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Ursula Le Guin. Il Mago. L autore e le opere UNITÀ 12

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Academic year: 2022

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L’autore e le opere

Ursula Le Guin è nata a Berkeley in California ed è cresciuta in un ambiente cultu- ralmente molto vivace. Ha cominciato a scrivere e a pubblicare fin da ragazza e og- gi è considerata una delle principali autrici viventi di fantascienza. La profondità e attualità dei suoi temi, che spaziano dal femminismo all’utopia e al pacifismo, hanno reso i suoi romanzi noti e apprezzati da un vasto pubblico di lettori, anche al di là della cerchia degli appassionati al genere fantascientifico. Tra le sue opere si ricordano in particolare La mano sinistra delle tenebre e I reietti dell’altro pianeta.

Dopo alcuni anni trascorsi a Parigi ora vive a Portland, nell’Oregon.

Il Mago

Il primo libro della trilogia Il mago di Earthsea di Ursula Le Guin è dedicato alla cresci- ta del giovane eroe, il mago Ged, mentre gli altri due sono dedicati alla sua età matura.

Ged, giovane apprendista stregone, approda a Thwill, una piccola cittadina sede di una grande scuola di magia, la Scuola di Roke, con l’intenzione di portare ad un livello «pro- fessionale» la sua attitudine alle arti magiche, alle quali è stato avviato nel suo paese.

Quella notte Ged dormì a bordo dell’Ombra1 e la mattina dopo, di buon’ora, si congedò da quei suoi primi compagni di navigazione, che lo scortarono con festose grida di saluto e di augurio mentre s’allontanava dal molo.

La cittadina di Thwill non è molto grande e le sue alte case dagli aguzzi tetti in lastre d’ardesia2 sono addossate l’una all’altra lungo viuzze strette e ri- pide: agli occhi di Ged, tuttavia, apparve come una vera e propria città, e non sapendo dove dirigersi chiese al primo abitante che incontrò lungo un vicolo come trovare il Rettore della Scuola di Roke. L’uomo lo guardò di sottecchi3, cogitabondo4, e infine sentenziò: – Il savio non ha bisogno di chiedere, lo stolto chiede invano – e ciò detto proseguì la sua strada.

Ged continuò a salire, raggiungendo una piazzetta circondata su tre lati da case, mentre il quarto lato era chiuso dal muro di un grande edificio le cui ra- de finestrelle si affacciavano sopra i tetti e i comignoli: pareva un forte, o un castello, fatto di massicci blocchi di pietra. La piazza era affollata di bancarel- le, e c’era tutto un andirivieni di gente.

Ged si rivolse a una vecchia accoccolata davanti a un cesto di frutti di ma- re e ripeté la sua domanda; lei rispose: – Non sempre si può trovare il Retto- re là dov’è, ma talvolta lo si trova dove non è – e riprese i suoi strilli di pescivendola.

Esaminando il muro del grande edificio, Ged notò, vicino all’angolo, una misera porticina di legno; vi bussò con decisione, e al vecchio che venne ad aprire disse: – Ho qui una lettera del mago Ogion di Gont5per il Rettore del- la Scuola di quest’isola. Voglio trovarlo, ma non intendo sentirmi ripetere altri indovinelli e scherzetti.

– La Scuola è questa – rispose pacatamente il vecchio. – Io sono il porti- naio. Entra, se puoi.

1. Ombra: è la nave su cui è im- barcato Ged.

2. ardesia: roccia di colore gri- gio o verdastro, facilmente divi- sibile in lastre; viene usata, in particolare, per la copertura dei tetti.

3. di sottecchi: con gli occhi soc- chiusi, come se non guardasse.

4. cogitabondo: assorto, medi- tabondo.

5. Gont: è il paese da dove pro- viene Ged.

Ursula Le Guin, Il mago di Earthsea, 1968

Ursula Le Guin

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Ged avanzò di un passo. Gli parve di aver varcato la soglia: eppure si tro- vava ancora fuori, sul marciapiede, esattamente dov’era prima.

Ritentò di nuovo: ma ancora una volta si accorse di essere fuori dalla por- ta. Dall’interno, il portinaio lo osservava con occhi gentili.

Più che sconcertato, Ged era stizzito, poiché quella gli sembrava un’ulte- riore beffa nei suoi confronti. Decise di ricorrere alla formula d’Apertura6, che la zia gli aveva insegnato molto tempo prima: era il più importante incantesi- mo di tutto il suo repertorio, gli aveva detto, e Ged lo ripeté a dovere, con gli appropriati gesti della mano e la corretta formula magica. Ma era solo l’incan- tesimo di una modesta fattucchiera7 di villaggio, e la magia che rendeva im- penetrabile quell’uscio non ne fu minimamente scalfita.

Rendendosi conto che il suo incantesimo non funzionava, Ged si trattenne ancora a lungo sul marciapiede, meditando il da farsi: alla fine guardò il vec- chio che continuava ad aspettare, dall’interno. – Non riesco ad entrare – am- mise a malincuore – se non mi aiuti.

Il portinaio rispose: – Dimmi il tuo nome.

Di nuovo Ged restò in silenzio a riflettere: perché un uomo non pronuncia mai ad alta voce il proprio vero nome, a meno che non sia in gioco qualcosa di più importante della vita stessa.

– Sono Ged – disse a voce alta. E varcò finalmente la soglia. Aveva la luce alle spalle, eppure, mentre entrava, ebbe la sensazione di essere tallonato8 da un’ombra.

Voltandosi a guardare, si accorse che la porta tuttora spalancata non era di legno, come aveva pensato a prima vista, ma di un unico pezzo d’avorio, sen- za giunture di sorta: come apprese in seguito, era ricavata da una zanna del Grande Drago9. Poi il vecchio la chiuse: e sulla faccia interna, che lasciava trasparire solo debolmente la luce del giorno, era intarsiato l’Albero dalle Do- dicimila Foglie10.

– Benvenuto in questa casa, ragazzo – disse il portinaio, e senza aggiunge- re altro lo condusse attraverso sale e corridoi fino ad un chiostro racchiuso nelle profondità dell’edificio. Non c’era alcun tetto, e il cortile lastricato cir- condava un praticello dove zampillava nel sole una fontana attorniata da gio- vani alberi.

Qui Ged fu lasciato solo, ad aspettare. Rimase immobile, col cuore che gli batteva forte, perché gli pareva di sentire presenze e poteri invisibili tutt’intor- no a lui, e sapeva che quella casa non era fatta solo di pietre, ma di magie più forti della pietra. Si trovava nel cuore della Casa del Saggio, nella sua stanza più riposta11: ed era aperta sul cielo. Poi, d’improvviso avvertì la presenza di un uomo vestito di bianco, che lo scrutava attraverso lo zampillo della fonta- na.

Quando i loro sguardi s’incrociarono, un uccello cantò forte tra i rami del- l’albero. Ged comprese il cinguettio dell’uccello, e il linguaggio dell’acqua che scrosciava nella vasca, e le forme delle nuvole, e l’inizio e la fine del ven- to che agitava le foglie: e gli parve di essere lui stesso una parola pronunciata dalla luce del sole.

Poi quel momento passò, e lui e il mondo tornarono come prima, o quasi come prima. Ged s’inginocchiò al cospetto dell’Arcimago12, porgendogli la lettera scritta da Ogion.

L’Arcimago Nemmerle, Rettore della Scuola di Roke, era un uomo molto vecchio: più vecchio, si diceva, di chiunque altro vivesse al mondo. Rivolse a Ged cortesi parole di benvenuto, e la sua voce era tremula come quella di un uccello. Aveva capelli, barba e tunica bianchissimi, e pareva quasi che la len- ta erosione degli anni gli avesse dissolto dal corpo ogni colore e sostanza, la-

6. formula d’Apertura: una serie di parole che ha il potere di aprire la porta.

7. fattucchiera: maga di mode- sti poteri, capace di fatture e magie di limitata importanza.

8. tallonato: inseguito da vicino.

9. Grande Drago: un essere mi- sterioso e magico.

10. l’Albero dalle Dodicimila Foglie: anche questa figura ha un valore simbolico; forse al- lude al mistero della vita.

11. riposta: ben nascosta e ri- parata, segreta.

12. al cospetto dell’Arcimago:

alla presenza, davanti all’Arci- mago.

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13. rune: sono i segni della scrittura negli alfabeti degli an- tichi popoli germanici.

14. verace: veritiero.

15. runa: qui nel senso di «si- gillo». Il nome di Ogion è an- cora ignoto a Ged, che deve es- sere iniziato alla magia per poterlo conoscere.

16. tiene … il terremoto: il con- trollo degli elementi della natura è il primo segnale di un potere magico.

17. tra gli anni e le isole: nel- l’immensità del tempo e dello spazio.

18. Osskil: una regione di que- sto mondo incantato.

19. in tralice: in diagonale, di sottecchi.

20. «Terrenon ussbuk!»: suoni che non sembrano avere un senso, ma che esprimono un ar- cano messaggio.

21. Sparviere: Ged, coerente ai suoi principi, non rivela il pro- prio nome.

sciandolo bianco e consumato come un tronco rimasto per secoli nell’acqua, alla deriva.

– I miei occhi sono vecchi, non riesco a leggere ciò che scrive il tuo mae- stro – gli disse nella sua voce tremolante. – Leggimi tu la lettera, ragazzo.

Così Ged lesse ad alta voce le rune13che Ogion aveva scritto. Era un mes- saggio semplice e breve: «Lord Nemmerle, ti mando colui che sarà il più gran- de tra i maghi di Gont, se il vento soffia verace14». Il biglietto portava come firma non il vero nome di Ogion, che Ged non conosceva ancora, ma la sua runa15, la Bocca Serrata.

– Ti ha mandato da me colui che tiene al guinzaglio il terremoto16, perciò tu sei doppiamente il benvenuto. Il giovane Ogion mi fu caro, quando venne qui da Gont. Ora dimmi del mare, ragazzo, e dei portenti ai quali hai assistito durante il viaggio.

– Una navigazione tranquilla, Lord, a parte la burrasca di ieri.

– Quale nave ti ha condotto qui?

– L’Ombra, un mercantile delle isole Andrade.

– Quale volontà ti ha mandato qui?

– La mia.

L’Arcimago lo guardò fisso e poi distolse gli occhi, e prese a parlare in una lingua che Ged non comprendeva, biascicando come un vecchio la cui men- te vaghi tra gli anni e le isole17: tuttavia, nel suo confuso borbottare, c’erano le parole che l’uccello aveva cantato sull’albero, e che l’acqua aveva sussurra- to, zampillando nella fontana. Nemmerle non stava operando un incantesimo, eppure c’era una tale forza nella sua voce che la mente di Ged ne fu sconvol- ta e sbigottita, e per un istante gli parve di vedersi in un vasto e sconosciuto deserto, immobile e solo tra le ombre. Ma al tempo stesso si trovava nel chio- stro illuminato dal sole, ad ascoltare il gorgoglio della fontana.

Un grande uccello nero, un corvo di Osskil18, venne zampettando sulle la- stre di pietra del cortile, e poi sull’erba; si fermò ai piedi dell’Arcimago, spic- cando contro la lunga tunica bianca col suo corpo nero, il becco affilato e gli occhi come sassolini, che fissavano Ged in tralice19. Diede tre beccate al bian- co bastone su cui l’Arcimago s’appoggiava, e il vecchio concluse il suo solita- rio mormorio, sorridendo: – Corri a giocare, ragazzo – gli disse infine, come a un bambino piccolo. Ged s’inginocchiò di nuovo. Quando si rialzò, Nemmer- le era svanito: solo il corvo rimaneva nell’erba, continuando a scrutarlo, col becco spalancato come se ancora volesse beccare il bastone scomparso.

E poi parlò, in quello che Ged suppose fosse il linguaggio di Osskil: «Ter- renon ussbuk!»20gracchiò. «Terrenon ussbuk orrek!» E si allontanò a piccoli passi impettiti, così com’era venuto.

Ged si volse per lasciare il chiostro, chiedendosi dove andare a questo punto. Sotto il portico incontrò un giovane alto, che lo salutò cerimoniosa- mente, chinando il capo: – Mi chiamo Jasper, figlio di Enwit della Terra di Eolg sull’isola di Havnor. Oggi sono al tuo servizio, per farti visitare la Grande Casa, e per rispondere alle tue domande, se posso. Come devo chiamarti, si- gnore?

E Ged, giovane montanaro che non era mai stato tra i figli dei nobili e dei ricchi mercanti, ebbe la sensazione che il giovane volesse canzonarlo, con quel suo «servizio» e il suo «signore» e il suo inchino e tutti quei salamelecchi.

Brevemente rispose: – Sparviere21, mi chiamano.

Il giovane attese un momento, come aspettandosi precisazioni più garbate, ma visto che Ged non aggiungeva altro, rizzò il capo e si scostò leggermente da lui. Aveva due o tre anni più di Ged, era molto alto, e si muoveva con una sorta di rigida grazia, come atteggiandosi a danzatore (almeno così parve a

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Ged). Indossava un mantello grigio col cappuccio rovesciato sulla schiena.

Come prima tappa della visita lo condusse al guardaroba della scuola, dove, quale studente di Roke, Ged doveva scegliersi un mantello della sua misura e quant’altro gli occorresse. Non appena ebbe indossato il suo mantello grigio scuro, Jasper gli disse: – Ora sei uno di noi.

Nel parlare, Jasper aveva un modo tutto suo di increspare le labbra come in un vago sorriso, tanto che a Ged venne il sospetto che tra le sue cortesi pa- role si celasse chissà quale sottile derisione.

– Sono gli abiti, che fanno il mago? – ribatté, arcigno22.

– No – disse il giovane. – Ma ho sentito dire che sono le maniere che fan- no l’uomo. E ora dove si va?

– Dove vuoi tu. Io non conosco la casa.

Jasper lo accompagnò lungo i corridoi della Grande Casa, mostrandogli chiostri e cortili e saloni, e la Stanza degli Scaffali dove si custodivano i Codi- ci del Sapere e i tomi23delle Rune, e poi la Grande Sala del Focolare, dove si riuniva tutta la scuola, in occasione di festività e cerimonie; e poi ancora, di sopra, nelle torri e nei sottotetti, a visitare le piccole celle dove dormivano studenti e maestri. Quella di Ged si trovava nella torre sud, con una finestra affacciata sui tetti aguzzi di Thwill via via digradanti fino al mare: come tutte le altre celle, non aveva alcun mobilio, a parte un semplice pagliericcio nel- l’angolo.

– Viviamo molto sobriamente, qui – spiegò Jasper. – Ma mi aspetto che non te ne importi.

– Ci sono abituato – commentò Ged; poi, volendo rimbeccare la forbita24 altezzosità del giovane e mostrargli di non essere da meno, aggiunse: – Im- magino che tu non ci fossi abituato, la prima volta che sei venuto qui.

Jasper gli scoccò un’occhiata significativa, come a dirgli: «Che ne sai di quello a cui sono o non sono abituato, io, figlio del Lord della Terra di Eolg sull’isola di Havnor?» Ma invece si limitò a dire: – Vieni da questa parte.

Mentre visitavano i piani superiori, avevano udito il rintocco di un gong25, e poco dopo scesero nel refettorio, a consumare il pasto di mezzogiorno, in- sieme con altri cento e più ragazzi e giovani. Ciascuno si serviva da solo, scherzando coi cuochi attraverso una finestra aperta che comunicava con le cucine, e si riempiva il piatto attingendo a enormi zuppiere fumanti posate sul davanzale; poi andava a sedersi a una panca della Tavola Lunga.

Sempre di fianco a Ged, Jasper gli bisbigliò: – Sai che cosa si dice? Che per quanti siano i commensali seduti alla Tavola c’è sempre posto.

In effetti la Tavola era davvero lunghissima, e c’era posto sia per i nume- rosi e chiassosi gruppi di ragazzi che chiacchieravano e si rimpinzavano alle- gramente, sia per i giovani più adulti, coi loro mantelli grigi chiusi alla gola da un fermaglio d’argento, che sedevano più compostamente, in coppia o da so- li, con gravi26volti pensosi, come immersi in profonda meditazione. Jasper in- vitò Ged ad accomodarsi accanto a un massiccio ragazzone di nome Vetch, che parlava assai poco, impegnato com’era a divorare il suo cibo. Aveva il ca- ratteristico accento dell’Orizzonte Est, ed era scurissimo di pelle: non bruno- ramato, come Ged e Jasper e quasi tutti gli abitanti dell’Arcipelago, ma di un lucente nero-bruno. Era un tipo schietto e alla buona, senza raffinatezze. Tro- vò da ridire sul pranzo appena concluso, ma poi si rivolse a Ged e osservò: – Se non altro, non è un’illusione, come lo è quasi tutto il resto, qui: questa ro- ba te la riempie davvero la pancia.

Ged non capì che cosa intendeva dire, ma provò un’immediata simpatia per lui, e fu contento che Vetch si unisse a loro, uscendo dal refettorio.

Decisero di scendere in città, in modo che Ged imparasse a conoscerla:

22. arcigno: accigliato, ostile.

23. tomi: volumi.

24. forbita: raffinata, anche troppo elegante.

25. gong: un disco metallico che, percosso, emette un suono cupo, che funziona da richiamo.

26. gravi: seri.

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27. Immanente: che è fisso, ma si tratta di un vocabolo che ha una sfumatura misteriosa, che non si può spiegare.

28. capolino: infiorescenza.

29. piccato: offeso.

30. inganni ottici: immagini che non corrispondono alla realtà, ma sono frutto di trucchi, di ma- gia.

per quanto poche e brevi, le strade di Thwill serpeggiavano in curiosi zigzag attraverso le case, e non era difficile perdersi. Era una strana città, e strani era- no anche i suoi abitanti: pescatori, manovali, artigiani, come chiunque altro, ma così avvezzi alle stregonerie sempre in funzione sull’Isola del Saggio, che parevano anche loro dei mezzi maghi. Si esprimevano (come Ged aveva avu- to modo di sperimentare) in forma di enigmi e indovinelli, e nessuno di loro batteva ciglio se gli capitava di vedere un ragazzino trasformarsi in pesce o una casa librarsi per aria: ma prendendola come una birichinata da scolaretto, continuavano imperterriti nelle loro faccende.

Dopo aver gironzolato un po’ per le viuzze di Thwill, uscirono dalla Porta Posteriore, e oltrepassarono i giardini della Grande Casa, raggiungendo un ponticello di legno gettato sulle acque chiare del Thwillburn: l’attraversarono, inoltrandosi tra i boschi e i pascoli a nord del paese. Presero un sentiero ripi- do e tortuoso che s’inerpicava tra grandi macchie di querce dove l’ombra era fittissima, malgrado la luminosità del sole. Ad un tratto, non lontano alla sua sinistra, Ged intravide un folto gruppo d’alberi che non riusciva a distinguere bene: anzi, non riusciva neppure a individuare che tipo d’alberi fossero. Ve- dendolo così assorto a guardare in quella direzione, Vetch gli disse sottovoce:

– Quello è il Boschetto Immanente27. Noi non possiamo ancora entrarci...

Nei pascoli inondati di sole sbocciavano piccoli fiori gialli: – Erbafavilla, si chiama – spiegò Jasper. – Germoglia là dove il vento ha lasciato cadere le ce- neri dell’incendio di Ilien, quando Erreth-Akbe difese le Isole Interne dal Mo- stro-del-fuoco.

Soffiò su un capolino28ormai avvizzito, e i semi scossi volarono col vento come scintille di fuoco nel sole.

Il sentiero li condusse alla base di una grande collina verde tonda e sen- z’alberi, la collina che Ged aveva visto dalla nave mentre entravano nelle ac- que stregate della baia. A un certo punto, mentre salivano il pendio, Jasper si fermò.

– Quand’ero a casa, in Havnor – disse – ho sentito molto parlare dei maghi di Gont, e sempre in toni ammirati, per cui è da tanto tempo che ho voglia di vederli in azione. Ma ora abbiamo qui un uomo di Gont: e ci troviamo sul Poggio di Roke, le cui radici affondano nel centro della terra. Tutti gli incante- simi, qui, sono forti. Su, Sparviere, facci un giochetto. Mostraci il tuo stile.

Confuso e preso alla sprovvista, Ged tacque.

– Lascia perdere, Jasper – disse Vetch nel suo modo semplice e franco. – Dagli almeno il tempo di ambientarsi.

– E perché? Lui possiede o abilità o potere, altrimenti il portinaio non l’a- vrebbe lasciato entrare. Perché non dovrebbe mostrarci le sue capacità? Per- ché aspettare? Giusto, Sparviere?

– Possiedo entrambi, abilità e potere – disse Ged, piccato29. – Spiegami che tipo di cose intendi.

– Illusioni, naturalmente: inganni ottici30, giochi di parvenza. Cose come questa!

Puntando un dito sul pendio, Jasper pronunciò una breve formula, e nel luogo indicato apparve tra l’erba un sottile filo d’acqua, che crebbe rapida- mente, e subito ne scaturì uno zampillo, e l’acqua prese a saltellare lungo la collina. Ged tuffò le mani nel ruscello, e le sentì bagnate; bevve, e l’acqua era fresca: tuttavia non avrebbe mai potuto placare la sete, perché era solo un’il- lusione. Con un’altra parola, Jasper fermò l’acqua, e l’erba tornò a ondeggiare nella brezza, asciutta. – E ora a te, Vetch – disse, col suo freddo sorriso.

Vetch si grattò la testa e parve imbronciato, ma poi raccolse un pizzico di terriccio e cominciò a comprimerlo e carezzarlo e ammorbidirlo fra le sue di-

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ta scure, mormorando una sommessa cantilena31: a poco a poco la pallottola di terra prese forma, e d’improvviso fu una piccola creatura, un insetto simile a una vespa o a un moscone peloso, che si librò ronzando sulla collina, e scomparve.

Ged se ne stava a contemplare quei prodigi, stupefatto. Si sentiva intima- mente mortificato: che cosa conosceva, lui, se non banali stregonerie di vil- laggio, semplici incantesimi per richiamare le capre, guarire le verruche32, spostare pesi o riparare vasellame?

– Io non faccio trucchi come questi – disse.

La risposta bastò a Vetch, che fece per riprendere il cammino; ma Jasper chiese: – E perché no?

– La magia non è un gioco. Noi di Gont non la pratichiamo per diverti- mento o vanagloria33– ribatté Ged, con alterigia34.

– Allora la praticate per... – insinuò Jasper – ... soldi?

– No...! – esclamò Ged, ma non seppe aggiungere altro che potesse dissi- mulare35la sua ignoranza e salvare il suo amor proprio. Jasper si mise a ride- re, con una certa bonarietà e riprese a guidarli per i sentieri del Poggio. Ged lo seguiva in silenzio, accigliato e col cuore pesante, sapendo di essersi com- portato da stupido e attribuendone la colpa a Jasper.

31. cantilena: formula magica cantata.

32. verruche: escrescenze della pelle.

33. vanagloria: sentimento smodato di orgoglio.

34. con alterigia: con superbia, presunzione.

35. dissimulare: nascondere.

L’ambiente in cui sono collocate le storie di magia presenta spesso caratteristiche nordiche e medievali: anche in questo testo le abitazioni della cittadina hanno tet- ti aguzzi, le strade sono strette e tortuose, le piazze circondate da alti fabbricati. Si tratta di elementi convenzionali, che trasportano il lettore in un mondo lontano e fantastico e contribuiscono a creare un legame di complicità tra lo scrittore, che si muove in un mondo di fantasia, e il lettore che da tale fantasia si fa trasportare. In- vece l’ambiente in cui vivono i ragazzi aspiranti maghi assomiglia a un college bri- tannico dell’Ottocento, come testimonia il rito della vestizione (Non appena ebbe indossato il suo mantello grigio scuro, Jasper gli disse: – Ora sei uno di noi), la ta- volata del pranzo in comune, il modo di vita sobrio e la sottile, ma tenace sfida tra i ragazzi.

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