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2. I porti e gli approdi nella Liguria antica

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Academic year: 2021

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2. I porti e gli approdi nella Liguria antica

Prima di prendere in considerazione i porti e gli approdi liguri, è opportuno chiarire la terminologia portuale così da evitare eventuali errori e fraintendimenti.

Con il termine portus, termine portuale latino per eccellenza, si indica uno specchio di mare chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi

possono rimanere sicure in caso di traversia1, con la conseguenza caratterizzante di

potervi svernare2.Come portus possiamo trovare sia i grandi porti tradizionali della

costa come Ostia che tipi secondari; le differenze tra i due tipi sono la presenza per nei grandi portus di una delle seguenti caratteristiche: grandi bacini chiusi, acque profonde, spalle naturalmente riparate, grandi opere artificiali che suppliscano la mancanza di doti naturali in qualche posizione chiave.

Nell’uso comune portus, però mantiene un significato generico, tecnicamente indifferenziato e spesso indica lo scalo commerciale o addirittura un posta di imbarco e di sbarco merci anche se impetuoso e senza possibilità di approdo.

Plagia indica un particolare tipo di statio, costituito da spiaggia o lido, dove le

imbarcazioni approdano, ma che è poco sicura3, fin tanto che queste non vi vengono

tirate in secco. La plagia rappresenta il tipo portuale più antico ed equivale in tutto al nostro piaggia, spiaggia caratterizzata dall’acqua poco profonda.

E’ differente dal termine refugium poiché questo ultimo ricorre spesso in traslati in relazione con portus e indicherebbe un piccolo riparo per scansare i fortunali, chiuso da alte spalle di roccia e riparato dai venti; porticciolo d’ormeggio e di ancoraggio.

Emporium ovvero lo scalo commerciale4 in cui si svolgono traffici, deriva dal termine greco che indica il mercato.

Statio si usa con senso meno specifico, indicherebbe genericamente una semplice

possibilità di fermata5, che stà perciò entro gli estremi del portus e del litus, di

1 Vitr. V 12,1 2 Uggeri 1968, p.241 3 Serv.,ad Verg.Aen II 23 4 Th . l. L. III

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cuicostituisce sempre il termine intermedio. Indica qualsiasi scalo naturale non dotato di particolari attrezzature portuali.

Vada per ultimo è termine che interessa la terminologia marittima costiera, in quanto

indicherebbe le secche pericolose al pari delle scogliere per la navigazione di

cabotaggio che, rasentando la costa, rischia di arenarvisi6. Quando si trova insieme a

portus può indicare il porto costruito alla foce di un fiume.

5

ad es. Plinio N.H. VI 26,10

(3)

2.1 Portus Lunae

I ritrovamenti nel golfo di La Spezia e presso la foce del Magra, che si aggiungono alle numerose testimonianze della Versilia e in forma più discontinua a quelle del golfo del Tigullio e di Genova, ripropongono il problema di un possibile controllo etrusco dell’approdo lunense, quale centro di smistamento di merci e di irradiamento

di influssi culturali tirrenici nell’estrema Liguria di levante7.

Figura 1 Evoluzione della linea di costa di Luni dall’età romana all’età moderna. Tratto da VARALDO 1996

7

Mannoni 1987, pp.400-40; I ritrovamenti preistorici presso la foce del Magra sono ancora troppo sporadici e frammentari per permettere di ipotizzare qualcosa di più di una semplice frequentazione. Non è possibile stabilire la pertinenza al sito della colonia di alcuni manufatti in bronzo (fibule e armi),databili tra l’età del Bronzo e la prima età del Ferro, conservati al Museo Civico archeologico di La Spezia (cfr. Del Lucchese,Maggi 1998, p.185).

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Mancano per ora conferme archeologiche riguardo l’ubicazione di un eventuale emporio sotto controllo etrusco, come pure non è chiaro il suo eventuale rapporto con l’importante centro indigeno ma aperto a molteplici influssi celtici ed etruschi, documentato dalla necropoli di Ameglia, della quale si conosce principalmente la

fase di IV-inizi III sec. a.C.8; tuttavia secondo alcuni lo stesso nome di Portus Lunae,

con il quale è conosciuta l’area dell’approdo prima dell’impianto della colonia, potrebbe spiegarsi con l’esistenza nell’ambito del centro emporico di un più antico culto locale, probabilmente etrusco anche se fortemente ellenizzato, forse anche per la frequentazione da parte di commercianti greci.

Tale divinità femminile, avvicinabile a Selene-Artemide, sarebbe stata poi inglobata con una sorta di evocatio nel pantheon coloniale, mediante identificazione con Luna-Artemide.

La colonia romana di Luna è stata fondata nel 177 a.C. su di un terrazzo alluvionale posto sulla sponda sinistra della foce del Magra; l'estuario navigabile del fiume era più ampio e con un'insenatura fuori corrente a monte della città, che si estendeva su una barra che restringeva la foce del fiume; una serie di tomboli costieri, abbastanza corrispondenti all'attuale linea di costa, creava a valle della città stessa una laguna navigabile9.

La possibilità che il progressivo controllo romano della costa alto-tirrenica, avviato già nel III sec.a.C., si fosse tradotto nella fondazione di un praesidium militare a protezione dell’approdo presso la foce del Magra era fino ad oggi ipotizzata

unicamente sulla base di alcune fonti antiche10.

8

La presenza sul sito della colonia di un insediamento anteriore all’età romana non è stata per il momento accertata; tuttavia bisogna ricordare che solo1/4 dell’area urbana all’interno delle mura, pari a 65.000 mq su un totale di 230.000 mq, risulta scavato e che i livelli abitativi più antichi sono stati raggiunti solo in una minima parte. Inoltre è necessario rilevare che l’area circostante la colonia risulta di difficile indagine a causa dell’imponente coltre di sedimenti(6-7 m.) che si sono sovrapposti ai livelli antichi.

9

Mannoni

10 Il Portus Lunae già nel 236 a.C. sarebbe passato sotto controllo romano in seguito all’azione militare di Lentulo

(cfr.Lamboglia 1941, p.171). Per altri Roma si sarebbe assicurata il possesso di Genua e di Luna subito dopo il 225 a.C. (cfr.Toynbee 1983, pp.291-292). Ancora recentemente si è attribuita la prima frequentazione romana dell’area “già dal 225a.C. se non dal 239 a.C.” (Angeli Bertinelli 1993b, p.26).Effettivamente una protezione militare di un sito dalla notevole importanza strategica si sarebbe potuta rendere necessaria per una molteplicità di cause: come protezione delle

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Un passo di Ennio e tre passi di Livio accennano infatti ad un Portus Lunae esistente in una data anteriore al 177 a.C., anno della deduzione della colonia.

Dubbia è la datazione della citazione di Ennio11, anche se è stato ipotizzato che si riferisca ad un suo ricordo giovanile, quando nel 204 a.C. fece un viaggio con Catone dalla Sardegna a Roma, forse sbarcando al Portus Lunae o nel 195 a.C., quando partì da esso sempre insieme a Catone verso la Spagna.

Le citazioni di Livio12, risalenti al 195, 186 e 185 a.C., presuppongono l’esistenza di

una base militare di appoggio al transito marittimo degli eserciti diretti in Spagna e all’azione di conquista del territorio ligure.

Sono state rinvenute a Luna due basi inscritte che ricordano l’offerta di prede belliche, sottratte dal console del 191 a.C., M. Acilio Glabrione, da due città greche dell’Etolia (Scarphea ed Eraclea) durante la sua campagna contro la Siria e l’Eto- lia. L’esistenza di due basi riferite ad avvenimenti anteriori alla fondazione della colonia e a un personaggio di non perspicui rapporti con Luna, probabilmente morto intorno al 181a.C., è stata spiegata in diversi modi; una prima ipotesi, che potremo definire “tradizionale”, prevede che le iscrizioni si riferiscano ad un elogium con relative statue raffiguranti Glabrione, eseguite in un qualche momento posteriore alla deduzione della colonia, forse da veterani del console, facenti parte del contingente

coloniario o da suoi famigliari o alleati politici13.

Secondo un’altra ipotesi le dediche rappresenterebbero un gesto di liberalità, comprendente l’erezione di statue facenti parte dall’impressionante bottino raccolto dallo stesso Glabrione dopo la sua vittoriosa impresa in Grecia nel 191 a.C..

navi militari e commerciali, come controllo e prevenzione delle scorrerie di popolazioni liguri in direzione di Pisa e della costa romanizzata, come base per le guerre di conquista del territorio ligure.

11 Persius VI 6-9 (=FLLA 443) probabilmente dal proemio del Ilibro degli Annali di Ennio, anche se non è sicura né

l’appartenenza del passo all’opera, né la sua cronologia, potendo appartenere ad una parte scritta posteriormente alla deduzione della colonia ma prima della morte del poeta, avvenuta intorno al 169 a.C.

12 Nel 195 a.C. il console M.Porcio Catone “ad Lunae portumprofectus est “ (Liv. XXXIV, 8,4). Nel 186 a.C. dopo la

morte del propretore della Spagna Ulteriore C. Atinio vieneinviato da parte del Senato a L u n a un messaggero per informare il pretore C. Calpurnio: “... senatus censuit mittendum quiad Lunae portum C.Calpurnium praetorem

consequeretur...”; il pretore tuttavia era già partito da Luni quando vi giunse il messaggero: “ Quarto die qui missus erat Lunam venit; paucisante diebus Calpurnius profectus erat” (Liv. XXXIX 21,4-5). A proposito dell’anno 185 a.C.

Livio accenna al percorso seguito dalla spedizione del console Sempronio “usque ad Macram fluvium et Lunae portum” (Liv. XXXIX 32, 1)

(6)

L’identificazione del dedicante non è accettata in modo concorde, in quanto per alcuni si tratterebbe dello stesso Acilio, che potrebbe aver personalmente visitato il

Portus Lunae forse nel 196 a.C. durante l’incarico di praetor peregrinus in Etruria14; per altri potrebbe essere stato Catone, da identificarsi nel fondatore del Portus

Lunae15.

Ancora recentemente è stata riproposta l’ipotesi che l’approdo naturale del Portus

Lunae utilizzato dalle navi da guerra non fosse ubicato alla foce del Magra ma debba

essere identificato col golfo di La Spezia, dove tuttavia manca fino ad ora qualunque

indizio archeologico circa una sua precoce utilizzazione da parte dei Romani16.

Il livello del mare in età romana era inferiore di circa 1 metro rispetto ad oggi, tuttavia l’antica linea di costa era in una posizione più arretrata di circa 2 chilometri; la bocca d’estuario del fiume aveva un’ampiezza di alcuni chilometri, assai maggiore dell’attuale, con una vasta insenatura naturale sulla sponda sinistra nei pressi del terrazzo naturale, poi occupato dalla colonia, dal quale si suppone che si dipartisse

verso Ponente una barra di sabbia lunga oltre un chilometro17; essa forse esisteva già

in età preromana ed insieme ad un’altra barra, simmetrica ed opposta, contribuiva a delimitare lo sbocco al mare del fiume Magra.

Dinanzi all’imboccatura verso levante è ipotizzata l’esistenza di isole di barra, la principale in loc. Marinella, lunga 1 chilometro e mezzo e larga 500 metri, che delimitavano verso mare, insieme alla barra orientale dell’imboccatura, una laguna esterna con acqua relativamente bassa e tranquilla.

La presenza simultanea di questa zona lagunare e della rada dentro all’estuario, che pur ammettendo variazioni, determinate dai continui apporti alluvionali del Magra, offriva una eccezionale opportunità ad un utilizzo portuale, permetterebbe tra l’altro

14 Angeli Bertinelli 1993, pp.28-29; le considera un atto munifico dello stesso console. 15

Coarelli 1987, p.26;

16 Coarelli 1987, pp.24-25 con bibliografia e le osservazioni dello stesso studioso nel dibattito seguito al suo intervento

(Atti Lerici 1987, p.198).

17 T. Mannoni ritiene che le uniche due strutture portuali note archeologicamente, consistenti in due tratti di molo di

probabile età imperiale, tra loro paralleli, abbiano avuto la funzione di rinforzare i fianchi di questa barra di sabbia e nel contempo di costituire due banchine rispettivamente per il porto fluviale e per l’avamporto lagunare.

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di comprendere meglio la descrizione piuttosto oscura di Strabone18, quando afferma che “(il porto) racchiude in se altri porti e tutti si addentrano profondamente”.

È proprio nella rada interna che si ritiene fosse ubicato il porto principale sia prima della fondazione della colonia che per tutta l’età repubblicana.

Ma già agli inizi dell'Impero il porto interno all'estuario non era più utilizzato per il ridotto pescaggio, e dopo il mille la pianura di Luni divenne malsana, al punto che si dovette spostare la sede vescovile a Sarzana: segni evidenti che il disequilibrio tra apporti terrestri e asporti marini nel bacino del Magra è iniziato già 'prima della “piccola glaciazione”, ma questa in pochi decenni del Cinquecento ha fatto sparire

ogni traccia della “sequenza di un porto dietro l'altro” descritta da Dione19.

Passando a considerare le fonti archeologiche bisogna premettere che, al di fuori delle emergenze monumentali relative ad alcuni edifici pubblici e in modo assai più frammentario ad alcune domus, la documentazione archeologica sulla topografia e sull’urbanistica della città nel secolo della sua fondazione è ancora relativamente esigua.

In particolare una precisa datazione dei livelli più antichi di vita è risultata finora di difficile documentazione sia per la presenza di una falda acquifera a livello degli strati archeologici più profondi, sia per le radicali trasformazioni architettoniche di età giulio-claudia che hanno a volte obliterato, distrutto o reimpiegato le strutture anteriori, spesso molto deperibili per l’impiego di murature a secco e alzati scarsamente conservabili.

Tuttavia nell’area forense sia presso il Capitolium che in forma più estesa all’interno delle tabernae sul lato ovest del Foro sono stati individuati una serie di interventi sul suolo sterile (focolari, buche di scarico e serie di palificazioni), anteriori alle più antiche murature e pertinenti alla più antica frequentazione della zona, inquadrabile cronologicamente fra la fine del III e l’inizio del II sec. a.C

18 Strabone V 2,5 . Proprio la descrizione di Strabone sarebbe per alcuni applicabile preferibilmente al Golfo di La

Spezia.

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Per l’età tardo-repubblicana l’edificio più monumentale nell’area forense è un tempio etrusco-italico, sicuramente identificabile col Capitolium della colonia, del quale restano sul lato nord del Foro le fondazioni in grandi blocchi in opera poligonale formanti setti, disposti “a nido d’ape”.

Per la ricostruzione dell’alzato, di ordine tuscanico, con impiego di marmo, pietra locale, legno e terracotta, si conservano alcuni elementi strutturali, come le basi di tipo tuscanico in marmo, pertinenti alle colonne del pronao, e di rivestimento, come le terrecotte architettoniche.

Più incerte sono le ipotesi ricostruttive relative alla pianta, supposta a triplice cella,

mentre per quanto riguarda la cronologia20 sembra ormai definitivamente confermata

una datazione intorno ai decenni centrali del II sec. a.C..

L’area circostante il tempio sembra aver avuto fin dall’origine una specifica destinazione di luogo votivo pubblico, comprovata dal ritrovamento di alcune basi inscritte in marmo lunense, pertinenti a statue, con dediche a personalità politiche e militari, in vario modo collegate alla storia della colonia; è probabile una datazione già al II sec. a.C. per almeno tre basi, per accogliere le quali non è possibile escludere l’esistenza di una originaria struttura edilizia circostante il tempio, successiva- mente obliterata dalla sovrapposizione del triportico.

Sulle dimensioni del Foro in età tardo-repubblicana e su eventuali altri edifici, che vi si affacciavano, mancano quasi completamente i dati; una serie di murature attribuite ad età tardo- repubblicana ed ubicate sul margine meridionale della piazza, in particolare oltre l’angolo sud- ovest della fase di età imperiale, potrebbero con- fermare l’ipotesi che anche precedentemente alla grande ristrutturazione dell’area in età claudio-neroniana il limite meridionale della piazza forense, su cui potevano affacciarsi altri edifici pubblici, coincidesse con quello di età imperiale.

È possibile che anche il grande edificio a sud del Foro, datato alla prima età giulio- claudia e posto al centro di una grande area lastricata in asse con il Capitolium, sia

20

Rossignani 1987, pp.126-127. In Rossignani 1995c,p.445 si prospetta una datazione non oltre il secondo quarto del II sec. a.C.

(9)

stato preceduto forse già all’epoca della fondazione della colonia da un analogo edificio di carattere pubblico, ipoteticamente identificato con la Curia con annesso

Tabularium.

Sul lato occidentale del porticato intorno alla piazza del Foro si sono concentrate le più recenti indagini, che hanno permesso di mettere in luce una serie di murature, riferibili ad ambienti, allineati da nord a sud, con datazione al volgere del primo quarto del II sec. a.C., in relazione all’impianto della colonia.

Modesti interventi di ristrutturazione degli ambienti, datati alla fine del II sec. a.C., sono indiziati in due vani contigui da una grande buca di scarico, forse rituale, e da un pozzetto scavato nella nuda terra, che conteneva due urne con ossa di un canide, da interpretarsi come probabile rito di consacrazione del vano.

Poiché le murature della grande ristrutturazione di età imperiale, datata al 40-50 d.C., si sovrapposero a quelle precedenti, rispettando la divisione spaziale dei vani più antichi, è confermata la continuità planimetrica tra età tardo-repubblicana ed imperiale di almeno parte degli edifici affacciatisi su questo lato della piazza.

L’altro nucleo monumentale di età tardorepubblicana è costituito dall’area del cosiddetto Grande Tempio, ubicato nella parte settentrionale della città; l’edificio templare era formato nella fase più antica da un podio con scalinata di accesso tra due avancorpi e da tre celle con ante prolungate sino alla fronte (oppure a cella singola con alae) e profondo pronao con quattro colonne su due file; della costruzione, forse compresa già in età repubblicana in una piazza, si possono ricostruire un alzato ligneo e rivestimenti in lastre di terracotta.

Associato ad esso vi è uno straordinario insieme di terrecotte figurate decorative, che hanno permesso di formulare delle ipotesi sia sull’eventuale dedicante del tempio, da alcuni identificato in M. Emilio Lepido, uno dei triumviri coloniae deducendae , sia sulla divinità in esso venerata, molto probabilmente la dea Luna-Diana, fin dall’epoca della sua costruzione, avvenuta nell’ambito del secondo venticinquennio del II sec. a.C..

(10)

Dal pavimento a cocciopesto del pronao proviene un’iscrizione a mosaico, che ricorda l’appalto e il collaudo della pavimentazione del tempio da parte di duoviri

della colonia, probabilmente coeva all’edificazione del tempio21.

Tra le poche altre emergenze monumentali più antiche sono comprese le mura urbiche, oggi in gran parte interrate, alle quali sono pertinenti alcuni resti della porta principale del lato nord, recentemente indagati.

Il Capitolium sembra essere stato interessato da (parziali?) interventi di ristrutturazione o rifacimento, almeno in parte assegnabili alla fine del II-inizi del I

sec. a.C., indiziati da vari elementi architettonici e di rivestimento22; resta ipotetica la

possibilità di far coincidere tali lavori con il restauro realizzato a seguito di un

fulmine, che danneggiò l’edificio, evento documentato da un ripostiglio rituale23.

Potrebbe rientrare in un progetto unitario di monumentalizzazione dell’area anche la costruzione intorno al tempio di un triportico, datato tra la fine del II e gli inizi del I sec. a.C. e caratterizzato da fronte colonnata di ordine dorico e seconda fila di colonne ioniche, almeno sul lato settentrionale, elementi che permettono di qualificarlo come porticus duplex

Anche per il “grande Tempio” è stata ipotizzata una ristrutturazione dell’alzato dell’edificio verso la fine del II-primi decenni del I sec. a.C. sulla base di una serie di terrecotte architettoniche, che farebbero parte di un programma di ridecorazione dell’edificio. Dell’edilizia privata a Luni sono stati trovati un primo gruppo di edifici residenziali di età repubblicana nelle immediate adiacenze del Foro; si tratta sia di

21 AE 1978, 323: L(ucius) Folcinius L. f., C. Fabius [.f.] duomvirum/ pavi[m]en[tum faci]un[d]um dederun(!)

eisd[emque probaverunt]. Una datazione dell’iscrizione nell’ambito del II sec. a.C. è sostenuta da Coarelli 1987, p.31; Lavagne 1987, pp.383-384;Rossignani 1995a, pp.1481-1482.

22 Diversi elementi architettonici in calcare locale e in marmo, rinvenuti nelle immediate vicinanze dell’edificio, tra cui

una cornice a mensole frammentaria in calcare locale (panchina litoranea) e alcuni capitelli ionici a volute diagonali in marmo, sono attribuiti ad una seconda fase edilizia del tempio, che comportò l’adozione di un frontone di tipo greco; purtroppo non è stato possibile in base a confronti stilistici o al tipo di materiale usato giungere ad una loro cronologia più puntuale (Rossignani1987, pp.135-137;Rossignani 1995c, p.445). L’intervento alle terrecotte architettoniche comportò l’impianto di nuove lastre di rivestimento d’architrave e nuove cornici traforate (cfr. Forte et al. 1992,p.197 con datazione alla fine del II sec. a.C. dell’intervento, definito di “ridefinizione decorativa dell’edificio”).

23

Il saeptum, realizzato come espiazione a seguito di un fulmineche colpì il tempio, conteneva alcune terrecotte decorate; una lamina in bronzo con iscrizione a sbalzo, pur con qualche incertezza attribuibile allo stesso contesto, accenna all’appalto e al collaudo di un monumento pubblico eseguito da duoviri. Le due iscrizioni, connesse con il ripostiglio, sono: AE 1978, 318: Fulgur/ conditum Luni I, c.823, tav.227,43); AE 1978, 319: [.] Aurelius L(ucii) f(ilius), Q(uintus) Flavius Q(uinti) f(ilius) IIvir(i) locaver(unt) ide(m)que probave[r(unt)] (Luni I, c.824, n.44). Per quest’ultima è ipotizzata una datazione forse nella prima metà del I sec. a.C.

(11)

pavimentazioni isolate (a mosaico e in signino), genericamente riferibili ad una

domus, parzialmente distrutta nel corso dei rifacimenti giulio-claudi della piazza, sia

di un complesso residenziale più articolato, la cosiddetta “casa degli Affreschi”24;

benché di quest’ultima siano meglio documentate le fasi di età imperiale, le tracce più

antiche, datate al II sec. a.C., consistono in lacerti di pavimento a cocciopesto25.

La prima fase, di cui è possibile una ricostruzione planimetrica, viene datata pur dubitativamente alla prima metà del I sec. a.C. e consta di alcuni ambienti contigui, secondo la successione canonica assiale di fauces, atrio e tablino.

L’ampio atrio astilo di tipo tuscanico e l’impluvio centrale conservano la pavimentazione in cocciopesto, che nel caso dell’impluvio presenta una decorazione a file parallele di segmenta in marmo bianco; un analogo pavimento a signino

decorato è associato al tablinum26.

Un elemento di novità è introdotto dalla posizione del giardino non assiale ma laterale rispetto al tablinum, col quale era collegato tramite un piccolo vano; esso era circondato da un portico con colonnine in laterizio stuccate e fenestrate su tre lati e delimitato da un basso muro cadenzato da lesene.

Anche l’altra domus più conosciuta, detta dei Mosaici e ubicata a nord del Decumano massimo, conserva al di sotto della fase tardo-imperiale alcuni pavimenti con datazione ad età tardo- repubblicana (I sec. a.C.?), pertinenti ad ambienti, che gravitavano probabilmente intorno ad un atrio, utilizzato anche in età imperiale.

Più frammentari e di datazione non puntuale sono i resti di altre strutture abitative, scavate sotto la cattedrale paleocristiana e presso la porta urbica settentrionale.

L’impianto della domus sotto la Cattedrale è fatto risalire al I sec. a.C.; alla fase di età antonina è pertinente un peristilio centrale circondato da una serie di ambienti;

24

Luni I, cc.100-101; tavv. 20,10-11; 29,3;

Sotto la piazza occidentale a sud del Foro furono scoperti due pavimenti databili ad età tardo-repubblicana, l’uno con mosaico a meandri bianco e nero, conservato per un’estensione di m.3 x1,40 e fiancheggiato da due fasce di raccordo bianche sui lati ested ovest, l’altro a cocciopesto con losanghe in tessere di marmo bianco (cfr.; t).

25

Nel saggio I del vano c è stata accertata la presenza, seppure come residuo di demolizione, di una precedente pavimentazione in cocciopesto, riferita ad un livello di fondazione con grossi ciottoli e blocchi di panchina (Luni II, pp.5-9). Un lacerto di pavimento a cocciopesto fu rinvenuto anche all’interno del giardino settentrionale con ninfeo (Luni II, p.33).

26

Il pavimento presenta decorazione in tessere di marmo bianco, disposte a formare un rettangolo doppio che al suo internoracchiude una campitura a maglie romboidali.

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di particolare interesse è un lacerto di pavimento in lithostroton, a piccoli ciottoli colorati. Le altre murature, rinvenute presso il bastione orientale dell’unica porta urbica conosciuta, sono anteriori all’età augustea.

Il quadro del popolamento è completato da una serie di tombe ascrivibili ad età tardo-repubblicana per la costante presenza di vernice nera nel corredo; esse sembrano riferirsi in prevalenza a necropoli di piccoli nuclei indigeni romanizzati piuttosto che a coloni, come confermerebbero la persistenza non solo del rito incineratorio nella tradizionale cassetta litica ma anche di elementi del corredo, come olle cinerarie in ceramica grezza e armi, che qualificano il morto come un guerriero.

Si può distinguere un primo nucleo di necropoli, datate genericamente all’epoca della romanizzazione (II-I sec. a.C.) ed ubicate a nord-ovest del fiume Magra; oltre alle sepolture isolate di Levanto, di Madrignano e di Celiniea di Pariana si registra la ripresa delle necropoli di Ameglia e Genicciola.

(13)

2.2 Portus Delphini

La più antica fonte che menziona Portus Delphini è Plinio, il quale nella descrizione della costa da Ponente a Levante enumera il “Flumen Porcifera, oppidum Genua,

fìuvius Fertor, portus Delphini, Tugulia intus, Segesta Tigulliorum, flumen Macra..27“e cioè il Polcevera, la città di Genova, il Bisagno, Portofino, Rapallo,

Sestri Levante, il fiume Magra.

Il promontorio di Portofino rappresenta un’appendice anomala del litorale ligure, per la sua forma particolare, dovuta alla conformazione geologica delle sue coste; proteso a formare i golfi Tigullio e Paradiso, essa offre e offriva riparo in numerose insenature.

Figura 2 Monumenti sul promontorio di Portofino dall’età romana all’età moderna. Tratto da VARALDO 1996

La mancanza di resti archeologici al suolo e di collegamenti terrestri, rende ardua e

problematica l’identificazione del Portus Delphini con l’attuale baia di Portofino28,

27

Plino III 5,46

(14)

infatti si ritiene che un porto presupponga strutture a terra quali moli, magazzini, cisterne per l'acqua ed agevoli vie di collegamento terrestri.

Bisogna però tenere presente quanto dice, a proposito dei porti, lo stesso Vitruvio, che pone come presupposto la posizione naturale, “con sporgenze o promontori le cui propaggini sul mare formino curve o gomiti naturali verso l'interno”. Questa descrizione risponde alla definizione romana di porto, che individua semplicemente “un luogo dove le imbarcazioni possono sostare durante l'inverno”.

Tutte caratteristiche ampiamente possedute da Portofino.

E’ però evidente che la funzione di porto, i cui limiti risiedono nella ristrettezza del bacino e nella difficoltà dei collegamenti terrestri, non si è sviluppata in senso strategico od economico ad un livello tale da giustificare i lavori necessari ad un ampliamento, provocandone così un progressivo declassamento. Ne discende che Portofino, pur conservando la funzione propria del porto ricovero delle imbarcazioni non conobbe quello sviluppo politico ed economico che privilegiò altri centri.

Tale funzione però può essere condivisa da altre baie, ugualmente ridossate e profonde.

Nel mondo romano, porti di questo tipo non sono rari. Lo stesso Strabone29 descrive

il porto di Luni con queste parole: “Luna è una città ed un porto. La città non è grande, ma il porto è assai grande e assai bello, includendo più porti, tutti profondi, proprio come dovrebbe essere naturalmente la base navale di un popolo (i Tirreni) che impose la talassocrazia su un così grande mare e pertanto tempo”. È interessante notare che per indicare i porti, l'autore usa il termine greco e per ubicare la posizione, il verbo che vuoi dire circondare. Non è quindi da escludere l'ipotesi che i golfi navigabili del versante sud di Capo Portofino, sino alla baia di San Michele, e forse oltre, costituissero un unico complesso portuale, collegato per mare mediante imbarcazioni minori, denominato Portus Delphini, almeno per un certo periodo ed

insieme ad altri approdi ancora da scoprire30.

29

Strabone V,2,5

(15)

2.3 Genua

Le prime tracce archeologiche, databili tra la fine del VII e la fine del VI secolo a.C, relative alla frequentazione dell’odierna Genova, sono state identificate in un'area protetta dell'ansa portuale, posta allo sfocio di due rivi, interrata nel Seicento per co-struire il Portofranco della Repubblica. Si tratta di una cospicua stratigrafia di fondali marini sabbiosi, depositati nel corso dei secoli e rimescolati dalle correnti e da eventi improvvisi come le mareggiate.

Sopra alcuni livelli risalenti alla preistoria, giaceva uno strato, contenente materiali, che costituiscono la prova dell'utilizzo come approdo da parte di mercanti stranieri del tratto di costa che divenne più tardi il porto medievale.

I materiali più antichi, della fine del VII secolo, sono frammenti di anfore vinarie etrusche e di una coppa, che rappresentano, come già nel Mediterraneo della piena età

orientalizzante31 i segni tangibili dei primi contatti fra gli stranieri di passaggio e gli

indigeni.

Anche altri oggetti del contesto, distribuiti lungo l’arco di un secolo, sembrano marcare le tappe di ripetuti sbarchi nell'accogliente ansa del Mandraccio da parte di

naukleroi impegnati nella navigazione lungo le coste tirreniche.

II complesso dei materiali dei livelli di età tardo-orientalizzante e arcaica del Portofranco mostra una notevole varietà di provenienze, come è lecito aspettarsi in un approdo e “punto di rottura dei carichi” toccato dalle rotte che costeggiavano, nei due sensi, la costa ligure. Senza poter operare una distinzione cronologica interna più precisa, va osservato che tra la fine del VII e la fine del VI secolo a.C. la percentuale maggiore di presenze è ascrivibile a produzioni di Pisa o di manifatture del suo territorio.

Il vasellame in bucchero, i recipienti da cucina e da dispensa in impasto ad argiiloscisti microclastici, le anfore vinarie confezionate con le stesse argille,

(16)

indicano un attivo coinvolgimento della città etrusca nei traffici emporici del Tirreno

settentrionale32, già documentato dai rinvenimenti di Chiavari33 e del Midi francese34.

Consistenti apporti sono inoltre identificabili dall'Etruria meridionale, vino e cera-mica comune.

Notevole, per uno scavo di limitate dimensioni, è l'assortimento di contenitori da tra-sporto, da vari centri dell’Etruria meridionale, centrale, settentrionale, da Marsiglia, dalle coste puniche, dall'area egeo-anatolica.

Tra le ceramiche fini alcuni dei vasi più rari, rappresentati da esemplari singoli o da poche unità, come una kotyle corinzia e frammenti di ceramiche ioniche, fra cui una coppa di probabile produzione occidentale, possono rappresentare, come più tardi i monumentali crateri figurati prodotti ad Atene, testimonianze di scambi occasionali o doni, nell'ambito di una pratica mercantile che affonda le radici nella cultura

mediterranea orientalizzante e trova eco nei poemi omerici35.

Il panorama delle importazioni testimonia un rapporto privilegiato con l'Etruria set-tentrionale costiera, già da tempo ravvisato per altri centri della Liguria orientale sia

nella sfera culturale, sia nella tipologia delle importazioni36 e l'apertura al mondo

coloniale foceo-massaliota, e si confronta con i coevi contesti della bassa valle dell'Arno e della Versilia a levante, del Midi francese a ponente e con i carichi dei relitti rinvenuti lungo il litorale della Gallia meridionale, come quello del Grand

Ribaud F37. È tuttavia da sottolineare l'assenza dei kantharoi in bucchero dell'Etruria

meridionale massicciamente importati in Gallia.

Probabilmente già in questa fase erano attivi i percorsi in direzione della Liguria interna, lungo la Valpolcevera attraverso il valico della Bocchetta, in seguito ricalcati dal tracciato della via Postumia, segnalati anche dal rinvenimento di materiali di tipo

32

Bruni 1993"; Bruni 2003

33 Melli 1993; Bruni 1998, pp. 164,263-64

34 La Liquière, Saint Blaise: Bruni 1998, p. 128; 2003, p. 52 35 Ampolo 2000, in particolare pp. 33 e sgg.

36

Gambari-Colonna 1988, pp. 130 e sgg.; Bonamici 1996, in particolare pp. 36-37; Gervasini-Maggiani 1998

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golasecchiano (fibule, ceramiche a stralucido) nelle sepolture dislocate lungo il percorso38.

Movimenti di merci e di persone sembrano potersi ravvisare verso i mercati fluviali sul Tanaro, come Villa del Foro, presso Alessandria, che ha restituito ceramiche di importazione tirrenica e il Piemonte meridionale fino all'area di Golasecca, dove si

erano insediati piccoli gruppi di Etruschi39.

Anche in assenza di notizie storiche, i documenti archeologici dimostrano che l'impulso alla nascita di Genova deriva da una fondazione etrusca, che avrà certamente attirato e coinvolto anche nuclei indigeni, la cui presenza è testimoniata sia dalle ceramiche, ad esempio nella necropoli di via XX Settembre, sia da una singola attestazione epigrafica, redatta però in alfabeto e lingua etrusca ('mi

nemeties”).

La frequentazione precoce dello scalo genuate coincide cronologicamente con l'at-tivazione delle rotte marittime settentrionali e l'apertura al commercio emporico dei mercati della Gallia meridionale e dell’Iberia, cui diede impulso la fondazione di Marsiglia, di Pisa, di Gravisca.

Situato al centro dell'arco ligure, l'approdo inizialmente svolgeva probabilmente funzioni di scalo tecnico, per l'abbondanza di acqua potabile e combustibile, le spiagge su cui tirare in secca le imbarcazioni, la protezione - all'epoca probabilmente sufficiente - della penisola del Molo in caso di burrasca.

Ancora in epoca augustea Strabone40 annota che la costa ligure era inospitale e priva

di approdi, anche se possiamo supporre che in epoca arcaica non fossero necessarie le strutture per l'attracco delle più voluminose navi onerarie di età romana.

Genova fu fondata su una posizione forte, il colle di Castello e di Sarzano, uno sperone roccioso in posizione dominante, l’insenatura naturale del Mandraccio sul crinale che si prolunga nella penisola del Molo, con una buona visibilità sull'arco

38 De Marinis 1998 39

Colonna 1998

(18)

costiero, da Portofino a Capo Mele e sull’approdo portuale, uno dei rari facili approdi della costa ligure.

La configurazione fisica dell'insenatura era costituita da una corona di colli a schiena d'asino disposti a pettine e intagliati dai corsi di numerosi torrentelli, che proteggevano una baia sabbiosa, chiusa alle estremità da due promontori.

A destra la costa è più erta e rocciosa, a strapiombo sul mare e si allunga nella penisola del Molo, che proteggeva il punto più arretrato dell'insenatura.

Due ampi torrenti, Bisagno a Levante e Polcevera a Ponente, pur essendo di difficile navigazione, potevano essere utilizzati per il trasporto verso valle di alcune merci come il legname.

Le prime tracce di costruzioni identificate, nell'area del convento di San Silvestre, consistono in buche per palo e focolari posti direttamente sul suolo, che segnalano l'esistenza di vani in materiali deperibili, capanne e ripari in legno, probabilmente con copertura straminea.

Due strutture in pietra sono attribuibili a questa prima fase di vita oppidum, come il sito fu più tardi definito dagli storici di età romana.

Il primo edificio41 consiste in un recinto monumentale, con un'apertura delimitata da

pilastri, costruito in blocchetti di pietra sommariamente sbozzata, disposti in filari regolari con la faccia meglio lavorata a vista, mentre schegge più piccole erano impiegate per risarcire le lacune e, mescolate con terra, formavano il riempimento fra le due cortine.

La tecnica edilizia trova confronto alla fine del VI secolo a.C. nel santuario ci

Volterra e in Etruria centro-settentrionale in ambito residenziale42.

Della seconda struttura, presto obliterata da una porzione della cinta e da successive costruzioni di età medievale, è stato possibile verificare l'andamento dell'unica faccia a vista, realizzata in pietrame bruto disposto in maniera caotica, e determinarne la cronologia mediante analisi radiocarboniche di campioni dagli strati in fase.

41

Melli 1999

(19)

Il quadro storico nel quale si svolsero le vicende che videro la fondazione e il popo-lamento dell'insediamento sul colle di Castello appare il risultato di un più sistematico riassetto degli equilibri di forze nello scacchiere del Tirreno, determinato dal dispiegarsi di interessi contrastanti di varie potenze in crescita.

Le turbolenze generate dalle successive ondate della diaspora ionica si erano ripercosse in varia misura su tutte le coste del grande bacino del Mediterraneo, turbando la stabilità politica che aveva consentito fino a quel momento il pacifico

sviluppo dei commerci marittimi43.

La battaglia di Alalia, o del mar Sardonio del 540 a.C), ebbe come conseguenza la spartizione del Tirreno in sfere di influenza tra le grandi potenze che avevano partecipato al conflitto, con la definizione dei rispettivi confini politici e commerciali e il consolidamento del sistema di porti e approdi a cui faceva capo la navigazione

lungo le rotte settentrionali, perfezionato dalla fine del secolo44, anche con la stipula

di accordi e trattati commerciali.

Risalgono a questo periodo le creazioni di fondaci etrusche all'interno di agglomerati indigeni in Linguadoca, come Lattara e la riorganizzazione del settore fra Antibes e Nizza45, la rioccupazione di Aleria da parte degli Etruschi, il riassetto delle colonie già fenicie da parte di Cartagine, l'avvio del programma edilizio di Pyrgi.

Come testimonia lo Pseudo Scilace46 nel VI secolo a.C. la costa ligure era posta sotto

l'influenza etrusca, con un limite ad Antion47.

Le scoperte del Portofranco inducono a ritenere che al momento della fondazione dell'abitato sulla sommità della collina di Castello esistessero altri nuclei di popolamento e che i nuovi arrivati si siano diretti verso un sito sicuro, già noto per precedenti frequentazioni commerciali.

Tra le poche testimonianze delle fonti antiche relative a Genua48 sono preziose le

ripetute menzioni di Strabone49 che definisce il centro portuale “emporio dei Liguri”.

43 Zevi 2000 44 Cristofani 1996; Gras 2000 45 Gras 2000 46 Ps.-Scyl. 5 47 Antibes; Bonamici 1996 48 Mennella 1996

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Gli studi sul significato del termine 'emporio' e delle sue molteplici sfumature presso gli antichi50 incoraggiano a ritenere che lo storico, rifacendosi a fonti anteriori, si riferisse, per Genova, a una realtà più antica quale quella che le scoperte archeologiche vanno svelando.

La data di fondazione del centro genuate coincide con il momento di passaggio dal commercio di epoca orientalizzante, al commercio di tipo emporico arcaico.

E’ interessante notare che la precisazione “dei Liguri”, come per altri empória associati a nomi di popoli, sottolinea il ruolo interregionale svolto dal mercato di Genova, posto al centro del sistema di redistribuzione e nello stesso tempo isolato dalla compagine ligure, per molti versi classificabile ai suoi esordi nella categoria

degli antichi “mercati di frontiera”51, privi di un proprio territorio. Non pare, infatti,

solo dovuto alle difficoltà della ricerca archeologica che siano così scarse le tracce dell'esistenza di una rete di altri nuclei abitativi-satellite immediatamente a ridosso della città e legati alla sua economia, e che ancora nel II secolo a.C. la Tavola di Polcevera evidenzi la limitata estensione del territorio di pertinenza diretta del pur importante centro portuale.

I rilevanti risultati emersi con lo studio dei graffiti, presentati in questo volume da Giovanni Colonna, permettono di sciogliere anche l'ultimo dubbio circa la natura dell'insediamento genuate fin dalle sue origini.

Consistenti innalzi consentono infatti di ritenere che sulla sommità della collina di Castello sorgessero uno o più edifici di culto, tra i quali è tentante identificare il recinto sopra citato, a poca distanza dal quale, nella chiesa di Santa Maria in Passione, fu rinvenuta la cimasa di candelabro che, come nota Colonna, si addice maggiormente alle offerte di un santuario, piuttosto che a un abitato “di frontiera”. Elemento indispensabile a connotare un emporio rispetto a un portus commerciale pare, infatti, come insegnano i casi di Gravisca e Pyrgi, l'esistenza di un luogo sacro, sotto il cui ombrello protettivo si ponevano gli stranieri di passaggio, in una sorta di

49 Strabone (IV 6, 1-2; V 1, 3) 50

Mele 1979; Lepore 1993; Emporion 1993

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extra territorialità che garantiva il diritto d'asilo, così come la correttezza delle transazioni commerciali, sottoposte al potere locale e regolate da norme che il progredire degli studi e delle scoperte fa intravedere più articolate di quanto non fosse un tempo ipotizzato.

Al popolamento del nuovo centro, come testimoniato dai graffiti, concorsero emi-granti provenienti da varie città dell'Etruria interna, alcuni con ascendenze umbre e italiche, che appaiono protagonisti anche delle iniziative di 'ricolonizzazione'

nell'Etruria padana52, con paralleli documentati dalla ricorrenza di nomi presenti

anche a Bologna, ma non mancano testimonianze del carattere aperto dell'insediamento, come prova del cosmopolitismo che costituisce un'altra caratteristica degli emporio.

Appaiono infatti integrati nel tempo nella compagine sociale individui di diversa origine, come il Nemetie di origine celtica e un oriundo greco, Krulu, che hanno lasciato traccia di sé in graffiti nominali, e più oscure figure femminili, come la titolare della tomba 30 della necropoli, che nel ricco apparato di monili sepolto con le sue ceneri segnala la sua appartenenza alla civiltà di Golasecca.

Le strategie matrimoniali dispiegate da alcune popolazioni, come appunto quelle golasecchiane, sono lo specchio di relazioni diplomatiche volte ad assicurare alleanze politiche e diritto al commercio, con vantaggi reciproci per le due comunità coinvolte, non ultima la trasmissione di saperi. Il gran numero di fibule di tipo ticinese e padano raccolto nell'oppidum sembra indicare, almeno per i tipi più antichi, la presenza fisica di individui provenienti da quei territori, collegati alla città da percorsi attraverso la Valpolcevera e la valle Scrivia.

La stessa varietà di provenienze e di produzioni caratterizza le prime fasi di vita dell’insediamento sul colle di Castello, dove la suppellettile domestica di importazione, entro la metà del V secolo a.C, tocca percentuali oscillanti tra il 70 e

l'80% nelle diverse aree sottoposte a indagini archeologiche approfondite53.

52

Torelli 1993

(22)

Si tratta in prevalenza di ceramiche grezze sia dall'Emilia meridionale sia settentrionale, con significativi apporti da area pisana, ceramiche fini di produzione attica a figure nere e figure rosse ed etrusca e figuline dipinte a bande.

Nei livelli in fase con la fondazione sono presenti anche bucchero nero e grigio e ceramica grigia focese.

Tra i contenitori da trasporto, in netta maggioranza etruschi, compaiono più limitati

quantitativi di anfore vinarie corinzie, greco orientali (samie e chiote) e massaliote54.

Il diffuso benessere, che è testimoniato anche dai corredi della necropoli, trova la sua spiegazione in un'economia integrata in cui l'attività di tipo mercantile sembra rivestire un ruolo prevalente, accompagnata da altre occupazioni artigianali che hanno in parte lasciato tracce archeologiche.

Per quanto riguarda le attività di tipo manifatturiero, già dagli inizi del V secolo a.C. è documentata la lavorazione del ferro, testimoniata da abbondanti scorie raccolte in varie parti dell'oppia» e certamente favorita dall'abbondanza di combustibile necessario all'alimentazione dei forni. Un dato interessante sembra essere offerto dalla notevole incidenza dell'erica nello spettro dei risultati delle analisi polliniche dell'area di Santa Maria in Passione .

E noto infatti che l'erica, pur essendo soggetta a una rapida combustione, consente di raggiungere temperature molto elevate.

Le analisi delle scorie ferrose non hanno ancora permesso di individuare con assoluta certezza la fonte di approvvigionamento del metallo, commercializzato sotto forma di

pani spugnosi o blumi, come ricordato da Diodoro Siculo55, ma è ragionevole

supporre, al momento, che si trattasse del minerale dell'isola d'Elba, la cui estrazione

avveniva, dalla metà del VI secolo, sotto il controllo e la gestione di Populonia56. La

richiesta di ferro, armi e strumenti dovette farsi sempre più grande, in una società in progressiva crescita come quella ligure.

54 Milanese-Marinoni 1986 55

Diodoro Siculo (V 13, 1-2)

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Un dato curioso che merita di essere approfondito è la presenza di una dozzina di distanziatori da fornace, rinvenuti in aree diverse detto oppidum, nella classica forma ad anello modanato con fori sulla parete, foggiati in argilla molto depurata. Oggetti del tutto simili, anche per pasta sono stati restituiti in maggioranza da contesti produttivi, dove erano impiegati per impilare i vasi nelle fornaci, con un'area di attestazioni che abbraccia la Grecia. l'Etruria padana, la Campania, la Magna Grecia, la renna, in quanto funzionale a un uso specifico, varia poco nel tempo, tuttavia gli esemplari noti e tipologicamente confrontabili provengono prevalentemente da contesa di età ellenistica, a eccezione di quelli dell' agorà di Atene datati nella seconda metà del V secolo a.C., mentre due dei distanziatori di Genova sono stati rinvenuti in livelli della fine del VI secolo a.C.

Non esistono prove di un'attività di produzione ceramica a Genova, che sembra in-vece essere dipeso da importazioni esterne anche per il vasellame in impasto grezzo, almeno fino al III secolo a.C. È interessante inoltre costatare che a Spina distanziatori da fornace sono stati saltuariamente rinvenuti anche nei corredi tombali, dato che è stato letto come segnale dell'intenzione di ricordare la professione di figlio del defunto, mentre a Volterra un distanziatore con tracce di uso è stato raccolto nell'area

del santuario sull'acropoli, in contesto di fine IV - inizi III secolo a.C57..

Un positivo progresso nella definizione delle attività artigianali dell'oppidum di Ge-nova deriva dallo studio di un manufatto in piombo, che costituisce la prima prova della produzione di fibule in bronzo. Si tratta, infatti, di un modello da fusione per fibula a sanguisuga, completo di cono per l'immissione del metallo, che costituiva la seconda fase della catena produttiva, propedeutico alla realizzazione della matrice in argilla, e trova confronto in una tecnica rimasta invariata fino al Medioevo, come

provano analoghi rinvenimenti a Roma nella Crypta Balbi58.

La cifra “100” graffita sulla faccia piana del cono di fusione può riguardare il numero di pezzi da realizzare e quindi, forse, una commissione.

57

Bonamici 2003, p. 390, n. 132, fig. 35.17

(24)

Anche per altre classi di fibule, come alcuni esemplari tardi del tipo Certosa, è ipotizzabile una fabbricazione locale.

Colaticci di fusione e semilavorati attestano la lavorazione del piombo nel IV secolo a.C.

Fra le produzioni destinate all'alimentazione sono documentate la pesca, segnalata da ami di diverse dimensioni, lische di pesce e pesi da rete, e la raccolta di molluschi, con una limitata incidenza della caccia. Il consumo di carne era diffuso, ma va osservato che le ossa di bovini, sia adulti, che giovani, non rappresentano l'intera carcassa, ma solo limitate zone anatomiche. Questo fa ipotizzare che gli animali non arrivassero interi, e che quindi fossero allevati e macellati altrove.

Gli ovini e i suini erano invece allevati sul posto, i secondi forse anche com-mercializzati, se si può leggere in questo senso la presenza di una maggiore quantità di resti nei fondali del Portofranco. Allo sfruttamento dell'allevamento ovino, una delle maggiori risorse della bilancia commerciale dei Liguri, erano collegate anche le attività domestiche di filatura e tessitura, documentate da pesi da telaio, rocchetti e fusaiole.

Nell'abbondante campionario dell'industria litica sono presenti macinelli e macine in pietra, utilizzate in ambito domestico, ma anche una serie di percussori e ciottoli con tracce di usura, interpretati come lisciatoi, forse impiegati per la concia delle pelli. In netta maggioranza per questi strumenti erano utilizzati ciottoli naturali, provenienti dalle spiagge o dal greto dei fiumi situati nell'area delle formazioni geologiche del Gruppo di Voltri, a ponente di Genova (a circa 15 chilometri di distanza) e trasportati in notevole quantità sulla collina, per motivi che ci restano sconosciuti. Una macina in pietra lavica dall'Emilia meridionale rappresenta un'altra voce fra le mercanzie commercializzate per via marittima, che viaggiavano come merci secondarie nei carichi navali59.

La realizzazione di un centro stabile a Genova sembra rispondere, come diremmo in linguaggio moderno, a un'esigenza di mercato, come naturale conseguenza di “una

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maturazione che parte da un'iniziativa locale che reagisce a sollecitazioni esterne,

cioè alle frequentazioni commerciali60“.

La convergenza sul porto di una rete di percorsi di crinale e di fondovalle in corrispondenza di valichi, che collegavano, con il tragitto più breve in Liguria, la città ai territori padani e la posizione costiera in un punto di tappa quasi obbligato, giustificano la nascita di un santuario emporico e la fortuna del centro, posto in una zona di cerniera tra Etruschi, Greci di Marsiglia e Celti. Non va, infatti, sottovalutato l'apporto, sul piano dell'accelerazione degli scambi, delle popolazioni della Padana occidentale, Liguri dell'interno e Golasecchiani, che da tempo si affacciavano sulla costa ligure per i loro scambi .

Ma sono gli Etruschi che controllano l'emporio genuate, introducendo la lingua e la scrittura, almeno dal 525 a.C., i culti e i rituali funerari, la cerimonialità collettiva e le tecniche artigianali.

Punti oscuri, che restano da chiarire, sono il ruolo degli indigeni in città e l'eventuale esistenza di altri nuclei abitati in altre aree dell'arco portuale, dove non mancano tracce di frequentazione, per lo più rappresentate da sparsi materiali in giacitura secondaria.

Nel corso della prima metà del V secolo il sito fu sottoposto a ristrutturazioni e in-grandimenti, con la trasformazione delle strutture in Santa Maria in Passione in edifici di ablazione, dove si svolgevano anche attività artigianali.

Circa alla metà del secolo fu realizzata una poderosa cortina muraria, intercettata in vari punti della sommità collinare. All'estremità nord, nell'area della chiesa di Santa Maria delle Grazie la nuova, la cinta, dello spessore di circa due metri, fu sovrapposta alla struttura preesistente. Lo scavo ha messo in luce una postierla, dotata di una soglia e delimitata da due massi di notevoli dimensioni inglobati nella tessitura muraria e sommariamente sbozzati, che costituiva l'accesso all'oppidum per chi proveniva dal porto. A nord-ovest del muro sono state riconosciute varie sistemazioni sovrapposte di pietre immerse in matrici argillose molto compatte, con cocci posti in

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piano. Esse creano una sorta di rampa gradinata, in discesa verso l'attuale via di Mascherona (già confine naturale della collina dell'oppidum), che sembra di poter interpretare come strada antica che saliva dalle pendici della collina.

Nella parte centrale il dorso della collina, originariamente a schiena d'asino, fu spia-nato e rimodellato con terrazzamenti che causarono la distruzione delle strutture più antiche. Per l'edificazione fu utilizzato sia il materiale stesso cavato dal monte, la cui abbondanza favorì la realizzazione di massicciate o strati di pietrame costipati e livellati, prodotti dalla distruzione della roccia in situ, sia materiale di recupero come i ciottoli in serpentino. Uno di questi ciottoli, ritrovato in giacitura primaria accanto a un resto di muretto in pietra, fu utilizzato come dedica votiva dal Nemetie sopra ricordato. La cinta, costruita a doppia cortina con riempimento incoerente, circondava lo spazio sommitale, seguendo l'andamento di una curva di livello, mentre altri muri, con diverso orientamento, sembrano riferibili a fasce terrazzate. Le distruzioni operate nei secoli dal succedersi di edificazioni non hanno consentito di seguirne l'intero sviluppo lineare e non è escluso che alcuni punti dove il pendio scendeva a strapiombo, già naturalmente protetti, fossero privi di installazioni di difesa. Nel tratto corrispondente al palazzo vescovile medievale si addossava alla cinta una struttura, realizzata nella stessa tecnica, che delimitava due vani, interpretata come torre.

La realizzazione della fortificazione sembra rispecchiare una pressante esigenza di difesa, forse in relazione alla situazione di insicurezza determinata dalle incursioni siracusane nell'alto Tirreno nel 453 a.C. ai danni del distretto minerario.

All'incirca nello stesso periodo furono realizzate altre abitazioni, di cui furono

do-cumentati lembi dei muri perimetrali e pavimentazioni61.

Erano costituite da muri di fondazione in corsi di pietra sbozzata, disposti in filari con andamento regolare e alzato in canniccio intonacato ed i cui piani pavimentali erano battuti di argilla pura.

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Nel corso della seconda metà del secolo furono operate trasformazioni e restauri mo-tivati da fattori contingenti, come il crollo di un muro di terrazzamento nell'area nord, che fu irrobustito e soprelevato, addossandogli quindi un nuovo pavimento acciottolato. Nel V secolo era attivo un canale di trasmissione di merci che congiungeva i lontani empori dell’Etruria padana con il porto di Genova, attraverso la mediazione di Golasecca.

Le donne della comunità genuate si adornavano di monili in ambra, che trovano i migliori confronti nelle necropoli principesche delle comunità celtiche orientali, mediatrici della preziosa resina raccolta nel Baltico, e nel delta padano, a Spina e Bologna, dove probabilmente aveva luogo la lavorazione della materia prima, nonché di vaghi di collane e fuseruole in pasta vitrea, prodotte principalmente fra Veneto e Slovenia. Ancora al Veneto rimanda un frammento di pendaglio o figurina in lamina

di bronzo con calceus repandus62.

La natura delle merci approdate per via marittima segnala forti legami con il distretto minerario, di cui Populonia era il centro motore e significativi paralleli con gli altri scali a essa collegati, Pisa e Aleria, nell'ambito di un circuito distributivo di prodotti di artigianato e di altre merci meno 'visibili' archeologicamente, che raccordava le

coste della Campania con quelle iberiche lungo il Tirreno settentrionale63.

Convergevano a Genova, verosimilmente attraverso la mediazione di Populonia, gli oggetti di lusso prodotti in Etruria, specialmente a Vulci e Orvieto, che avevano diversificato le proprie produzioni a seguito dell'affievolirsi della domanda di vino nei mercati del Midi e dello spopolamento delle campagne.

I lussuosi componenti dei servizi da simposio in bronzo rinvenuti nella necropoli di Genova trovano stretti confronti a Populonia, Aleria, presso le élites ellenizzate della Campania, a Spina e a Bologna, documentando l'esistenza di un fitto flusso di scambi anche terrestri, associato alla circolazione dei metalli, attraverso i valichi appenninici

che congiungevano la Romagna con la Garfagnana64.

62 Melli 1999, fig. 9,3 63

Martelli 1981

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Prevalentemente lungo rotte marittime viaggiava la ceramica figurata e a vernice nera attica: Atene, interessata a un'espansione dei suoi commerci verso Occidente, guardava anche alle sponde liguri, con attenzione che trova eco nella menzione di Sofocle “l'Enotria tutta e il golfo tirrenico e ti accoglierà la terra ligure”.

L'importazione di ceramica attica è uno degli aspetti che diversifica maggiormente la cultura materiale di Genova da quella degli abitati liguri coevi. Un altro aspetto della sfaccettata realtà genovese è rappresentato dalla costante presenza di militari che accompagna la vita del centro fin dalla prima metà del V secolo a.C., dato che sembra in contrasto con l'immagine di una società la cui principale attività sembra basata sul

commercio e l'ammanato, ma che trova confronto nella documentazione di Aleria65.

Una connotazione militare è presente nelle sepolture maschili della necropoli, per tutto l'arco cronologico di utilizzo, con differenti sfumature, dalla sola lancia a panoplie complete, che comprendevano anche elmi da parata, destinati a capi militari, mentre numerose armi da offesa e complementi di abbigliamento militare, come due ganci di cinturone, iberico (prima metà del V secolo a.C.) e ticinese (fine del V secolo a.C.), sono stati rinvenuti nell'oppidum.

La provenienza eterogenea, riflessa, a esempio, dalla statua di guerriero di Lattes66,

trova spiegazione nell'ampia circolazione di tali manufatti, per commercio o per pre-da bellica, in tutto il bacino del Tirreno occidentale, anche per evidenti ragioni di funzionalità connesse al loro utilizzo pratico.

Dal IV secolo è evidente, in tutta la Liguria, l'adozione di armi di tipo celtico. L'incidenza del fenomeno fino alle soglie del III secolo, l'abbondanza di armi anche nell'abitato e i riferimenti delle fonti all'impiego di mercenari liguri fin dal 480 a.C. (battaglia di Imera) suggeriscono che il centro portuale costituisse un punto di reclutamento e imbarco (e rifornimento di armi?) di truppe mercenarie.

Per tornare allo sviluppo dei commerci in cui la città era coinvolta, si osservano due differenti direttrici di traffico, una in direzione nord-sud, l'altra est-ovest, sia per via

65

Cristofani 1996a. pp. 91 e sgg.: Gilotta 2001, p. 8

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marittima lungo le rotte parallele alla costa ligure, sia utilizzando i percorsi terrestri sulla dorsale appenninica che attraversa la regione.

Mentre, come accennato, la prosperità dell'insediamento non sembra aver avuto positive ricadute dirette sul suo immediato entroterra, sembrano provati i rapporti con i centri della Liguria interna, specie Libarna, che costituiva il principale nodo di penetrazione delle vie commerciali tra la pianura Padana e il mar Ligure e dei

percorsi est-ovest che sfruttavano la navigazione del Po da e verso l'Etruria padana67.

Nel IV secolo l'abitato subì profonde e prolungate modifiche, infatti all'estremità nord-est il muro di cinta fu in parte spianato e al suo posto fu costruito un edificio quadrangolare addossato alla collina, con basamento in pietre calcaree di piccole dimensioni lavorate a spacco, di spessore vicino ai cinquanta centimetri, e alzato in mattoni crudi. Esso differisce per orientamento dalla cortina muraria e risulta fondato in uno spazio pianeggiante, probabilmente terrazzato artificialmente, ma in leggera discesa verso ovest. Nell'area di Santa Maria in Passione occorsero fenomeni di distruzione e d'abbandono, seguiti dalla costruzione di nuovi muri e la rioccupazione di una abitazione con varie fasi di rimaneggiamento.

Nella zona centrale, sulla sommità del colle, intorno al 380 a.C. un nuovo edificio con copertura fittile fu sovrapposto, con differente orientamento, alla casa preesistente che era stata abbattuta. A sud il versante esterno alla cinta fu intagliato con poderosi terrazzamenti formati da massicciate in pietra, su cui sono stati raccolti abbondanti frammenti di anfore massaliote.

Altri materiali, prevalentemente in giacitura secondaria, lungo le pendici e alla base della collina, nell'area più vicina all'approdo, dimostrano una più capillare occupazio-ne dei luoghi.

E probabile che la ricerca di nuovi spazi abitativi documenti un aumento di popolazione, che sembra di poter associare, in base all'analisi dei dati archeologici, a un momento di intensa attività del porto e a un irrobustimento dell'elemento locale. Dal IV secolo la pressione esercitata dalle tribù celtiche nei confronti delle

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zioni della Liguria interna sembra allentare il cordone che le legava al porto di Genova, ma non si colgono segni di recessione nell'economia della città, che appare ancora beneficiare dell'efficienza della rete commerciale del Tirreno settentrionale, non influenzata dalle conseguenze della battaglia di Cuma, e favorita dal sistema di alleanze da tempo instaurato da Populonia con il mondo greco coloniale controllato da Marsiglia.

È la colonia focese che dal 350 a.C. circa ormai domina i mercati liguri, diffondendo a Genova e in molti siti della Liguria le proprie produzioni vinicole e ceramiche, cui fa riscontro la diffusione in Cisalpina di monete che imitano la dracma pesante di Marsiglia, lungo un asse che dalla Liguria raggiunge il territorio insubre/lombardo. Con progressivo aumento dalla metà del V fino alla metà del IV a.C. e oltre, la città riceve discrete quantità di ceramica attica a figure rosse e in misura minore a vernice nera, in parallelo con l'elevato assorbimento di questi prodotti nel distretto minerario etrusco, a Ostia, nella Francia meridionale e nella penisola iberica.

Alle produzioni tarde di ceramica attica a figure rosse si affiancano vasi figurati etruschi e falisci, anche della serie antica e kylikes a decorazione sovradipinta del Gruppo Sokra, mentre più consistente diventa dalla seconda metà del secolo la presenza di prodotti delle officine etrusco meridionali, soprattutto di Cerveteri, commerciati sotto il crescente controllo di Roma.

A un ruolo redistributivo di Populonia e forse di Pisa è probabilmente da attribuire anche la presenza a Genova di vasellame delle officine etrusco-settentrionali, come quelle di Volterra, ma anche le produzioni a pasta grigia del medio e basso Valdarno e una elevata quantità di coppe degli atelier des petites estampilles, nelle varianti prodotte in area laziale e nella stessa Populonia, la cui diffusione in Liguria dimostra già l'esistenza di una più strutturata rete commerciale.

La richiesta di balsami e profumi viene soddisfatta da importazioni in contenitori magnogreci, come le lekythoi a reticolo e vasetti policromi in vetro pressato del

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“Mediterranean Group 2” di Harden68, per i quali è stata ipotizzata una produzione di atelier italici o di Alessandria, dalla sua fondazione nel 332 a.C.

Dalla Spagna proveniva anche, già dal IV secolo, ceramica della costa

catalana69rinvenuta lungo gli scali collegati al “circuito dei porti”.

Dal Lazio e forse dall’Etruria erano importati stogili in bronzo, dalla Magna Grecia rare ceramiche e più sporadici oggetti di artigianato, come una fibula in osso. Per gli approvvigionamenti di vino e forse olio sono introdotte sul mercato genovese produzioni 'greco-italiche' e puniche, queste ultime anche con una modesta penetrazione nell'entroterra, che apriranno la strada a più regolari flussi commerciali. Una nuova vivacità produttiva e imprenditoriale sembra ora caratterizzare i territo-ri delle altre tribù liguri, dove l'archeologia segnala il sorgere di numerosi centri costieri, che fanno confluire nel porto di Genova i propri prodotti, documentati

archeologicamente solo dalle ceramiche70 specialmente le caratteristiche olle con

decorazione a unghiate, probabilmente destinate al confezionamento e al trasporto di prodotti alimentari, e i dalia in argille gabbriche tipici del Tigullio.

Dal bacino del Polcevera iniziano a essere importati utensili per la tessitura e laterizi, che alimenteranno un fiorente commercio anche in epoca romana.

Con l'eccezione di alcuni centri sulla costa, l'economia delle popolazioni liguri sembra essere stata incentrata ancora per tutta la seconda età del Ferro principalmente su attività agricole, di sfruttamento boschivo e di allevamento di transumanza, come

testimoniano le fonti romane e in particolare Strabone71, che elenca, come risorse del

territorio commercializzate nell'emporio di Genova, il legname abbondante e di

buona qualità72, utile per la costruzione delle navi, miele, pelli, animali da soma detti

ginnoi, lana grezza73 utilizzata anche per confezionare mantelli e indumenti rustici.

68 Harden 1981, pp. 53 e sgg. 69 Milanese 1987, nn. 470-472, 546 70 Milanese 1987, pp. 302-305 71 Strabone IV 6,2 72 Strabone V 1, 12; V 2, 5 73 Strabone V 1, 12

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È opportuno ricordare la grande importanza connessa, specialmente nel periodo

arcaico, alla disponibilità di legname di grandi dimensioni per la carpenteria navale74.

Della capacità dei Liguri di navigare, pur su imbarcazioni di non grande qualità

tecnica, resta testimonianza in una menzione di Diodoro Siculo75,che sottolinea il

coraggio nell'affrontare il mare e le lunghe distanze percorse.

Nel IV secolo era praticata una navigazione di piccolo cabotaggio, che ridistribuiva negli approdi minori merci successivamente avviate nell'entroterra, come è il caso di Camogli, in rapporto con il castellare di Uscio.

Tra la fine del IV e il III secolo a.C. prese avvio un processo irreversibile di deca-denza dell'abitato, con fenomeni di distruzione e crolli, seguiti da abbandono, in concomitanza con l'abbandono di un settore della necropoli. Con il tardo III secolo a.C. Genua ruota già nell'orbita commerciale di Roma, come segnalano anche rinvenimenti di assi sestantali che segnano il lento passaggio a un'economia di tipo monetale.

Secondo le fonti l’oppidum fu distrutto da Magone nel 205 a.C., e successivamente

'riedificato' a opera dei Romani76, anche se l'archeologia non ha sinora offerto

conferme certe alle date tradizionali dell'aggressione cartaginese.

Dalla seconda metà del II secolo a.C. fu occupata l'area pianeggiante a ponente della collina di Castello, con edifici in opus cratidum, poi sostituiti da strutture più stabili, mentre sull'oppidum si praticavano spianamenti di macerie e sistemazioni a uso agricolo.

Il porto di Genova fu utilizzato dai Romani già nel 218 a.C.77 ma molti studiosi

ipotizzano che un'alleanza con Genua fosse già stata stretta in precedenza e che la città fosse stata prescelta come base navale e punto d'appoggio agli esordi

dell'invasione della pianura Padana78.

74 Gras 1997, pp. 165-166 75 Diodoro Siculo;V 39, 8

76 Liv. XX-VIII 46, 7-9; XXX 1,10 77

Liv. XXI 32, 1; Amm. Mare. XV 10, 10

Figura

Figura 2 Monumenti sul promontorio di Portofino dall’età romana all’età moderna. Tratto da VARALDO 1996
Figura 3 Evoluzione della linea di costa di Vado dall’età romana all’età moderna.  Tratto da VARALDO 1996
Figura 4 Evoluzione della linea di costa di Noli dall’età romana all’età moderna.  Tratto da VARALDO 1996
Figura 6 Evoluzione della linea di costa di Albenga dall’età romana all’età moderna. Tratto da VARALDO 1996
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