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Studi su Publilio Optaziano Porfirio

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Academic year: 2021

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio

Premessa

Questo lavoro nasce da un lungo, pluriennale cammino intrapreso da chi scrive in compagnia del poeta Publilio Optaziano Porfirio e dei suoi carmi figurati. Con la mia Tesi di Laurea 1 cercai di studiare l'opera porfiriana in rapporto alla

storia ed alla tradizione del calligramma, concentrandomi poi sugli aspetti linguistici dei componimenti del poeta. In questa sede, invece, ho scelto di confrontarmi con la figura e con l'opera di Optaziano affrontando problemi filologici e letterari specifici ed alle volte molto “lontani” tra loro. Così ho deciso di comporre questo mio lavoro di “micro-saggi” nei quali l'attenzione è focalizzata su aspetti – alcuni più studiati, altri meno – del liber Optatiani che mi sono parsi rilevanti e che forse potranno in qualche modo arricchire il panorama degli studi porfiriani. Questo, almeno, è il mio auspicio e l'obiettivo che, nei limiti delle mie competenze e delle mie capacità, mi sono prefisso. I saggi che si susseguono in questa Tesi di Dottorato sono stati composti in tempi diversi – ma con il progetto comune di questo lavoro a sostanziarne lo sviluppo – e si presentano piuttosto eterogenei, sia per quel che concerne le tematiche in essi affrontate, sia per il “taglio” (alle volte eminentemente scientifico, altre con qualche “spiraglio” concesso alla divulgazione e con uno stile più “immediato”). Si è cercato di strutturare questo lavoro come opera organica che, però, permetta al lettore l'eventuale fruizione “singola” di ognuno dei saggi che lo compongono. Al “corpo” vero e proprio di questi Studi su Publilio Optaziano Porfirio ho premesso un breve capitolo che concerne la storia del carme figurato nella letteratura occidentale e che riprende, condensandola (e limitandone le “escursioni” cronologiche), la terza parte della mia Tesi di Laurea. Questa succinta sezione ha scopo di introduzione generale finalizzata ad una definizione (ed all'esposizione di cenni di storia) del carme figurato a partire dalle origini di questo genere letterario.

Trascorrere questi ultimi anni fianco a fianco con il testo optazianeo mi ha consentito di approfondire non soltanto la conoscenza del calligramma in sé e di potermi, così, addentrare nei meandri dell'invenzione porfiriana. Questa “vicinanza” ad un Autore così singolare e dotato di un genio affatto originale mi ha permesso di muovermi nel mare magnum della poesia latina tardo-antica ed alto-medievale, regalandomi, alle volte, alcune sorprese letterarie e dandomi la possibilità di costruirmi un quadro di riferimento solido e coerente nell'indagine dedicata alla storia della tradizione del carme figurato e della poesia cosiddetta “virtuosistica”.

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insegnandomi la costanza nell'apprendimento della sua tecnica e mostrandomi come la perizia nella forma non possa essere etichettata quale semplice “virtuosismo”. Un significato profondo sostanzia lo sforzo creativo titanico del poeta di età costantiniana, la possibilità di spingere l'ingegno umano – anche laddove esso appaia fine a se stesso – oltre i propri limiti, dando vita a capolavori pur nell'ambito angusto di uno spazio predefinito che è confine all'apparenza invalicabile e, al contempo, punto di partenza della forza “centrifuga” dell'invenzione. In ultima istanza Porfirio mi ha insegnato che quel che pare “raro” spesso è accessibile se ci si dedica ad esso con passione. E che con la perseveranza e la tenacia si possono ottenere risultati impensabili, anche cercando di ricavare un'ultima lettera da una poesia disegnata. Questo, forse, è il personalissimo “lascito” giuntomi da Optaziano. E non è poco.

Desidero in questa sede ringraziare il Professor Claudio Moreschini, mio Docente di riferimento nel triennio di questo Corso di Dottorato di Ricerca in Filologia e Letterature greca e latina, unitamente alla Professoressa Chiara Ombretta Tommasi Moreschini, Relatrice di questa mia Tesi. La preziosa guida del Professor Moreschini è stata, per me, indispensabile ed i suoi consigli sono stati sempre fondamentali per la mia formazione di studioso. Un grazie di cuore al Professor Mauro Tulli. La sua vicinanza ed il suo sostegno sono stati, da sempre, essenziali nel mio percorso di studi presso il Dipartimento di Filologia classica dell'Università di Pisa. Un sentito ringraziamento desidero rivolgere alla Professoressa Isabella Bertagna che sempre mi ha assistito, con pazienza e gentilezza, nel corso di questo Dottorato di Ricerca. A tutti loro un “grazie!” sentito e la mia riconoscenza che durerà nel tempo.

Acqui Terme, Aprile 2011

Francesco Perono Cacciafoco Università di Pisa

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio

Cenni di storia del carme figurato

in Occidente fino al XVII secolo

Jamais quand bien même lancé dans des circonstances éternelles du fond d'un naufrage […] n'abolira […] le hasard […] Toute Pensée émet un Coup de Dés

Stéphane Mallarmé,

Un coup de dés jamais n'abolira le hasard

Introduzione

Per delineare qualche cenno di storia del carme figurato occorrerebbe tracciare, in chiave diacronica, un percorso di comparazione tra le diverse culture che hanno avuto a che fare, più o meno direttamente, con questo genere letterario. La prima caratteristica della storia del calligramma è la discontinuità. Il carme figurato (nelle sue molteplici espressioni) affiora in ambiti letterari assai differenti ed in epoche molto eterogenee senza apparenti motivi di necessità stilistica, seguendo l'ispirazione di alcune personalità poetiche di genio.

Affronteremo succintamente, nelle pagine che seguono, la storia del carme figurato limitandoci a ripercorrerne le “apparizioni” in Occidente, partendo dalla Grecia antica per arrivare fino all'Europa del XVII secolo. Per ragioni di spazio (e perché non sarebbe strettamente attinente a questo lavoro di ricerca)

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio all’Occidente letterario.

Prima di passare in rassegna l’“affiorare” della poesia figurata in Grecia ed a Roma occorre definire il carme figurato. Il carmen figuratum è, per definizione, un componimento l’artificio del quale è prodotto da una particolare disposizione grafica di alcune o di tutte le lettere che contiene, ovvero una struttura poetica dove la diversa lunghezza dei versi designa una figura geometrica (trapezio, quadrato ed altro) od un oggetto (zampogna, uovo ed altro). In Greco i carmi figurati erano definiti technopaìgnia (da téchne, “arte”, “artificio”, e paignìon, “gioco”, e, di conseguenza, “componimento breve”, “leggero”). I carmi figurati traggono forse origine da iscrizioni che dovevano adattarsi ai contorni degli oggetti votivi, ma fin dall’età alessandrina (secolo III a. C.) ebbero sviluppo autonomo e diventarono uno dei generi preferiti dei poeti di tendenza allegorica. Risalgono a questo periodo La scure, L’uovo e Le ali di Simmia di Rodi,

L’altare di Dosiada, La zampogna attribuita a Teocrito di Siracusa. Presso i

Romani, tra gli altri, scrissero carmi figurati Levio (secoli II-I a. C.) e Publilio Optaziano Porfirio (secolo IV d. C.). Vengono estensivamente detti carmi figurati anche quei componimenti poetici l’artificio dei quali consiste in una particolare disposizione delle lettere che non dà, però, luogo a vere e proprie figure. Il tipo più noto è l’acrostico (con le varianti dette telestico e mesostico), ma appartengono al genere anche altri artifici alfabetici e metrici: tra questi i versi palindromi; i versi ropalici (a forma di clava, dal Greco ròpalon, “clava”), che crescono progressivamente di una sillaba; gli anaciclici o reciproci (che si possono leggere a rovescio); gli ecoici, che terminano con due sillabe identiche; gli alfabetici (nei quali le iniziali dei versi vanno da A a Z). L'acrostico, dal Greco àkros, “estremo”, e stìchos, “verso”, è un componimento nel quale le lettere iniziali di ciascun verso formano una parola od una frase e, comunque, seguono un ordine predeterminato (per esempio quello dell’alfabeto). Testimoniato originariamente in antiche iscrizioni funerarie ed in responsi di oracoli, l’uso letterario dell’acrostico sembra risalire al poeta Epicarmo di Cos (secolo V a. C.) il quale, secondo Diogene Laerzio, avrebbe garantito, tramite tale espediente, la paternità dei suoi drammi in versi; gli esempi documentati più antichi di acrostico si trovano in Arato e Nicandro. Ma un’autentica fioritura di acrostici si ebbe soltanto nella poesia a forte tendenza allegorica: in quella greco-ellenistica, come attestano numerosi epigrammi dell’Anthologia Palatina; in quella della tarda Latinità, alla quale appartengono gli acrostici degli argomenti delle commedie plautine (scritti probabilmente al tempo degli Imperatori Antonini, secolo II d. C.) ed i carmi figurati di Publilio Optaziano Porfirio; in quella latino-cristiana, che annovera i poemetti acrostici di Commodiano (Instructiones, secoli III-IV o V d. C.) e numerose composizioni dette “abbecedarie”, nelle quali le lettere iniziali delle strofe, sul modello degli acrostici alfabetici presenti in alcuni salmi biblici, si susseguono secondo l’ordine alfabetico (inni di Sedulio e di Venanzio Fortunato).

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Analizzeremo versi non “disegnati”, ma elaborati in modo da formare strutture stichiche originali. Parliamo, ad esempio, dei versi palindromi (leggibili indifferentemente da destra verso sinistra e da sinistra verso destra), dei versi reciproci, dei versi ropalici e dei versi ecoici. Queste micro-strutture, formate tramite un artificio metrico-visivo-uditivo, offrono embrionalmente l’impronta di quella che ai giorni nostri viene definita “poesia visiva”.

Passeremo poi brevemente in rassegna la tecnica cosiddetta dell’acrostico. Trattasi, prevalentemente, di una formazione verticale di lettere adattata a strutture strofiche. Tramite la lettera iniziale (o quella finale o quella intermedia od attraverso la disposizione di lettere in diagonale o secondo altri disegni) si tracciano un nome, un’altra frase di senso compiuto, una sigla, un’indicazione, uno stico “disegnati” all’interno della struttura dei versi regolari di un qualsiasi componimento. In quest'ambito l’idea della poesia picta si rende più evidente. Il terzo livello è rappresentato dal cosiddetto “calligramma”. Il poeta, tramite versi di differente lunghezza (l’estensione dei quali è scelta in base ai contorni del soggetto da disegnare), traccia l’immagine descritta dai suoi stessi versi. Il quarto livello corrisponde a quello del carme figurato vero e proprio, costituito dai cosiddetti versus intexti, i “versi intessuti” dei quali Optaziano Porfirio fu l'inventore. Su di una base di versi regolari (preferibilmente tutti della stessa lunghezza) l’Autore, servendosi della tecnica dell’acrostico od attraverso il rilievo coloristico di lettere sparpagliate (o regolate, nella loro disposizione, da norme matematiche) sul carme, disegna un motivo molte volte complicato e che non sempre corrisponde necessariamente ad un oggetto descritto, venendo ad essere composto, piuttosto, da elementi sincretistici (variabilmente didascalici o crittati, a seconda delle preferenze e delle esigenze stilistiche, del motivo dominante e delle tematiche affrontate nel carme stesso), “immagini”, a loro volta, della figura delineata.

Il confine che virtualmente separa e differenzia le tecniche sopra descritte (indipendenti, se non nella riproduzione grafica, da motivi calligrafici) è piuttosto debole. Soprattutto i poeti Autori di carmi figurati (a partire, per lo meno, da Optaziano Porfirio) usano, essendo la loro la tecnica più articolata, liberamente gli strumenti delle altre tipologie stichico-visive. Sullo sfondo dei versi regolari i versus intexti possono essere tracciati come acrostici, come calligrammi il disegno dei quali ha un senso compiuto su versi regolari, o come strutture stichiche formate, virtuosisticamente, da palindromi, ropalici, reciproci, ecoici.

Il presente capitolo vuole eminentemente essere una disanima introduttiva e, di conseguenza, non si approfondirà in questa sede la storia del carme figurato che sarà delineata, appunto, esclusivamente per cenni.

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Il carme figurato nell’antica Grecia

Iniziamo, dunque, la nostra sintetica rassegna partendo dalla Grecia antica, riservandoci di aprire qua e là qualche trattazione più specifica su singoli Autori particolarmente significativi per il nostro discorso.

Se ci si volesse mantenere nell'ambito del calligramma propriamente definito la soluzione migliore sembrerebbe quella di partire dall’età ellenistica alessandrina, dalle personalità poetiche di Teocrito, Simmia e Dosiada. Esiste, però, probabilmente qualche attestazione di poesia visiva prima dell’età inaugurata da Alessandro Magno. Ci riferiamo alla tecnica dell’acrostico. Questa strumento stilistico venne utilizzato, ad esempio, dal poeta Epicarmo di Siracusa (originario di Cos) nelle sue commedie. Attraverso l'uso dell’acrostico Epicarmo (vissuto tra il VI ed il V secolo a. C.) garantiva, all’esordio, la paternità dei suoi versi. L’uso dell’acrostico all’inizio di una commedia è ricorrente anche nei testi plautini, allorché si introduce in essi l’argumentum (sovente non delineato da Plauto, ma da rielaboratori e da riordinatori più tardi). Ad ogni modo le attestazioni più antiche di acrostici sembrano risalire, come ricorda Diogene Laerzio 2, ad Epicarmo, il più importante rappresentante della

cosiddetta commedia siciliana.

Dopo questo Autore il salto temporale che ci si presenta nella ricerca di poesia visiva è piuttosto lungo. Per rintracciare un calligramma attestato univocamente e tramandatoci dalla tradizione letteraria (trascurando testi epigrafici metrici che non possono essere definiti “poesia disegnata”) occorre spostarci in età ellenistica, arrivando fino ad una delle più alte personalità della cultura di quell'epoca, il poeta bucolico Teocrito di Siracusa (310 ca. - 250 ca. a. C.). Nell'alveo della sua produzione di idilli il poeta compone un calligramma rimasto celebre nella storia della Letteratura, La Zampogna o Lo Zufolo (S

ú

rigx). Tramite la disposizione decrescente dei versi il poeta disegna il contorno della figura di uno zufolo a canne, strumento tipico delle divinità agresti (dei Pani), intessendo una trama di parole di difficile traduzione e producendo un carme prezioso e raffinato, inserendosi appieno nel solco delle modalità dell'espressione poetica alessandrina. Alcuni studiosi pensano che La

Zampogna non sia opera del poeta di Siracusa. La parte preponderante della

critica, nondimeno, ha attribuito il carme a Teocrito.

L’esperimento teocriteo non resta isolato. Altre due personalità poetiche più o meno contemporanee a quest'Autore compongono poesia figurata. Si tratta di Simmia di Rodi (IV-III secolo a. C.) e di Dosiada di Creta (III secolo a. C.). Simmia, erudito e poeta, scrisse in dialetto dorico. La sua produzione poetica, di stampo eminentemente ellenistico, annovera prevalentemente epigrammi ed è

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quali il trimetro anapestico catalettico, forma metrica che da lui prese il nome. Dosiada, cretese, è personalità poetica più enigmatica. Di lui non si sa molto. L’Anthologia Palatina ed alcuni manoscritti di Teocrito ci hanno tramandato di Dosiada un calligramma che si inserisce nel solco della tradizione del carme figurato ellenistico, componimento intitolato Bomòs (“Altare”), al quale probabilmente si ispirò anche Optaziano Porfirio nel suo Carme XXVI. La figura rappresentata in questo calligramma è naturalmente quella di un’ara.

Poeta che non scrisse calligrammi, ma che si servì della tecnica dell’acrostico è

Arato di Soli (vissuto tra il 315 ca. ed il 240 ca. a. C.), Autore del celebre poemetto I fenomeni. Un altro poeta che compose strutture stichiche acrostiche fu Nicandro di Colofone (II secolo a. C.), alle opere del quale si ispirarono Ovidio per le sue Metamorfosi e Virgilio per le sue Georgiche.

Questo brevissimo excursus inerente alla letteratura calligrammatica greca non può lasciare da parte la nostra fonte più varia di poesia ellenica, l’Anthologia

Palatina. Il libro che ci interessa di quest’opera di raccolta del verso greco è il

XIV. Questo stesso libro è tutto dedicato ad epigrammi e componimenti poetici molto originali (e di epoche diverse) e raccoglie giochi di parole, indovinelli, enigmi, quesiti matematici ed oracoli. Tutte queste composizioni sono strutturate in maniera sicuramente “ardita”. Molte assumono la forma vera e propria del calligramma e lasciano pensare ad una fioritura più estesa di quel che si potrebbe immaginare dello sviluppo del carme figurato, non soltanto (ma prevalentemente) in età ellenistica. Alcuni di questi testi sono puri

divertissements letterari, altri, caratterizzati non solo da genio

“espressionistico”, ma anche da qualità poetica, sembrano essere di livello superiore. Il libro XIV è, naturalmente, la sezione più singolare e per alcuni aspetti “spiazzante” dell’Anthologia Palatina.

Il carme figurato nella letteratura latina

Volgiamo ora rapidamente la nostra attenzione alla Latinità. Nella rassegna che segue non sarà citato Optaziano Porfirio, essendo il poeta e la sua opera gli “oggetti” di questo studio.

A Roma non si può parlare di “prove” di poesia visiva prima del I secolo a. C. E’ nella cerchia dei neòteroi che rintracciamo il fermento culturale e l’aspirazione all’originalità che sono tra i fondamenti “propulsivi” del genere letterario del calligramma. Non a caso i poetae novi si ispiravano direttamente

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio di argomento) della forma poetica dell’epillio.

Levio, poeta neoterico vissuto tra il II ed il I secolo a. C., Autore di un’opera in versi in sei o più libri, gli Erotopaegnia, si adoperò nell'elaborazione di carmi figurati, accentuando la componente del lusus nell’ambito di tutta la sua poesia. L'Autore sperimentò nel campo della lingua latina, coniando neologismi ed impadronendosi delle molteplici possibilità del linguaggio al punto da esprimersi attraverso “impasti” linguistici ed arditezze grafiche apprezzati da Autori successivi quali Apuleio, Aulo Gellio e Frontone che lo citarono nelle loro opere.

Importante fonte letteraria per quel che riguarda l’opera di poeti anche “rari”, alcuni scritti dei quali non sono stati conservati per altra via, è l’Anthologia

Latina, compilata nel VI secolo d. C., che raccoglie testi contemporanei, ma

soprattutto anteriori alla sua stesura tra i quali il celebre Pervigilium Veneris. Nel II secolo d. C. si assiste, sotto Adriano, alla nascita del movimento poetico dei cosiddetti poetae novelli. Già dal nome che li contraddistingue appare naturale il richiamo ai poetae novi. Tratteremo di loro partendo dalla figura di colui che può essere definito il “teorico” del gruppo, Terenziano Mauro.

Terenziano, vissuto molto probabilmente alla fine del II secolo d. C., è un grammatico. Un grammatico e poeta e, a livello formale, un innovatore, visto che scrisse in versi i suoi trattati tecnici e metrici. Terenziano offre numerosi spunti di studio su quella che può essere intesa come la poetica, baroccheggiante e virtuosistica, dei cosiddetti poetae novelli (molti testi dei quali confluiscono nella sopra citata Anthologia Latina). Occorre dire, in ogni caso, che alcuni studiosi collocano la vita di Terenziano un secolo più tardi rispetto alla datazione qui accolta. Il fatto di essere un grammatico non impedì al nostro Autore di essere anche un teorico della poetica dei poetae novelli, come detto, e di sapere usare efficacemente le strutture metriche più rare.

Di Terenziano ci restano tre opere, raccolte in un unico volume, ma differenti tra di loro. Si tratta di un breve trattato De litteris, di una dissertazione De

syllabis e di una più lunga (ma tramandataci incompleta) trattazione De metris.

Tali opere sarebbero, se si segue la praefatio, state composte in tarda età, probabilmente alla fine dell'attività dell'insegnamento, come fissazione di regole e precetti grammaticali. Il De litteris descrive suoni e segni delle vocali e delle consonanti, ma la trattazione si sposta, in breve, sul valore numerico e sulle caratteristiche mistico-magiche delle lettere sintetizzati in alcune formule particolari e precise. Più di argomento comune è il De metris, che analizza le vocali ed i dittonghi e questioni di prosodia inerenti alle quantità delle diverse sillabe nella versificazione esametrica. La teoria metrica seguita da Terenziano è di scuola “derivazionista” (che annoverava tra i suoi rappresentanti più illustri Autori come Cesio Basso e Varrone Reatino). Le tesi derivazioniste sostengono

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verso caratteristico di molti dei Carmina di Catullo. Quello che interessa soprattutto in quest'opera di Terenziano è che l'Autore non si limita alla semplice teoria, ma fornisce al lettore una notevole documentazione di esempi pratici. Per alcuni specifici metri Terenziano è l'unica fonte tecnico-letteraria della quale si può disporre.

E' opportuno ricordare che la definizione di poetae novelli è attestata proprio a partire da Terenziano Mauro (anche se non sappiamo con sicurezza se sia stato il grammatico a coniarla direttamente o se essa sia più antica), che la riferisce ad alcuni poeti dei quali ci restano pochissimi frammenti. Anniano, Autore conosciuto anche da Aulo Gellio, scrisse alcuni Carmina Falisca strutturati a partire da un tipo di verso anomalo detto, appunto, “falisco” e formato da tre dattili più un giambo. Anniano è Autore, inoltre, di “misteriosi” Fescennini. Un altro poeta, Alfio Avito, scrisse carmi sugli uomini illustri della storia dell'Urbe. Mariano, altro versificatore, compose Lupercalia. Settimio Sereno scrisse versi caratterizzati da tematiche rurali e pastorali. Tutti questi poeti vissero tra il II ed il III secolo d. C. e furono approssimativamente contemporanei di Terenziano. Nell'ambito della poesia novella si può rintracciare una tendenza marcata allo sperimentalismo metrico. Emblematici sono il citato “falisco” di Anniano e l'innovazione tecnica che consiste nel cantare temi tradizionali su metri inaspettati ed apparentemente inadeguati. E' un segnale di rottura rispetto ai classici del passato. Sereno tratta di temi pastorali non sulla base dell'esametro virgiliano, ma attraverso l'impiego di dimetri giambici, versetti di ascendenza scenica od epodica. Quel che più ci interessa in questa sede è la nascita di forme di metrica figurata che si esprimono in distici reciproci, nei quali il pentametro “ricanta” all'inverso le parole dell'esametro, ed in poesie che, sistemate sulla pagina in versi di varia lunghezza, adombrano (come la Zampogna di Teocrito e l'Uovo di Simmia, ad esempio) l'immagine dell'oggetto che descrivono. E' una ripresa, portata a conseguenze più elaborate, dello sperimentalismo metrico di alcuni dei poetae novi ai quali, come accennato, i poetae novelli si ispirano direttamente e, più precisamente, delle arditezze di un Levio, in questo senso più innovatore rispetto a Catullo ed agli altri neòteroi. Simili arditezze si rifanno inoltre, come già accennato, allo sperimentalismo dei più tardi tra i poeti alessandrini. I carmina figurata di questo tipo restano, in ogni caso, veri e propri

divertissements letterari.

I poetae novelli sono stati definiti “minori”. La loro esperienza poetica, però, riveste un'importanza non trascurabile nella storia del “carme figurato”. Ad essi si può ascrivere una sorta di anelito di recupero, linguisticamente arcaizzante, dei prodotti letterari dei poetae novi. Questa forma di ripresa dell'antico si inscrive in uno percorso di studio che privilegia l'aspetto antiquario ed “arcaicistico” che riguarda le tematiche affrontate (basti pensare ai titoli,

Falisca e Lupercalia) e, soprattutto, il lessico usato. Scene idilliche, ad

ambientazione italica, nell'antica campagna e parole in disuso, arcaiche, colloquiali, dialettali, permettono agli studiosi di rintracciare, in tale ambito

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(forse del III secolo d. C. ed in questo caso attribuito da alcuni a Floro), Nemesiano (prima metà del III secolo d. C.) e Reposiano (poeta probabilmente del III secolo d. C.). Ricordiamo inoltre che nella cerchia dei poetae novelli può essere annoverato anche l'Imperatore Adriano (117 - 138 d. C.), forse il più colto (insieme a Marco Aurelio) tra tutti gli uomini che ressero le sorti dell'Impero. Adriano scriveva poesie in ambedue le lingue più importanti della sua epoca, il Latino ed il Greco. Di lui restano pochi versi. I più notevoli appartengono ad una poesia occasionale notissima, un colloquio tra l'imperatore e la propria anima scritto prima della morte. La musicale grazia neoterica, nutrita di sensibilità letteraria, la rende gradevole e ne fa quasi un annuncio di “Decadentismo”. La riportiamo qui di seguito:

Animula vagula blandula hospes comesque corporis,

quae nunc abibis in loca pallidula rigida nudula nec, ut soles, dabis iocos!

E’ necessario sottolineare, infine, che a Terenziano Mauro è da alcuni attribuito un celebre palindromo (che quasi sicuramente non è di sua invenzione, ma forse è una citazione) che diventerà nel corso dei secoli un verso misterico (ispiratore anche nel nostro Novecento di romanzi e di films d'Autore), un verso evocativo che, nonostante la sua matrice presunta misterico-occultistica, potrebbe adattarsi benissimo alle scorribande notturne (protagoniste di una commedia o di un mimo) di un gruppo di beoni goliardi ed alticci:

In girum imus nocte et consumimur igni.

Come accennato sopra, il movimento dei poetae novelli poté vantare epigoni che composero carmi figurati e sfruttarono tutte le potenzialità dei versi latini per formare rompicapo metrici e scrittori. I componimenti di tutti questi Autori che analizziamo brevemente qui di seguito sono raccolti dall’Anthologia Latina. Vespa, poeta latino vissuto probabilmente nel III secolo d. C., è Autore di un contrasto di 99 versi tramandatoci dalla tradizione. Si sa che scrisse anche carmi figurati forse giocosi come l’argomento della sua opera trasmessaci dalla tradizione, la disputa di un cuoco e di un fornaio-pasticcere.

Pentadio, poeta latino del III secolo d. C. probabilmente contemporaneo di Vespa, scrisse due brevi elegie, una sulla primavera e l'altra sulla Fortuna, in versi echoici, nei quali l’emistichio finale del pentametro del distico elegiaco ripete quello iniziale dell’esametro (i versi si fanno “eco” tra loro). Un esempio:

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alcuni studiosi pensano che sia vissuto nel IV od anche nel V secolo d. C. Il suo epillio, De concubitu Martis et Veneris, tratta materia affine al Pervigilium

Veneris ed ai temi “cantati” dai poetae novelli. Questi caratteri stilistici fanno

propendere la datazione della vita del poeta per il III secolo d. C., anche se le incertezze non sono del tutto fugate. Autore originale, Reposiano plasma versi di notevole arditezza metrica. E' teoria proposta da più parti quella che ipotizza che il poeta, ispirandosi all’opera di Levio, elaborò carmi figurati non tramandatici dalla tradizione.

Nemesiano, originario di Cartagine e vissuto nel III secolo d. C., impreziosì di spunti metrici e grafici la sua opera, traendone il contenuto dalla tradizione di scuola, offrendo così al suo pubblico un interessante esperimento di sincretismo delle nuove tendenze sperimentali e figurate e della materia classica di livello “alto”. Scrisse un poemetto sulla caccia intitolato Cynegetica e risalente agli anni 283-284 d. C. del quale ci restano i primi 325 versi (raffrontabile all’opera omonima del greco Oppiano di Cilicia – da non confondere con l’Oppiano di Siria attivo nel III secolo d. C., Autore, a sua volta, di un poemetto sulla pesca –, vissuto nella seconda metà del II secolo d. C.) e quattro Bucoliche, trasmesse insieme alle Egloghe di Calpurnio Siculo ed a questo Autore per lungo tempo attribuite erroneamente (a causa anche delle reminiscenze, in esse contenute, oltre che di Virgilio, dello stesso Calpurnio). Perdute sono altre due sue opere:

Halieutica e Nautica. Attribuiti a Nemesiano sono (forse non sono autentici),

inoltre, due frammenti (28 esametri) del De aucupio, sull’uccellagione.

Autore non collegabile agli antecedenti sia per la formazione, sia per le tematiche che affronta, è Commodiano, vissuto probabilmente nel III secolo d. C. (da alcuni studiosi è ritenuto più tardo). Commodiano è un poeta cristiano di lingua latina. Autore anche di un Carmen Apologeticum, scrisse 80 brevi poesie religiose, raccolte sotto il titolo di Instructiones, elaborate attraverso la tecnica dell’acrostico. Commodiano trascura spesso le regole quantitative della poesia latina. Questo fatto può essere dovuto non solo ad una scarsa conoscenza di queste regole o ad un’insofferenza del poeta per esse, ma può essere interpretato anche come scelta stilistica. Ad ogni modo gli acrostici di Commodiano risultano finemente e, insieme, semplicemente intessuti, nonostante le inesattezze prosodiche. Le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso. L’andamento degli accenti tonici delle parole e non più l’alternanza quantitativa garantiscono il ritmo dell’insieme dei versi del poeta. E’ un’anticipazione dell’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa specifica delle lingue e delle letterature romanze.

Terminato il discorso inerente ai poetae novi ed ai loro epigoni (più o meno diretti) occorre soffermarci su due personalità di spicco della letteratura latina

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d. C., si formò a Tolosa tra il 320 ed il 328, poi a Bordeaux, dove ebbe l'incarico di professore, prima di grammatica, quindi di retorica. Nel 364 venne nominato maestro dell'erede al trono imperiale Graziano e fu insignito, in seguito, di cariche pubbliche di rilievo. Morto Graziano, si ritirò a vita privata nel 383. Morì tra il 393 ed il 394.

Tutte le sue opere ci sono state trasmesse (poesie e prose) sotto il titolo onnicomprensivo di Opuscula, precedute da tre Praefatiunculae in distici elegiaci si pensa posteriori al 383.

Ausonio è il più celebrato tra i poeti dotti che scrissero nella seconda metà del IV secolo d. C. L'interesse calligrammatico di questo Autore si riverbera in alcune sue opere. Virtuosismo di versificazione e dominio della lingua caratterizzano l'Oratio, preghiera scritta in versi ropalici (prima parola di una sola sillaba, seconda di due, terza di tre, e così via). Il Griphus ternarii numeri è un lungo indovinello sul numero tre, impregnato di dottrina pitagorica. Il Cento

nuptialis usa versi di Virgilio “tagliati” ed abbinati modificando del tutto il loro

significato originario per descrivere la celebrazione e la consumazione di un matrimonio. Il Grammaticomastix è una sorta di elenco delle più ardue questioni linguistiche delle quali deve occuparsi il professore di grammatica. Da sottolineare, per quanto riguarda l'intento calligrammatico di Ausonio, è soprattutto il Technopaegnion, uno “scherzo d'arte” raffinatissimo nel quale il poeta forgia una serie di composizioni in esametri di argomenti differenti tra loro nelle quali ogni verso è chiuso da parola monosillabica. Il testo, inoltre, è arrivato a noi con il “bagaglio” di interessanti varianti che forse derivano dalla rielaborazione dell'Autore stesso (le “varianti d'Autore” del Pasquali).

Un ulteriore anelito “figurativo” è manifestato da Ausonio nell'Ephemeris che descrive la giornata-tipo di un alto burocrate imperiale. L'argomento, sempre ironico, ma piuttosto noioso, viene alleggerito dall'aspetto formale e da vari espedienti tecnici quali l'uso di metri diversi per le differenti parti della giornata. A livello formale il poeta recupera la tradizione letteraria classica in strutture diverse ed adattate alle esigenze stilistiche della sua epoca. La polimetria e la sperimentazione letteraria (filtrate attraverso l'esperienza dei poetae novelli), rese poco “provocatorie”, minimamente “rivoluzionarie” e, per questo, più adatte alla corte imperiale, l'eleganza e gli equilibri formali dei poeti augustei, risvegliati in forme più minute per il nuovo gusto letterario, la passione per le battute di spirito negli epigrammi che alle volte ricordano Marziale, fanno di Ausonio un abile e moderato maestro del “riuso” (per servirci di un'espressione di Vincenzo Di Benedetto) di quanto di meglio – nell'ambito della poesia – la Latinità abbia prodotto nel corso dei secoli.

Molta critica recente ha svalutato quasi del tutto l'opera di Ausonio a causa dei suoi atteggiamenti ritenuti superficiali e vuotamente ironici e dei suoi virtuosismi metrici. Ingiustamente all'Autore sono state imputate colpe che non sono colpe. La sua ironia, la sua raffinatissima ed irriverente arte metrica, i suoi “esercizi” mai banali di scrittura e di elaborazione di poesia figurata

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nobile famiglia. Sposò una figlia dell'Imperatore Avito (455 - 456 d. C.). Console nel 468, poi prefetto dell'Urbe, improvvisamente abbandonò la carriera politica per quella ecclesiastica. Diventato vescovo di Arverna (Clermont-Ferrand) all'incirca nel 470, organizzò la resistenza contro l'invasione dei Visigoti di Eurico i quali, nonostante tutto, si insediarono nella zona dopo essersene impossessati. Dopo un periodo di prigionia Eurico lo liberò e Sidonio venne reintegrato al suo posto di vescovo, diventando il rappresentante della comunità romana presso i nuovi governanti germani. Morì all'incirca nel 486 d. C.

Di lui ci restano 24 Carmina, suddivisi in panegirici (esametrici) agli imperatori Avito, Maggioriano ed Antemio, unitamente a poesie di occasione (epitalami, descrizioni di edifici, epistole in versi ed altro). Tutti questi “esperimenti” poetici sono anteriori alla sua nomina a vescovo (470 ca. d. C.). Più di rilievo sono i nove libri delle Epistulae, pubblicati tra il 469 ed il 482, ove Sidonio inserisce frequenti componimenti in versi che dimostrano la continuità della sua produzione poetica durante il vescovado.

Sidonio presta attenzione da erudito al particolare minuto, agli aspetti essenzialmente tecnici del linguaggio e della metrica. Vuole unire nelle sue opere le finezze formali di secoli di tradizione retorica. Le scelte lessicali sono volte a rispolverare quanto di più elaborato si possa recuperare dagli Autori del passato. Ma conia neologismi, a dimostrazione che la lingua latina è ancora viva e vitale, capace di confrontarsi coi tempi nuovi.

Sidonio ci interessa in questa sede per le arditezze formali e calligrammatiche che affiorano da tutta la sua produzione poetica ed in special modo per l'uso della tecnica del verso palindromo che riprende spunti che risalgono ai sopra citati poetae novelli e per l'impegno nel recupero di versi di tal genere, in chiave dotta e letterata, appartenenti alla tradizione culturale popolare.

Tra i versi palindromi più celebri della Latinità – di incerta datazione ed accostati, alle volte, alla figura di Sidonio – si possono citare, inoltre, due esempi molto noti:

Roma tibi subito motibus ibit amor e

sole medere pede<s> ede perede melos.

Procedendo nella nostra succinta rassegna possiamo concentrarci brevemente sulla figura di Sedulio (V secolo d. C.), poeta cristiano di lingua latina, Autore di un Carmen Paschale poi rielaborato in prosa (Opus Paschale) e di due inni in onore di Cristo, uno in distici elegiaci ed un altro in quartine di dimetri giambici, intitolati rispettivamente A solis hortu cardine e Hostis Herodis impie. Sedulio si segnala alla nostra attenzione perché alcune sue composizioni sono

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Venanzio Fortunato, poeta e scrittore cristiano (e vescovo di Poitiers) del VI secolo d. C., riveste un ruolo notevole nella storia del calligramma. Autore di

carmina figurata di ispirazione optazianea, di lui si segnala, tra gli altri, il carme

figurato che inviò, unitamente ad una importante epistola nella quale affrontò le tematiche teoriche inerenti alla poesia disegnata, al vescovo Siagrio di Autun chiedendo in cambio del suo dono poetico la liberazione di uno schiavo. Questo dato ci permette di capire quanto fosse considerato pregiato, nei secoli in questione, un carme “disegnato”, offerto – in questo caso – come “merce di scambio” per la liberazione di una persona in condizione di schiavitù. Venanzio è forse il primo dei poeti cosiddetti Porfiriani 3, i quali si ispirarono

direttamente, per la composizione dei loro carmi figurati, alla tecnica dei versus

intexti messa a punto e portata alla perfezione da Optaziano Porfirio.

Lo stile di Venanzio (nelle sue differenti opere in prosa ed in poesia), del quale il carme figurato è una delle espressioni più originali, si ispira alla Latinità classica oggetto dei suoi studi. Il suo Latino, nondimeno, rispecchia ormai l’uso del volgare. Per questo Venanzio Fortunato può essere considerato come l’ultimo dei poeti romani ed il primo dei medievali.

Il carme figurato nel Medioevo

Nel Medioevo fiorì una vera e propria scuola di scrittura calligrammatica sorta soprattutto negli ambienti dei letterati della corte carolingia. Essi furono definiti

Porfiriani da Micone di Saint-Riquier nei suoi Carmina Centulensia 4, in un

passo pieno di ammirazione per la loro sapienza e per la maestria con la quale si destreggiavano nel difficile campo della metrica e della poesia figurata.

Riportiamo qualche nome: tra i primi Ansberto di Rouen e Bonifacio; esponenti della cultura carolina furono, oltre ad Alcuino, il più originale intellettuale dell'epoca insieme a Rabano Mauro, Giuseppe Scoto, Teodolfo, Gosberto e Bernovino, l’“Omero” della corte di Carlo Magno. Porfirianus fu, naturalmente, l'appena citato Rabano Mauro, insieme a Milone di Saint-Amand. Anche il X secolo annovera imitatori di Optaziano Porfirio: Eugenio Vulgario ed Abbone di Fleury, ad esempio.

Alcuino, l’erudito più importante della corte carolina, uomo che non si segnalò soltanto per la sua opera letteraria e per la sua cultura personale, ma che fu l’anima della riforma dell’istruzione e dell’insegnamento alla corte di Carlo Magno, organizzatore della scuola palatina, compose carmi figurati ispirati direttamente a quelli di Optaziano Porfirio, unendo il forte legame culturale della sua educazione classica del passato alle istanze dell’Età di Mezzo, nella rinascenza (non solo culturale e politica) ricca di fermenti e di speranze

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Rabano Mauro 5, allievo a Tours di Alcuino, è l’Autore medievale che più

significativamente adottò e rinnovò la tecnica del carme figurato, ispirandosi direttamente ad Optaziano Porfirio. I suoi calligrammi sono raccolti nel suo

Liber de laudibus Sanctae Crucis. Il testo è una raccolta di carmi strutturati

secondo la tecnica dei versus intexti, tutti dedicati alla croce, alle lodi di essa ed ai suoi significati simbolici e cristologici. A prescindere dal valore poetico dei singoli componimenti lo sforzo disegnativo, la lucentezza dei colori, l’accostamento reiterato del segno della croce intessuto dai versi “in rilievo” a sfondi di altri versi regolari fanno del De laudibus Sanctae Crucis un’opera di valore inestimabile, sicuramente il più importante sforzo pittorico-poetico di tutto il Medioevo e la più alta testimonianza dell’eccellenza alla quale può arrivare la tecnica della poesia figurata. Rabano nel suo libro omaggia dichiaratamente il suo maestro ideale, Optaziano Porfirio. Dice di lui, infatti 6: […] secundum cuius exemplar litteras spargere didici […].

Importanti per le innovazioni prosodiche e metriche che introdussero nella poesia medievale, per la disposizione ritmica dei versi dei testi e per l’associazione al disegno miniaturistico degli scriptoria monastici furono i

Carmina Burana 7, canti medievali goliardici raccolti insieme in una silloge così

denominata dal suo primo editore (J. A. Schmeller, 1847), poiché rintracciata in un codice del 1225 circa proveniente dall’abbazia di Benediktbeuren (Bura

Sancti Benedicti), in Baviera. Il codice è conservato, attualmente, a Monaco. La

raccolta comprende circa 300 componimenti dei secoli XII e XIII, dei quali 250 circa in Latino, una cinquantina in Tedesco od in Latino e Tedesco ed alcuni in Latino e Volgare romanzo. I temi e la struttura ritmica dominanti sono comuni alla poesia cavalleresca (le Crociate, l’amore, la natura) ed all’innografia religiosa (notevole un gruppo di ludi drammatico-religiosi); ma le composizioni tipiche dei Carmina Burana sono le cosiddette Kontrafakturen che, sullo schema di versetti e litanie dei Vangeli, satireggiano e condannano la decadenza degli studi e la corruzione della curia romana. Questi motivi della cultura goliardica, o cultura dei clerici vagantes, si affiancano alla celebrazione della donna, del vino e del dado nella Confessio Goliae di Gualtiero di Chatillon (nato nel 1135 circa), il componimento più celebre della raccolta. La maggior parte dei testi è anonima, ma per alcuni di essi è possibile risalire agli Autori che sono poeti come Ugo d’Orléans (1093 ca. - dopo il 1160), Serlone di Wilton, Pietro di Blois. Profondi conoscitori della cultura scolastica del tempo e della cultura latina pagana (Ovidio, Orazio, Marziale, Giovenale), gli Autori dei Carmina

Burana uniscono alla vena popolaresca dei loro componimenti una grazia

spontanea.

Notevoli nella letteratura europea medievale, per lo sviluppo in senso religioso e cristiano che diedero del carme figurato orientato verso il pressoché costante simbolismo del segno della croce, furono la poesia irlandese e quella spagnola

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(o, più esattamente, “iberica“), soprattutto dei secoli VII ed VIII (ma anche successiva) 8.

Raimondo Lullo 9, multiforme poligrafo catalano vissuto tra il 1233 ed il 1315,

riprese e perfezionò, nella sua Arte breve, il calcolo combinatorio. Questa forma di speculazione teologico-matematica si prestava a numerose applicazioni nel campo della crittografia e della linguistica sperimentale, nello studio di un linguaggio occulto ed indecifrabile e di una lingua universale potenzialmente comprensibile e “parlabile” da tutti gli esseri umani. Lullo ammanta alcuni suoi “esercizi” che possono essere classificati come carmi figurati di tutta la totalizzante e sincretistica concettosità della crittografia e del messaggio simbolico. Il calcolo combinatorio, applicato a differenti cifrari, anticipa le “prove” successive, nell’ottica dell’escogitazione di un linguaggio segreto e di una lingua universale, di Leibniz e di Athanasius Kircher.

In Italia, tra Medioevo, Umanesimo e Rinascimento, soluzioni poetiche non “disegnative”, ma metricamente interessanti, accostabili per l’ispirazione a quelle dei poeti greci e latini più originali, si possono apprezzare nelle opere poetiche di Chiaro Davanzati (secolo XIII), del Burchiello (Domenico di Giovanni, 1401-1449), il quale diede dignità letteraria al sonetto caudato ed all’apparente nonsense letterario, e di Francesco Berni (1497-1535), poeta burlesco le opere del quale sono tra le più rilevanti del periodo storico che sta a cavallo tra il XV ed il XVI secolo. Importante per l’impasto linguistico che presenta e per i suggerimenti metrici innovativi che escogita, nell'ambito della poesia “neolatina” di questi secoli, è Teofilo Folengo (1491-1544), sviluppatore del genere letterario del latino “maccheronico” ed Autore, tra le altre sue opere, di un capolavoro di questa letteratura, il poema intitolato Baldus (1517-1521-1539/1540).

Il Medioevo annovera un'altra notevole personalità poetica che si cimenta nella tecnica calligrammatica dell’acrostico. Si tratta di François Villon, poeta francese vissuto tra il 1431 ed il 1463 circa. Siamo cronologicamente nel Basso Medioevo che, come si sa, in Francia si prolunga per più tempo rispetto a quello italiano. Villon, “poeta maledetto” di ottimi studi, ha composto, con il suo

Lascito e con il cosiddetto Grande Testamento, due tra le opere poetiche più

importanti della letteratura europea. In esse e nelle poesie “minori” Villon pratica disinvoltamente la tecnica dell’acrostico, retaggio della concettosità medievale e, insieme, motivo di “evasione” dalle rigide strutture della poesia “alta” dell’Età di Mezzo francese.

Prima di lasciare il Medioevo, occorre citare incidentalmente le cosiddette

Fatrasies 10, termine tramite il quale si designano curiose composizioni poetiche

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187-Studi su Publilio Optaziano Porfirio

prodotte in Francia tra la metà del secolo XIII e la metà del secolo XIV, divise in tre generi differenti e complementari, fatrasie, fatras (ripresi, nel ’900, da Jacques Prévert) e resverie. Trattasi di composizioni poetiche dalla struttura metrica rigida, ma dal contenuto assolutamente composito. Formano, ciascuna, una sorta di breve racconto in versi, gli agenti del quale sono i più disparati e gli svolgimenti del quale sono i più incongrui. I risultati virtualmente “disegnativi” ricordano le immagini medievali studiate da Jurgis Baltrusaitis 11. Il disordine e

la disarticolazione non escludono una qualche forma di grottesca e paradossale coerenza: una fitta rete di corrispondenze “alogiche” ingloba l’intero universo e, per la loro affinità con il pensiero cosiddetto simmetrico, questi testi sembrano proseguire fino all’estremo il discorso del mito, rintracciando ed inglobando in esso anche l’altro mondo, quello della morte e della pazzia. Attraverso immagini e sequenze che, per quanto fantastiche ed assurde, restano estremamente terrene la retorica delle fatrasies ci ripropone in un gioco ora goliardico, ora crudele, come nei limericks (brevi strofette ritmate secondo lo schema aabba, di origine settecentesca, genere letterario del quale fu maestro il poeta e pittore inglese Edward Lear (1812 - 1888) che perfezionò tramite esso il nonsense poetico ed associò i suoi disegni ai componimenti. Il ritorno finale della rima e delle parole iniziali, una sorta di Ringkomposition, suggella l’istantanea colorata e caricaturale di bizzarri e patetici personaggi, abitanti di un mondo costantemente pazzo e non sempre innocente), la misteriosa identità di conosciuto e di inverosimile. Tre sono le raccolte più corpose di fatrasies, quelle di Arras, quelle di Beaumanoir e quelle di Watriquet.

Forniamo, qui di seguito, un esempio di fatrasie:

Un orso impiumato fece seminar del grano da Douvres a Wissant;

una cipolla pelata era pronta a cantare là davanti, quando su un rosso elefante

arrivò una lumaca armata che andava gridando loro: “Figli di cagne, orsù, venite!

Faccio versi dormendo”.

Il carme figurato dal Quattrocento al Seicento

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inoltrato), opera insuperabile di sintesi è La parola dipinta, di Giovanni Pozzi 12.

Rimandiamo ad essa per tutti gli Autori cinquecenteschi e seicenteschi che, per ragioni di spazio, non tratteremo in questo capitolo. Ci limiteremo brevemente ad accennare a due personalità che sono, per così dire, emblematiche del loro tempo e che hanno, tra le loro molteplici attività, anche praticato la tecnica del carme figurato.

Occorre dire che, soprattutto nel Seicento, nell’ottica della poetica barocca e non solo, il semplice concetto di carme figurato si allargò a significati più estesi, volendo inglobare in sé materiali segreti o reconditi od allineandosi agli allora in voga studi di occultismo e di cabala ebraica (le due “cose” sono molto diverse, ma, nel Seicento, specie in quello inglese, vennero ad essere unite quasi inestricabilmente).

Il Seicento vide, inoltre, soprattutto attraverso le personalità di Leibniz e Kircher, quella che Umberto Eco ha definito “la ricerca della lingua perfetta” 13,

una sorta di lingua artificiale universale, “parlabile” non soltanto in tutta Europa, ma nel mondo intero e della quale l’Esperanto, esperimento fallito di età contemporanea, è l’erede più conosciuto. Questo allestimento di una lingua artificiale passava attraverso codificazioni complicate (si ricordi la tavola steganografica di Athanasius Kircher tramite la quale si sarebbe potuto virtualmente comporre infinite lingue, crittarne altrettante e decifrarne in serie) che sfociavano, soprattutto in ambito religioso, nella scrittura di carmi figurati enigmatici e dalle molteplici rispondenze interne ed esterne.

Kircher 14, genio multiforme e controverso, sviluppò un interesse profondo per

la storia delle scritture e soprattutto per i caratteri cinesi, per quelli dell’Ebraico antico e per quelli geroglifici dell’antico Egitto (ed apprese naturalmente alla perfezione le relative lingue, a parte quella degli antichi Egizi, non decifrata fino alla geniale intuizione di Champollion) che, ad un certo punto della sua vita, pensò di avere tradotto e dei quali diede interpretazioni fantasiose, ma non prive di fondamenti tecnico-scientifici. La sua tavola steganografica, volta alla costruzione di un linguaggio universale e, al contempo, di un codice segreto inattaccabile e sempre cangiante, indecifrabile a meno che non se ne conoscessero i fondamenti, si prestava, unitamente all’interesse per la forma grafica delle scritture pittografiche ed ideografiche, alla strutturazione di carmi figurati che associavano fede religiosa, crittografia, linguistica teorica, geometria e pittura. Il suo testo fondamentale e proteico, l’Oedipus Aegyptiacus (1652-1655), offre parecchi esempi di questa tendenza kircheriana alla poesia disegnata. L’opera calligrammatica di padre Athanasius Kircher non solo è formidabile per quel che riguarda il sincretismo dei concetti racchiusi nelle parole e nelle figure, ma è anche un gioiello artistico-letterario del XVII secolo europeo. Notevolissimo, per citarne uno soltanto, è il calligramma kircheriano rappresentante Il nome di Gesù, immutabile, circondato dalle permutazioni del

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Inaspettatamente si chiude con una sorta di carme figurato, nel quale confluiscono le ultime parole dell’intera opera (la forma è quella di un imbuto rivolto verso il basso, metafora visiva del cono dell’Inferno dantesco), il noto trattato Della dissimulazione onesta (1641) del letterato italiano Torquato Accetto (vissuto nella seconda metà del secolo XVI) 15, Autore inoltre di Rime

(1621,1626, 1638). Torquato Accetto, nel suo trattato, volle dimostrare che la dissimulazione, quando si identifica con la prudenza e non con la volgare menzogna, diventa, nelle mani del saggio, un’arma per difendersi dall’oppressione dei potenti e dalla scomposta insorgenza dei sentimenti personali. Il “calligramma” che chiude la sua opera è simile, per la struttura, a quelli dei poeti greci ellenistici alessandrini ed è costituito da parole di decrescente lunghezza che simulano (tramite le di esse estremità) i contorni di un cono rovesciato. Naturalmente questo Inferno dantesco stilizzato non è formato da versi, ma semplicemente dalle ultime parole che chiudono l'opera. Il carme figurato, dopo il Seicento, vive un apparente declino che si protrarrà per circa due secoli fino all'“esplosione” otto-novecentesca dovuta alla “rottura” degli schemi tradizionali della poesia operata inizialmente dalle avanguardie artistiche e da alcune singole personalità poetiche di altissimo livello.

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Una breve introduzione alla figura ed all'opera

di Publilio Optaziano Porfirio

Mais qui peut entendre les paroles d'une libellule? Certainement pas un colimaçon qui, de surcroît, a mauvaise vue

Edmond Jabès, La libellule et le colimaçon

Cercare di delineare in poche pagine la personalità poetica ed artistica di un Autore come Publilio Optaziano Porfirio è impresa ardua e forse priva di significato. Tante e tanto rilevanti sono le osservazioni applicabili alla figura dell'inventore del carme figurato a versus intexti da non permettere – se non per fornire una veloce informazione cursoria – di svolgere lavoro di sintesi. Si tracceranno, quindi, in questa breve introduzione, alcune linee inerenti alla biografia ed all'opera del poeta di età costantiniana senza alcuna pretesa di esaustività, lasciando ai saggi che compongono questo lavoro di ricerca il compito di provare a fare luce sulla figura di un Autore la biografia del quale si intreccia strettamente alla propria opera, pur stagliandosi l'opera medesima come una testimonianza assoluta di arditezza e di perfezione formale che trascende il dato contingente e che vive, per così dire, un'“esistenza letteraria” a sé stante. La quantità di informazioni a nostra disposizione sulla vita di Optaziano è notevolmente aumentata con la dimostrazione fornita dalla Prosopography di Jones-Martindale-Morris 16 secondo la quale è possibile identificare con

Optaziano stesso uno dei due personaggi di cui parla Firmico Materno a Math., II 29, 10-20. Lo scrittore, nel passo in questione, riporta gli oroscopi di un padre (anonimo 1) e di un figlio (anonimo 12). Di entrambi ricorda gli onori e le

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cariche ricoperte dopo il richiamo dall’esilio: il governo della Campania, il proconsolato d’Acaia, il proconsolato d’Asia, la prefettura di Roma.

Che luogo di origine di Optaziano sia verosimilmente l’Africa è tesi abbastanza antica che non è stata contestata nel tempo. Anche la Kluge, in uno dei suoi primi lavori, prese posizione per l’africanità del poeta: Porfirio, infatti, mostra un particolare interesse per l’Africa stessa (Carme XVI), nonostante questa non avesse gran peso all’epoca di Costantino; usa artificiosità tecniche che trovano precisi riscontri africani (CIL VIII suppl. 12792; 14365); compare con una composizione (Carme XXVIII) nel codex Salmasianus che comprende soprattutto poeti africani; porta un nome molto frequente in Africa (CIL VIII 629; 631; 673; 2393; 4198).

Il problema dell'eventuale propensione di Optaziano per la religione pagana o per quella cristiana nasce dal contrasto tra la notizia di Beda il quale, parlando dei suoi carmi, scrive […] quae, quia pagana erant, nos tangere non libuit […]

17 e la presenza del monogramma di Cristo nelle figure di alcuni componimenti

porfiriani; il Carme XXIV, inoltre, è tutto una professione di fede cristiana, con una complicata esposizione dottrinale sul Cristo, anche se quasi sicuramente si tratta di un componimento non autentico.

Ad un certo punto della sua vita Optaziano sarebbe stato condannato dall'imperatore all'esilio in una non meglio identificata regione ed in un non definito centro, probabilmente a Siga, cittadina dell'odierna Algeria non molto distante da Cartagine. Ma si tratta soltanto di un'ipotesi.

Se si identifica Porfirio con l’anonimo 12 JMM, è possibile trovare nell’astro-biografia fornitaci da Firmico chiarimenti sui motivi dell’esilio stesso ed il

falsum crimen risulta essere un adulterii crimen al quale si aggiunge la pratica

della magia, necessario “ornamento” di una personalità fornita di tanta dottrina e di tanta cultura letteraria da riuscire anche ottimo scrittore.

La carriera di Optaziano dopo la revoca dell’esilio è tutta facilmente ricostruibile per la fortunata coincidenza delle informazioni fornite da Firmico e di quelle del Cronografo del 354. Infatti tra la fine dell’esilio (325) e la prima prefettura urbana (329) vanno nell’ordine collocati il governatorato della Campania (326), il proconsolato d’Acaia (327) ed il proconsolato d’Asia (328). L’ultima notizia relativa alla vita di Optaziano è quella della prefettura del 333. La Kluge pensa che la morte del poeta possa essere collocata tra il 333 ed il 335, perché, nonostante l’esplicita promessa fatta a V 4, manca qualsiasi carme per i Trentennali di Costantino del 335; ma la studiosa stessa fa notare come le cose avrebbero potuto anche andare altrimenti ed i suoi carmi per i Trentennali non essere pervenuti fino a noi 18.

Da XV 15, […] ista canit ruris tibi vates ardua metra […], la Kluge 19 dedusse

che Optaziano, prima di quel carme, avesse composto altre opere che gli consentivano di denominarsi ruris vates, sarebbe a dire, verosimilmente, delle poesie bucoliche. Queste sarebbero state anteriori a tutta la produzione figurata, sicché il Carme XV avrebbe segnato il passaggio da tecniche compositive più

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio

difficili artifici dei versus intexti, mentre le prime opere di Optaziano avrebbero risentito, secondo la studiosa, degli influssi di Teocrito e di Virgilio.

La notizia di Girolamo, […] Porphyrius misso ad Constantinum insigni

volumine exilio liberatur […] 20, ci informa dell’esistenza di una raccolta di

carmi figurati dedicati tutti insieme in un solo volumen all’imperatore per impetrarne la grazia. Questa silloge, che può essere indicata col titolo di

Panegyricus che la tradizione manoscritta dà al corpus optazianeo, fu inviata

all'imperatore in occasione dei Ventennali di Costantino del 325-326 e doveva comprendere carmi scritti dall’esilio per celebrare quella ricorrenza.

Si ricordi che l'antologia dei componimenti tramandatici sotto il nome di Optaziano non corrisponde ad un'edizione curata e voluta dall'Autore: essa, infatti, comprende composizioni da lui scritte in epoche e con tecniche diverse e persino alcuni testi di altri Autori, assai probabilmente posteriori alla sua morte, tra cui le due epistole, una di Porfirio a Costantino e l'altra di risposta dell'imperatore al poeta, premesse all'intero corpus, i carmi XXII e XXIV, nonché il Carme XVII che è un autentico scolio metrico al successivo Carme XVIII. Il nucleo centrale del corpus è, però, l'insigne volumen di cui riferisce Gerolamo.

Optaziano Porfirio incontrò grande fortuna sia nella tarda Antichità sia, e soprattutto, nel Medioevo. Non soltanto la sua opera riuscì a procurargli il perdono ed il favore dell'imperatore, ma i suoi versi divennero nel corso dell'Alto Medioevo testo di scuola, generando tutta una serie di imitatori i quali non esitarono a perfezionare la tecnica dei versus intexti ed a rendere più complicate le immagini (alcuni dei carmi creati dagli ammiratori di Optaziano, nonostante siano di epoca posteriore, sono confluiti e tramandati all'interno del suo corpus). Dopo l'epoca medievale la fama di Porfirio diminuì ed egli fu quasi dimenticato, fino alla sua parziale riscoperta umanistica.

Tra gli Autori che conoscevano l’esistenza del poeta e/o i suoi scritti si possono annoverare Gerolamo, che fornisce la nota indicazione sull’esilio, Fulgenzio, fonte indiretta dei carmi XXIX e XXX, Venanzio Fortunato, Bonifazio, Alcuino, Teodulfo, Giuseppe Scoto, Rabano Mauro, gli anonimi Autori dei carmi figurati inseriti nei carmina Sangallensia e nei versus Augienses, Dicuil, Milone di St. Amand, Incmaro di Reims, Eugenio Vulgario, Abbone di Fleury, imitatori di tecniche e modelli optazianei, Beda, Geremia di Sens, Alvaro di Cordova, Valafrido Strabone, Micone di St. Riquier, Cruindmelo, Aimoino di Fleury e ancora Rabano Mauro, Milone di St. Amand, Incmaro di Reims, per gli espliciti riferimenti ad Optaziano ed alla sua produzione 21.

Prima dell'edizione con traduzione italiana del Polara risalente al 2004, derivata dall'edizione critica – sempre polariana – del 1973, non esisteva alcuna resa del

corpus di Optaziano o di singoli carmi in alcuna lingua moderna.

L’edizione del Müller del 1877 faceva precedere i componimenti da un

Commentarius in Porfyrium in cui osservazioni estremamente sobrie e puntuali

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illustrare tutti i passi dove sembravano necessari chiarimenti, anche per giustificare le scelte per le quali avrebbe poi optato nell’edizione stessa; infine si ricordi, di Polara, il Commentarium criticum et exegeticum in Latino al corpus optazianeo che costituisce il secondo volume della sua citata edizione critica per il Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum del 1973 ed in cui tutto il testo è parafrasato allo scopo di renderlo più intelligibile e di illustrarlo nelle parti ritenute più interessanti.

Molti studiosi hanno messo in risalto l’influenza della tecnica dei carmi figurati sulla lingua di Optaziano: in particolare il Chmiel ha affermato che essa risulta priva di unità, anche per il frequente uso di passi di Autori precedenti, e che il periodo va spesso avanti accumulando senza collegamento le espressioni, per lo più encomiastiche 22.

Prescindendo dai puri e semplici “giudizi di valore” sull’arte di Optaziano, praticamente tutti negativi presso gli studiosi moderni, perché tutti motivati con l’assenza di “poesia” nei suoi carmi, cercheremo di enucleare i caratteri propri di questa tecnica e le motivazioni che ad essa sottostanno.

Innanzitutto è necessario mettere in risalto la contrapposizione tra il carme figurato, fatto per la vista, e le altre forme di poesia che si rivolgono all’udito. Tenendo in considerazione il discorso dell’esaurimento dell’arte e dei mezzi di espressione, si può proporre una lettura dell'operazione optazianea non nel senso di archetipi della moderna poesia visiva, ma di pregevoli elaborati grafici, di fascinosi oggetti. L’artificio assunto coscientemente a valore risulta così il tratto più interessante e moderno di Porfirio, secondo una visione comunque ben lontana da quella di quanti accentuano l’aspetto “magico” della poesia figurata che dà al fenomeno letterario un carattere di irrazionalità ed infantilismo.

I carmi optazianei consistono di un caleidoscopio di artifici grafici e metrico-verbali, elemento che con ogni probabilità rappresenta il principale motivo di interesse per cui ci si approssima all'opera dell'Autore, come tale dovette essere anche all'epoca del poeta costantiniano.

Il problema che si pone allo studioso dopo avere analizzato la tecnica optazianea è, dunque, quello del perché il poeta abbia deciso di compiere un'impresa di questo genere, affidando la sua petitio per il ritorno in patria a testi così caratterizzati in se stessi al punto da essere, in quel momento, un unicum nella letteratura latina.

E' difficile pensare che un uomo come Costantino, sulla competenza letteraria del quale si è discusso molto senza pervenire ad una conclusione concorde, abbia letto direttamente i carmi di Optaziano. Più probabile, forse, che abbia sfogliato il prezioso libellus, restando dapprima incuriosito e, poi, affascinato dalle composizioni porfiriane. Una prima chiave di lettura potrebbe essere proprio questa: Porfirio volle, probabilmente, impressionare l'imperatore con qualcosa di mai ideato prima, vera pittura (seppure geometrica) applicata alla poesia. Un carme di captatio benevolentiae sarebbe stato “cosa comune” e, forse, non avrebbe trovato “ascolto” presso Costantino. Un libro di versi disegnati, intessuti

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Studi su Publilio Optaziano Porfirio

I. Calligrammi (XX; XXVI; XXVII). II. Versus intexti:

a) geometrici (II; III; VI; VII; X; XI; XII; XVI; XVIII; XXI); b) “scritti” (V; VIII; XIV; XXIII; XXIV);

c) disegnati (IX; XIX; XXII).

III. Lusus metrici (XIII; XV; XXV; XXVIII).

IV. Composizioni senza particolari artifici (I; IV; XVII; XXIX; XXX).

L’aspetto sul quale si è più soffermata la maggior parte di quanti hanno studiato la tecnica dei versus intexti è la di essa novità: notevoli sono, per esempio, le differenze esistenti tra questo tipo di carmi figurati ed i calligrammi alessandrini od alcuni componimenti del poeta pre-neoterico Levio.

Optaziano seguiva un procedimento rigoroso nella stesura dei suoi carmina: diviso il foglio in “quadratini”, il poeta tracciava una figura per mezzo di linee dello spessore di un riquadro; dentro queste stesse linee scriveva, quindi, dei versi, mentre solo in un secondo momento passava alla stesura degli stichi che componevano il carme. Bisogna anche sottolineare l’importanza che ha l’esplicita illustrazione di questa tecnica riscontrabile in non pochi passi dei carmi, che fa di Porfirio non solo un iniziatore, ma anche un teorico della nuova poesia.

Gli Autori più presenti alla mente di Optaziano e dei quali si serve più spesso sia utilizzando nessi e costrutti verbali, sia seguendone la tecnica della versificazione, sono Virgilio ed Ovidio, mentre in misura molto più ridotta sono rappresentati Columella (per il X libro), Lucano, Valerio Flacco, Silio Italico e Stazio e decisamente rara è l’imitazione di Tibullo e Properzio. La preponderante presenza ovidiana è giustificabile, com'è ovvio, per la “somiglianza” della condizione di poeta esule che chiede al potere imperiale la revoca del bando ed offre in cambio le proprie composizioni.

Per i tre technopaegnia (Carme XX, l’organo; Carme XXVI, l’altare; Carme XXVII, la zampogna) abbastanza scontato è il riferimento alla produzione alessandrina (Simmia, Teocrito, Dosiada, Besantino). La tecnica optazianea risulta, comunque, estremamente più complicata e raffinata di quella dei suoi predecessori: per i carmi XXVI e XXVII, dove è possibile un più preciso raffronto con i calligrammi greci, Optaziano risulta superiore per la sua capacità di usare sempre lo stesso metro, il trimetro giambico – Carme XXVI – e

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