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1) Historia mearum calamitatum, I, 1 (tr. it. a c. di F. Roncoroni, Milano 1974, pp.

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(1)

P

IETRO

A

BELARDO

(1079-1142)

1) Historia mearum calamitatum, I, 1 (tr. it. a c. di F. Roncoroni, Milano 1974, pp.

7-79): «Mio padre, prima di abbracciare la vita del soldato, aveva una certa cultura letteraria; aveva anzi una tale passione per i libri che volle dare a tutti i suoi figli una buona cultura prima di avviarli al mestiere delle armi. Così fece anche con me. (…) Per me studiare era molto facile e piacevole; mi dedicai alle lettere con tanta passione e tale fu il fascino che esse esercitarono su di me, che ben presto decisi di rinunciare alla carriera militare, alla eredità e ai mie diritti di primogenito a favore dei miei fratelli: abbandonai insomma definitivamente la corte di Marte per essere educato in seno a Minerva. E poiché tra tutte le discipline filosofiche preferivo le armi della dialettica, per i suoi acuti ragionamenti, posso dire di aver cambiato le armi della guerra con queste armi e di aver preferito ai trionfi militari le vittorie nelle dispute filosofiche. (I, 2) Divenni così un emulo dei Peripatetici e percorsi, disputando, le varie provincie, recandomi dovunque sentivo che era in vigore l’arte della dialettica (…) Frequentai la scuola del mio maestro Guglielmo di Champeaux (…). Rimasi con lui per poco tempo, dapprima discepolo assai gradito, poi molestissimo, soprattutto da quando avevo cominciato a criticare le sue teorie e non temevo di dimostrargli che spesso era lui che sbagliava (…). D’altra parte, la mia sicurezza e la mia bravura suscitavano anche lo sdegno e l’invidia degli altri discepoli che studiavano con me, soprattutto perché ero il più giovane e l’ultimo arrivato. Di qui ebbero inizio le mie disgrazie (…). Alla fine, sopravvalutando forse, data l’età, le mie reali capacità, aspirai, nonostante fossi poco più che un ragazzo, a dirigere una scuola. Subito cercai il posto dove intraprendere questa attività e mi parve di averlo scoperto in Melun (presso Parigi) (…) Dopo questo mio esordio nell’insegnamento, la mia fama nel campo della dialettica si diffuse enormemente e a poco a poco oscurò non solo quella dei miei vecchi compagni di studio ma perfino quella dello stesso Guglielmo. (…) Alcuni anni dopo (…) il mio maestro d’un tempo, Guglielmo (…), dopo essere entrato nell’Ordine (dei Canonici Regolari del monastero di S. Vittore), aprì una scuola pubblica. Allora tornai presso di lui a studiare la retorica e, per non ricordare che una delle nostre tante dispute (…) gli demolii (…) la sua vecchia dottrina sugli universali. A proposito della esistenza comune degli universali, infatti, Guglielmo sosteneva che in tutti gli individui è presente essenzialmente la stessa realtà, in modo che non c’è nessuna differenza nell’essenza, ma solo una certa varietà in conseguenza della molteplicità degli accidenti. Dopo la nostra disputa però egli modificò la sua teoria e arrivò a sostenere che la stessa realtà è presente nei singoli individui non essenzialmente ma indifferentemente. Ma, come è noto, il problema degli universali nel nostro campo è problema fondamentale (…) e perciò quando Guglielmo corresse o meglio fu costretto a modificare completamente il suo pensiero in proposito, le sue lezioni caddero in un tale discredito che a stento gli fu concesso di trattare le altre parti della

dialettica (…). Da quel momento, divenni in questo campo una tale autorità che anche coloro che per l’addietro erano i più appassionati seguaci di quel grande maestro e i miei più decisi avversari si precipitarono in massa alle mie lezioni; anzi lo stesso successore di Guglielmo nella scuola di Parigi venne a offrirmi il suo posto (…). Guglielmo (…) fece destituire dall’incarico (…) colui che mi aveva lasciato il suo posto e gli sostituì un altro discepolo notoriamente a me avverso. Allora io me ne tornai a Melun e riaprii la mia scuola. (I, 3) Nel bel mezzo di queste dispute o discussioni, mia madre Lucia, cui ero sinceramente legato, mi pregò di tornare a casa (…). Sbrigate queste faccende, tornai in Francia, con la precisa intenzione di studiare la teologia (…). Allora la massima autorità nel campo della teologia, già da molto tempo, era il suo (di Guglielmo) vecchio maestro Anselmo di Laon. Mi recai dunque da questo vecchio ma ben presto mi resi conto che più che un’effettiva preparazione gli aveva giovato la lunga pratica (…). Se lo si stava ad ascoltare poteva anche affascinare, ma quando si cominciava a discutere ci si avvedeva della sua nullità. (…) Era simile (…) ad un albero che da lontano, a causa del gran numero di foglie, ti sembra maestoso e carico di frutti, ma da vicino, se lo guardi bene, scopri che non ne ha neanche uno. Io mi ero accostato a questo albero per raccoglierne qualche frutto, ma capii che era come il fico sterile maledetto dal Signore (Mt 21, 18-22 e Mc 11, 12-14) o come la vecchia quercia, cui Lucano paragona Pompeo, dicendo: “È solo l’ombra dell’eroe che fu | un’alta quercia in un campo di messi” (Farsalia, 1, 125-136). (…) Un giorno, dopo esserci esercitati a confrontare le Sentenze, noi studenti discutevamo amichevolmente. Uno di loro, come per mettermi alla prova, mi domandò che cosa pensassi dello studio delle Sacre Scritture ed io, che fino ad allora avevo studiato solo la filosofia, risposi che quel tipo di studio era più utile di qualsiasi altro, perché permetteva di apprendere ciò che è necessario per la salvezza della nostra anima, ma che mi stupiva grandemente che delle persone istruite come loro non si accontentassero, per capire i commenti dei santi Padri, dei loro scritti o tutt’al più delle glosse, ma avessero bisogno anche di un maestro, di una guida. Molti dei presenti scoppiarono a ridere e mi domandarono se io mi ritenevo in grado di commentare da solo i Sacri testi.

Risposi che se volevano ero pronto a provare, ma essi si misero a gridare e a ridere ancora più forte, dicendo: ‘certo che siamo d’accordo! Cercheremo e ti assegneremo un commento di qualche passo meno noto della Scrittura, e vedremo se quel che prometti è vero’. E tutti d’accordo scelsero un’oscurissima profezia di Ezechiele.

(…) Alla mia prima lezione erano presenti in pochissimi (…) ma la lezione piacque

talmente a coloro che vi erano intervenuti che non solo si congratularono con me ma

mi invitarono anche a continuare. (I,4) Naturalmente, il mio successo accrebbe

l’invidia di Anselmo. (I, 5) Pochi giorni dopo, comunque, tornai a Parigi, dove per

alcuni anni occupai quella cattedra che già da tempo mi era stata destinata. (…) La

scuola ebbe uno sviluppo eccezionale, e io ne ricavai gloria e anche parecchio

denaro (…). Ero dunque interamente divorato dalla superbia e dalla lussuria, ma la

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grazia divina, benché contro la mia volontà, seppe guarirmi da entrambe le malattie:

dalla lussuria privandomi dei mezzi con cui la esercitavo, dalla superbia, che mi veniva soprattutto dalla mia cultura e della mia scienza. (I, 6) Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome Eloisa (…). Trovando in lei tutte le qualità che sogliono attrarre gli amanti, pensai di iniziare con lei una interessante relazione, ed ero sicuro che nulla mi sarebbe stato più facile: avevo allora una tale fama ed un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età, che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio amore, non avevo timore di ricevere alcun rifiuto.(…) Per arrivare a questo, mi misi in contatto con suo zio Fulberto, e per mezzo di alcuni amici comuni ottenni di farmi ospitare a pensione nella sua casa (…) Insomma, prima ci trovammo uniti sotto lo stesso tetto, poi anche nei nostri cuori (cfr. Ovidio, Metamorfosi, 14, 79). Con il pretesto dello studio pensavamo solo al nostro amore e inoltre le cure scolastiche ci offrivano quella solitudine che l’amore sempre richiede.

(…) Quale dolore provò lo zio, scoprendo la cosa! (…) Non molto tempo dopo Eloisa si accorse di essere incinta. (…) Così, una notte, mentre suo zio era assente, secondo un piano che avevamo studiato insieme, la rapii dalla casa di Fulberto e la condussi in tutta fretta nel mio paese natio, dove rimase ospite di mia sorella, finché diede alla luce un bimbo cui pose il nome di Astrolabio. (…) Intanto Fulberto dopo la fuga di Eloisa era quasi impazzito (…). Mosso a compassione (…) andai a trovarlo (…) e per meglio calmarlo mi dichiarai disposto a dargli una soddisfazione che andava al di là di ogni sua speranza: ero pronto a sposare colei che avevo sedotto a patto che ciò avvenisse in segreto, perché non nuocesse alla mia reputazione. Fulberto acconsentì. (…) Tutto questo per tradirmi meglio. (I, 7) Subito tornai in patria e riportai a Parigi la mia Eloisa per farla mia sposa. Ma ella non ne volle sapere (…). Si domandava quanto colpevole sarebbe apparsa agli occhi del mondo se l’avesse privato di un lume di sapienza quale ero io e quante maledizioni, quanti danni per la Chiesa, quante lacrime di filosofi sarebbe costato il nostro matrimonio! (…) Ma, lasciando ora da parte questo tipo di inconvenienti, continuava Eloisa, non bisogna dimenticare i limiti che comporterebbe un legame legittimo. Che rapporto può esserci tra l’attività accademica e la vita familiare, tra la cattedra e una culla, tra un libro o un quaderno e una conocchia, tra uno stilo e una penna e un fuso? Pensi che ti riuscirà facile, mentre sarai tutto intento allo studio delle Sacre Scritture e della filosofia, sopportare i vagiti dei bambini o le nenie delle nutrici che cercano di farli tacere o l’andare e venire dei domestici e delle domestiche? E chi può sopportare la nauseante e continua sporcizia dei bambini? Mi dirai che le possono sopportare i ricchi (…) ma, ti rispondo, tra un filosofo ed un ricco c’è molta differenza. (…) Poi vedendo che i suoi tentativi di persuadermi o dissuadermi con queste e altre argomentazioni non potevano farmi desistere dalla mia folle decisione (…) affidammo dunque a mia sorella il nostro piccolo e tornammo di nascosto a Parigi. Pochi giorni più tardi (…) fummo uniti in matrimonio. (…) Ma suo zio Fulberto e i suoi familiari, cercando uno sfogo al loro

disonore, cominciarono a mettere in giro la notizia del matrimonio, tradendo così la promessa che avevano fatto in proposito. (…) Quando io lo seppi, la portai nell’abbazia femminile di Argenteuil, poco fuori Parigi (…) e le feci preparare ed indossare l’abito religioso, adatto alla vita monastica, eccetto il velo. A questo punto, suo zio Fulberto e tutti i suoi parenti pensarono che io mi fossi fatto beffe di loro e che avessi messo Eloisa in monastero per sbarazzarmene più facilmente.

Perciò, gravemente offesi, si accordarono (…), mi sorpresero mentre riposavo tranquillamente (…) e mi tagliarono la parte del corpo con cui avevo commesso ciò di cui essi si lamentavano. (I, 8) Il mattino dopo, tutta la città era adunata davanti alla mia casa (…). Pensavo alla fama di cui godevo fino al giorno prima ed alla rapidità con cui, ora, da una disgrazia qualsiasi era stata offuscata, anzi annientata.

(…) In questo stato di prostrazione e di confusione, più per vergogna che per vera vocazione –lo ammetto- mi indussi a cercar rifugio nell’ombra del chiostro. Ma prima, per mio comando, Eloisa aveva spontaneamente preso il velo ed era entrata in monastero. (…) L’abbazia [di Saint-Denis] in cui mi ero ritirato era mondana e corrotta (…). Così (…) mi ritirai in un piccolo eremo, per dedicarmi ancora una volta all’insegnamento. (I, 9) Proprio allora mi era capitato di dedicarmi per la prima volta all’analisi del fondamento stesso della nostra fede sulla base di analogie razionali e avevo anche composto un trattato di teologia su L’unità e la trinità di Dio ad uso dei miei scolari che mi richiedevano spiegazioni basate sulla ragione e sulla filosofia. (…) Il trattato era stato letto da molti e posso dire che era piaciuto moltissimo (…) ma i miei nemici persero la pazienza e decisero di riunire contro di me un concilio. I miei due vecchi avversari, Alberico e Lotulfo (allievi di Anselmo di Laon e Guglielmo di Champeaux) (…) indussero il loro arcivescovo Radulfo (…) a riunire una specie di assemblea nella città di Soissons. (…) Io naturalmente fui invitato a presentarmi ed a portare il mio famoso trattato sulla Trinità. E così feci.

Ma prima che io arrivassi, i miei due rivali mi avevano talmente diffamato presso il clero ed il popolo che fin dal primo giorno del nostro arrivo, io e i pochi scolari che mi avevano accompagnato rischiammo quasi di essere lapidati dalla folla, che mi accusava, come le era stato dato ad intendere, di andar dicendo e di aver addirittura scritto che esistono tre dèi. (…) I miei avversari (…) pur sfogliando ed esaminando a lungo il mio libro, non vi trovarono nulla che potessero osare di produrre a mio carico (…). Chiamato quindi a comparire davanti al concilio, mi presentai subito; e senza alcun esame, senza alcuna discussione, mi costrinsero a gettare sul fuoco con le mie stesse mani il mio libro. (…) Poi, come se fossi stato un delinquente o un reo confesso, fui affidato all’abate di Saint-Médard (…). Dio, tu che sei l’unico giudice dei giusti, tu solo sai con quanto fiele, nella mia follia, inveissi contro di te e con quanta amarezza, accecato dall’ira, ti accusassi, ripetendo di continuo l’angoscioso lamento di Sant’Antonio: ‘o buon Gesù, dov’eri?’. (…) Ben presto, il legato pontificio (…) mi fece uscire dal monastero dove mi trovavo e mi rimandò nel mio.

(…) Un giorno, mentre leggevo il commento di Beda agli Atti degli Apostoli, mi

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capitò di leggere un passo in cui si affermava che Dionigi l’Areopagita era stato vescovo di Corinto e non di Atene. Tale affermazione sembrava assai in contrasto con l’opinione dei miei confratelli, perché essi sostenevano, menandone gran vanto, che il loro Dionigi era quell’Areopagita che, come dimostrano le vicende della sua vita, fu anche vescovo di Atene. Comunque, non appena l’ebbi trovato, tanto per scherzare, feci leggere ad alcuni dei confratelli presenti il passo in cui, dicevo, Beda non era d’accordo con loro (…). Non l’avessi mai fatto! Infiammati dallo sdegno, cominciarono a gridare che finalmente avevo parlato chiaro, mostrando apertamente che avevo sempre odiato il monastero, e che ora ero arrivato a menomare il prestigio di tutto il regno di Francia, con il negare l’identità del suo patrono (…). Io ribattei che non avevo mai detto niente di simile e che del resto non importava proprio niente che san Dionigi fosse l’Areopagita o arrivasse da qualche altra parte, purché avesse davvero ottenuto da Dio una corona così bella (…) Nottetempo, scappai e mi nascosi (…) nel borgo di Provins, in un eremo di monaci di Troyes. (…) Grazie ad alcuni amici che mi fecero da intermediari, interpellai sul mio caso il re (Luigi VI il Grosso) e il suo consiglio, ed ottenni ciò che desideravo (…). Mi ritirai allora in un eremo che già conoscevo dalle parti di Troyes: là alcuni benefattori mi donarono un pezzo di terra e io, con l’approvazione del vescovo della regione, vi costruii un oratorio di canne e stoppie dedicandolo alla Santa Trinità (successivamente dedicato, dallo stesso Abelardo, allo Spirito Santo, e per questo chiamato Paracleto, consolatore). (I, 11). Ben presto, i miei discepoli scoprirono dove mi trovavo e cominciarono ad affluire da tutte le parti. (…) Quanto più aumentava il numero degli scolari, quanto più dura era la vita che essi conducevano per ascoltare le mie lezioni, tanto più i miei soliti rivali vedevano in questo altrettanti motivi di gloria per me e di vergogna per loro. [Abelardo diviene, dopo poco, abate di Saint- Gildas de Rhuys, ma anche qui è mal voluto dai monaci. Unica sua consolazione è il trasferimento di Eloisa e delle sue consorelle dall’Argenteuil al Paracleto. Abelardo ottiene da papa Innocenzo II la ratifica della donazione con la quale il suo monastero è ceduto alle monache, la cui badessa è appunto Eloisa. Abelardo si reca di frequente dalle sue consorelle, pur attirando ancora su di sé critiche e, in diverse occasioni, addirittura tentativi di assassinio. Si ritirerà, poi, in un eremo isolato dal quale, nel 1134, comporrà questa Historia calamitatum].

2) A

GOSTINO

, De doctrina christiana, II, 6, 8: «Nessuno tuttavia può porre in dubbio che le cose, qualunque siano, si apprendono più volentieri mediante l'uso di similitudini e, se si tratta di questioni investigate con una certa difficoltà, quando le si scopre, ciò riesce molto più gradito. Difatti coloro che non trovano proprio nulla di quello che cercano, soffrono la fame; quelli poi che non fanno ricerche perché hanno le cose a portata di mano, spesso si afflosciano nella noia; e così nell'uno e nell'altro caso bisogna evitare l'illanguidimento. Meravigliosamente quindi e salutarmente lo Spirito Santo ha modellato le sante Scritture in modo che con i passi

più manifesti si ovviasse alla fame [del ricercatore], con i passi più oscuri se ne dissipasse la noia».

3) «Ad un esame più accurato non sfugge che quanto questo filosofo [Platone] e gli altri sostengono riguardo a quest’anima, non può che essere attribuito allo Spirito Santo, che viene così designato attraverso un mito straordinario. Questo modo di esprimersi è assai familiare sia ai filosofi che ai profeti; questi ultimi, quando raggiungono i misteri della profezia, non li sviliscono con parole comuni, ma invogliano maggiormente il lettore con i paragoni della similitudine. Infatti le cose che sembrano fantasiose e lontane da qualsiasi utilità, finché ci si ferma alla lettera del testo, vengono accolte con maggiore interesse dopo aver scoperto che sono colme di grandi misteri e racchiudono un insegnamento profondo e istruttivo.

Secondo la testimonianza di Agostino, esse vengono velate perché non perdano valore».

Theologia ‘Summi boni’, 1, 37-38.

4) «La sostanza divina è chiamata Padre in ragione dell’unica potenza della sua maestà, che è l’onnipotenza, per mezzo della quale può fare ciò che vuole, in quanto nulla può resisterle. È chiamata Figlio in ragione della propria sapienza, per mezzo della quale può distinguere e separare secondo verità tutte le cose, cosicché nulla può sfuggirle o ingannarla. È chiamata Spirito Santo in ragione della grazia della sua bontà, per cui Dio non ordisce malvagità, ma è disposto a salvare tutti».

Ibid., 2, 1.

5) «C

RISTIANO

. Nessuno, che sia dotato della capacità di comprendere, proibirà di investigare e discutere la nostra fede con gli strumenti della razionalità (rationes), e non concederà il proprio assenso a ciò che è dubbio se non perché la ragione stessa gli offra motivi validi per concederlo. Cosicché la ragione (ratio), proprio in quanto

«produce fede in qualcosa che ancora è dubbio», diventa essa stessa ciò che da voi (cioè dai filosofi) è chiamato argumentum. In ogni ambito disciplinare, in effetti, possono sorgere controversie suscitate tanto dalla lettura di opere scritte quanto dal confronto dei diversi insegnamenti; e in qualsiasi forma di disputa dottrinale è certo più solida la verità di una conclusione razionale che una autorità citata quale testimonianza pro o contro. Nel generare la fede, infatti, non è determinante il modo di essere vero in sé dell’oggetto (quid sit in rei veritate), ma ciò che è lecito opinare su di esso: e questo comporta che dalle parole dell’autorità emergano talmente tante questioni che sarà necessario formulare un giudizio su tali parole prima di poter giudicare di altro per mezzo di esse. Ma dopo aver raggiunto una conclusione razionale, anche se tale conclusione non appare in tutta la sua necessità ma è comunque verosimile, non permane più alcuna questione aperta, perché non c’è più spazio per il dubbio».

Dialogo tra un Filosofo, un Ebreo e un Cristiano

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