sostanza, si sarebbe mostrata

«scarsamente in grado di radicare nell’area di confine le proprie istituzioni e imporvi in termini indiscutibili la propria sovranità» 19. Su questa situazione estremamente complessa, dove s’intrecciavano problematiche dalla molteplice natura – dalla flessione economica alla difficile composizione etnica o linguistica, dalle tensioni sociali alla frizione fra i vari nazionalismi – la dirompente avanzata del fascismo e lo scalpore suscitato nell’opinione pubblica internazionale dall’impresa di Fiume finirono per gettare benzina sul fuoco in uno scenario di per sé già abbastanza conflittuale.

L’avventura fiumana, infatti, per il suo palesarsi come un episodio autenticamente rivoltoso e come la prima poderosa manifestazione di alcune di quelle numerose caratteristiche che si sarebbero poi ritrovate nel fascismo movimento delle origini, tanto che «costituì il primo tentativo di instaurazione di un nuovo modello di regime basato insieme sul sentimento nazionale e sulle rivendicazioni sociali», può essere considerata come uno degli esempi più

18 F. Todero, Regime forte, cit.

19 Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna 2007, p. 372, 373, 379.

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importanti del confine orientale inteso nel senso di un laboratorio in cui si sono anticipate alcune delle trasformazioni politiche che avrebbero poi investito l’Italia e gran parte dell’Europa 20. Il 30 settembre del 1918, la popolazione in maggioranza italiana della città di Fiume, attraverso un referendum, aveva espresso la volontà di far parte dell’Italia ed aveva nominato un consiglio nazionale, incontrando però la ferma opposizione delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale riunite alla conferenza di pace di Parigi. Nel giugno dell’anno successivo, a seguito di alcuni violenti incidenti scoppiati fra le truppe d’occupazione italiane e francesi, rimasti celebri come i vespri fiumani, la diplomazia internazionale decise di allontanare il contingente italiano che a seguito dell’armistizio era stato stanziato nella città. Tuttavia, in nome del sentimento della vittoria mutilata e del desiderio di portare a definitivo compimento il processo risorgimentale in base agli ideali dell’irredentismo, e grazie ad un sodalizio fra gli ufficiali del reggimento dei granatieri appena cacciati da Fiume e Gabriele D’Annunzio, a settembre maturò l’idea di forzare la situazione e di annettere la città con un colpo di mano militare che ponesse le grandi potenze europee, Francia e Gran Bretagna, di fronte al fatto compiuto. Il 12 settembre del 1919 Gabriele d’Annunzio, il «poeta-soldato entrò nella città in veste di conquistatore» alla testa di un esercito di oltre 20.000 uomini, «composto da ufficiali nazionalisti, ex arditi, ex sindacalisti rivoluzionari interventisti», dotando ben presto Fiume di una costituzione, la Carta del Carnaro, in cui la reggenza del governo era caratterizzata soprattutto da «un’organizzazione sociale di tipo corporativistico» 21. Lo storico Roberto Vivarelli, ha sostenuto che fu proprio da questo momento che si palesò il «distacco fra l’Italia “legale”» e la propensione all’avventura politica di alcuni movimenti radicali, la cui attività era talvolta declinata in forme violente, aprendo una fenditura nel tessuto civile italiano che divenne sempre più incolmabile e dove si intensificarono tutta una serie di «progetti rivoluzionari» nel contesto di una città che appariva come un

«calderone dove si raccolgono e si agitano i più svariati propositi sovversivi». A Fiume, perciò, non solo nacquero una sorta di «Antistato» ed una forma di propaganda, di coreografia e di ritualità politica che furono in seguito abilmente sfruttate dal fascismo in auge, ma si impiantò, forse per la prima volta, una forma di irredentismo radicale ed aggressivo che, insistendo sul culto del soldato caduto in sacrificio all’Italia, avrebbe trovato nella particolare situazione conflittuale del

20 Fiume, in Pierre Milza, Serge Berstein, Nicola Tranfaglia, Brunello Mantelli, Dizionario dei fascismi. Personaggi, partiti, culture e istituzioni in Europa dalla Grande Guerra ad oggi, Bompiani, Milano 2002, p. 258-259.

21 Ibidem.

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Litorale Adriatico le condizioni politiche ideali al suo insediamento 22. L’avventura fiumana, che si concluse nel dicembre del 1920 quando il governo Giolitti decise di fare sgomberare la città ricorrendo all’esercito, si caricò per tutto il movimento irredentista di un grande valore ideale e divenne non solo il simbolo della vittoria mutilata – ossia della percezione ampiamente diffusa nel paese che i sacrifici sostenuti durante la guerra sarebbero stati ripagati solo in parte – ma aprì una crisi irriducibile nella struttura stessa dello stato liberale, contribuendo a diffondere nei circoli nazionalisti l’idea della legittimità dell’attivismo e della possibilità di riuscita dell’avventurismo politico, quando non del vero e proprio colpo di forza.

• Il fascismo di confine: La complessa situazione del Litorale Adriatico e la forte impressione che aveva suscitato nel paese la questione di Fiume, fecero sentire il loro peso anche nella veloce affermazione del fascismo immediatamente dopo la guerra, la cui politica ultranazionalista, una volta preso repentinamente il potere con la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, si riverberò, a sua volta, sulla già difficilissima convivenza fra italiani e slavi nella Venezia Giulia. Alle elezioni del 1919, infatti, i neonati Fasci di combattimento erano andati incontro ad un fallimento evidente che, per un certo periodo, aveva addirittura finito per mettere in discussione la stessa sopravvivenza politica del movimento, risolta solamente con quel «processo di conversione a destra» attuato da Mussolini fra il 1920 ed il 1021. In questo delicato frangente, l’anima ultranazionalista del fascismo, appoggiandosi abilmente sulla questione di Fiume – tema «capace di far convivere gli interventisti di destra e di sinistra, ricreando, seppur per un breve periodo, la fittizia unità dell’interventismo» – prese sostanzialmente il sopravvento sull’ala più legata al sindacalismo rivoluzionario, dettando la futura linea del partito che, da lì in poi, si sarebbe definitivamente saldata con gli interessi della borghesia e del grande capitale, andando a cercare consensi nel ceto medio italiano 23. La poderosa ascesa del fascismo iniziata con la svolta a destra impressa da Mussolini, fu ovviamente favorita da diversi fattori contingenti, fra i quali quelli di maggior peso furono sicuramente il ricollocamento nella vita civile dei reduci di guerra e l’impressionante sviluppo del fascismo agrario in Emilia-Romagna ed in Toscana, che sembrò costituire la risposta degli agrari e dei ceti borghesi alla crisi sociale che si era abbattuta nelle campagne alla chiusura del conflitto.

22 Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. I, Il Mulino, Bologna 1991, p. 574.

23 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2007, p. 10.

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Tuttavia, è singolare anche il fatto che il movimento mussoliniano avesse ottenuto una prima imponente affermazione, in termini di adesioni e di capacità di attrarre consenso, proprio nelle terre del confine orientale, dove riuscì a sfruttare al massimo quel risentimento di rabbia e di delusione che si era creato nel paese in seguito allo stallo delle trattative di pace della conferenza di Parigi. Nella capitale francese la classe dirigente italiana non solo non si era mostrata in «grado di onorare le vecchie promesse, ma non riusciva nemmeno», in sede diplomatica, a «capitalizzare politicamente la vittoria ottenuta sul campo di battaglia». Il fascismo, in effetti, come scrive Hans Woller, nel corso del 1920, «mise radici sempre più solide all’interno del ceto medio, e ottenne i primi grandi successi a Trieste, dove riscosse in particolare le simpatie della locale borghesia di lingua italiana all’epoca impegnata su due fronti: contro i socialisti e contro l’irredentismo slavo». Fu qui, nelle terre del Litorale Adriatico scosse dall’accendersi dei nazionalismi esclusivisti in opposizione, che il fascismo poté presentarsi come il vero difensore «dell’italianità delle zone di frontiera», diffondendosi poi «a macchia d’olio», in gran parte dell’Italia settentrionale 24.

Quello che un’acuta definizione storiografica ha chiamato fascismo di confine, quindi, assunse ben presto caratteristiche estreme e radicali che, a parità della lotta che nello stesso periodo avrebbe contraddistinto il fascismo agrario, giunse ad esprimere non solo un’ideologia ferocemente antislava, ma anche a dotarsi di un’organizzazione squadristica in grado di utilizzare i mezzi più violenti nella sua azione politica. I fascisti locali,

«nelle cui fila si distinse il toscano Francesco Giunta, personaggio dal passato torbido e ambiguo», fecero della Venezia Giulia una delle zone nelle quali le squadre d’azione si resero protagoniste del maggior numero di distruzioni e di assalti, andando a colpire in particolar modo le «realtà slovene e croate» 25. Ne sono un esempio tangibile eventi come l’incendio del 13 luglio del 1920 dell’Hotel Balkan a Trieste, provocato dalle squadre fasciste, e scelto come obiettivo perché sede del Narodni Dom, la Casa della nazione, e delle maggiori organizzazioni slave, e per questo visto come il luogo «più odiato dai nazionalisti italiani, perché testimoniava come gli slavi avessero ormai abbandonato le vesti dei contadini rozzi e incolti per affermarsi come borghesia ricca, istruita e multinazionale», al

2424 Hans Woller, Roma, 28 ottobre 1922. L’Europa e la sfida dei fascismi, Il Mulino, Bologna 2001, p. 23, 32.

25 F. Todero, Regime forte, cit.

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pari e concorrenziale con quella italiana 26. Oppure, altro segnale paradigmatico del clima d’intimidazione imposto al confine orientale dal fascismo, sono le continue campagne propagandistiche che invasero tutte le zone del Litorale Adriatico, i cui proclami, mirando «nel modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade» si vietasse di parlare o di cantare «in lingua slava», dichiaravano apertamente l’intenzione degli

«squadristi» di «far rispettare» i propri intendimenti «con metodi persuasivi» 27. Anche nello studio delle matrici ideologiche del fascismo e dell’analisi del suo sviluppo originario, perciò, può ritenersi valida la nozione storiografica del laboratorio giuliano, perché anche in questo caso, proprio in quest’area, si resero evidenti, forse per la prima volta, alcuni degli elementi dottrinali più importanti che avrebbero poi contraddistinto l’ascesa dirompente del movimento mussoliniano prima della presa del potere.

«Il fascismo al confine orientale – scrive Anna Maria Vinci – rappresenta un esperimento complesso in seno al fascismo italiano e lo stile adottato in queste zone ha un rilievo di carattere nazionale. Non si può prescindere in alcun modo dall’uso della violenza dispiegata capillarmente nel momento in cui si affacciano sulla scena le squadre guidate da Francesco Giunta. Il capo carismatico, gli squadristi (di diversa provenienza sociale) e il contributo (ormai documentatissimo) di parti dell’esercito e delle forze dell’ordine danno l’idea della costruzione di un modello di controllo del territorio ormai al di fuori del paradigma democratico» 28.

Tuttavia, ben prima che il fascismo prendesse il potere e che, quindi, ereditasse dallo stato liberale il problema delle terre di confine facendosi paladino della loro italianizzazione, parallelamente all’affermarsi di un nazionalismo radicale, era cresciuto fra la popolazione italiana locale una declinazione estrema dell’irredentismo colma di pregiudizi antislavi e caratterizzata da atteggiamenti xenofobi, su cui poi fece ovviamente leva il movimento mussoliniano per consolidare le proprie posizioni di forza.

Quel processo di saldatura fra l’interventismo e le correnti più estremiste dell’irredentismo che si era realizzato con lo scoppio della Prima guerra mondiale, aveva creato un sentimento diffuso che «aveva già espulso mentalmente gli slavi dalla Giulia negando ogni principio di tolleranza e a maggior ragione di convivenza», e che era maturato su tutta una serie di

26 R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 32.

27 F. M. Feltri, M. M. Bertazzoni, F. Neri, Chiaroscuro, vol. 3, cit., p. 473, 474.

28 F. Todero, Regime forte, cit.

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considerazioni e di giudizi su cui gravavano pesantemente moventi di natura non solo etnica, linguistica, culturale o religiosa, ma anche risentimenti economici e sociali. Le trasformazioni economiche determinate dalla guerra, poi, con l’Italia schiacciata dalla crisi e da un enorme debito pubblico, a cui si aggiungeva nelle terre di confine la flessione commerciale della costa adriatica dovuta al collasso dell’Impero austro-ungarico, non poterono fare altro che acuire le problematiche dovute all’«incrocio di etnie diverse», tanto che ciò che in fondo

«l’elemento italiano non tollerava più era per l’appunto l’alfabetizzazione e l’acculturazione delle masse slovene, la formazione incipiente di una borghesia slovena, la formazione di proprietà della terra e di banche in mano agli slavi». Tanto più che questo tipo di risentimento continuava a nutrirsi di pregiudizi radicati da generazioni, e soprattutto orbitava attorno a tutto un uso di allusioni, di modi di dire, di metafore e di espressioni ricorrenti che celavano malamente la fermentazione di un odio viscerale di stampo razziale che sarebbe emerso in tutta la sua pienezza solamente sotto l’ombrello del regime fascista. Agli slavi, infatti – definiti dispregiativamente gli allogeni, cioè di altra stirpe o minoranza presente nel seno della nazione, e per questo etichettati come stranieri o comunque frutto di «invasione», di «infiltrazione», di «infezione» –, venivano non solo assegnati i «connotati dell’oscurità delle tenebre, dell’incombente minaccia di malanni», ma su di essi veniva riversato soprattutto un rancore di stampo sociale, che voleva rimarcare in modo denigratorio la distanza fra gli italiani civilizzati, borghesi e cittadini, e le comunità slave e croate, invece, retrograde, rozze e rurali. Per questo gli slavi erano dipinti attraverso «l’immagine ricorrente delle “torme di sloveni dalla campagna”

all’assalto dei cittadini», o come «“popolo minuto servile” all’infimo gradino della scala sociale» o al fondo della «gerarchia di civiltà», gente barbara e rude, scarsamente civilizzata, «calata d’oltralpe, sospinta da oscure brame di conquista» delle terre italiche 29.

Dal 1922, quando Mussolini salì al potere, e poi dal 1924-25, quando il fascismo si fu pienamente insediato come regime a seguito del delitto Matteotti e dell’emanazione delle cosiddette leggi fascistissime, nelle terre del Litorale Adriatico il governo legalizzò in sostanza il linguaggio e gli atteggiamenti repressivi adottati in precedenza dallo squadrismo e s’impegnò con tutto l’apparato di cui disponeva a «cancellare ogni traccia

29 E. Collotti, Sul razzismo antislavo, cit., p. 33-61.

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della presenza culturale slava» 30. Come ricorda Raoul Pupo, infatti, per tutto il ventennio, la politica del regime nei confronti delle terre annesse fu animata da un «acceso antislavismo», che aveva gettato intenzionalmente le basi per una progressiva «snazionalizzazione delle componenti slovene e croate presenti nei territori annessi all’Italia», ed incentrata su una legislazione fortemente lesiva delle libertà dei cittadini allogeni. Le caratteristiche peculiari dell’iniziativa fascista in queste zone furono «la radicalità dei propositi, la virulenza dei provvedimenti repressivi», ma anche la «scarsa efficacia», nel senso che l’intento d’italianizzare integralmente le terre annesse perseguito dal regime, «cioè la cancellazione dell’identità nazionale slovena e croata, non fu nemmeno lontanamente sfiorato». Alle soglie della Seconda guerra mondiale, infatti, nonostante anni di politica fascista volta, da un lato, a «riavviare a forza il processo di assimilazione degli slavi alla lingua e alla cultura italiana», e dall’altro, a creare tutte le condizioni necessarie a favorire l’emigrazione da quelle terre delle comunità indesiderate, «la componente slava della popolazione giuliana risultava pressoché stabile dal punto di vista demografico» 31.

Il delitto Matteotti, quindi, fornì al regime il pretesto per imporre al paese una legge liberticida che nella Venezia Giulia ebbe effetti ancora più duraturi e profondi, perché fornì l’immediata possibilità di applicare una strategia politica deliberatamente mirata a sciogliere «tutte le organizzazioni legali delle minoranze slovena e croata: partiti politici, circoli culturali, associazioni sportive, giornali e riviste» 32. A partire dalla riforma dell’istruzione di Giovanni Gentile del 1923, l’insegnamento scolastico nelle lingue diverse da quella italiana venne progressivamente cancellato, i nomi di tutte le località furono italianizzati, il clero sloveno e croato fu duramente osteggiato e verso la fine degli anni Venti la battaglia culturale del regime impose addirittura il divieto di porre ai propri figli un nome di origini slave, definendo una situazione per la quale alla componente non italiana era, di fatto, impossibile manifestare in qualsiasi modo la propria identità. In sostanza, l’avvento del fascismo eresse a

«politica di regime» quelli che fino a prima erano stati i caratteri più estremi e deleteri di un certo nazionalismo radicale e ferocemente antislavo, ma che era rimasto fino ad allora solo «un diffuso sentimento più o meno popolare». Il nuovo indirizzo di governo, in effetti, realizzò

30 F. M. Feltri, M. M. Bertazzoni, F. Neri, Chiaroscuro, vol. 3, cit., p. 474.

31 R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 33, 34.

32 Ibidem, p. 34.

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«una concreta politica che non fu soltanto di separazione tra le comunità nazionali che coesistevano sul territorio ma di vera e propria sopraffazione dell’una sull’altra» e che, come ricorda Enzo Collotti, assunse le forme di un vero e proprio «genocidio culturale» 33.

Questi elementi, però, non devono indurre a credere che la politica di snazionalizzazione delle minoranze del regime posta in atto nel Litorale Adriatico finisse per limitarsi all’ambito culturale o ad interventi retorici nel campo della toponomastica, fornendo così l’impressione fuorviante di una repressione più o meno morbida. I campi d’intervento del fascismo, infatti, furono molteplici e si articolarono su diversi livelli. Fra i caposaldi strategici della politica d’italianizzazione forzata vi era anche la volontà di annichilire la componente slava dal lato economico, espropriando le terre ai contadini o scompaginandone «l’intera rete corporativistica e creditizia», per favorire, di contro, «l’avvio di un’opera sistematica di colonizzazione delle campagne slave da parte di contadini italiani». Non solo, lo stato italiano, timoroso della presenza di un nazionalismo che auspicava la riunione con il neonato Regno di Jugoslavia, aveva avviato fin dall’annessione delle nuove terre, una politica persecutoria nei confronti «della classe dirigente slava, sospettata di tramare contro l’Italia», che poi il fascismo portò a pieno compimento. Vi furono, perciò,

«arresti, internamenti ed espulsioni che colpirono soprattutto militanti politici ed intellettuali». In seguito, poi, furono varate una serie di norme che finirono per lasciare senza lavoro insegnanti e dipendenti pubblici, mentre ai professionisti fu impedita l’iscrizione agli albi 34.

Di fronte a queste dure misure ed alla decisione del regime di fare del confine orientale il simbolo dell’italianità, ovviamente, varie migliaia di sloveni e di croati scelsero la via dell’emigrazione, ma la stragrande maggioranza decise, o fu costretta per la mancanza dei mezzi necessari, a restare, dando ben presto vita ad alcuni movimenti organizzati di resistenza antifascista ed anti-italiana 35. Sorsero, quindi, tutta una serie di

33 E. Collotti, Sul razzismo antislavo, cit., p. 33-61.

34 R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 35, 36, 44.

35 I flussi migratori dalla Venezia Giulia nel periodo fra le due guerre rappresentano un caso complesso da studiare anche perché, talvolta, appare difficile fornire spiegazioni coerenti dei dati.

Da un lato, infatti, come d’altronde in tutto il resto del paese, in quegli anni è riscontrabile un consistente flusso di emigrazione transoceanica che, nonostante i tentativi del regime di arrestarla il più possibile a partire dal 1927, nella regione pare restare costante. Raoul Pupo ritiene che questo dato si possa spiegare con il fatto che il governo fascista, riottoso ad accettare l’emigrazione italiana, tendesse invece nelle terre di confine a non porre alcun ostacolo a quella

«degli “allogeni” e che anzi si doveva in tutti i modi facilitarla». In alcuni periodi, la Jugoslavia, si trovò così costretta ad accogliere ed organizzare delle vere e proprie «ondate di profughi» che finirono per determinare «circostanze di vera emergenza» (R. Pupo, Il lungo Esodo, cit., p. 47, 49).

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