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CAPITOLO 2 Descrizione del sistema di misura

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CAPITOLO 2

Descrizione del sistema di misura

2.1 Introduzione

L’architettura del sistema di misura varia a seconda delle misure che si è intenzionati a fare e degli strumenti che sono a disposizione. Questa è costituita da un sistema ottico per l’osservazione e la navigazione sul chip, da uno o più rivelatori ottici e dall’elettronica di acquisizione e di elaborazione dei dati. Il sistema ottico, per esempio, può essere un semplice microscopio ottico ad alta risoluzione oppure un microscopio a scansione laser (LSM); i rivelatori, poi, possono essere di più tipi, con struttura, caratteristiche e prestazioni differenti, l’elettronica di controllo, infine, varierà con il rivelatore impiegato.

Come riferimento, si consideri il sistema PICA (Picosecond Imaging Circuit Analysis), nato nel 1996 e frutto dei ricercatori della IBM. Questo ha trovato un primo impiego nello strumento di misura IDS PICA, prodotto dalla Schlumberger nel 2001, che poi si è evoluto nel IDS OptiCA nel 2003 [1]. Quest’ultimo è un potente strumento in grado di verificare le prestazioni dei circuiti integrati, tramite misure temporali dei segnali elettrici interni alla circuiteria stessa, e di compiere accurate analisi dei guasti. La risoluzione temporale che si ottiene è inferiore ai 100 ps e può essere migliorata se si impiegano fotorivelatori più veloci.

Come punto di partenza, si vanno ad analizzare le tipologie, le caratteristiche e le prestazioni dei vari rivelatori ottici che si trovano sul mercato.

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2.2 Tipi e caratteristiche dei rivelatori ottici

I rivelatori di fotoni sono suddivisibili in due grandi categorie: i rivelatori di immagine e quelli di singolo fotone. I primi sono in grado di fornire informazioni riguardo all’istante e alla posizione spaziale di emissione di un certo fotone, mentre i secondi permettono di rilevare solo l’istante di arrivo del fotone, quindi non possiamo risalire alla regione del chip che lo ha emesso.

Con i rivelatori di immagini, quindi, si osserva l’emissione luminosa da una certa area del chip, rivelando le zone del circuito dove si ha attività; variando l’ingrandimento della colonna ottica impiegata è possibile verificare l’attività di pochi transistors, come di diverse centinaia.

Con i rivelatori di singolo fotone, invece, è come se la radiazione luminosa provenisse da un solo dispositivo. Per ottenere delle informazioni corrette, quindi, è necessario osservare una regione molto limitata del chip, che contenga uno o pochi mosfet, in modo che non si sovrappongano gli impulsi luminosi osservati. I parametri caratteristici di questi rivelatori sono tre e da essi dipendono le prestazioni del sistema di misura complessivo. L’efficienza quantica (QE) di un fotorivelatore è la probabilità che venga rivelato un fotone incidente, con la conseguente produzione di un impulso elettrico; è evidente che quanto più QE ha valori elevati e tanto maggiore sarà la velocità di conteggio dei fotoni. Un secondo parametro molto importante è il tempo di transito (TTS o transit time spread) o jitter del rivelatore, che limita la banda del sistema di misura. Si tratta del tempo che intercorre tra l’arrivo di un fotone sul sensore e l’uscita dell’impulso elettrico dallo stesso dispositivo. Infine, l’accuratezza delle misure effettuate con questi rivelatori può essere affetta da un rumore di fondo, riferito come dark counts. Questo rumore può essere dovuto a fotoni, diversi da quelli provenienti dal chip, che raggiungono l’intera superficie del sensore in istanti temporali random, come le particelle dei raggi cosmici. Un effetto analogo è dato anche dalla generazione termica di elettroni nella zona di moltiplicazione del sensore. Affinché tale rumore possa essere trascurato, basterà aumentare il tempo di acquisizione dei dati; con tale accorgimento infatti, essendo gli impulsi elettrici dovuti ai disturbi non

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sincroni con i segnali che viaggiano nel chip, verrà aumentato il rapporto segnale-rumore.

Un rivelatore ottico sarà tanto migliore quanto più avrà un’elevata QE, un basso TTS e pochi dark counts. In tabella 2.1 vengono riportati i valori di queste grandezze per alcuni dispositivi impiegati. [2]

Ai rivelatori di immagine appartengono, ad esempio, il tubo fotomoltiplicatore (PMT) Mepsicron, impiegato dal sistema PICA, il sensore a mercurio-cadmio-tellurite (MCT) e quello a CCD, mentre nella categoria dei rivelatori di singolo fotone si trovano gli APD (avalanche photo diode), gli SPAD (single photon avalanche diode) e gli SSPD (superconducting single photon detector). [3]

Rivelatore QE (%) TTS (ps) Dark counts/s Sensitività

Si APD 0.01 300 10-100 400-1060 nm InGaAs APD 10 500 10000 InGaAs PMT 1 1500 20000 Mepsicron II PMT 0.001 100 0.1 180-900 nm SSPD 10 40 50 400-2500 nm SPAD 1 30 10-100 350-1150 nm

Tabella 2.1: confronto fra le caratteristiche di vari fotorivelatori NIR disponibili in commercio; i

valori di QE sono dati alla lunghezza d’onda di 1.2 µm, ma è evidente che questi possono variare notevolmente nella gamma di frequenze rivelate dal sensore.

Si illustrano adesso la struttura ed i principi di funzionamento di alcuni di questi rivelatori, quelli più usati per le loro migliori caratteristiche.

In figura 2.1 e figura 2.2 vengono riportate la struttura schematica e la sezione di Mepsicron, un tubo fotomoltiplicatore a microchannel plate (MCP). Questo, per ogni fotone catturato, fornisce informazioni riguardo l’istante di arrivo (t) e la posizione sul sensore in cui è arrivato (coordinate x,y), che corrisponde alla posizione del chip da dove è stato emesso. Si tratta, quindi, di un rivelatore di immagini.

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Figura 2.1: schema di principio di un tubo fotomoltiplicatore MCP.

Figura 2.2: sezione del rivelatore tubo fotomoltiplicatore a MCP.

La radiazione ottica emessa dal dispositivo viene focalizzata sul fotocatodo con un opportuno sistema di lenti, a seconda dell’ingrandimento desiderato. Quando viene assorbito un fotone si genererà un fotoelettrone, questa probabilità (QE) è uguale sull’intera superficie del catodo. Il fotoelettrone prodotto verrà accelerato verso il primo microchannel plate per mezzo di un campo elettrico applicato tra il catodo e tale piatto. Una volta entrato in uno di questi canali, il fotoelettrone sarà accelerato ulteriormente producendo collisioni multiple, il fattore di moltiplicazione degli elettroni è di 105÷106. L’effetto del MCP è, quindi, quello di moltiplicare il singolo elettrone generato sul fotocatodo, facendo arrivare

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sull’anodo un impulso di corrente nella stessa posizione del fotone incidente. L’anodo resistivo, poi, separa il pacchetto di elettroni in arrivo in più gruppi di cariche, queste raggiungeranno i quattro angoli dell’anodo, dove si trovano degli amplificatori sensibili alla carica rivelata. In base al rapporto tra gli elettroni collezionati da ciascun amplificatore, possiamo risalire alle coordinate x,y. [4] Questo tipo di dispositivo, quindi, risponde ad ogni fotone catturato con tre uscite (x,y,t) in un tempo di circa 90-100 ps e con una risoluzione spaziale tipica di 60 µm, per un fotocatodo di 25 mm di diametro.

Figura 2.3: immagine al microscopio di un SSPD con area di

(

15 mµ

)

2.

Figura 2.4: setup usato per realizzare misure temporali con SSPD.

Tra i rivelatori di singolo fotone più in uso si trova il superconducting single photon detector (SSPD). Questo è costituito da una striscia a forma di serpentina

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di NbN superconduttivo, larga 100-200 nm e con uno spessore che va dai 3 ai 10 nm; l’area occupata è di 10 µm x 10 µm, in modo da permettere un buon accoppiamento ottico, mediante fibra, con il chip sotto test. In figura 2.3 è mostrata un’immagine al microscopio di questa struttura, mentre in figura 2.4 è schematizzato il setup usato per fare misure con tale tipo di sensore. Per un corretto funzionamento, SSPD necessita di essere raffreddato a 3 K per mezzo di un impianto criogeno ad elio liquido; esternamente ci sarà una camera raffreddata anch’essa a 40 K, in modo da eliminare le radiazioni provenienti dall’ambiente esterno. Oltre a tutto questo, il criostato deve essere portato sottovuoto a 10−6 torr. SSPD è sensibile ad una vasta gamma di lunghezze d’onda, mentre nel tester ad elettroluminescenza è necessario rivelare soltanto le radiazioni NIR. Viene dunque usato un apposito filtro ottico, che va a modificare l’efficienza di rivelazione, come mostrato in figura 2.5.

Figura 2.5: efficienza di rivelazione del sistema rappresentato in figura 2.4, il filtro passabanda

permette di rivelare solo lunghezze d’onda comprese tra 1 e 1.5 µm.

Il principio di funzionamento è il seguente. La striscia è polarizzata con una corrente costante e la temperatura a cui si trova consente il funzionamento da superconduttore. Quando viene assorbito un fotone, si genererà un elettrone caldo e si formerà di conseguenza un piccolo punto caldo, molto più stretto della larghezza della striscia, che si comporta in maniera resistiva. A questo punto, le linee di flusso della corrente si allargheranno intorno a tale regione calda, come

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mostrato in figura 2.6, causando un aumento della densità di corrente. Questo fenomeno induce la formazione di un segmento trasverso resistivo, in serie alla striscia rimanete. Il risultato esterno è la produzione di un impulso di tensione in uscita alla serpentina. [3], [5]

Quindi, per ogni fotone rivelato verrà prodotto in uscita un impulso di tensione con un tempo di transito (TTS) di 30-40 ps, come illustrato in figura 2.7. Tale curva è stata ottenuta mandando sul rivelatore degli impulsi laser di durata molto inferiore al jitter, sono stati poi misurati gli istanti di arrivo dei singoli impulsi e i dati ottenuti vengono rappresentati in figura come un istogramma.

Figura 2.6: andamento del flusso di corrente quando viene assorbito un fotone, le zone scure

indicano le regioni resistite.

Figura 2.7: jitter per un SSPD di 4 µm x 4 µm, vale circa 33 ps; per un rivelatore di 10 µm x 10

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Un altro rivelatore di singolo fotone con buone prestazioni è lo SPAD (single photon avalanche diode). Si tratta di un dispositivo integrato che può essere realizzato in tecnologia CMOS, in figura 2.8 e figura 2.9 sono mostrate due sezioni schematiche del sensore. [6]

Figura 2.8: sezione schematica del rivelatore SPAD.

Figura 2.9: sezione dello SPAD, la parte centrale del dispositivo identificata dalla finestra di metal

e dalla regione drogata p+ è la zona sensibile del rivelatore.

I valori elevati dell’efficienza quantica, nel range di interesse, consentono di compiere misure sui chip anche frontside e facilitano la rivelazione dei fotoni emessi dai pMOS. In figura 2.10 è riportato l’andamento della QE in funzione di λ.

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Figura 2.10: efficienza quantica in funzione della lunghezza d’onda per uno SPAD con 50 µm di

diametro e polarizzato con 5 e 8 V di sovratensione, rispetto alla tensione di breakdown.

Uno SPAD è una giunzione pn che viene fatta lavorare in Geiger mode. Questa viene polarizzata ad una tensione VA maggiore della tensione di breakdown VB,

un valore tipico di VA è di poco superiore ai 20 V, contro i 2 kV necessari per un

PMT. L’assorbimento di un fotone genererà una coppia elettrone-lacuna, l’elevato campo elettrico, poi, sarà tale da produrre un effetto valanga all’arrivo di una singola carica nella zona di svuotamento. Una volta azionato il meccanismo a valanga, la tensione di polarizzazione dovrà essere abbassata sotto il valore di breakdown, allo scopo di interrompere il passaggio di corrente. Verrà così generato un impulso in corrispondenza dell’arrivo di ogni singolo fotone. Questa operazione è eseguita da un circuito che segue lo SPAD ed è chiamato active quenching circuit (AQC). Dopo avere prodotto l’impulso, la tensione verrà riportata al valore VA di partenza.

In figura 2.11 è riportato l’andamento del tempo di risposta intrinseco di uno SPAD di ultima generazione, esso è stato misurato utilizzando impulsi laser dell’ordine del picosecondo ad una lunghezza d’onda di 820 nm. Il tempo di risposta che si ottiene, o FWHM (full width half maximum), è di 27 ps. La coda in basso a destra è dovuta ad alcune cariche che, durante il fenomeno della valanga, vengono catturate dai livelli profondi nella zona di svuotamento della giunzione e, successivamente, vengono rilasciate con un ritardo variabile. Queste cariche

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liberate possono, a loro volta, riattivare il fenomeno della valanga, producendo impulsi secondari. [7]

Figura 2.11: risposta temporale (TTS) di uno SPAD.

La risoluzione temporale degli SPAD varia a seconda dell’area attiva e della sovratensione applicata rispetto alla tensione di breakdown, come riportato in

tabella 2.2.

Tabella 2.2: risoluzione temporale degli SPADs.

Lo sviluppo di nuove tecnologie, con FET sempre più piccoli e circuiti sempre più veloci, fa sì che gli sforzi legati alla realizzazione di nuovi rivelatori ottici siano mirati ad ottenere dispositivi con un’efficienza quantica maggiore, un tempo di risposta (TTS) minore e un contributo di rumore (dark counts) minimo.

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2.3 Struttura del sistema di misura

Si descrivono adesso la struttura e i principi di funzionamento del sistema PICA, prodotto dalla NPTest, che è uno strumento completo, in quanto utilizza più rivelatori e consente di fare tutti i tipi di misure possibili. Da questo discendono altri sistemi di misura più semplici, ma sempre in grado di compiere misure accurate. [8]

Figura 2.12: suddivisione in parte ottica ed elettronica del sistema PICA, con schematizzazione

dei componenti interni utilizzati.

Uno schema a blocchi del sistema PICA è raffigurato in figura 2.12, dove si distingue tra parte ottica e parte elettronica. Il circuito in esame (DUT, da device under test) viene stimolato con un adeguato segnale generato dal tester. Poiché la probabilità di emissione è molto bassa (un fotone ogni 107 ÷1011 switch per un µm di larghezza di canale) il tempo di osservazione dovrà essere abbastanza grande, durante il quale il test pattern viene ciclicizzato, al fine di rivelare più fotoni.

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I fotoni emessi dal chip vengono focalizzati, tramite un sistema di lenti, sul fotocatodo del rivelatore a tubo fotomoltiplicatore, illustrato in figura 2.2; quest’ultimo, all’arrivo di ogni fotone, fornisce tre uscite che vengono memorizzate in un analizzatore multicanale a tre parametri, per poi essere successivamente analizzate. Tali segnali sono due livelli di tensione per le coordinate x,y e un impulso elettrico sincrono con il tempo di arrivo del fotone. Mentre la posizione x,y viene acquisita direttamente, l’istante di arrivo di un fotone deve essere calcolato rispetto ad un certo riferimento, in quanto il test pattern è ciclico. Questo riferimento è il trigger fornito dal tester, si tratta di un segnale sincrono con il test pattern stesso. Tale intervallo temporale viene calcolato da un convertitore tempo-ampiezza, il quale riceve in ingresso sia il trigger che l’impulso generato dal fotone, e genera in uscita un valore t, proporzionale al tempo che intercorre tra i due eventi. Le tecniche per acquisire questo tempo, poi, sono due: la prima, più tradizionale, fa partire la base dei tempi all’arrivo del trigger e la interrompe quando si rivela un fotone; la seconda, più conveniente in quanto tiene conto della bassa probabilità di rivelazione, utilizza invece, come start, l’arrivo di un fotone e, come stop, il trigger successivo. Nel secondo caso bisogna fare attenzione, perché la scala dei tempi risulterà ribaltata. [4]

In figura 2.13 è illustrata più in dettaglio la parte ottica del sistema di misura. Un microscopio a scansione confocale, equipaggiato con varie lenti obiettivo a torretta, viene usato per fornire immagini del DUT in tempo reale, nonché per navigare sul chip stesso. L’utilizzo del microscopio a scansione laser (LSM), che sfrutta un’illuminazione a 1064 nm di lunghezza d’onda a cui il Si è relativamente trasparente, consente di osservare i circuiti sia frontside, sia backside attraverso un certo spessore di substrato. Nel secondo caso è comunque necessario un adeguato assottigliamento e trattamento antiriflessione. Variando tipo di lente obiettivo, poi, è possibile osservare aree del DUT di dimensioni diverse. Aumentare l’ingrandimento, infatti, consente di focalizzare il microscopio su zone più piccole: tipicamente vengono usate lenti da 5x a 100x e la lente 100x permette di visualizzare una regione di 160 µm x 160 µm. Cambiare tipo di lente significa investigare centinaia di FET, come poche unità. [9]

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Figura 2.13: a sinistra vengono raffigurati i particolare della colonna ottica e del montaggio dei

rivelatori su di essa; a destra è mostrato come questa colonna viene fissata al sistema di misura.

Tra le lenti obiettivo e il microscopio c’è un sistema di specchi finalizzato a riprodurre la stessa immagine esaminata dal LSM anche sui rivelatori impiegati: nel caso di figura abbiamo un rivelatore di immagine e un altro di singolo fotone, che viene accoppiato tramite un’ulteriore lente e una fibra ottica.

La procedura da seguire per compiere delle misure sulla fotoemissione è, dunque, la seguente: dapprima si naviga sul chip mediante il microscopio, fino al posizionamento nel punto di interesse. Successivamente si indirizzano opportunamente gli specchi e si attiva uno dei rivelatori per andare a collezionare i fotoni emessi, acquisendo dati. Per ridurre i fenomeni di cross-talk è possibile posizionare una maschera di precisione, che va a schermare i fotoni emessi dai FET situati nelle vicinanze di quelli di interesse.

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L’intero meccanismo descritto fino ad adesso è montato su un piano a traslazione di precisione lungo XYZ con risoluzione di 0.1 µm, che consente sia la navigazione sulla superficie del DUT, sia il controllo del fuoco (vedi figura 2.13). [2]

A causa della debole emissione fotonica, spesso, i tempi di acquisizione devono essere lunghi e questo comporta un inevitabile drift spaziale, lungo le tre direzioni, del DUT rispetto alla lente obiettivo. Il meccanismo di correzione di questi spostamenti è suddiviso in due parti. Vi è un controllo software, per mezzo di un certo algoritmo, che corregge continuamente il fuoco muovendo il piano lungo Z con una precisione maggiore di 0.05 µm. Contemporaneamente vengono catturate immagini al microscopio a intervalli di tempo prestabiliti, in modo da confrontarle con le precedenti e determinare il drift lungo le direzioni X e Y. Le informazioni acquisite, poi, vengono utilizzate per correggere direttamente i dati x,y relativi ai fotoni che arrivano successivamente, questo evita di dover andare ad agire sui meccanismi motorizzati.

Il chip in esame viene montato in alto, con il microscopio e i vari rivelatori al di sotto, questo migliora il baricentro dell’intero strumento di misura e facilita l’accesso a tale circuito per la connessione al tester.

Figura 2.14: schema a blocchi dell’intero sistema di misura PICA, si distinguono tre componenti

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In figura 2.14 si osserva lo schema completo del sistema di misura, esso si riferisce allo strumento IDS PICA prodotto dalla Schlumberger nel 2001. In questo si distinguono tre componenti di base, le prime due parti sono quelle appena analizzate: Pica Frame la prima, contenente la colonna ottica, un LSM e una PCC (pica collection camera), ed Electronics Rack la seconda, comprendente tutta la circuiteria elettronica per l’acquisizione dei dati. In più, qui è presente anche una Workstation, o GUI (graphical user interface), che permette di interagire con lo strumento stesso a livello software, sia per controllare l’acquisizione dei dati, sia per eseguire tutte le analisi possibili.

La struttura dello strumento esaminata fino ad ora può essere variata e semplificata a piacimento, un esempio è riportato in figura 2.15.

Figura 2.15: setup sperimentale per compiere misure sull’elettroluminescenza da circuiti integrati.

Nel sistema raffigurato, al posto di un LSM viene montato un microscopio ottico ad alta risoluzione, questo comporta un notevole risparmio economico, ma anche l’impossibilità di fare misure backside. Come rivelatori, poi, sono stati montati una camera CCD e/o un rivelatore di singolo fotone SPAD; nel caso che si utilizzi

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solo uno SPAD, l’elettronica di acquisizione verrà semplificata perché i dati immagazzinati sono solo gli istanti di tempo. Come si vede dalla figura, il rivelatore SPAD viene seguito da un active quenching circuit (AQC), che è sensibile all’aumento di corrente dovuto all’effetto valanga. Questo circuito, ogni volta che viene rivelato un fotone, genera in uscita un impulso di tensione sincrono con l’istante di arrivo del fotone. Segue il solito convertitore tempo-ampiezza (TAC), che misura il tempo di arrivo di un certo fotone rispetto ad un segnale di trigger, sincrono con il test pattern fornito al DUT. I valori acquisiti passano successivamente ad un convertitore AD e all’analizzatore multicanale, dove potranno essere esaminati. [7]

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2.4 Rappresentazione ed analisi dei dati

I dati ottenuti dall’arrivo di ogni singolo fotone possono essere usati per ottenere rappresentazioni spaziali e/o temporali.

Andando a raffigurare i punti di arrivo di tutti i fotoni nell’intero tempo di acquisizione, tramite i valori memorizzati nelle coordinate x,y, si possono ottenere delle immagini dell’emissione dal DUT. Tali immagini possono inoltre essere sovrapposte a quella acquisita dal LSM o al layout messo a disposizione da un CAD ausiliario; un paio di esempi di ciò che si ottiene sono riportati in figura 2.16 e figura 2.17. Da notare che la densità di fotoni rivelati da una certa area del chip viene codificata con colori diversi. Un altro caso è mostrato in figura 2.19. [4]

Figura 2.16: immagine di emissione da una

catena di inverter sovrapposta alla rispettiva immagine acquisita dal LSM.

Figura 2.17: immagine dell’emissione da

più MOSFET sovrapposta al corrispondente layout fornito dal CAD.

Queste rappresentazioni statiche dell’emissione permettono di individuare i canali dei FET in cui scorre corrente e, quindi, quali sono le regioni del chip che stanno lavorando. Qualora dovesse esserci un malfunzionamento dovuto a un difetto o ad un guasto, si manifesterebbe un’emissione anomala, come è visibile in figura

(18)

2.18. Questo fatto rende il sistema PICA un ottimo strumento per l’analisi di

fenomeni come metal interrotte, cortocircuiti, ESD, latchup ed altri problemi.

Figura 2.18: emissione da una piccola area

del chip di figura 2.20-a, si osserva un’anomalia nella luminosità di un latch di un certo registro, ciò sta ad indicare un difetto nel dispositivo.

Figura 2.19: emissione da un oscillatore ad

anello costituito da 47 inverter CMOS.

I dati acquisiti dell’emissione ottica, oltre che come immagini statiche, possono essere rappresentati come filmati, o movie; a questo scopo si va a suddividere l’intero tempo di acquisizione in più finestre temporali, visualizzando un’immagine della fotoemissione per ogni finestra. In questo modo è possibile esaminare il flusso delle transizioni logiche attraverso il chip, ciò può rivelarsi utile nel caso che si voglia studiare la propagazione di un certo errore logico. Un paio di esempi sono riportati in figura 2.20-b-c-d e figura 2.21-a-b-c.

Figura 2.20: a) layout di un microprocessore CMOS, l’immagine è stata

ottenuta dalla sovrapposizione delle maschere generate da un computer e usate per realizzare il chip; b), c), d) sono tre fotogrammi (movie) che mostrano la distribuzione del clock all’interno del circuito, ciascuna immagine corrisponde ad un intervallo temporale di 34 ps, fig. c) è stata ottenuta 542 ps dopo fig. b) e fig. d) dopo 798 ps da fig. b).

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Figura 2.20-b Figura 2.20-c Figura 2.20-d

Figura 2.21: a) fotoemissione da un oscillatore ad anello acquisita da un tubo fotomoltiplicatore

MCP in un tempo di 5 h, la frequenza di oscillazione è di 118 MHz; b), c) sono due fotogrammi corrispondenti ad un intervallo di 136 ps sull’intero periodo di 271.2 ns, fig. b) sta a 3.33 ns dall’istante di trigger e fig. c) a 4.63 ns dallo stesso istante.

Un terzo tipo di rappresentazione possibile, che è quella ottenibile con i rivelatori di singolo fotone, sfrutta soltanto le informazioni relative al tempo di arrivo dei fotoni. Andando a tracciare il numero di fotoni rivelati in funzione del loro istante di arrivo, si ottiene un istogramma che ricorda molto l’andamento di un segnale nel tempo, ecco perché spesso ci si riferisce a questi istogrammi come forme d’onda ottiche. [10]

Un primo esempio di istogramma è riportato sotto in figura 2.22 nel caso di un singolo inverter.

Figura 2.22: forma d’onda ottica ottenuta

dal nFET di un inverter, in ascissa abbiamo il tempo (ns) e in ordinata il numero di fotoni contati. I picchi maggiori corrispondono alle transizioni da 1 a 0 dell’uscita, quelli più piccoli alle transizioni opposte.

(20)

L’istogramma relativo al nFET di un singolo inverter sarà dato dall’alternanza di picchi alti e bassi dovuti ai due tipi di transizioni dell’uscita, la distanza tra i due picchi maggiori è pari al periodo del segnale applicato al circuito.

Un altro esempio di istogramma è ottenuto da un oscillatore ad anello a 47 inverter e ad una frequenza di 236 MHz (T=4.24 ns), che corrisponde ad un ritardo porta-porta di 45 ps. In figura 2.23 sono rappresentate le transizioni di tre inverter consecutivi su un intervallo di tempo pari al periodo di oscillazione; in questa figura si apprezza il ritardo che intercorre tra la commutazione sull’inverter A e quella sul B o sul C. In figura 2.24, poi, si nota come, osservando un numero maggiore di transistor, la transizione da 1 a 0 coinvolga alternativamente gli inverter pari e quelli dispari. Questo fenomeno risulta ancora più chiaro dalla

figura 2.25, relativa all’oscillatore a 47 porte NOT di figura 2.21.

Figura 2.23: forme d’onda ottiche ricavate da tre inverter consecutivi dell’oscillatore ad anello

citato.

Figura 2.24: fotoemissione osservata da un gruppo di inverter, in questo caso la transizione da 1 a

(21)

Figura 2.25: numero di fotoni contati in funzione del tempo (ns) per nove inverter dell’oscillatore

di figura 2.21 (T=8.48 ns). A tratto continuo sono disegnate le transizioni degli inverter pari e a tratteggio quelle dei dispari. Si rivelano sempre i fotoni emessi dagli nFET.

Una caratteristica degli istogrammi da tenere in considerazione, riguarda la non uniformità delle altezze dei picchi nel caso in cui si facciano misure frontside, questo è dovuto agli strati di metal che schermano i fotoni emessi; un esempio è mostrato in figura 2.26.

Figura 2.26: forma d’onda ottica degli nFET relativi agli inverter compresi nel campo visivo del

sistema ottico (regione cerchiata). Il circuito è un oscillatore ad anello a 47 inverter alla frequenza di 150 MHz (T=6.65 ns).

La larghezza dell’impulso ottico può essere utile per dare una stima del tempo di commutazione di una porta o del ritardo porta-porta. Si va a misurare la larghezza dell’impulso rivelato FWHMmeas , è necessario poi sapere che lo SPAD ed il TAC

(22)

7.5

TAC

FWHM = ps. Poiché la risposta dello SPAD può essere approssimata da

una funzione gaussiana, una prima stima della larghezza reale dell’impulso ottico si ottiene per mezzo di una decomposizione quadratica, ovvero:

2 2 2

opt meas SPAD TAC

FWHM = FWHMFWHMFWHM . (2.1)

Andando a risolvere l’emissione nel tempo, è possibile dunque caratterizzare dettagliatamente i circuiti dal punto di vista temporale, attraverso la stima dei tempi di commutazione delle singole porte e la misurazione dei tempi di ritardo, dei periodi di oscillazione e del clock skew, quest’ultimo dovuto alla distribuzione di un segnale di clock su un grande microchip.

Per concludere, va citato lo strumento IDS OptiCA, prodotto dalla NPTest nel 2003 ed evoluzione del vecchio IDS PICA, costituito da una piattaforma con più moduli per eseguire molti tipi di misure. In figura 2.27 sono evidenziati i dispositivi usati, in particolare un LSM, un rivelatore di immagini a MCT (mercurio-cadmio-tellurite) per rappresentare emissioni statiche o movie, un rivelatore di singolo fotone a SSPD, ed un analizzatore di difetti per mezzo di una stimolazione termica (TIVA, thermally induced voltage alteration).

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Figura

Tabella 2.1: confronto fra le caratteristiche di vari fotorivelatori NIR disponibili in commercio; i
Figura 2.1: schema di principio di un tubo fotomoltiplicatore MCP.
Figura 2.4: setup usato per realizzare misure temporali con SSPD.
Figura 2.5: efficienza di rivelazione del sistema rappresentato in figura 2.4, il filtro passabanda
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Riferimenti

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