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LA NASCITA DELL’ETNOPSICHIATRIA FRANCESE CAPITOLO 1 PSICHE E CULTURE:

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CAPITOLO 1

PSICHE E CULTURE:

LA NASCITA DELL’ETNOPSICHIATRIA

FRANCESE

Par.1Etnopsichiatria:uno sguardo d’insieme

Prima di introdurre il lavoro di Tobie Nathan, le sue teorie e il suo dispositivo etnopsicoanalitico é importante fare una panoramica sulla disciplina nella quale si inserisce il suo lavoro: l’etnopsichiatria. A questo proposito é necessario fare una precisazione terminologica:l’etnopsichiatria é una disciplina che nasce al confine tra vari campi, in particolare al confine tra la psichiatria e l’antropologia. Ora come scrive Gilles Bibeau in un suo brevissimo articolo: “Quale termine convenga utilizzare per rendere conto della collaborazione tra antropologia e psichiatria é questione dibattuta, in ambito antropologico - psichiatrico, da vari decenni. Dei vari termini proposti-parallelamente o in successione-nessuno ha pienamente riscosso l’approvazione generale: fatto comprensibile, dato che ogni denominazione incorpora una

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2 specifica concezione del rapporto tra le due discipline”1. L’incontro tra queste due discipline ha quindi preso il nome di psichiatria comparativa (Murphy), psichiatria transculturale (termine coniato dal gruppo della Mc Gill University di Montréal, che pubblica ancora adesso una delle riviste di lingua inglese più antiche e specializzate di questo settore, la Transcultural Psichiatric Research Review), psichiatria culturale (del gruppo di Harvard riunito intorno a Kleinmann), alcuni autori del mondo anglosassone parlano anche di New cross-cultural psychiatry. Il termine usato in questa tesi é etnopsichiatria, termine che fa riferimento a Georges Devereux, (anche se viene usato anche dal GIRAME ,Groupe interuniversitaire de recherche en anthropologie medicale et en ethnopsychiatrie, con un’accezione differente da quella pensata da Devereux).E’ all’interno di questo contesto che si colloca il lavoro di Tobie Nathan che riconosce chiaramente in Devereux il suo maestro. La parola è composta da tre parole greche:ethnós, psyché e iatréia. Ethnós che significa razza, tribù, stirpe, famiglia ma anche provincia, territorio, rappresenta la dimensione locale, la specificità individuale di un determinato gruppo umano. Scrive Piero Coppo: “Nonostante alcuni antropologi si siano adoperati per decostruire il concetto sostenendo che

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Bibeau G., “Come denominare le relazioni tra antropologia e psichiatria?”, in Lanternari V., a cura di, Medicina,

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3 le etnie sono fabbricate da chi da fuori le osserva e nomina, esse sono anche il risultato del riconoscersi popolo da parte di un gruppo,unito attorno ad un’identità comune. Mantengo dunque a ragion veduta l’uso del prefisso,nell’ampio spettro semantico dell’ethnós greco, che indica “la stirpe,la tribù,il popolo” ma anche la “provincia”, dunque insieme la dimensione locale, territoriale e quella collettiva del gruppo”2. Psyché è

soffio vitale, spirito. L’uso di questa parola va precisato. Coppo ne dà una definizione molto vicina al significato che gli attribuivano i greci, soffio vitale, spirito. In realtà a partire dal XVII secolo i filosofi la studiarono come “funzione mentale”, attualmente la psichiatria, la psicologia e la psicoanalisi pur avendo divergenze sulle proprie teorie concordano sul fatto di considerarla come funzione di un organo, il cervello, come un apparato. Secondo Coppo: “per l’etnopsichiatria,che esamina gli altri sistemi senza assumere a priori un punto di vista culturalmente determinato,bensì muovendo da una intenzione meta culturale per creare situazioni dove sia possibile il confronto tra modelli,teorie e saper-fare,è importante riferirsi a psiche nel suo significato antico, e tuttora ampiamente condiviso: forza vitale, componente immateriale dell’individuo, che gli permette di essere

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4 umano in relazione con altri umani. In questa accezione diviene anche evidente la forte continuità di sostanza tra psiche e cultura: la prima è un’incarnazione particolare della seconda, la seconda è costruita dal concorso delle espressioni particolari della prima 3;iatréia,l’arte di prendersi cura. Si tratta dunque della disciplina che pratica (e studia) l’arte del prendersi cura della “psiche” in territori e gruppi umani definiti. Mentre la psichiatria cerca di astrarre dal singolo caso indicazioni valide per tutti, l’etnopsichiatria ne sottolinea piuttosto la specificità in rapporto a ciò che lo circonda:il gruppo e l’ambiente di cui fa parte” 4 e ancora “essa abbraccia le varie teorie,pratiche e tecniche che costituiscono l’ossatura di ogni saper-fare che si proponga di intervenire con mezzi materiali e immateriali sulla componente visibile ed invisibile degli umani, sulle loro organizzazioni sociali, sulle loro culture. L’etnopsichiatria è pronta ad accogliere, rendere evidenti e quindi lavorabili gli “oggetti culturali”, a metterli a confronto, a negoziare la procedura tecnica più idonea, caso per caso per raggiungere il risultato desiderato. Ciò significa tra l’altro, che l’etnopsichiatria non è una psicologia, una psichiatria e una psicoanalisi per stranieri, ma un cammino,una proposta per rendere più scientifico,più complesso,più

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ibidem

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5 rispettoso ed efficace ogni intervento sulla dimensione immateriale umana (psiche,spirito,cultura ecc.)”5 così come il prefisso etno non solo la distingue dalla psichiatria che cerca di radicarsi nel biologico ma anche “da tutte quelle psichiatrie trans-, inter-, e cross-culturali,che apprendono a lavorare con tutte le culture ma restando nell’ambito di una determinata tradizione. Coloro che lavorano in etnopsichiatria non possono ignorare le dimensioni locali dei fenomeni perché partono dal presupposto che non ci sia confine tra psiche e cultura ”6.

Il rapporto tra psiche e culture è un rapporto da indagare e approfondire in etnopsichiatria ed è un rapporto sul quale l’antropologia si è interrogata a lungo. La domanda fondamentale è questa: la cultura è assunta dall’individuo come tipo di comportamento esterno che egli accetta oppure è introiettata psicologicamente in modo da formare la struttura stessa della personalità? Per alcuni antropologi come ad esempio Ruth Benedict e Margaret Mead la posizione più valida da tenere rispetto a questo tema è una posizione dialettica dell’indole individuale rispetto alla propria cultura. Sarebbe proprio la cultura a creare delle personalità “anormali” cioè individui che per il loro temperamento non riescono ad accettare i ruoli e i valori imposti dalla

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Coppo P., Tra psiche e culture,pag.206, ed. Bollati Boringhieri,Torino,2003

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6 società. Direttamente legati a questa posizione ci sono altri interrogativi: esiste un concetto di anormalità assoluta,oppure il concetto di normalità e anormalità è sempre riferibile ai singoli contesti culturali? E quindi in base a quali criteri possono essere diagnosticate le malattie mentali? E in base a quali criteri si può stabilire la frontiera tra normale e anormale? Legato a queste domande c’è anche il problema di verificare se al di sotto delle innumerevoli forme della malattia mentale è possibile individuare dei tipi costanti. Tra i primi studiosi a cercare di dare una risposta a questa domanda vi è probabilmente Emil Kraepelin (1856-1926) neuropsichiatra tedesco, che fu tra i fondatori della moderna psichiatria. Egli aveva una grande passione classificatoria e cercò di applicare nel campo della neuro psichiatria lo stesso metodo classificatorio delle scienze naturali. Il suo sforzo fu di classificare i disturbi psichiatrici, di trovare dei tipi costanti al di sotto delle innumerevoli forme osservabili. A questo fine cercò di purificare l’oggetto dell’osservazione addirittura eliminando ogni tipo di comunicazione verbale con il malato e qualsiasi implicazione affettiva. Ciò nonostante le sue classificazioni si scontravano costantemente con ciò che osservava e per questo le aggiornava in continuazione, si pose anche il problema se questa classificazione, fatta osservando pazienti di

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7 sesso, età, lavoro diversi ma sempre europei, potesse essere valida anche per persone che vivevano in mondi lontani. Così decise di partire per Giava e per la Malesia per osservare i pazienti internati. Il suo scopo era di verificare la validità universale della sua classificazione nosografica. Quando Kraepelin arrivò a Giava, osservò i malati all’interno degli Istituti Psichiatrici e ne uscì abbastanza confortato. Kraepelin trovò conferma della sua classificazione e chiaramente non si pose il dubbio se la somiglianza dipendesse dal fatto che anche questi pazienti erano internati in strutture simili a quelle europee. Osservò però alcune sindromi che non rientravano nella sua classificazione come i corridori di Amok7, ma le incluse comunque tra le malattie mentali. Nel 1904 al suo ritorno scrisse un articolo: “Vergleichende Psichiatrie” (Psichiatria Comparativa) dove riferiva i risultati del suo lavoro. In realtà la possibilità di creare un sistema classificatorio dei disturbi psichici che vada al di là dei sistemi di classificazione relativi ad ogni cultura e che si radichi nel biologico, riuscendo ad essere un sistema di classificazione universale, ancora adesso cent’anni dopo Kraepelin è ancora oggetto di discussione. In ogni caso a quel tempo le prime osservazioni sui disturbi psichici degli indigeni e sulle cure tradizionali venivano effettuate per lo

7 Si tratta di un’improvvisa furia omicida che prende uomini che incominciano a correre colpendo

chiunque incontrino lungo il loro percorso. In genere l’attacco termina con la cattura o l’uccisione del corridore.

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8 più da medici generici che si trovavano nei paesi colonizzati soprattutto per curare i colonizzatori o le truppe e i loro resoconti riportavano sempre l’inferiorità neurologica e psichica di questi popoli. Anche quando arrivarono i primi psichiatri, portarono nelle colonie le loro categorie e i loro strumenti ed etichettarono tutto quello che incontrarono. Come scrive Piero Coppo “Poco resta di utilizzabile oggi della psichiatria coloniale e sempre indirettamente come reperto: lo storico e l’epistemologo vi possono trovare elementi per una storia del dominio, delle sue giustificazioni e declinazioni nelle relazioni quotidiane, o, più specificamente, materiali per un’analisi del ruolo della medicina nei rapporti di soggezione, o, più largamente, prove della necessaria compromissione delle discipline della cura con la cultura cui appartengono. Forse è proprio questo il principale insegnamento che emerge dalle vicende della psichiatria prima coloniale e poi neocoloniale. Medicina e psichiatria non vi appaiono saper- fare neutri ma veicoli di visioni del mondo, di modelli di rapporti sociali tra umani e tra umani e ambienti in cui evolvono”8

Bisognerà aspettare il tramonto del colonialismo e i movimenti di liberazione per avere prospettive diverse. In questo nuovo panorama ebbero luogo esperimenti molto

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9 creativi ed interessanti nel campo della salute mentale: in particolare in alcuni paesi africani, come l’esperienza dei villaggi terapeutici di Lambo in Nigeria,ma soprattutto l’esperienza di Collomb nell’ospedale psichiatrico di Fann a Dakar in Senegal.Henry Collomb, militare della marina francese, neuropsichiatria, psicoanalista , nel ’58 fu mandato in Senegal a dirigere l’Ospedale Psichiatrico di Fann a Dakar. La sua figura è importante per un’idea di psichiatria in collaborazione con i guaritori locali. Per il fatto che il terapeuta tradizionale condivide lingua, tradizioni e vita quotidiana con i pazienti egli è il primo esperto delle culture e un importante alleato per lo psichiatra che viene da fuori. Poiché per capire e relazionarsi con i guaritori non gli bastavano le sue competenze, Collomb mise in piedi una équipe multidisciplinare a cui parteciparono psicologi clinici, psicoanalisti, antropologi tra cui Andras Zempleni. Nacque quella che fu chiamata la Scuola di Dakar, creatrice della rivista Psychopathologie Africaine e luogo dove si formarono molti psichiatri senegalesi. Quello che Collomb fece a Dakar ha alcune similitudini con il dispositivo di Nathan. Collomb si trovò una struttura manicomiale molto chiusa, da dove spesso i pazienti tendevano ad evadere. Mandato in Senegal per risolvere questo problema in realtà quando arrivò, fece un’inversione di tendenza e trasformò l’ospedale in

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10 una struttura aperta, alla quale cerco di affiancare dei presidi ospedalieri nei villaggi, specie di villaggi terapeutici. A Fann per ogni paziente si chiedeva il ricovero anche di un familiare “normale” che accompagnasse il paziente nel suo percorso e ne fosse testimone alla fine. La presenza dei familiari rendeva l’ambiente più bilanciato e meno ghettizzato. Collomb collaborò con i guaritori tradizionali invitandoli a trovare delle sinergie con il lavoro degli psichiatri occidentali e istituì il penc. Il penc era l’albero delle parole, Collomb riprese l’usanza che già esisteva di riunirsi sotto un albero per parlare dei problemi del villaggio, in questo caso venivano invitati medici, infermieri, pazienti, familiari e guaritori per discutere dei problemi incontrati. Nella produzione scientifica di Collomb e collaboratori sono depositati i tentativi, le osservazioni e le esplorazioni della scuola di Dakar, molto importanti questi contributi soprattutto per quel che riguarda i rapporti tra psiche e culture,cioè su come le diverse culture costruiscono gli individui e li curano quando si ammalano. Studiarono i metodi educativi dei bambini, le strutture delle famiglie, in particolare un etnologo dell’équipe di Collomb, Andras Zempleni descrisse approfonditamente i saper fare dei Wolof,dei Lebou dei Serer relativi alla cura dei disturbi psichici. La sua tesi di dottorato

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11 costituisce ancora adesso un punto di riferimento per gli studi di questo settore.

Il lavoro svolto a Fann portò Collomb a paragonare il sapere della psichiatria con i saper-fare tradizionali e a sviluppare delle riflessioni interessanti. Nella comunicazione presentata al convegno di Psichiatria transculturale tenutosi all’Avana nel 1977 (intervento raccolto nell’articolo “I modelli della psichiatria africana” in Psicoterapia e scienze umane del 1978) Collomb si propone di confrontare i modelli della psichiatria occidentale con quelli africani e come prima cosa sottolinea il fatto che la psichiatria occidentale pensa di possedere la conoscenza rispetto ai sistemi tradizionali africani ma in realtà la pratica della psichiatria in Africa dimostra subito che il guaritore ha maggior successo nel trattamento dei malati mentali: “La posizione si rovescia:è lo psichiatra che sta ad ascoltare il guaritore; egli non insegna più, impara .E’ la scoperta dell’etnopsichiatria: termine ambiguo che dobbiamo precisare. L’etnopsichiatria non è lo studio comparativo delle malattie mentali nelle differenti società o culture. Essa è, in senso più generale, il modo in cui società e culture producono e consumano la follia, o più semplicemente come società e culture si difendono dalla follia, riducendo o approfondendo lo scarto tra il folle e il non

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12 folle”9

.Inoltre Collomb nel descrivere le eziologie tradizionali delle malattie mentali in Senegal, in genere riportabili ad attacchi da parte di esseri umani o di spiriti, sottolinea come il guaritore non si interessa tanto ai sintomi clinici quanto alla risposta alla domanda : “chi è l’aggressore?”. Questo modo di affrontare la questione porta a un importante cambio di prospettiva: “Il disturbo non è nel corpo e nella persona del malato, che ne sono soltanto il luogo di espressione. Il disturbo è nell’aggressione di cui il malato è vittima”10

, su questo cambio di prospettiva anche Piero Coppo nel libro Psiche e culture, cita un pezzo di un articolo di Collomb, “Pour une psichiatrie sociale”: “Questa messa in forma,che situa l’aggressore fuori dalla famiglia o dal gruppo, decolpevolizza il malato e nello stesso tempo coinvolge la famiglia e la comunità. La malattia dell’individuo non è allora altro che la conseguenza di un disordine sociale o, per essere più precisi, il risultato di forze aggressive sviluppatesi nella comunità. La malattia diviene allora un fatto sociale, il suo trattamento non può che essere sociale, ossia deve coinvolgere la comunità in modi diversi, attraverso una partecipazione attiva o simbolica.(Collomb 1978b)”11.Molto interessanti sono anche le considerazioni che Collomb fa sulle differenze tra i

9 Collomb H., “I modelli della psichiatria africana”,in Psicoterapia e scienze umane,n°2,1978 10

ibidem

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13 modelli di rappresentazione della follia africani e quelli occidentali. Per quanto riguarda i modelli africani per Collomb c’è un riconoscimento implicito di una parte di follia in ogni individuo “il riconoscimento della follia quale dimensione antropologica fondamentale implica anche di riconoscersi nell’altro malato. E’ percepire il folle, o il malato mentale, non più come estraneo, un alienato, un non-valore, o non-essere…ma come il fratello. E’sopprimere la segregazione, i luoghi di emarginazione che caratterizzano e marcano per la vita il folle respinto dalla società”.12

Nelle società africane il malato è oggetto di attenzione perché portatore di una grande verità, il malato è, o forse è meglio dire era, integrato nella vita collettiva e familiare, “l’africa tradizionale non aveva luoghi dove rinchiudere la follia” 13

. Per Collomb la sostanziale differenza tra i differenti modelli sta nel fatto che quelli occidentali separano più o meno radicalmente il folle dagli altri. Anche quei modelli che si oppongono alla medicalizzazione della follia e che vedono in questa una specie di rivolta all’ordine sociale, perpetuano comunque un modello di separazione tra il folle e la società. Mentre “I modelli africani mirano a colmare lo spazio che separa il folle dagli altri membri della

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ibidem.

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14 società. La follia è una sostanza familiare; essa fa parte dell’uomo, è in ogni uomo. Accettarla è riconoscere la propria condizione umana.”14

Par.2 Georges Devereux

Sono moltissimi gli studiosi che hanno dato contributi fondamentali allo studio del rapporto tra psiche e culture, ma tra questi merita però un approfondimento particolare Georges Devereux, in quanto riconosciuto da Tobie Nathan stesso come il proprio maestro. Nella prefazione all’edizione francese di Ethnopsychiatrie des Indiens Mohaves di Georges Devereux, così scrive Nathan:

“Longtemps, j’ai pensé qu’un maître transmettait des contenus de pensée et ce qu’il montrait-sa gentillesse ou ses mouvements d’humeurs, ses colères, ses préférences, l’intérêt ou l’antipathie qu’il manifestait à ses élèves-ne pouvaient être que l’expression de singularités personnelles. Aujourd’hui je sais qu’il n’en est rien! La totalité du maître est dans son caractère-pas dans son enseignement-dans son être ! Un maître s’infiltre tout entier jusqu’au noyau de son élève ; jusqu’à devenir une instance de sa personne. Ainsi aujourd’hui, lorsque je repens aux explications, aux théories qu’il m’aurait enseignées, je ne parviens même plus à les

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15 identifier ; diluées elles sont devenues une partie de moi-même, comme une invisible couche qui tapisse mes parois et me protège quelque peu de l’étonnement et de la frayeur. Et lorsque je relis l’un de ses textes, j’y reconnais les questions qui m’habitent toujours, m’étonne de les voir là totalement développées, en des termes plus précis et plus vigoureux que les miens-la plupart du temps, pourtant je ne partage pas les réponses qu’il a données. Un maître est le contraire d’un professeur…il installe des questions à demeure-pas des réponses !-des questions qui resteront sans doute la vie durant les clés pour le monde. C’est ainsi que je comprend la devise talmudique :assé leha rav, « trouve-toi un maître » car plus encore que celui de ton père, son être décidera de ta vie… De même qu’il instruit en enfouissant aux endroits les plus inattendus de la personnalité des questions dont on ne peut plus se défaire, un maître transmet toujours de manière négative-par ses fureurs et ses anathèmes actes et pensées qui sèment d’interminables « pourquoi ?» dans l’esprit de ses élèves. On peut, bien sûr, éviter d’y répondre, feindre d’être compréhensif, ponctuer sa perplexité par des fatalistes « il était ainsi », rien n’y fait, c’est même par ce moyen qu’il s’installe encore plus profond. »15

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16 György Dobó, questo era il vero nome di Georges Devereux, ha apportato un contributo importantissimo all’etnopsichiatria.Nacque nel 1908 da una famiglia ebrea,in una provincia dell’Ungheria ceduta poi nel 1918 alla Romania. Ungherese di nascita, a dieci anni divenne rumeno e passò la sua vita successiva fra la Francia e gli Stati Uniti. Fece studi di chimica,fisica, e matematica e poi fece studi di antropologia con Paul Rivet. Studiò negli Stati Uniti antropologia culturale con Alfred Kroeber. A venticinque anni partì per la sua prima ricerca su campo presso gli Hopi in Arizona e i Mohave in Colorado. In seguito fece ulteriori ricerche in Nuova Guinea e Indocina presso i Sedang della tribù Moï. Nel 1932 si convertì al cristianesimo e cambiò il proprio nome in Georges Devereux. Dopo il dottorato di antropologia s’interessò sempre

mostrava, la sua gentilezza o i suoi sbalzi d’umore, le sue collere, le sue preferenze, l’interesse o l’antipatia che manifestava ai suoi allievi,non fossero che l’espressione di caratteristiche individuali. Oggi,so che non é cosi !La totalità di un maestro é nel suo carattere,non nel suo insegnamento,nel suo essere! Un maestro si infiltra interamente nel nucleo del suo allievo,fino a diventare un istanza della sua persona. Così oggi, quando ripenso alle sue spiegazioni, alle teorie che mi avrebbe insegnato, non riesco neanche ad identificarle,diluite,sono diventate una parte di me,come un invisibile strato che tappezza le mie pareti e mi protegge un po’ dallo stupore e dallo spavento.!E quando rileggo uno dei suoi testi,vi riconosco le questioni che sempre mi abitano, mi meraviglio di vederle lì completamente sviluppate in termini più precisi e vigorosi dei miei- la maggior parte delle volte, tuttavia non condivido le risposte che egli ha dato. Un maestro è il contrario di un

professore…pone delle domande permanenti, non delle riposte! -delle domande che resteranno senza dubbio per tutta la vita le chiavi per il mondo! E’ così che io intendo la massima

talmudica: assé leha rav « trovati un maestro » poiché ancora di più di quello di tuo padre,il suo essere deciderà della tua vita. Come insegna, sotterrando nei meandri più inaspettati della personalità, delle domande di cui non ci si può più disfare, un maestro trasmette sempre per via negativa-attraverso i suoi furori e i suoi anatemi, atti e pensieri che seminano degli interminabili “perché?” nello spirito dei suoi allievi. Si può certamente evitare di rispondere,fingere di essere comprensivi,punteggiare la sua perplessità con dei fatalisti “era così”,niente da fare,è anche in questo modo che egli si installa ancora più profondamente” Nathan T., “ Devereux, un hébreu anarchiste” préface à G. Devereux, Ethnopsychiatrie des Indiens Mohaves, Paris, Synthélabo, les empêcheurs de penser en rond,1996

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17 di più alla psicologia e alla psichiatria,tanto che decise di diventare psicoanalista ed effettuò un’analisi personale tra la Francia e gli Stati Uniti. Nel 1963 fu invitato a occupare la cattedra di etnopsichiatria presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Morì di enfisema polmonare nel 1985 e come da sue volontà le sue ceneri furono sparse nel territorio della riserva indiana Mohave in Colorado. E’ proprio presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes che avviene l’incontro con Nathan che lì svolgeva il suo dottorato, Nathan descrive il periodo dell’incontro con Devereux come il periodo un po’ dei sogni e dell’ingenuità. Sono gli anni subito dopo il ’68 e lui ,come molti altri studenti ,si nutriva di movimenti politici e ideali. Nathan descrive l’incontro con Devereux basato su grandi malintesi. Sia lui che gli altri studenti, animati com’erano dalle idee ereditate dal movimento del 68, non si rendevano conto che Devereux era su tutta un’altra linea. Ai suoi seminari erano tutti giovani clinici che iniziavano la loro pratica clinica e che iniziavano ad avere i loro primi pazienti migranti, a quel tempo soprattutto maghrebini e portoghesi. Essi si aspettavano da Devereux che egli desse loro gli strumenti per lavorare con questi pazienti, ma Devereux era invece preoccupato solo di costruire una teoria generale dell’essere umano:

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18 “Dans mon souvenir nous voulions faire de la clinique, lui, construire une théorie générale de l’humain; nous voulions parler des nos patients migrants, lui se référait à ses Indiens et à ses Grecs Anciens ; nous voulions débattre des enjeux de la psychanalyse en France, alors très conflictuelle, lui la pensait définitivement établie, prospère, sereine, comme il l’avait connue naguère aux Etats-Unis. Nous voulions « faire la révolution », enfin, et lui, protéger l’Europe occidentale de la menace des armées communistes… »16

.Tobie Nathan e Georges Devereux hanno lavorato insieme per dieci anni: in quel periodo hanno fondato la prima rivista di etnopsichiatria, Etnopsichiatrica, trasformata poi in Nouvelle Revue d’Ethnopsychiatrie.17

Il loro rapporto finisce nel 1981 e così descrive Nathan quell’evento: “Il se comporta avec moi comme avec un héritier. J’étais alors trop jeune pour le savoir: on n’hérite pas d’un maître, on est seulement métamorphosé par lui! Je l’ai vite appris à mes dépens! Quand un samedi soir de 1981, il m’accusa de trahison, je compris en éclair qu’il reprenait sa vraie place pour me guider une

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« Nel mio ricordo,noi volevamo fare clinica,lui,costruire una teoria generale dell’umano,noi volevamo parlare dei nostri pazienti migranti,lui si riferiva ai suoi Indiani e ai suoi Greci antichi, noi volevamo discutere degli affari della psicoanalisi in Francia, allora molto conflittuale, lui la

considerava definitivamente stabile, prospera e serena come l’aveva conosciuta un tempo negli Stati Uniti. Infine, noi volevamo “fare la rivoluzione” e lui proteggere l’Europa occidentale dalla minaccia delle armate comunista. »,pag.XIII, Nathan T., La folie des autres, ed. Dunod,Parigi,2001.nuova edizione.

17 Attualmente anche la rivista Nouvelle Revue d’Ethnopsychiatrie non è più stampata. Al suo posto

sempre intorno al Centre “G. Devereux “viene pubblicata, Ethnopsy,les mondes contemporaines de la guérison.

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19 dernière fois ; pour m’apprendre à partir, à sortir, pour me donner la rage de poursuivre. J’eus la chance de saisir la leçon sur-le-champ : je le quittai aussitôt et ne le revis jamais plus….

Mais en ces jours où l’on accorde quelquefois certain crédit à l’ethnopsychiatrie, notamment dans les prises en charge psychologique de patients migrants, je pense à l’offrande qui revient à l’ancêtre, telles ces quelques gouttes de batida que versent sur le sol les Brésiliens de Bahìa avant de commencer le rituel du Candomblé. Georges Devereux, Sarava ! Salut…”18

Par 2.1 Il metodo complementarista

Dal pensiero e dalla vita di Devereux nasce la moderna etnopsichiatria francese, con lui questa disciplina inizia a proporsi come disciplina autonoma e a riflettere sul suo oggetto e sul metodo. Devereux nei suoi numerosi scritti affronta varie tematiche estremamente interessanti e dense di sviluppi futuri:qui per l’importanza che certi concetti hanno con lo sviluppo in Nathan ci soffermeremo solo su alcuni. Essendo una

18

“Si comporto’ con me come un erede. Io ero troppo giovane a quel tempo per saperlo: non si eredita da un maestro, si è solo metamorfizzati da lui!L’ ho presto imparato a mie spese!Quando un sabato sera del 1981, mi accusò di tradimento, capì chiaramente che riprendeva il suo vero posto per guidarmi un’ultima volta, per insegnarmi a partire, ad uscire, per darmi la rabbia di proseguire. Ebbi la fortuna di cogliere la lezione su campo: lo lasciai subito e non lo rividi mai più…

Ma in questi giorni in cui si dà a volte un po’ di credito all’etnopsichiatria, soprattutto per la presa in carico psicologica dei pazienti migranti,io penso all’offerta che si rende all’antenato, come quelle gocce di batida che versano sul suolo i Brasiliani di Bahìa prima di cominciare il rituale del

Candomblè.Georges Devereux, Sarava! Salve ! » pag.237?Nathan T. ,Psychanalyse Païenne, Editions Odile Jacob,1995.

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20 disciplina di confine, l’etnopsichiatria possiede per vocazione un approccio multidisciplinare , termine con il quale Devereux non intende una tendenza a integrare vari approcci per arrivare ad una visione integrata bio-psico-antropologica ,quanto piuttosto la coesistenza di un doppio sguardo,di un doppio discorso che non può avvenire mai simultaneamente. Cosi lo spiega Carlo Severi, nella presentazione al testo di Devereux, Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento: “Il complementarismo devereuxiano nasce dalla piena coscienza dell’irriducibilità, del disporsi per linee asintotiche che caratterizza l’evoluzione delle due discipline. Il punto focale del complementarismo può dunque riassumersi in poche parole, e significa comprendere che ciò che troviamo fuso e indistinguibile nella realtà sociale e clinica,va distinto e separatamente analizzato nell’elaborazione teorica. I due punti di vista psicologico e sociologico non possono essere simultanei, e ciò non perché i fenomeni ma le spiegazioni sono complementari”19

.Così infatti si esprime Devereux: “Osservo, prima di tutto che in base al principio del doppio discorso va rifiutata incondizionatamente ogni “interdisciplinarietà”, additiva, fondente, sintetica o parallela, insomma ogni disciplina che faccia ricorso al

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C.Severi,presentazione a G.Devereux,Dall’angoscia al metodo nelle scienze del

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21 trattino di congiunzione e quindi alla “simultaneità”. Quindi la vera etnopsicoanalisi non è “interdisciplinare ma “pluridisciplinare” poiché sottopone determinati fatti a una duplice analisi, da un lato nel quadro dell’etnologia, dall’altro in quello della psicoanalisi enunciando la natura (di complementarità) del rapporto che intercorre tra i due sistemi di spiegazione.”20Il doppio sguardo fondamentale è per Devereux quello della psicoanalisi e dell’etnologia, ed è importante sottolineare l’assoluta interdipendenza dei dati sociologici e psicologici, poiché questi dati sono creati a partire dallo stesso fatto, ma nello stesso tempo l’assoluta autonomia dei due discorsi. Su questo punto Devereux si rifà alla fisica ed esattamente al principio di complementarità di Bohr e al principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo principio afferma che “ è impossibile determinare simultaneamente e con la stessa precisione la posizione e il momento di un elettrone. Maggiore è la precisione con cui possiamo determinare la posizione dell’elettrone (in un istante dato) più imprecisa diviene in effetti la determinazione del suo momento, e naturalmente viceversa, come se proprio l’esperienza cui è stato sottoposto “forzasse” l’elettrone ad assumere una posizione ed un momento precisi. Ampliando il suo campo di osservazione alla biologia,

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22 Bohr ha potuto riscontrare l’azione del principio di complementarità anche in questo campo. Il suo principio di distruzione trae origine da un fatto semplice quanto importante: ogni studio sperimentale troppo spinto del fenomeno “vita” distrugge proprio quanto cerca di sceverare con troppa precisione:la Vita.”21

In base a questi discorsi Devereux teorizza che alcuni fenomeni della realtà possono essere interpretati sia dal discorso etnologico che da quello psicoanalitico, ma che questi due discorsi non possono sussistere contemporaneamente. “Presumo evidente l’analogia fra un esperimento effettivo troppo spinto e una spiegazione troppo minuziosa di un fenomeno nell’ambito di un solo sistema esplicativo. In entrambi i casi l’esperimento distrugge il fenomeno che pretende di studiare troppo da vicino. La spiegazione troppo spinta elude (escamote,explains away) ciò che cerca di comprendere con troppa esattezza…così quando la spiegazione sociologica di un fatto si spinge al di là di certi limiti di “redditività” non interviene una “riduzione” dello psicologico al sociologico, ma una “sparizione” dell’oggetto stesso del discorso sociologico…lo stesso vale per le spiegazioni psicologiche

21

G.Devereux, “Argomento”,pag.20 ,in Saggi di etnopsicoanalisi

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23 troppo ambiziose: l’oggetto del discorso psicologico scompare per lasciar posto a materiali il cui insieme riguarda solo la sociologia”22

Par 2.2 Psiche e Cultura

Per Devereux l’etnopsichiatria in quanto disciplina di confine che si avvale sia della psicoanalisi che dell’antropologia, ha il compito di analizzare e riflettere su quelli che sono i concetti chiave di queste due discipline: per l’antropologia il concetto di Cultura e per la psichiatria la coppia concettuale normale/anormale. “In quanto scienza interdisciplinare”, afferma Devereux, “l’etnopsichiatria è tenuta a considerare congiuntamente i concetti chiave e i problemi di base dell’etnologia e della psichiatria. Essa non potrebbe accontentarsi di prendere a prestito le tecniche di indagine e spiegazione di entrambe queste scienze. C’è, in effetti, una differenza metodologica tra l’imprestito puro e semplice delle tecniche e la fecondazione reciproca dei concetti-chiave che sottendono ciascuna delle scienze che le costituiscono ”23. Devereux con il suo lavoro si inserisce nel dibattito dell’epoca nel quale si discuteva sui criteri della normalità psichica, sull’esistenza di un’anormalità assoluta e sul modo con il quale la

22

Ibidem,pag.23-24

23

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24 cultura interagiva con la psiche. In un saggio, scritto nel 1956, “Normal et anormal” Devereux parla di inconscio etnico: “L’inconscient ethnique d’un individu est cette part de son inconscient total qu’il possède en commun avec la plupart des membres de sa culture. Il est composé de tout ce que, conformément aux exigences de sa culture, chaque génération apprend elle-même à refouler ,puis, à son tour, force la génération suivante à refouler. Il change comme change la culture, et se transmet comme se transmet la culture,par une sorte d’ « enseignement » et non biologiquement, comme est censé se transmettre l’ « inconscient racial » de Jung »24.Sulla base dell’esistenza dell’inconscio etnico si può supporre che tutti i membri di una data cultura abbiano in comune un certo numero di conflitti, Accanto all’inconscio etnico c’è poi quello idiosincratico che si forma invece sulla base di stress privati. Devereux sistematizza quella che era stata già un intuizione di Geza Róheim25 e cioè che gli elementi che una certa cultura reprime possono essere invece allo stato conscio in un’altra.

24 “L’inconscio etnico di un individuo è quella parte del suo inconscio totale che possiede in comune

con la maggior parte dei membri della sua cultura. E’ composto da tutto quello che,in base alle esigenze della propria cultura,ogni generazione impara a rimuovere,e poi a sua volta,forza la generazione seguente a rimuovere. Essa cambia come cambia la cultura e si trasmette come si trasmette la cultura, attraverso una specie di “insegnamento” e non biologicamente,come si crede che si trasmetta l’”inconscio razziale” di Jung”,pag.5 in “Normal et anormal”,1973,in Essais

d’ethnopsychiatrie générale,ed.Gallimard,1977.

25

Geza Róheim ,ungherese,(1891-1953) fu tra i primi ad analizzare il rapporto tra psicoanalisi e antropologia,la sua opera più famosa è infatti Psicoanalisi e antropologia.

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25 Quando i mezzi che una cultura mette a disposizione per rimuovere le pulsioni culturalmente distoniche non sono più sufficienti e un gran numero di individui non riesce a gestire le proprie pulsioni allora la cultura mette a disposizioni dei mezzi, anche se marginali, per poter esprimere queste pulsioni. Insomma, la cultura fornisce anche dei modelli di incondotta: « Bref, l’ethnopsychiatrie- et c’est là un de ses apports fondamentaux-nous apprend que, singulièrement dans les situations de stress, la culture fournit elle-même à l’individu des indications sur les “modes d’emploi abusif”…tout se passe comme si le groupe disait à l’individu: « Ne le fais pas, mais si tu le fais, voilà comment il faut t’y prendre”26

.Per Devereux i disturbi etnici, le sindromi localmente determinate, sono costituite proprio da questi modelli di incondotta : “Bref, chez certain sujets perturbés affectivement, le segment inconscient de la personnalité ethnique n’est pas désorganisée au point de les inciter à une révolte totale contre l’ensemble des normes sociales. Bien que réellement malades, ces sujets ont tendances à emprunter à la culture les moyens leur permettant de manifester leur désordres subjectif d’une manière conventionnelle, ne

26

“in breve,l’etnopsichiatria,e questo è uno dei suoi contributi fondamentali,ci insegna che in laniera singolare nelle situazioni di stress,la cultura stessa fornisce all’individuo,indicazioni sui “modi di impiego abusivi”…tutto accade come se il gruppo dicesse all’individuo:”Non lo fare,ma se lo fai,ecco come lo devi fare”,pag.34,in G.Devereux, “Normal et anormal”in Essais d’ethnopsichiatrie

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26 serait-ce que pour éviter d’être confondus avec les criminels ou les sorciers”27

da qui quelle sindromi esotiche come l’amok o il latah ed altre che non fanno parte del repertorio occidentale. Secondo Devereux , dunque, vi è una stretta correlazione tra uniformità della psiche individuale e uniformità della cultura umana, anzi è possibile affermare che se tutti gli psicoanalisti compilassero un elenco di tutte le pulsioni,di tutti i desideri e fantasmi messi in evidenza clinicamente,questi corrisponderebbero punto per punto a un elenco analogo di tutte le credenze e i processi culturali noti agli etnologi. Inoltre Devereux afferma che, così come la psiche, anche la cultura che ne è il riflesso, è uniforme nei propri elementi costitutivi, ed è per questo che ciò che troviamo represso in una società può essere conscio in un’altra. La Cultura di cui parla Devereux è la cultura con la c maiuscola che è poi quella che interessa l’etnopsichiatria. Devereux si pone il problema di come uno psichiatra possa conoscere la cultura di ogni diverso paziente. Il problema lo risolve quando non pensa più in termini di una tale cultura o di un’altra ma piuttosto alla Cultura come processo in sé : “en effet, quelle que soit la diversité culturelle, le simple fait d’avoir une

27

« in breve, in alcuni soggetti perturbati affettivamente, il segmento inconscio della personalità etnica non è disorganizzato al punto tale da incitarli a una rivolta totale contro l’insieme delle norme sociali. Benché realmente malati, questi soggetti hanno la tendenza a prendere in prestito dalla cultura i mezzi,che permettano loro di manifestare i loro disordini soggettivi in una maniera convenzionale,non fosse che per non essere confusi con i criminali o gli stregoni”,Ibidem,pag.42

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27 culture est une experience proprement universelle et l’homme fonctionne en tant que “créateur, créature, manipulateur et médiateur de culture” en tout lieu et de la même manière”28 . L’etnologia sarà utile alla psichiatria

quindi, se sarà una disciplina specializzata nella Cultura intesa come un modo di conoscere e strutturare la realtà. Per Devereux, la sua formazione di psicoanalista è stata un completamento della sua formazione di etnologo, inteso come specialista della Cultura e dell’Uomo: “Car, dans le cadre d’une tentative pour comprendre l’homme de manière significative, il est impossible de dissocier l’étude de la Culture de celle du psychisme, précisément parce-que psychisme et Culture sont deux concepts qui, bien qu’entièrement distincts, se trouvent l’un par rapport à l’autre en relation de complémentarité heisenbergienne »29. Su questa idea di Cultura si deve basare per Devereux la psicoterapia, una psicoterapia che egli chiama metaculturale: “le psychothérapeute qui a recours à ce qu’il sait de la culture tribale de son patient fait de la psychothérapie interculturelle, celui qui se fonde sur sa connaissance de la Culture en soi et de ses

28« In effetti, qualunque sia la diversità culturale,il semplice fatto di avere una cultura è un’esperienza

propriamente universale e l’uomo funziona in quanto “creatore,creatura,manipolatore e mediatore di cultura” in ogni luogo e nello stesso modo”,pag.81,in G.Devereux “Normal et anormal”,1956,in

Essais d’ethnopsychiatrie générale,ed.Gallimard,1977

29

« Poiché,nel quadro di un tentativo di comprendere l’uomo in modo significativo, è impossibile dissociare lo studio della Cultura da quello della psiche,proprio perché psiche e Cultura sono due concetti che,anche se completamente distinti,si trovano uno in rapporto all’altro in una relazione di complementarità alla Haisenberg”,ibidem.

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28 catégories culturelles universelles fait de la psychothérapie métaculturelle »30.Questa psicoterapia ha sicuramente il compito di approfondire le particolarità culturali dei pazienti ma ha soprattutto un altro compito : « celle de mettre au point l’enseignement et la pratique d’une psychothérapie culturellement neutre, c'est-à-dire comparable à la psychothérapie psychanalytique qui est affectivement neutre. Seule l’élaboration d’un système psychothérapeutique répondant à ces critères permettra au psychiatre parisien de traiter avec autant d’efficacité une marquise française, un chasseur de phoque eskimo et un paysan d’Afrique noire » 31

,quando Devereux sostiene che la psicoterapia metaculturale deve essere neutra, come la psicoanalisi lo é affettivamente, si riferisce al fatto che questa psicoterapia deve essere anche culturalmente neutra, cioè il terapeuta deve risolvere oltre ai suoi conflitti affettivi anche quelli culturali. E questo cammino non va di pari passo. Ma è possibile acquisire una prospettiva meta culturale?Per Piero

30« Lo psicoterapeuta che ricorre a quello che sa della cultura tribale del suo paziente fa della

psicoterapia interculturale, colui che si basa sulla sua conoscenza della Cultura in sé e sulle sue categorie culturali universali fa una psicoterapia meta culturale”pag.338,in “Les facteurs culturels en thérapeutique psychanalytique »,1953,in G.Devereux, Essais d’ethnopsychiatrie

générale,ed;Gallimard,1977

31

“Quello di mettere a punto l’insegnamento e la pratica di una psicoterapia culturalmente

neutra,cioè paragonabile alla psichiatria psicoanalitica che è affettivamente neutra. Solo

l’elaborazione di un sistema psicoterapeutico che risponda a questi criteri permetterà allo psichiatra parigino di trattare con la stessa efficacia una marchesa francese,un cacciatore di foche eschimese e un contadino dell’Africa nera”,pag.106, in “l’ethnopsychiatrie comme cadre de réfèrence dans la recherche et la pratique clinique”,1952,in Devereux G., Essais d’ethnopsychiatrie

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29 Coppo l’etnopsichiatria può cercare di diventare tendenzialmente meta culturale e lo può fare attraverso l’esperienza dello spaesamento dovuto all’incontro con l’alterità: “è dunque dall’incontro con l’altro e con un altro ambiente culturale che può iniziare il processo di scollamento che ci desolidarizza dalla nostra cultura rendendocela visibile. E’possibile allora divenire consapevoli della funzione generica della cultura, che permette agli umani di essere tali, e dei tratti specifici, non universali di quella cui apparteniamo, che ci costruisce come quei particolari esseri umani”32

Per Coppo però Devereux , anche se il suo intento era quello di creare uno strumento che potesse analizzare e comprendere i fenomeni genericamente umani, non riuscì veramente a rendersi indipendente dall’ideologia della psicoanalisi e quindi ad acquisire realmente una prospettiva meta culturale. Con lui però iniziò lo studio della “fisiologia” e “fisiopatologia” delle culture indispensabile per analizzare i fenomeni psicologici e psicopatologici da una prospettiva etnopsichiatrica.

Devereux trasmise ai suoi pochi allievi i semi del suo lavoro e della sua vita, tra questi vi è Tobie Nathan,che pur riconoscendolo come maestro si è posto in discontinuità con il suo pensiero ed anche con l’ortodossia psicoanalitica.

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Riferimenti

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