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LE PATOLOGIE DEGLI A.R.D. Un elemento molto importante è quello della informazione dei creditori e la sua correttezza. Una informazione adeguata è condizione per il valido esercizio dell’autonomia privata.

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LE PATOLOGIE DEGLI A.R.D.

Un elemento molto importante è quello della informazione dei creditori e la sua correttezza. Una informazione adeguata è condizione per il valido esercizio dell’autonomia privata.

Non si può quindi escludere che una informazione scorretta possa essere determinante, sulla

formazione della volontà del creditore, quando abbia ingenerato in lui una rappresentazione alterata della realtà, che abbia prodotto un errore da considerarsi essenziale, ex art 1429 cc.

Lo stesso è da dirsi quando l’errore sia determinato da artifici o raggiri o anche da semplici menzogne, configurandosi, in tal caso, la fattispecie del dolo, ai sensi dell’art 1439 cc, quando i raggiri siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il consenso per la conclusione dell’accordo.

In linea di principio, non si potrà escludere neppure l’applicazione della normativa in materia di violenza, quale causa di annullamento dell’accordo: potrebbe essere plausibile l’ipotesi della minaccia di presentare istanza di fallimento.

Quando si parla di annullamento, nell’ambito di un discorso che riguarda la crisi dell’impresa, si vanno a ricercare i referenti normativi della patologia. Ci si riferisce all’applicazione, agli a.r.d., delle disposizioni in materia di annullamento, ma anche di risoluzione del conc. prev., cioè l’art 186 lf e gli artt 137-138 in materia di conc. fallimentare. Tuttavia, la mancata possibilità di ascrivere gli a.r.d. tra le procedure concorsuali, induce a ritenere preferibile l’opinione che ritiene applicabili i rimedi di diritto comune. Si ritiene che vada in questa direzione anche la circostanza che il legislatore non sia intervenuto con una specifica previsione, al contrario di quanto ha fatto per gli a.r.d. nella composizione delle crisi da sovraindebitamento (l 27/01/12 n° 3).

In dottrina si è posto il problema se, tra i rimedi a tutela della corretta formazione del consenso, ci sia anche la rescissione, almeno nella sua variante della rescissione ultra dimidium, di cui all’art 1448 cc. Il presupposto dello stato di bisogno, inteso come mancanza di liquidità, è astrattamente

prospettabile sia per l’imprenditore che per eventuali creditori. Così l’approfittamento. Superabile sarebbe pure l’idea che debba ricorrere la necessaria strutturazione bilaterale del rapporto, poiché la dottrina non esclude che il rimedio possa applicarsi addirittura nella fattispecie dei contratti plurilaterali, oppure anche in fattispecie negoziali autonome, tra le quali ricorra però un collegamento bilaterale.

Salva la necessità di valutare volta per volta, si ritiene di negarne l’applicazione, ai sensi dell’art 1970 cc, ch esclude l’applicazione della rescissione per lesione alla transazione. L’eventuale sproporzione è, infatti, negli accordi come nella transazione, riconducibile al rischio normalmente connesso ad un accordo compositivo e alla impossibilità di stabilire esattamente l’entità delle attribuzioni , data l’incertezza che caratterizza le richieste delle parti.

Vediamo le possibili questioni concernenti la validità dell’accordo.

Guardando a quelli che sono considerati elementi essenziali del contratto, quanto alla causa, non c’e’ la necessità di una esplicita enunciazione della causa di ristrutturazione che, se presente, può conferire una particolare funzione al contratto ed anche incidere sulla interpretazione. Non si ritiene che la pretesa causa di ristrutturazione possa ricondursi a quella di rimuovere lo stato di crisi e di evitare il fallimento, che appare più un semplice motivo dell’accordo, poiché, se così fosse, dovrebbe configurarsi una nullità

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dell’accordo, per mancanza sopravvenuta della causa, qualora sopraggiungesse il fallimento; conclusione inaccettabile, se si pensa che taluni effetti dell’accordo, come l’esenzione da revocatoria e la

prededucibilità dei crediti, sono stati previsti proprio in vista dell’eventualità di un fallimento. Né la tipicità, né la particolare procedura di controllo della legalità dell’operazione in sede di

omologazione, mettono al riparo l’accordo dalla nullità per illiceità della causa, illiceità del motivo comune, frode alla legge. Significative potrebbero essere le ipotesi in cui l’accordo venga stipulato al solo scopo di consolidare, col tempo, una garanzia altrimenti revocabile in un fallimento che già risulti inevitabile, quando l’accordo sia stato stipulato per mere finalità di trattamento preferenziale, con la consapevolezza della sua insufficienza al pagamento di creditori estranei, o ancora, per approfittare dei benefici di un naturale accordo, in assenza di una vera e propria situazione di crisi.

Più in generale, c’e’ la necessità di evitare che l’esaltazione delle potenzialità dell’autonomia privata possa divenire lo schermo per nascondere operazioni illecite o fraudolente.

Quanto all’oggetto dell’accordo, ci si potrebbe chiedere se esso implichi necessariamente la presenza di un piano che funga da termine di riferimento oggettivo dell’accordo. L’art 182 bis, che richiede la predisposizione di un piano, potrebbe indure a scegliere la tesi più rigorosa.

Si ritiene che debbano distinguersi i requisiti dell’accordo dai requisiti per l’omologazione dell’accordo.

Il piano è chiaramente configurato dalla legge come documento a corredo della domanda di

omologazione e non come oggetto dell’accordo. Nella semplice ipotesi in cui l’imprenditore negozi, con uno o più creditori, una remissione parziale del debito che assicuri il pagamento dei creditori estranei, nessun piano va sottoposto ai creditori e alla loro adesione, potendo esso essere un atto esclusivamente

unilaterale. E’ ovvio che ci può essere una convergenza dei consensi dei creditori sul piano, ma si esclude che la mancanza di un piano possa determinare una qualche patologia dell’accordo.

Non sembra si possa neanche sostenere che l’integrale pagamento dei creditori estranei possa essere una condizione di validità dell’accordo.

Sicché, un accordo che non preveda espressamente l’integrale pagamento dei creditori estranei, ma di fatto lo favorisca o lo consenta, non si ritiene possa dirsi affetto da alcuna patologia.

In ordine sempre all’oggetto, ma riguardo alla sua possibilità (art 1346 cc), occorre una considerazione particolare. Ciò che potrebbe essere giuridicamente possibile nella singola pattuizione, non è detto che lo sia nel contesto dell’accordo nella sua globalità.

Si faccia l’esempio di una previsione di cessione di beni di proprietà altrui, pattuizione che non è di per sé illecita, ma che, calata nell’ambito di un a.r.d., ne denota la impossibilità dell’oggetto, in quanto non in grado di garantire, proprio per la sua incertezza, la fattibilità giuridica1.

Quanto alla forma, qui non può trovar applicazione il principio della libertà di forma. Una concezione funzionale della forma impone di individuare come necessaria la forma più adeguata alla realizzazione dell’atto. Di conseguenza, questi accordi devono essere redatti per iscritto, essendo qui la forma funzionale al deposito per l’omologazione e alla pubblicazione nel registro delle imprese.

E’ probabile che possa verificarsi l’ipotesi della mancata produzione dell’accordo con sottoscrizione autenticata, che, tuttavia, non determina problemi di validità, quanto semmai in ordine alle esigenze

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formali relative alla pubblicazione nel registro delle imprese e dell’ammissibilità dell’omologazione. Ma si tratta di irregolarità sanabili.

Andrà rispettata la forma specificamente richiesta per ogni effetto negoziale prodottosi nell’ambito del più complessivo accordo.

Si pensi al conferimento di un bene per spirito di liberalità da parte di un terzo: qui occorrerà la forma richiesta per le donazioni. Si esclude, per la validità dell’accordo, che esso debba necessariamente essere contenuto in un unico documento.

La possibile separatezza delle negoziazioni non si ritiene sia un ostacolo all’omologazione. Sebbene nella pratica ci sia la tendenza a presentare gli accordi in modo unitario, nulla esclude che questi si possano concretizzare in impegni separati.

L’art 182 bis, nello stabilire che oggetto del deposito sia l’accordo e non la proposta di accordo, presuppone che l’accordo sia già perfezionato. Il rinvio della sua efficacia al momento del deposito vuole significare, non tanto che il deposito rappresenti un elemento formativo dell’atto, quanto, piuttosto, un adempimento necessario per ottenere che esso produca tutti gli effetti previsti dalla legge. In questo senso si ritiene che l’accordo è idoneo, già di per sé, a produrre effetti, sin dalla sua stipulazione, mentre sono gli efetti ricollegati alla omologazione che si produrranno dalla pubblicazione nel registro delle imprese. Dobbiamo distinguere.

Da un lato potrebbe trattarsi di accordi non espressamente votati a realizzare gli effetti di cui all’art 182 bis; in tal caso è indubbio che gli effetti normalmente ricollegabili all’accordo, saranno quelli

ricollegabili allo specifico rapporto contrattuale intercorso tra le parti. All’estremo opposto si potrebbero collocare quegli accordi in cui le parti subordinano l’efficacia dell’accordo alla sua omologazione. In una zona intermedia potrebbero collocarsi quegli accordi che indicano genericamente la finalità di rimuovere lo stato di crisi, ma non precisano intenti ricollegabili all’art 182 bis. In ogni caso, il rinvio della produzione di effetti al suo deposito, non lo rende del tutto inefficace. Esso produce gli effetti prodromici che

costituiscono il riflesso della irrevocabilità del consenso, della forza di legge di cui all’art 1372 cc. Si pensi all’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede e di conservare integre le ragioni altrui, come risulta dall’art 1358 cc, con tutte le conseguenze che ne derivano, tra cui anche la possibilità di avvalersi dei rimedi contro l’inadempimento.

Nell’ipotesi di rigetto dell’omologazione, gli effetti prodottisi cesseranno con efficacia retroattiva. Conseguenza che deriva dal fatto che l’omologazione è una condizione di efficacia dell’accordo. Anche qui si tratterà di vedere quali effetti saranno travolti in relazione alla causa dell’atto, con la conseguenza che non lo saranno gli effetti di un accordo che possa comunque reggersi come semplice concordato stragiudiziale o di quelli che possono essere ricompresi nelle singole pattuizioni (remissioni, transazioni, dilazioni).

Ci sono poi svariate formule condizionali che possono arricchire il contenuto degli accordi,

determinandone, in caso di mancato avveramento, la inefficacia o la risoluzione. Si potrebbe pensare alle adesioni condizionate alla conclusione di ulteriori pattuizioni, o al raggiungimento di un certo numero di adesioni. Tra queste ci potrebbe essere quella tendente a condizionare risolutivamente l’efficacia dell’accordo in caso di successivo fallimento. Questa clausola si ritiene inammissibile.

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Quando si tratta di accordi destinati agli effetti di cui all’art 182 bis, occorre rilevare l’impossibilità di dedurre come condizione la dichiarazione di fallimento, fatto che non può essere considerato incerto, perché è proprio al verificarsi della dichiarazione di fallimento che si produce l’effetto della esenzione da revocatoria, che caratterizza l’accordo.

Ne consegue che, anche in presenza di queste condizioni, i creditori aderenti all’accordo potranno insinuarsi al passivo solo per il credito riconosciuto ed accettato.

Le ipotesi di inesecuzione dell’accordo, riferibili sia all’inadempimento del debitore che degli altri soggetti coinvolti, non si prestano ad una facile sistemazione, data la mancanza di norme al riguardo. Qui non si possono applicare le norme sulla risoluzione del concordato prev. La differente ratio si coglie nel fatto che la gestione della crisi, negli accordi, si conduce in base alle pattuizioni dei soggetti che ne sono parte e non in ambito giudiziale, e comunque al di fuori di un ambito concorsuale. Il controllo omologatorio serve, soprattutto, a verificare la seria realizzabilità del piano senza ledere i diritti dei soggetti partecipanti.

Ci poniamo il problema della rilevanza dell’inadempimento nei confronti dei creditori estranei. A tal proposito, ci domandiamo quando si possa parlare di inadempimento nei loro confronti. Il riferimento d’obbligo è alla dizione dell’art 182 bis, il quale parla dell’integrale pagamento dei creditori estranei. L’opinione prevalente parla di “pagamento regolare”, nel senso di pagamento integrale e alla scadenza, alcuni, però, propongono una interpretazione, propria del diritto delle obbligazioni, di esatta esecuzione della prestazione dovuta (art 1218 cc), ipotizzando la omologabilità dell’accordo nel quale la scadenza del debito sia già avvenuta all’atto del deposito dell’accordo o del quale, per consuetudine, l’imprenditore avesse tollerato il pagamento tardivo. Ciò sostenendo che, adottando la formula più restrittiva, ben pochi sarebbero stati gli accordi omologabili. Sembra che la riforma del 2012 abbia dato ragione alla

interpretazione meno rigorosa, escludendo che l’adempimento debba necessariamente essere esatto, ma prevedendo che debba essere integrale. La legge rinuncia alla necessità di considerarlo esatto, almeno riguardo alla scadenza. Viene infatti individuato un termine legale di tolleranza di 120 gg, che decorrono dalla omologazione, per i crediti scaduti a tale data, e dalla scadenza, per i crediti non ancora scaduti. In questo caso si può parlare di deroga al principio di relatività degli effetti del contratto, pienamente in linea con l’art 1372 cc, nella parte in cui prevede che il contratto possa produrre effetti con riguardo ai terzi, “nei casi previsti dalla legge”. Bisogna però escludere che la norma abbia operato una qualche sostituzione del termine originario di scadenza, giacché essa prevede che i crediti possano essere già scaduti.

Ne consegue che i crediti in questione dovranno comunque essere pagati integralmente e in tutte le loro componenti, compresi gli interessi prodotti dalla originaria scadenza, ma se ne deve ammettere una loro temporanea inesigibilità.

Non è escluso che della norma possa darsi anche una ulteriore lettura che sarebbe in linea con la regolare applicazione dell’art 1372 cc, e cioè potrebbe ipotizzarsi che la norma non incida minimamente sulla posizione dei terzi estranei, ma si limiti a stabilire una condizione di ammissibilità dell’accordo. In questa prospettiva, potrebbe omologarsi un accordo nel quale il debitore dichiari che non ce la farà a pagare i creditori estranei alla scadenza, purché sia però assicurato il pagamento tardivo, ma integrale, nei 120 giorni successivi. In questo caso, decorso l’originario termine di scadenza, l’estraneo può mettere

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in mora il debitore e può proporre le azioni a tutela del credito, fermo restando il divieto di intraprendere azioni esecutive e cautelari nel termine di 60 giorni dalla pubblicazione.

Il terzo sarebbe assolutamente immune da ogni effetto “in danno” dell’accordo , in questa

prospettiva, ci si potrebbe chiedere se costui non sia legittimato ad opporsi ad un accordo che determini l’effetto di tolleranza anzidetto, nel caso in cui l’originario termine di scadenza sia essenziale.

In caso di inadempimento, il creditore estraneo, in quanto terzo, non potrà chiedere la risoluzione dell’accordo. Viceversa, potrà chiedere l’adempimento del proprio credito, l’esecuzione in forma specifica, il risarcimento danni, secondo il diritto comune. Potrà chiedere, nonostante l’omologazione, la decadenza dal beneficio del termine, in caso di crediti non ancora scaduti, qualora ne ricorrano i presupposti (art 1186 cc). Potrà, inoltre, chiedere l’adempimento di quegli accordi che prevedano specifici ed ulteriori impegni in suo favore secondo le norme sul contratto a favore di terzi (art 1411 e segg cc).

Potrà, inoltre, decorso il termine di 60 giorni dal deposito dell’accordo presso il registro delle imprese, proporre istanza di fallimento, dovendosi intendere ricompreso , nel divieto di azioni esecutive e cautelari, la possibilità di presentare istanza di fallimento.

Con riferimento ai creditori aderenti, le ipotesi sono molteplici. Il caso più semplice, che l’accordo intercorra con un unico creditore, implica che a quell’accordo possa essere applicata la disciplina

dell’inadempimento e della risoluzione. Lo stesso dicasi nella ipotesi della stipula di accordi separati con i vari creditori. Con la precisazione che, accanto alla disciplina generale della risoluzione, dovrà guardarsi a quella dell’eventuale tipo contrattuale che l’accordo configura. Ad es, ove la configurazione del patto possa essere in termini di transazione novativa (art 1976 cc), la risoluzione sarebbe preclusa, salvo espressa pattuizione.

Qualora si tratti di accordi separati, ma tra loro collegati, il venir meno di uno dei rapporti che precluda la realizzazione del piano, in applicazione delle regole in materia di collegamento negoziale, potrebbe determinare la risoluzione degli altri. Potrebbe, ma non necessariamente. Finché l’accordo è in grado di garantire il pagamento integrale dei creditori estranei, è possibile che, risoltosi un rapporto, non necessariamente questo determini il venir meno degli altri.

Eventuali clausole di rinegoziazione dell’accordo, destinate a sopperire il venir meno di taluno degli impegni presi nell’accordo, e magari al ripristino delle percentuali dei crediti coinvolti nella stipulazione, non sarebbero di per sé illegittime. Ma in tal caso, ferma restando la validità dell’accordo e della clausola, si renderebbe necessaria una nuova omologazione.

Per l’ipotesi che l’accordo si riveli inidoneo ad evitare il fallimento, si esclude che possa ricorrere una fattispecie di nullità, in considerazione di un preteso difetto sopravvenuto della causa o per impossibilità sopravvenuta, proprio perché la causa dell’accordo non si può individuare nella rimozione dell’insolvenza. Sopravvenuto il fallimento, non si caducano gli effetti dell’accordo omologato, restando quest’ultimo niente più che un contratto pendente, le cui problematiche sono affrontate dall’art 72 lf.

Incaso di accordo eseguito, rimarranno ferme le attribuzioni patrimoniali effettuate e, in applicazione dell’art 182 bis, si verificherà l’effetto della esenzione da revocatoria.

Dubbio è se, invece, lo stesso effetto di esenzione ricorra ad accordo omologato, ma poi risolto, annullato o dichiarato nullo. Pur con qualche dubbio, si ritiene possa ammettersi la persistenza dell’effetto

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minimizzante di questo, anche quando sia venuto meno. Sicuramente in favore dei creditori estranei, ma anche per i creditori aderenti, purché non abbiano dato colpevolmente causa alla caducazione dell’accordo. In tal caso, prevale la ratio dell’istituto, di privilegiare i tentativi di composizione negoziale delle crisi

d’impresa, attraverso la garanzia della stabilità degli effetti degli atti posti in essere in esecuzione di accordi originariamente giudicati meritevoli di tutela.

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