CATALOGO DELLE OPERE
Nelle schede sono utilizzate le voci:
Tipologia: indica per tecnica e formato il tipo di oggetto schedato. Dimensioni: le unità di misura sono in cm, h x l.
Provenienza: sono indicate le collocazioni conosciute dell’opera in ordine cronologico
dal basso verso l’alto.
Alcuni dei dati di queste opere sono stati presi dalle relative schede ARTPAST (Applicazione informatica in Rete per la Tutela e la Valorizzazione del Patrimonio culturale) dall’Archivio Restauro della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Artistici, Storici ed Etnoantropologici per le provincie di Pisa e Livorno.
Altre informazioni, sono state tratte, quando si presentavano elementi in comune con i dati ritrovati nella bibliografia citata, dalle schede online della fototeca della Fondazione Federico Zeri di Bologna, all’indirizzo:http://www.fondazionezeri.unibo.it/default.htm
In alcuni casi non è stato possibile reperire informazione certa circa le misure delle opere schedate.
1. Avignone, Musèe du Petit Palais
Cristo benedicente
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (frammento)
Dimensioni 28 x 35 cm
Provenienza Musèe Calvet
Provenienza Collezione L. Salavin Provenienza Collezione Moratilla Provenienza Collezione Carlo Lasinio
La scheda che descrive questo frammento di dipinto è pubblicata nel catalogo realizzato da M. Laclotte e E. Mognetti nel 1976. Nel catalogo in questione sono schedate diverse tavole che, tramite il Museo Calvet di Avignone, sono giunte nel Musèe du Petit Palais. La scheda infatti, riporta la storia dell’opera, o meglio la storia dei luoghi che la ospitarono, tra i quali il Museo Calvet, in cui giunse nel 1973 (Calvet 22813). Il catalogo elettronico della Fondazione Zeri, riporta ulteriori informazioni: il frammento fu segnalato come appartenente alla collezione parigina Moratilla intorno al 1950 ed il 1955, mentre per collezione Salavin, sempre a Parigi, fu indicato il 1969. Riprendendo la scheda del catalogo del 1976, il Maestro di San
Torpè è presentato come un artista attivo a Pisa tra la fine del XIII secolo ed il 1320 circa. Secondo quanto riportato nella scheda, la forma originale di questo dipinto, arrotondata in alto come se fosse rinchiusa entro un tondo e raffigurante un Cristo benedicente su fondo oro, permette di pensare che il frammento appartenesse alla parte superiore di un grande crocifisso e che, probabilmente, si trovasse nella parte superiore dell’incrocio dei bracci, proprio sopra la testa della figura crocifissa. Difatti, nella scheda è citato anche il Crocifisso del Belvedere di Crespina attribuito al Maestro da M. Bucci nel 1962, esposto nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, come esempio di questa composizione piuttosto rara ma che, meglio di tutte, spiega la forma del frammento. Poco prima di questa schedatura ad attribuire l’opera al Maestro di San Torpè era stato L. Bellosi, probabilmente con una comunicazione orale o epistolare agli autori del catalogo. Che il frammento provenga da Pisa è attestato dal timbro sul retro, poiché riporta le iniziali di Carlo Lasinio e del Camposanto pisano di cui era il curatore. Nella scheda, l’autore dell’opera è presentato come il miglior pittore presente sulla scena pisana e nella regione, tra la morte di Cimabue e l’arrivo nella stessa Pisa di Simone Martini. E poiché il Crocifisso del Belvedere ricorda la Crocifissione di Cimabue ad Assisi, è ipotizzato che anch’egli abbia lavorato in questo cantiere. L’opera è confrontata anche con la Madonna ad affresco del Duomo pisano e con quella della chiesa di San Torpè a Pisa. In base a quest’ultimi confronti l’opera è inserita nella categoria dei lavori maturi del Maestro, ai quali per l’appunto appartiene la Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè, mentre il Crocifisso di Crespina è stimato leggermente più tardo rispetto a quest’ultima.
Nel 1994, nel descrivere il Crocifisso del Belvedere, anche E. Carli non poté fare a meno di confrontare la figura del Cristo, racchiuso entro un tondo subito al di
sopra dei bracci, con questo frammento di opera raffigurante il medesimo soggetto. Il Cristo del Crocifisso del Belvedere raffigurato non frontalmente ma di profilo verso sinistra, aveva perso parte della sua superficie pittorica, per cui non era certo se, oltre ad osservare la Madre racchiusa in un quadrato ligneo all’estremità del braccio sinistro della croce, la stesse anche benedicendo. Osservando però il Cristo raffigurato in questa scheda, lo studioso ipotizzò con sufficiente certezza che il gesto fosse il medesimo.
In un suo saggio del 1996 C. Martelli, nel suo tentativo di dimostrare che il pittore senese Memmo di Filippuccio aveva avuto un grande impatto sulla iniziale formazione artistica del Maestro di San Torpè, affermò che oltre che nel grande affresco del Maestro situato nel Duomo pisano, anche in questa opera dello stesso artista si poteva notare una forte affinità con Memmo di Filippuccio. In questo frammento la studiosa fu colpita dalla severità e dall’intensità del volto del Cristo, raffigurato con una fronte aggrottata, occhi scavati ed un naso finemente tagliato oltre che leggermente aquilino, caratteristiche tutte riconducibili a Cimabue che aveva lavorato ad Assisi. Inoltre, C. Martelli in nota del suo testo critico aggiunse: “…Tuttavia la posa chinata in avanti e l’espressione premurosa del volto non sembrano corrispondere a quelle abituali nel Cristo trionfante sulla morte che appare nella cimasa dei crocifissi, bensì piuttosto al Cristo benedicente collocato nei polittici al di sopra della figurazione centrale della Vergine col Bambino…”.
Nel 1998 per A. De Marchi, la testa di questa figura risultava ancora condizionata dallo stile di Cimabue e costituiva il passaggio ad alcune opere successive del Maestro, come la tavola di Raleigh nel North Carolina.
________________________ Bibliografia:
Laclotte - Mognetti 1976, scheda 159; Carli 1994, p. 28; Martelli 1996, p. 22, 40 nota 13; De Marchi 1998, p. 32.
Confrontato nel secondo capitolo con: la Madonna col Bambino del Museo della Collegiata di Empoli (Tondo di Empoli) forse realizzato da Giovanni Pisano; uno smalto nell’Ostensorio del Tesoro della Co-Cattedrale di San Giovanni a Valletta di Malta; uno smalto nel Calice di Lipnice del Museo di Arti Decorative di Praga, uno smalto nel calice dell’Istituto “Bambin Gesù” di Gualdo Tadino firmato da Duccio di Donato e soci.
2. Campiglia Marittima (GR), Propositura di San Lorenzo
Madonna col Bambino
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (porzione centrale di “Maestà”)
Dimensioni 93 x 70 cm
La tavola fu presentata per la prima volta nella Mostra del Restauro del 1972 che ebbe luogo nelle stanze del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa. La riscoperta dell’opera fu descritta da S. Meloni Trkulja nel catalogo della mostra: “Il ritrovamento di questa tavola - tre pezzi completamente staccati l’uno dall’altro, abrasi e ridipinti - ha del romanzesco; celata dietro una pala d’altare più tarda, considerata, dopo un casuale recupero da buttar via perché semidistrutta dalle termiti, fu presa al balzo durante un’ispezione e subito portata a Pisa, dove l’intuizione di una scoperta importante fu confermata dalle prime, ansiose prove del restauro…”1
. Ad occuparsi del restauro fu Fausto Giannitrapani. S. Meloni Trkulja, nonostante si rendesse conto della difficoltà nel giudicare un’opera così malridotta, non ebbe dubbi ad attribuire la tavola al Maestro di San Torpè ed a ritenerla una delle
sue opere più tarde. Sino ad allora la cronologia delle opere attribuite al Maestro non era mai andata oltre il 1319-1320, soprattutto perché esse non mostravano alcun riflesso dell’opera pisana di Simone Martini, il polittico di Santa Caterina d’Alessandria, eseguito proprio in quegli anni. Invece, seguendo la descrizione che S. Meloni Trkulja ne diede, in questa tavola il Maestro di San Torpè aveva stemperato la severità duccesca schiarendo gli incarnati con delicati passaggi di tono e distendendo le espressioni più intense rispetto alla Madonna della chiesa di San Torpè a Pisa, col risultato di realizzare una delle più dolci e calme fra le sue Madonne più tarde. L’opera le sembrò, dunque, più vicina ai fratelli Lorenzetti che al Duccio di Buoninsegna ad Assisi, confermando che sua datazione avrebbe potuto superare il 1320. Staccando il Maestro dalla sua figura di precursore, la studiosa gli diede un nuovo ruolo di ponte verso la successiva importante figura pittorica pisana, ovvero Francesco Traini. E tramite un’opera di quest’ultimo pittore, la Madonna di San Nicola, il gesto del Bambino di toccare il velo o la guancia della Madre con una mano protesa e grassoccia, e lo stesso viso rotondo e morbido di Gesù che si vedono nell’opera del Maestro di San Torpè, furono riprodotti nella Madonna della Carità di Nicolò Tegliacci, S. Meloni Trkulja notò una fortissima somiglianza fra il largo trono, foderato da un ricco drappo rosso a disegno, come il cuscino, e decorato negli spioventi da radi e grossi gattoni scolpiti, e quello dell’Annunciazione a mosaico posto nel catino absidale del transetto sinistro del Duomo pisano. A questo punto, la studiosa cominciò a riportare quanto era stato scritto dal restauratore dell’opera sopracitato, nella rispettiva scheda di restauro depositata nell’Archivio della Soprintendenza di Pisa2. A differenza della tavola della Madonna della Badia di Morrona, presente alla stessa Mostra del Restauro e la cui mestica ormai distrutta poggiava su una struttura lignea in ottimo stato, qui l’ottima mestica poggiava invece
su una struttura lignea divorata da tarli e termiti. Durante il restauro, il legno ormai marcio venne ridotto allo spessore di quattro millimetri e poi consolidato con resine sintetiche ed altri materiali; quanto rimase, fu poi coperto da una tela di canapa ed incollato su un nuovo sopporto in cadorite (un supporto formato da due strati di poliestere e lana di vetro con una intercapedine di resina espansa), leggero, indeformabile e distruttibile in caso di necessità. Che si dovesse trattare del frammento di una tavola di grandi dimensioni, molto maggiori di quelle attuali, fu confermato dalla presenza di tre assi, generalmente non necessarie nelle tavole più piccole, e da un frammento del cuscino su cui doveva essere seduta la Vergine, lasciato durante il restauro nell’angolo superiore destro della tavola per l’impossibilità di collocarlo altrove. Si potrebbe ipotizzare, dunque, che la tavola raffigurasse una Maestà simile a quella che si trova esposta nel Museo di San Matteo. La ridipintura che aveva risparmiato gli incarnati, aveva infierito invece sulle vesti, sul fondo oro e sul trono il cui disegno fu riscoperto tramite i raggi X. Sulla superficie pittorica furono trovate presenze di vernici, olii, tempere grasse e gommalacca: sul fondo era stata realizzata una decorazione a melograni, le aureole erano state ridorate con porporina e solo in alcuni punti fu possibile recuperare la bulinatura originale; sotto il falso mantello della Vergine ne fu ritrovato un altro forse settecentesco; del mantello era falsa la bordatura, il sottopanno era stato ridipinto e false erano anche le decorazioni in oro dell’abito del Bambino, di cui, sotto pesanti riverniciature, fu recuperato il rosa originale; anche i contorni dei visi erano stati alterati da una sottile linea rossa, sotto la quale ricomparvero le originali linee più grosse e scure. Tutti i rifacimenti furono eliminati ammorbidendoli con solventi e poi asportati definitivamente col bisturi; infine per rendere più liscio ed omogeneo il fondo della tavola fu stesa una stuccatura poi patinata a color legno,
realizzata in maniera che da vicino fosse distinguibile dalle parti originali della tavola.
Lo stesso anno, la mostra venne criticata da M. Ferretti, che pose in relazione la tavola di Campiglia Marittima con quella ritraente Santa Giulia, conservata nel Museo Terreni dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia a Livorno. Inoltre, egli ritenne che la Madonna si trovasse in quella cittadina sin dalla sua creazione, visto che questa era rimasta sotto il dominio della repubblica di Pisa sino agli inizi del XV secolo. Rispetto alla datazione avanzata da S. Meloni Trkulja, egli propose di anticiparla al 1310
Con quest’ultima proposta, non concordò la studiosa H. Kiel, o quantomeno nella sua recensione della medesima Mostra pisana, pubblicata nella rivista “Pantheon” del 1972, scelse la datazione precedentemente espressa da S. Meloni Trkulja, sostenendo così che delle tre opere del Maestro di San Torpè esposte alla mostra, questa fosse l’ultima ad essere stata eseguita.
L. Bellosi nel 1974 tornò invece a proporre la stessa datazione stabilita da M. Ferretti (anche se non citò la recensione critica scritta dallo studioso sulla Mostra del 1972). La Madonna fu da lui nuovamente ricondotta agli anni dieci del Trecento a causa dell’aureola che si mostrava più semplice, rispetto a quella realizzata meccanicamente nella Madonna della Badia di Morrona, ed inoltre raffigurava dei racemi a graffito realizzati a mano libera. Per lo studioso la Vergine presentava un arcano aspetto iconico di tipo dugentesco e soluzioni figurative, come la formula chiaroscurale adoperata per la realizzazione del modellato tra il labbro inferiore e la prominenza del mento, visibili nelle Storie di San Francesco della Basilica di Assisi.
A. Protesti Faggi, in suo saggio del 1988 inerente l’affresco denominato “Madonna della Rosa” nella chiesa di Santa Maria della Rosa di Lucca, affermò che
quest’ultima opera, indubbiamente, aveva influenzato la Madonna col Bambino del Duomo pisano del Maestro di San Torpè. Inoltre, lo stesso affresco lucchese doveva aver influenzato anche la Madonna di Campiglia Marittima, dato che mostrava soluzioni figurative e stilemi dugenteschi molto simili, sia nelle fisionomie dei volti sia nella tipologia degli occhi e della bocca di matrice assisiate, ed anche una stessa soluzione nei troni decorati da gattoni rampanti e rivestiti da un drappo rosso con motivi geometrici.
Nel 1994, E. Carli dichiarò che quest’opera era, con molta probabilità, precedente al Crocifisso del Belvedere di Crespina, e che forse poteva essere ritenuta la più antica eseguita dal Maestro di San Torpè. In questa opera, il Maestro colse i modi più antichi di Duccio di Buoninsegna, precedenti alla grande Maestà di quest’ultimo, e, sempre nella scia dell’artista senese, ripropose il gesto infantile e vero del Bambino che solleva un braccio per giocare con il velo della Madre.
Nel 1996 C. Martelli, come già M. Ferretti e L. Bellosi rispettivamente nel 1972 e nel 1974, pensò per quest’opera ad una esecuzione giovanile del Maestro di San Torpè, all’incirca verso gli anni dieci del Trecento, in base al rosso maforion della Vergine (ossia la cuffia bizantina indossata sotto il manto dalle Madonne sino all’innovativo velo bianco proposto da Duccio di Buoninsegna), alla grande aureola di quest’ultima, e alla tipologia di trono e di decorazione della stoffa che rivestiva quest’ultimo. Inoltre anch’essa, dopo una serie di indagini sui culti pittorici in loco, ritenne che la Propositura di San Lorenzo, dove la tavola era stata rinvenuta, fosse con molta probabilità il luogo originario di appartenenza dell’opera stessa. Riguardo alle originarie dimensioni della tavola la studiosa propose, in una nota, di riferirsi alle dimensioni della Maestà di Badia a Isola di cm. 188 x 112 ed alla Maestà di Città di Castello di cm. 258 x 151.
Nel 1998 A. De Marchi notò che in questa opera lo sfondo, ossia il motivo della stoffa dipinta dal Maestro, era quasi del tutto simile a quella della Madonna dei Francescani del giovane Duccio di Buoninsegna. Inoltre per lo studioso questa tavola, come il Cristo benedicente del Musée du Petit Palais di Avignone, era una opera di transizione verso la più matura Madonna col Bambino di Raleigh.
M. Burresi e A. Caleca in un loro saggio pubblicato nel 2005, rispetto ad altre opere pisane del Maestro come la Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè, la Madonna col Bambino affrescata nel Duomo di Pisa, ed il Crocifisso del Belvedere del Museo di San Matteo più attente alle opere di Duccio di Buoninsegna e Giotto, individuarono in questa tavola, o meglio nei pochi tratti di pittura rimasti, lo stile delle tavole senesi di un Trecento abbastanza avanti negli anni, esattamente come nella Madonna della Badia di Morrona.
Nel 2008 M. T. Lazzarini scrisse che la Madonna affrescata nel Duomo pisano, per lei significativa per la datazione della tavola di Campiglia Marittima, non trovava una datazione unanime. Però, rispetto all’opera del Duomo pisano che considerò, anche se non con assoluta certezza, eseguita appena prima di questa, essa vide nella tavola dipinta di Campiglia una maggiore dolcezza espressiva sia nei volti dei due protagonisti, in particolar modo in quello del Bambino, sia nella mano protesa ad accarezzare la guancia della Madre che le ricordavano i modelli diffusi negli anni trenta del Trecento da artisti come il senese Niccolò di Segna. Rispetto ad E. Carli che nel 1994 aveva ritenuto che quest’opera fosse la più antica del Maestro, preferì asserire che la datazione di questa tavola rimaneva incerta. Accolse, piuttosto, la teoria di C. Martelli del 1996 che la tavola dipinta fosse stata sin dall’inizio collocata e conservata nella Propositura di San Lorenzo. Infine scrisse che la tavola era stata “…ritrovata casualmente negli anni sessanta del secolo scorso, nascosta alla vista
da spesse ridipinture e soprattutto da un’altra pala, posta sull’altare dedicato alla Madonna delle Grazie…”. Ancora oggi, l’opera si trova sull’altare della cappella sinistra dedicata, per l’appunto, alla Madonna delle Grazie.
Nel 2010 L. Pisani in un suo articolo scrisse che le prime opere del Maestro di San Torpè erano state influenzate dallo stile di Cimabue e di Duccio. La studiosa decise quindi di collocare cronologicamente quest’opera nell’ultimo decennio del Duecento dato che la stoffa posizionata alle sue spalle, come era stato notato da A. De Marchi, rimandava a suggestioni duccesche. Inoltre concordò con quanto sopra ipotizzato da C. Martelli e M. T. Lazzarini, ossia che tavola fosse stata dipinta proprio per la Propositura di San Lorenzo a Campiglia Marittima.
Propositura di San Lorenzo:
Stando a quanto riportato da M. T. Lazzarini nel 2008, la Propositura sarebbe uno dei luoghi di culto più antichi della zona. Attestata dal 1325, la sua erezione era stata necessaria a causa dell’aumento della popolazione e per alleviare il disagio causato dalla distanza della pieve di San Giovanni posta fuori dal borgo. La chiesa assunse la doppia titolatura di San Giovanni e San Lorenzo a metà del Cinquecento, mentre la sua condizione attuale è il frutto di alcune ristrutturazioni compiute tra l’inizio del Cinquecento e la fine del Settecento. Il suo aspetto è a croce latina, con una copertura a volta ribassata impostata al di sopra di un cornicione, e suddivisa in campate con unghie laterali ed aperture. A metà della navata si aprono due cappelle: quella della Madonna delle Grazie a sinistra e quella di Sant’Antonio a destra. Mentre l’altare maggiore è dedicato a San Fiorenzo, nell’area presbiteriale si apre la cappella dello Spirito Santo e di fronte ad essa la cappella dedicata a San Rocco.
________________________ Bibliografia:
Per la tavola dipinta: Meloni Trkulja 1972, pp. 81-86; Ferretti 1972, p. 1055; Kiel 1972, p. 508; Bellosi 1974, p. 105 nota 82; Protesti Faggi 1988, p. 6; Carli 1994, p. 28; Martelli 1996, pp. 24-25, 41 nota 22; De Marchi 1998, p. 32; Burresi – Caleca 2005, pp. 87-88; Lazzarini 2008, p. 22; Pisani 2010, pp. 85-86.
Per la Propositura di San Lorenzo: Lazzarini 2008, p. 41.
1
Secondo quanto riportato oralmente da Don Marcello Boldrina, attuale parroco della Prepositura di San Lorenzo, fu Don Mario Pistolesi a richiedere una valutazione sulle “tre assi” da lui ritrovate.
2
Soprintendenza di Pisa (PSAE), Archivio Restauro, LI-fascicolo n. 59: LI- Campiglia
Marittima-Chiesa di San Lorenzo-dipinto “Madonna col Bambino”, restauro: Fausto Giannitrapani, 1972.
Confrontata nel secondo capitolo con: la Madonna dei Francescani e la “Madonna di Crevole” di Duccio di Buoninsegna.
L’opera appena scoperta Un particolare dello schienale Le tre assi separate della tavola
3. Casciana Terme (PI), Chiesa di Santa Maria Assunta
Madonna col Bambino e Angeli al centro dell’Eterno in gloria tra
Angeli, Santi e alcuni confratelli in adorazione del Rosario
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (scomparto centrale di polittico)
Dimensioni 85 x 56 cm
G. Mariti nel 1799, nel Tomo secondo del suo “Odeporico o sia itinerario per le colline pisane”, descrisse nella chiesa di Santa Maria Assunta di Casciana Terme un quadro nominato Madonna del Rosario composto da un dipinto cinquecentesco nel cui centro era racchiusa, dentro un tabernacolo, una tavola dipinta chiaramente più antica. L’opera che allora, come oggi, era collocata nella piccola cappella che si trova in cima alla navata destra della chiesa, è di proprietà della chiesa medesima. Riguardo ai santi rappresentati nella parte “più moderna del quadro”, lo studioso ipotizzò che alcuni di essi potessero essere i ritratti di qualche componente della famiglia che lo aveva commissionato; egli, fra i possibili committenti decise di indicare la famiglia dei Sancasciani, dato che, secondo quanto aveva riportato nel suo
testo, all’epoca era loro costume essere seppelliti sotto l’altare della cappella che esponeva quest’opera. Infine lo studioso, dopo aver ritenuto il quadro più moderno “…di mediocre mano…”, ne esaminò il centrale tabernacolo contenente questa tavola medievale che, secondo la sua opinione, era stata lì inserita dopo essere stata segata da un qualche vecchio polittico. L’opera raffigurava una Madonna col Bambino contornata da uno sfondo d’oro che, infine, decise di attribuire all’Orcagna.
L’opera fu citata nuovamente nella prefazione del catalogo della Mostra di Arte Sacra che si svolse a San Miniato nel 1969. L’autrice di questa prefazione, L. Bertolini Campetti, si lamentò della mancata presenza alla mostra di questa opera, il cui stile ricordava molto quello del Maestro di San Torpè, al punto che per la studiosa la tavola era stata realizzata proprio dall’anonimo Maestro.
La stessa L. Bertolini Campetti sopra citata, nel 1972 realizzò la scheda di questa tavola dipinta per il catalogo della Mostra del Restauro che si svolse dal 26 settembre al 5 di Novembre nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. Nonostante le ridipinture, le vernici ossidate, la vistosa porporina che ricopriva il fondo e che aveva alterato i rapporti cromatici della pittura, la studiosa aveva riconosciuto in questo dipinto la mano del Maestro di San Torpè. L’opera, anche se priva del suo fondo oro, grazie ai suoi squisiti valori cromatici e alle sue qualità stilistiche fu definita da Bertolini Campetti come il miglior esempio dell’arte del Maestro, a sua volta da lei definito l’unica personalità veramente importante in Pisa sullo scorcio del Duecento e nel primo ventennio del Trecento. Inoltre, accennò agli antichi rapporti che vi erano stati fra i Camaldolesi della Badia di Morrona (dove si trova l’altra delle tre opere del Maestro di San Torpè esposte alla Mostra pisana) ed il paese di Casciana Terme, a seguito di lasciti di terre e privilegi accordati per lo sfruttamento delle acque termali. La tavola doveva essere parte di un più vasto complesso
pittorico, dato che in basso a destra erano venuti alla luce dei frammenti pittorici in cui sono raffigurati dei capelli ed anche per la interruzione della incorniciatura a rilievo di cui è rimasto solo un residuo nella parte superiore dell’arco. La studiosa, nonostante alcune divergenze stilistiche rispetto alla Madonna della chiesa di San Torpè a Pisa, riconobbe alcuni motivi già espressi dal Maestro come l’ovale del volto della Vergine, il volto assorto del Bambino in uno schema quasi frontale, le affilate dita della Madre dall’indice allungato, le mani tozze e grassocce del Bambino e la similarità delle braccia di quest’ultimo nelle due tavole, nonostante la diversità degli atteggiamenti. L. Bertolini Campetti giudicò tipiche del Maestro le pennellate sommarie e sottili, rimanendo poi entusiasta dalla presenza di un elemento raro nelle sue opere, il velo bianco sotto ad un manto che ormai aveva perso la tradizione guidesca della piegatura poligonale del bordo. Invece, di tradizione duccesca, sarebbero state le figure degli angeli ritrovate nella abrasa parte superiore dell’opera. Da quest’ultime figure comincia la minuziosa descrizione della studiosa del sapiente gioco di colori realizzato dal Maestro: le tuniche degli angeli e le loro ali che si allungano nei pennacchi, sono specularmente invertiti nei toni del bleu e del rosa; il manto della Madonna vibra nel tipico color lapislazzulo, mentre il Bambino assume una vivacità coloristica grazie ai toni contrastanti del carminio e dell’arancione rispettivamente nel manto e nella tunica. Poi la studiosa riportò quanto descritto nella scheda del restauro dell’opera, eseguito nel 1970 dalla restauratrice Nicola Carusi1
: tagliata lateralmente, la tavola era stata allargata nei margini per cercare di creare una nuova proporzione; sul rovescio era stata applicata una tavola di gattice dallo spessore di 24 mm per renderla più solida; la tavola originale era stata costretta entro una cornice ricoperta di stucchi; il fondo era stato ripassato a porporina, il volto del Bambino era stato allargato ed i suoi capelli resi fantasiosamente con dei riccioli
confusi, mentre un’altra ridipintura ad olio aveva coperto il manto della Madonna con l’ulteriore aggiunta di un motivo decorativo a porporina lungo i bordi, che aveva finito con l’alterare anche lo scollo della tunica del Bambino. Durante il restauro Nicola Carusi aveva eliminato la tavola in gattice e aveva rimosso con solventi e bisturi gli olii e le vernici ossidate, asportando ben tre diverse stesure di colore. Dopo aver consolidato l’arco acuto, residuo della cornice, ed eliminato le ridipinture date sopra un alto strato di stucco, erano comparse le due figure di angeli e nella parte destra in basso i frammenti di capelli che, forse, avrebbero potuto appartenere alla figura di un donatore dipinto in un pannello laterale. Dell'originale perduto fondo oro era rimasta solo una minima parte sopra la testa della Madonna, la cui policromia originale era stata ritrovata ed esaltata dopo la pulitura della tavola.
Lo stesso anno, nel giudicare la Mostra del Restauro sopracitata, M. Ferretti valutò l’opera come eseguita circa negli anni dieci del Trecento poiché da lui ritenuta sufficientemente vicina alla Madonna di Colonia attribuita al Maestro di San Torpè da P. P. Donati nel 1968, anche se oggi quest’ultima tavola non risulta più inclusa tra le opere del Maestro.
Nel 1972, nella rivista “Pantheon”, anche H. Kiel recensì la mostra pisana. Essa riportò che questa tavola, delle tre opere del Maestro di San Torpè presenti alla Mostra del 1972, era la seconda in ordine di esecuzione (la prima era la Madonna della Badia di Morrona, mentre la terza era la Madonna di Campiglia Marittima). Sembra che la studiosa, per la datazione delle tavole, si sia basata completamente sulla cronologia proposta nel catalogo della Mostra, mentre M. Ferretti aveva ritenuto che questa tavola fosse la più antica delle tre. Inoltre la H. Kiel, scrisse che questa opera poteva considerarsi cronologicamente vicina alla Madonna della chiesa
di San Francesco attualmente esposta nel Museo di San Matteo a Pisa, ormai staccata dal repertorio delle opere del Maestro da G. Previtali sin dal 1962.
Nel commentare questa tavola dipinta del Maestro di San Torpè, E. Carli nel 1994 si dimostrò molto interessato al gesto del Bambino di stringere nella mano un cardellino o pettirosso, chiaro simbolo del sangue versato da Cristo per noi. Lo studioso ipotizzò che questo gesto, che ebbe un clamoroso successo nel Trecento, anche a Pisa, fosse con molta probabilità una nuova invenzione grafica del Maestro.
Nel 1996 la tavola fu citata da C. Martelli. Anche questa studiosa fece notare che l’opera era stata tagliata nei lati dati i visibili frammenti di pittura in alto ed in basso a destra, e che probabilmente doveva far parte di un insieme più ampio, forse un dossale. Nel frammento in basso a destra era riconoscibile la figura di una pelliccia per cui doveva esservi stato affiancato o un San Ranieri, simile a quello appartenente alla collezione Christian B. Peper nel Museo di St. Louis, o un San Giovanni Battista. La studiosa datò l’opera circa al 1320 per le snelle proporzioni della Vergine e per la terminazione ad arco cuspidato della parte superiore della cornice originale. Inoltre, si dichiarò certa che questa Madonna col Bambino fosse stilisticamente collegata con quella della chiesa di San Torpè di Pisa per la medesima soluzione iconografica proposta in entrambe le opere, per la strettissima somiglianza tipologica dei Bambini e per la stessa formula adoperata nel realizzare le mani di madre e figlio.
A. De Marchi nella sua scheda del 1998 sul Maestro di San Torpè, scrisse che questa Madonna col Bambino, come quella del Seminario Arcivescovile di Pisa, quella di Seattle e quella di Providence, era stata realizzata verso il 1310. Egli propose questa data per la presenza in queste opere dello stesso velo con bizantine pieghe a zig zag e morbide e rotondeggianti sopracciglia. Inoltre, egli ritenne con
certezza che i pannelli laterali destri di questa opera fossero i due santi della collezione Peper conservati nel Museo di Saint Louis e che il frammento di pelliccia visibile in basso a destra di questa tavola appartenesse al San Giovanni Battista. Sotto a questo polittico, A. De Marchi volle posizionare il decurtato pannello raffigurante San Giovanni Battista presenta Cristo al Popolo conservato nel Saint Louis Art Museum, quasi fosse stato una insolita predella, in questo caso molto alta.
Nella scheda scritta da S. Pasquinucci nel 2000, la studiosa affermò che non era stato trovato alcun documento che conducesse ai possibili committenti dell’opera. Sia il volto della Madonna che quello del Bambino, e la posa di quest’ultimo, ricordavano i prototipi senesi, ma non vi si trovava la tipica volumetria giottesca elaborata nel cantiere assisiate. Una maggiore sicurezza nell’impostazione delle figure rispetto, ad esempio, alla Madonna col Bambino di Latignano, trasferita nel Museo pisano di San Matteo, si sarebbe da li a poco rafforzata nella successiva Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè. Gli elementi considerati dalla studiosa più evoluti, cioè la resa di scorcio delle gambe e dei piedi del Bambino, furono da lei ritenuti senza alcun dubbio chiare derivazioni delle novità giottesche, mostrando come Pisa non fosse estranea alle novità create a Firenze e Siena. S. Pasquinucci scrisse una scheda anche sulla Madonna col Bambino del Santuario di Ripaia a Treggiaia, affermando che quest’ultima opera era stata realizzata dal Maestro di San Torpè nel primo decennio del Trecento, ossia prima di questa di Casciana Terme. Teorizzò inoltre, che l’originaria forma di quest’opera resecata fosse stata la medesima della tavola del Santuario di Ripaia. A stabilire che la Madonna di Casciana Terme era posteriore a quella di Ripaia, era stata la presenza nell’opera dell’arco a sesto acuto, chiaro espediente per dare un maggiore sviluppo in senso verticale.
Nel 2008 M. T. Lazzarini, confermando quanto ipotizzato da altri studiosi negli anni precedenti, ritenne che quest’opera, come la Madonna della chiesa di San Torpè e la Madonna proveniente dalla chiesa Parrocchiale di Latignano presso Cascina, fosse stata eseguita dal Maestro di San Torpè verso il 1320.
Chiesa di Santa Maria Assunta:
La chiesa di Santa Maria, dove è conservata l’opera del Maestro di San Torpè, era apparsa per la prima volta come ecclesia in una carta rogata a Pisa nell’anno 823, contitolata con San Giovanni Battista. Pare che verso la fine dell’XI secolo, i conti Cadolingi che esercitavano i propri diritti signorili su quelle zone, avessero avviato una serie di donazioni in favore dei monaci di Morrona che a loro volta esercitavano un forte dominio su queste terre. Queste località, all’inizio del XII secolo passarono sotto la Repubblica di Pisa, ma nel 1406 furono sottomesse alla Repubblica di Firenze. Una serie di lotte tra le due città, provocarono una assenza di notizie sulla chiesa per tutto il XV secolo. Fu nel 1553 che la Pieve dovette subire trasformazioni radicali, come ricordato da una lapide murata nella controfacciata. Invece, risulta che nel 1585 fu fondata una compagnia intitolata al Rosario, forse committente proprio della cosiddetta “pala del Rosario” che contorna l’opera del Maestro di San Torpè. Il Seicento ed il Settecento tornarono ad essere avari di notizie sulla chiesa e sulla compagnia, sino all’Ottocento quando avvennero nuovi cambiamenti. Le ultime trasformazioni riportate dal testo, risalgono agli anni sessanta del Novecento.
________________________ Bibliografia:
Per la Madonna col Bambino: Mariti 1799, p. 43; Mostra d’arte sacra 1969, p. XIX; Bertolini Campetti 1972, pp. 73-79; Ferretti 1972, p. 1055; Kiel 1972, p. 507; Carli 1994, p. 29; Martelli 1996, p. 30-31; De Marchi 1998, p. 33; Pasquinucci 2000, pp. 42 scheda 12, 130 scheda 51; Lazzarini 2008, p. 22.
1
Soprintendenza di Pisa (PSAE), Archivio Restauro, Pi-fascicolo n. 168: PI-Casciana Terme-Chiesa di Santa Maria Assunta-dipinto- tavola raffigurante “Madonna col Bambino”, restauro: Carusi Nicola, 1970.
Confrontata nel secondo capitolo con: il Trittico della Galleria Nazionale di Londra, la Madonna col Bambino della Galleria Nazionale dell’Umbria ed il polittico della Pinacoteca Nazionale di Siena raffigurante la Madonna col Bambino tra Sant’Agostino, San Paolo, San Pietro e San Domenico, realizzati da Duccio di Buoninsegna.
L’opera prima del restauro Gli angeli “ducceschi”riapparsi Frammento di pittura con capelli o pelliccia
4. Digione, Musée Magnin
Madonna col Bambino
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (scomparto centrale di polittico)
Dimensioni 70 x 40,5 cm
Questa tavola dipinta, chiaramente decurtata in alto come fece notare R. Longhi nel suo saggio del 1962, fu presentata dallo studioso come il centro di un polittico o di un trittico realizzato dal Maestro di San Torpè. La sua teoria che l’opera fosse lo scomparto centrale di una struttura a più elementi, si basava sul confronto della stessa con la Madonna in trono col Bambino e Angeli fra i Santi Nicola e Giovanni Evangelista esposta nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa: in entrambe le tavole i gesti e gli sguardi dei Bambini sembrano rivolgersi ad un ipotetico Santo o committente laterale. Longhi rimase estasiato da questa opera rappresentante la giovane cultura senese, soprattutto per la sua alta qualità, al punto che per lui nessuno dei giovani ducceschi, dal Maestro di Città di Castello a Segna di Bonaventura, sarebbe stato in grado di riproporla. Lo studioso si soffermò molto
anche sulla descrizione dei delicati particolari della Vergine, dal fermaglio sul petto ai dettagli del viso, affermando infine come questa figura gli ricordasse le opere della Grecia arcaica Il Bambino, invece, sia nel viso triste e severo che nei movimenti decisi del corpo al di sotto di una pesante veste, era nuovamente condotto agli stili giovanili di Duccio di Buoninsegna e Giotto. Sulla base di questi elementi, R. Longhi vagliò la difficile datazione di questa opera: egli ipotizzò che quando essa fu realizzata, la Maestà di Duccio di Buoninsegna (1308-1311) non avesse ancora fatto la sua comparsa sulla scena, oppure che il Maestro di San Torpè non si fosse disturbato di andare a vederla; inoltre si convinse che il modulo di questa Madonna fosse stato ripreso molto più tardi nella Madonna in trono col Bambino del Museo di San Matteo di Pisa e quest’ultima, seguendo le sue teorie sulla prematura scomparsa del Maestro, non poteva andate oltre il secondo decennio del Trecento.
S. Meloni Trkulja, indirettamente, concordò con la datazione proposta dal precedente studioso quando, nel catalogo della Mostra del Restauro che si svolse a Pisa nel 1972 nelle stanze del Museo di San Matteo, usò questa opera e questa cronologia per stabilire il periodo in cui il Maestro di San Torpè aveva realizzato la Madonna col Bambino e sei Angeli della Badia di Morrona, ossia entro il primo decennio del Trecento.
Al contrario, M. Ferretti nel 1972, nella sua recensione sulla Mostra pisana sopra accennata, si ritrovò in disaccordo con la datazione espressa dalla studiosa nel catalogo, dove questa opera e la Maestà pisana sono chiamate a riscontro per datare la contemporanea Madonna della Badia di Morrona. Le due tavole, indubbiamente, erano state realizzate nello stesso periodo, ma in questa Madonna del Museo Magnin, come nelle altre due, lo studioso vide alcuni riflessi del polittico di Santa Caterina
realizzato nel 1320 da Simone Martini a Pisa. Di conseguenza, tutte e tre le opere furono da lui ricondotte, almeno, al secondo decennio del Trecento.
Nel 1996, anche C. Martelli notò che gli ultimi lavori del Maestro avevano subito l’influenza delle novità esposte a Pisa da Simone Martini, Lippo Memmi e successivamente Francesco Traini. La Madonna di Digione, secondo la studiosa, rientrava proprio in questa categoria. Per lei la tavola era stata forse tagliata anche in entrambi i lati, oltre che nella sua parte superiore. Secondo la sua ricostruzione, la tavola sarebbe stata l’elemento centrale di un polittico gotico provvisto di un struttura verticale ed archiacuta, dove il Bambino avrebbe dovuto benedire una figura contigua. Inoltre, la tavola dipinta presentava un apparato decorativo più ricco rispetto alle altre opere dell’anonimo artista e le aureole, più elaborate, mostravano diversi segni eseguiti a punzone; gli stessi caratteri si ritrovavano nei bordi dorati delle vesti, non più eseguiti a mano. Ma l’elemento più di spicco in questa opera era il Bambino, dato che si presentava identico, sia nella posa che nel gesto, a quello presente nella pala marmorea coronante la Tomba-altare dedicata a San Ranieri, scolpita da Tino di Camaino per il Duomo di Pisa. Essa inoltre, ipotizzò che uno dei possibili laterali del polittico avente questa tavola come elemento centrale, potesse essere il San Lorenzo di ubicazione sconosciuta. Inoltre, la studiosa in una nota del suo articolo scrisse che nei vecchi cataloghi del Museo Magnin, l’opera era stata attribuita a Segna di Bonaventura.
Nella scheda sul Maestro di San Torpè realizzata da A. De Marchi, e che fu pubblicata nel catalogo del 1998 di una mostra parigina su alcuni artisti italiani dal XIII al XV secolo, questa opera fu comparata dallo studioso con la Madonna col Bambino fra due Angeli adoranti e i Santi Stefano, Giovanni Battista e Lorenzo di ubicazione ignota, poiché in entrambe il manto della Madonna bordato da un orlo
dorato, si chiudeva sul davanti con una spilla per poi riaprirsi. Come possibile laterale di quest’opera lo studioso propose il San Giovanni Evangelista proveniente dalla collezione di Locko Park e attualmente di ubicazione sconosciuta. Le due tavole furono da lui collocate dopo il terzo decennio del Trecento.
Nel 2009 P. Di Simone, in una scheda da lui redatta sul San Giovanni e sul San Paolo del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, nell’esaminare i due santi assieme al loro possibile elemento centrale, la Madonna col Bambino degli Uffizi, notò i chiari segni della nuova arte gotica che il Maestro di San Torpè, come altri artisti, poteva aver appreso nel cantiere della Basilica di San Francesco di Assisi. Lo studioso, inoltre, aggiunse che le medesime innovazioni si potevano osservare anche nelle Madonne di Morrona e Digione.
______________________ Bibliografia:
Longhi 1962, pp. 13-14; Mostra del restauro 1972, p. 67; Ferretti 1972, p. 1055; Martelli 1996, p. 36; De Marchi 1998, pp. 31, 33; Di Simone 2009, p. 203 scheda 46.
Confrontata nel secondo capitolo con: il polittico della Pinacoteca Nazionale di Siena con Madonna col Bambino tra Sant’Agostino, San Paolo, San Pietro e San Domenico nella Pinacoteca Nazionale di Siena, realizzato da Duccio di Buoninsegna; la spilla veneziana del Museo Civico di Castelvecchio a Verona; il ciborio in San Paolo fuori le mura a Roma realizzato da Arnolfo di Cambio.
5. Firenze, Galleria degli Uffizi
Madonna col Bambino
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (scomparto centrale di polittico)
Dimensioni 60 x 38,3 cm
Provenienza Firenze, Palazzo Vecchio
Provenienza Volterra, Conservatorio di San Pietro
Questa tavola dipinta fu attribuita al Maestro di San Torpè da R. Longhi nel suo saggio del 1962 inerente questo artista. L’opera, secondo quanto lo studioso riportò, giunse a Palazzo Vecchio di Firenze dopo essere stata “recuperata” da Rodolfo Siviero. Lo studioso riconobbe in questa tavola tutte le caratteristiche presenti nel Maestro di San Torpè: “…codesti caratteri, sempre nobili e di sentimento assorto, ma lievemente industrializzati.”. R. Longhi ritrovò un rimando al tracciato dugentesco nel lungo nastro decorativo che orla il manto della Vergine, ma l’opera era stata anche attualizzata dal bianco velo introdotto da Duccio di Buoninsegna nelle sue opere e prima non usato dal Maestro, salvo che nell’affresco della Madonna del Duomo pisano. Il ritmo del manto del Bambino, fu invece da lui
definito “..lineare..” come nelle opere di Ugolino di Nerio. Inoltre, R. Longhi la certificò come certamente pisana da una scritta sul tergo che ne indicava la provenienza. Come ulteriore prova che questa opera arrivasse da Pisa, egli teorizzò che il San Paolo col profeta Isaia nella cuspide ed il San Giovanni Evangelista con Mosè nella cuspide esposti nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, proposti nel 1937 da E. Sandberg Vavalà come tavole laterali della Madonna col Bambino della chiesa pisana di San Torpè, fossero in realtà i laterali dell’opera in questione; lo studioso basò questa sua convinzione sulla misura e sui particolari ornativi dei nimbi, nonché sulla forte somiglianza dei tratti somatici tra questa Madonna ed il San Giovanni di Pisa, ottenuta con una pennellata da egli definita “…raffittita e a fibrille modulanti…”. Per R. Longhi questa tavola, dato che come tutte le altre opere del Maestro non mostrava alcuna traccia dell’arte di Simone Martini o di Pietro Lorenzetti, doveva essere stata eseguita entro il 1320.
P. P. Donati riguardo a questa tavola dipinta, stabilì in un suo articolo del 1968, che molto probabilmente era stata eseguita tra il 1315 ed il 1320
Nel 1972, M. Ferretti notò un medesimo stile calligrafico attribuibile al Maestro di San Torpè sia in questa tavola che nella Madonna col Bambino e Angeli ritrovata nella Pieve di Latignano e poi esposta nel Museo pisano di San Matteo. Lo studioso citò queste due opere nel corso di una sua recensione della Mostra del Restauro svoltasi lo stesso anno nelle sale del Museo pisano, dove la tavola di Latignano era stata usata per dimostrare la cronologia della Madonna della Badia di Morrona.
E. Carli nel 1974, indirettamente, attraverso la sua ricostruzione storica delle vicende critiche del San Paolo e del San Giovanni Evangelista che si trovano esposti nel Museo di San Matteo di Pisa, riferì che quest’opera fu recuperata dall’Ufficio
Restituzioni Opere d’Arte e depositata in Palazzo Vecchio a Firenze. Riportò anche quanto già detto sopra, ossia che R. Longhi nel 1962, attraverso una scritta sul tergo, la aveva certificata come sicuramente pisana.
Nel 1981, sempre E. Carli, individuò un preciso riscontro tra le la mano di questa Madonna e la mano sinistra di una Madonna col Bambino di una collezione privata caratterizzata da dita che definì piuttosto “..steccolite e piegate ad angolo…”. Lo studioso cercò di attribuire al Maestro di San Torpè questa Madonna privata, argomento principale del suo articolo, senza però ottenere alcun riscontro da parte di altri studiosi. Nel suo testo critico, mentre la nuova opera fu da lui collocata nel secondo decennio del Trecento, questa fiorentina fu invece fissata al decennio precedente.
L’iscrizione a cui R. Longhi si riferiva, fu riportata nel 1984 nella scheda del catalogo della Mostra che si svolse nel terzo piano di Palazzo Vecchio a Firenze, dedicata alle opere trafugate dai nazisti e per la maggior parte recuperate da Rodolfo Siviero, al quale era stata omaggiata la mostra stessa. La scritta, secondo quanto riportato nella scheda, era stata realizzata a penna in una incerta calligrafia ottocentesca: “Giudicato / di / Andrea Tafi / fior. / Il 26 maggio 1843 / fu benedetta q.ta immagine / con facoltà attestata da Monsig.re Vicario / Bitossi per esporla alla pubblica Venerazio / ne. / Per gli Esercizi / dall’Ascensione / a / Pentecoste / stette nella Cap / pella di S. Andrea / del Conservatorio di S. Pietro / n. 48.”. Nella scheda, oltre l’iscrizione, furono inserite anche queste informazioni: “La documentazione in merito alle date e alle circostanze dell’alienazione non è nota. Recuperato in Germania il 16 dicembre 1953 (accordo di Bonn).”. Per M. Bietti, autrice della scheda, fu ben chiaro che le notizie stilistiche e storiche appuntate dall’amanuense sul retro e riferite a luoghi e persone a lui sicuramente ben noti, erano per lei o per
altri studiosi del suo tempo divenute di difficile individuazione perché perse negli anni. Nel testo da lei steso, si poteva comunque leggere: “Crediamo tuttavia di poter individuare il conservatorio di San Pietro in quello nuovamente edificato a Volterra nel 1710 accanto alla chiesa di San Pietro in Selci…e il monsignor Bitossi nell’arcidiacono Giovanni Battista che si distinse qualche anno prima in città per opere caritatevoli…Il Bitossi fu vicario generale di Monsignor Incontri, Vescovo di Volterra (1806-48) e morì il 23 marzo 1847…”. Anche se con qualche dubbio, sulla base di queste informazioni, la studiosa scrisse che l’opera poteva, quasi certamente trovarsi a Volterra nel 1843, data stabilita dalla iscrizione nel retro. Ovviamente non poté certificare se l’opera si trovasse a Volterra sin dall’inizio o se vi fosse giunta in un secondo momento, ad esempio come patrimonio personale di qualche signorina destinata al Conservatorio. E qui, dato che Volterra fa parte della provincia di Pisa, sarebbe necessario ricollegarsi alla affermazione di Longhi, sopra esposta, che dichiarò l’opera come certamente pisana in quanto possibile elemento centrale dei due santi pisani. Tornando alle conclusioni della studiosa, anche a causa delle soppressioni degli ordini religiosi (che colpirono tutta Europa dalla metà del XVIII secolo) non le fu possibile stabilire se l’opera, prima di giungere in Germania, fosse stata spostata in altre città o luoghi. Confermò che la recente critica aveva accettato quanto R. Longhi aveva espresso nel 1962, ossia che la tavola fosse stata realizzata dal Maestro di San Torpè entro il 1320. Più incerta rimase invece la teoria di quest’ultimo, ossia che la tavola facesse parte di uno polittico a cinque elementi assieme al San Paolo e al San Giovanni Evangelista prima citati. Nella scheda fu, invece, ipotizzato che la tavoletta, sia per forma che dimensione, potesse essere in realtà un altarolo privato provvisto di due ante per chiudere l’immagine. Purtroppo, poiché il legno era stato manomesso ai bordi e diminuito di spessore nel suo verso,
non fu possibile compiere alcuna verifica su questa teoria. Infine, fu riportato che nel 1982, l’opera aveva recuperato tutti i suoi valori cromatici grazie ad un restauro.
Nel 1996 C. Martelli, in merito all’ipotesi espressa nel 1962 da R. Longhi per cui questa Madonna sarebbe stata il pannello centrale del polittico contenente anche il San Paolo ed il San Giovanni Evangelista conservati al San Matteo di Pisa, scrisse in una nota del suo testo critico: “Questo avvicinamento si spiega a guardare la strettissima vicinanza somatica fra le figure del San Giovanni e della Vergine, oltre che la corrispondenza dei particolari ornativi dei loro nimbi. La tavola degli Uffizi…è stata manomessa nella sua parte superiore e ridotta lateralmente; ridotto ne è stato anche lo spessore (ora di circa solo 2 cm)…”.
Nel 1998 A. De Marchi, nella scheda che realizzò per un catalogo su una mostra parigina incentrata su trentatré “Primitivi italiani”, confrontò quest’opera con la Madonna col Bambino fra due Angeli adoranti e i Santi Stefano, Giovanni Battista e Lorenzo, la cui ubicazione è sconosciuta, per la somiglianza in entrambe della figura del Bambino e della posa della mano sinistra della Madonna. Giudicò, poi, la Madonna fiorentina realizzata tra gli anni 1315-1320, in base ad alcune caratteristiche come ad esempio le vesti che disegnavano una linea gotica più fluida e gli occhi melanconici, esattamente come nei tre santi sovrastati da profeti del Museo di San Matteo, che lo studioso propose come pannelli laterali di questa Madonna forse un tempo pisana.
Nel 2009 P. Di Simone commentò. in una sua breve scheda sul San Paolo e sul San Giovanni del San Matteo, che diversi saggi inerenti il Maestro di San Torpè proponevano che l’artista anonimo avesse lavorato nel cantiere di Assisi assieme ai Maestri oltremontani. Accettata la proposta di C. Martelli (sviluppata su una teoria di Longhi nel 1962) che questa tavola formasse un polittico con i due santi pisani,
scrisse anche che delle tre opere questa era quella che più di tutte rispecchiava le maggiori innovazioni del nuovo stile gotico, specialmente il Bambino la cui torsione innaturale mostrava completamente la pianta del piede e gli occhi arcuati della Madonna dal lungo collo.
L. Pisani nel suo articolo del 2010 riprese la iniziale proposta di R. Longhi del 1962 per cui la tavola era l’elemento centrale del San Paolo e del San Giovanni Battista esposti nel Museo di San Matteo a Pisa. Inoltre, sulla base di una serie di testimonianze scritte (non completamente affidabili a suo giudizio) che andavano da Vasari al frate cappuccino Zaccaria Boverio, la studiosa ipotizzò, tramite la presenza dello stemma di famiglia dei pisani Cinquini nelle tavole coi due santi, che lo smembrato polittico potesse originariamente trovarsi in una delle cappelle, dedicata in principio agli apostoli, situate nella chiesa di San Francesco di Pisa, anche in base ad un suggerimento datole dal ricercatore D. Cooper, come scrisse in una nota del suo saggio. Se le teorie da lei espresse risultassero esatte, nel testo del frate cappuccino Zaccaria Boverio si avrebbe una indicazione scritta per una più precisa datazione della tavola, che cadrebbe nel 1320 o nel il 1324.
________________________ Bibliografia:
Longhi 1962, pp. 14-15; Ferretti 1972, p. 1055; Carli 1974, p. 47 scheda 39; Carli 1981, pp. 5-6; Bietti 1984, pp. 75-76; Martelli 1996, p. 43 nota 36; De Marchi 1998, pp. 31, 33; Di Simone 2009, pp. 202-203 scheda 46; Pisani, 2010, pp. 90-91, 95 nota 44.
6. Livorno, Museo di Santa Giulia dell’Arciconfraternita del
Santissimo Sacramento e di Santa Giulia
Santa Giulia, due Angeli e le scene della sua vita
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (tavola da altare con storie)
Dimensioni 165 x 105 cm
Provenienza Livorno, Chiesa di Santa Giulia
Nel 1949, E. B. Garrison, classificò questa tavola come probabile lavoro di un pisano influenzato da Cimabue, forse realizzata tra il 1295 e il 1305. Stando a quanto lo studioso riportò nella scheda che realizzò su quest’opera, la tavola era stata completamente ridipinta, ma tra il 1945 ed il 1946 era stata anche sottoposta ad una operazione di restauro, che aveva finito col rilevare i diversi danni che si erano formati nel corso del tempo.
Pochi anni dopo, nel 1952, la tavola fu analizzata da G. Kaftal nel primo volume della sua grande opera sull’iconografia dei santi nella pittura italiana: egli nella sua scheda, rispetto a quella di E. B. Garrison, non accennò ad interventi di restauro compiuti sulla tavola, ma riportò la storia della santa, quando questa si
svolse, e descrisse, brevemente, uno ad uno gli episodi delle scene laterali dell’opera. Alla fine della sua analisi, non sapendo chi proporre come autore di questa tavola, semplicemente la catalogò come un esempio di scuola fiorentina degli inizi del Trecento.
Nel 1972 M. Ferretti, dopo aver avvicinato questa tavola alla Madonna di Campiglia Marittima, scrisse che l’opera era stata “…aggregata al catalogo del ‘Maestro di San Torpè’ da Mario Bucci – in una comunicazione all’istituto germanico di Firenze di cui ha in corso la pubblicazione. Per questa tavola…l’indicazione fiorentina dell’Ofner ha valore di cronologia relativamente precoce e conferma la variata propensione stilistica del pittore pisano.”
Nel 1974, anche L. Bellosi riportò la notizia dell’attribuzione orale di M. Bucci. Inoltre, scrisse che l’opera mostrava, come la Madonna della chiesa di San Torpè, un impianto fermo e monumentale, al punto da fargli teorizzare che il Maestro avesse avuto dei contatti con l’arte fiorentina, oltre a costituire un precedente dell’arte dello stesso Francesco Traini.
Nel 1996 C. Martelli si oppose all’idea di E. B. Garrison che l’opera appartenesse agli ultimi anni del Duecento. Per la studiosa la tavola era più tarda, nonostante riproponesse una tipologia di stampo più arcaico e tipicamente dugentesco. In questa Santa Giulia si ritrovano, in particolare, alcune caratteristiche presenti in altre tavole del Maestro di San Torpè, ad esempio una figura alta, snella, con mani sottile e delicate. Il volto della santa venne confrontato con quello della Madonna di Casciana Terme, mentre la veste fu paragonata a quella del Bambino della stessa tavola. Nelle scene laterali trovò, piuttosto, che il disegno fosse stato realizzato in maniera frettolosa ed elementare, senza volumetria, per cui, seppur
confrontabile con i tabelloni laterali del Crocifisso del Belvedere di Crespina, li ritenne eseguiti da un collaboratore.
Nel 1998 A. De Marchi notò come in questa opera matura del Maestro la veste della santa mostrasse una delle sottostanti gambe leggermente flessa, esattamente come nei protagonisti secondari della Madonna col Bambino fra due Angeli adoranti e i Santi Stefano, Giovanni Battista e Lorenzo dall’attuale ubicazione sconosciuta. Inoltre, la piramidale silhouette dei tre santi, come quella di questa santa, suggerì allo studioso che il Maestro avesse avuto dei contatti con la scuola fiorentina. Per A. De Marchi l’opera, al di là della sua monumentalità, mostrava anche alcune caratteristiche attribuibili allo stile di Simone Martini, senza il quale sarebbero state inspiegabili.
Tra il 1999 ed il 2000 la tavola fu restaurata dal laboratorio di Conservazione e Restauro delle Opere d’Arte “Lo Studiolo” S.N.C. Di Colombini e Cardini1
.
Nel 2003 fu pubblicato da F. Terreni un libro che riassumeva la nascita del culto di Santa Giulia, la storia dell’Arciconfraternita di Livorno, delle loro sedi, e di come in esso si insediò la devozione verso la martire. Secondo la documentazione ritrovata dallo studioso, la trecentesca tavola raffigurante Santa Giulia era stata sicuramente posta sull’altare della Pieve di Santa Maria (una delle varie sedi della compagnia) detta de’ Cantelmi dal cognome di una famiglia importante del gruppo religioso. Nel 1603 l’opera venne portata in processione in occasione di uno dei diversi trasferimenti di sede della comunità religiosa.
Dell’analisi iconografica dell’opera si occupò, nel 2003, F. Corsi Masi. Innanzitutto, la studiosa notò che la tavola era stata decurtata in alto ed in basso (dove secondo lei, forse, fuoriuscivano i piedi della santa) oltre che nelle estremità laterali, forse per un adattamento di “gusto” durante uno dei trasferimenti di sede
della congregazione. Una nota della studiosa, ricordava che la proposta di attribuzione da parte di M. Bucci era avvenuta negli anni sessanta del Novecento, durante una conferenza sulla Pittura pisana del Duecento tenutasi all’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze. La tavola, per F. Corsi Masi, mostrava una plasticità addolcita da tenui passaggi chiaroscurali che la avvicinavano alla Madonna di Casciana Terme. Inoltre, a differenza di quanto affermato da C. Martelli nel 1996, ritenne che gli episodi laterali non fossero stati realizzati da collaboratori, ma dal Maestro stesso, proprio perché confrontabili col tabellone “superstite” del Crocifisso del Belvedere esposto nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. Infine, riassunta la vicenda storica di Santa Giulia, F. Corsi Masi esaminò una ad una le rappresentazioni nelle storie laterali della tavola: nella prima erano raffigurati la santa, divenuta schiava dopo la presa di Cartagine, ed il suo padrone Eusebio su una nave in procinto di partire per la Gallia; nella seconda scena, ambientata sempre sulla nave, la studiosa notò un uomo dalla berretta rossa di difficile identificazione e la strana presenza di un monaco dalle mani legate (per lei forse indizio del forte desiderio dei monaci della Gorgona di comparire sin dall’inizio come testimoni della vicenda, ma impotenti nel cambiare i fatti, e segno inequivocabile di committenza ); la terza scena rappresenta la sosta in Corsica, dove oltre ad Eusebio è raffigurato anche Felix Saxo, l’esecutore del martirio di Santa Giulia. A questo punto le scene dipinte omettono il passo in cui Felice, fatta rapire Giulia che era rimasta sola sulla nave, la vuole obbligare a compiere sacrifici verso gli Dei pagani. La quarta scena infatti, rappresenta già una Giulia con le mani legate, posta davanti ad una costruzione simile ad un tempietto, ed attorno a lei tre aguzzini, di cui uno raffigurato nell’atto di percuoterla; nella quinta scena, Felice seduto su un trono di fronte ad un edificio che era stato molto “reintegrato”, ordina che le siano strappati i capelli; nella sesta scena
la drammatica crocifissione, con ai lati cinque figure virili, alcune delle quali si rivolgono a lei, mentre una coppia di angeli fuoriesce dalle nubi per accogliere il suo spirito sotto forma di colomba bianca; nella settima scena i monaci della Isola di Gorgona sono raffigurati in procinto di partire dopo aver avvistato gli angeli, sotto la guida di un monaco (forse una figura importante del cenobio a cui spettavano le decisioni) che indica la strada; nell’ottava scena i monaci, tornati alla loro isola seppelliscono la santa martire all’interno di un sarcofago.
Nel 2010 L. Pisani scrisse che reputava questa opera eseguita dal Maestro di San Torpè verso il 1330, in base ad un maggiore goticismo e ad una costruzione più salda, oltre che ad un aggiornamento sullo stile di Simone Martini e Giotto. Consultati i testi di F. Terreni e F. Corsi Masi, ritenne che questa tavola dipinta potesse essere stata realizzata proprio per l’Arciconfraternita livornese dedicata alla santa, per cui, rispetto alla teoria di F. Corsi Masi che voleva come committenti i monaci benedettini dell’abbazia di San Gorgonio dell’Isola di Gorgona, ritenne che la tavola potesse aver sì previsto un omaggio ai benedettini dell’Isola, ma senza che essa fosse stata realizzata proprio per loro.
Chiesa di Santa Giulia:
La Passio di Santa Giulia probabilmente nacque da un racconto di Teodoreto di Ciro, non prima del VII secolo. F. Terreni scrisse che le spoglie della santa martire erano, probabilmente, giunte nel porto di Pisa insediandovi il culto. Poi il porto fu reso inaccessibile dalle scorrerie di Carlo d’Angiò del 1268 e nel 1410-11, circa, il culto passò alla chiesa di Santa Maria di Livorno e alla sua Arciconfraternita che per quella occasione assunse anche il titolo di Santa Giulia. Lo studioso riportò anche altre versioni dell’assunzione del nome della santa da parte della chiesa e
dell’Arciconfraternita. Nel 1525, per una serie di trasformazioni e lavori nei pressi della Fortezza Vecchia di Livorno, la chiesa di Santa Maria e Giulia fu demolita e la compagnia si dovette trasferire in altre sedi temporanee fino a quando nel 1602 avvenne la benedizione della prima pieta della attuale chiesa di Santa Giulia.
________________________ Bibliografia:
Per la tavola dipinta: Garrison 1949, p. 155; Kaftal 1952, pp. 588-589; Ferretti 1972, p. 1055; Bellosi 1974, p. 92; Martelli 1996, pp. 33-34; De Marchi 1998, pp. 31, 33; Terreni 2003, p. 49, 82; Corsi Masi 2003, p. 36-41, 43 nota 11; Pisani 2010, pp. 85-86.
Per la chiesa di Santa Giulia e l’Arciconfraternita: Terreni 2003, pp. 7, 19, 23, 26, 31, 33, 49, 63, 80
1
Soprintendenza di Pisa (PSAE), Archivio Restauro, Li-fascicolo n. 0059: Livorno-Chiesa di Santa
Giulia-dipinto su tavola raffigurante “Santa Giulia”, restauro: Lo Studiolo 1999-2000.
Confronti dal secondo capitolo: due virtù nel pulpito del Duomo di Pisa di Giovanni Pisano.
7. Londra, Courtauld Institute of Art
San Giuliano
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (scomparto laterale di polittico)
Dimensioni 56 x 32 cm
P. P. Donati nel suo saggio del 1968 tentò di inserire nel catalogo del Maestro di San Torpè delle nuove opere, tra le quali figurava anche questa tavola dipinta. Egli scrisse che gli bastò osservare la Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè di Pisa per stabilire che anche quest’opera fosse stata realizzata dall’anonimo Maestro, contemporaneamente a quella pisana: secondo lo studioso, le due tavole erano talmente prossime da teorizzare che, con molta probabilità, in origine entrambe facessero parte di uno stesso complesso.
Nel 1970 G. Previtali si trovò concorde con questa attribuzione, attraverso una nota del suo testo critico che giudicava la mostra Arte in Valdichiana dal XIII al XVIII secolo, che si era svolta in quell’anno a Cortona.
Nel 1996 anche C. Martelli ipotizzò che questa tavola potesse essere uno dei laterali perduti della Madonna col Bambino di San Torpè, data la corrispondenza tra le misure delle due tavole (ovviamente la studiosa parlava delle misure originali dato che, in una nota, sottolineò che entrambe le tavole erano state ridotte) e la ulteriore somiglianza tra la tipologia delle aureole e le fisionomie delle figure. La studiosa suggerì di confrontare le forme allungate, il taglio raffinato sia nei volti che nelle mani dalle longilinee dita, la ricerca di ritmi fluenti e complicati nelle vesti. Trovò anche una specifica corrispondenza iconografica e decorativa tra il motivo della spilla quadrilobata del Bambino pisano e il motivo decorativo dell’impugnatura della spada del santo. Tuttavia non riuscì, purtroppo, a scoprire da dove provenisse il polittico e quando esso fosse stato smembrato. Ma pare che la collocazione originaria dell’opera non fosse la chiesa di San Torpè, dal momento che la più antica guida pisana che la cita all’interno della chiesa stessa, risale al 1913.
Anche A. De Marchi ritenne che questa tavola fosse uno dei laterali del polittico avente come scomparto centrale la Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè. Per lui queste due tavole dipinte, assieme ad altre opere del Maestro, caratterizzate da vestiti con una più fluida linea gotica e da palpebre disegnate con una linea più scura ma elegante, dovevano essere state realizzate negli anni tra il 1315 ed il 1320.
________________________ Bibliografia:
Bellini Pietri 1913, pp. 85-86; Donati 1968, p. 252; Previtali 1970, p. 106; Martelli 1996, pp. 31-32, 44 nota 51, nota 52; De Marchi 1998, p. 33.
Confrontato nel secondo capitolo con: la spilla veneziana del Museo Civico di Castelvecchio a Verona; l’aquila “imperiale” nei velari della parete dell’abside maggiore del Duomo di Pisa; gli smalti con rapaci nel Pastorale (conosciuto come “Baluco di Benedetto XIII”) del Museo Arqueológico Nacional di Madrid; gli smalti champlevè nell’Ostensorio in argento dorato del Tesoro della Co-Cattedrale di San Giovanni a Valletta di Malta; le placchette quadrilobate del riccio nel Pastorale dall’Abbazia di San Galgano; il medaglione quadrilobo
raffigurante l’Angelo simbolo di San Matteo posto nel verso della scomparsa Croce da altare dalla Cattedrale di Tortosa (detta Croce “dels Ileonets”), realizzata forse da Duccio di Donato; la Croce decorata nel Museo Nazionale del Bargello di Firenze, forse di Guccio di Mannaia; la Croce-reliquario della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Sarzana; la Croce ornata del Victoria and Albert Museum di Londra; il modello tessile N. 229 e N. 230.
8. Morrona (PI), Badia
Madonna col Bambino e sei Angeli
Tipologia dell’opera Dipinto su tavola (scomparto centrale di Polittico)
Dimensioni 125 x 54,5 cm
La tavola dipinta fa parte della collezione Gaslini Alberti che si trova nella Badia di Morrona (un antico monastero oggi divenuto una tenuta agrituristica). All’interno della chiesa, adiacente alla Badia stessa, è collocata una riproduzione fotografica a dimensioni reali.
L’opera fu esposta alla Mostra del Restauro che si svolse nel Museo Nazionale di San Matteo nel 1972. Il restauro della tavola, stando a quanto riportato nella scheda n. 9 del catalogo scritta da S. Meloni Trkulja, fu voluto dal suo proprietario. La tavola dipinta, rispetto alle altre due opere presentate alla mostra (la Madonna col Bambino e Angeli della chiesa di Casciana Terme e la Madonna col Bambino della chiesa di Campiglia Marittima), fu definita più antica in base ad un suo confronto con la Madonna in trono col Bambino del Museo di San Matteo e la Madonna col