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Lo Stato sociale in Italia I bienni e a confronto

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Academic year: 2022

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Lo Stato sociale in Italia I bienni 1919-1920 e 1968-1969 a confronto

Gianni Silei

I bienni in questione sono rilevantimomentidi pas­

saggio anche nellambito dell’evoluzionedelle po­ litichesociali e del processo di modernizzazione del­

loStato sociale italiano. In entrambe questefasigiun­ seroa maturazione approccie proposte di tipo nuo­ vo. Nel primodopoguerra,divenne centrale ilnodo del passaggio da un sistema basatosu assicurazioni obbligatorie e riservatesolo a determinate categorie dilavoratori a uno a copertura piùampia, esteso an­ che allefamiglie dei lavoratorio addirittura a forme di assicurazione statale di tipo universalistico. Alla fine degliannisessanta,richiamandosi al concetto di “sicurezzasociale” e allepolitiche economiche keynesiane, il dibattito verteva sullanecessità diuna svolta in senso universalistico di uno Stato sociale che, invece, era ancora in largapartequelloeredita­ to dal fascismo.

In un contesto caratterizzato da forti mutamenti sul piano economico, sociale epolitico e dall’emergere dinuovibisogni sociali epolitici, in entrambeque­

ste stagionila spinta verso il cambiamentofuil frut­

to, per la crisi interna alla classe dirigente e delle or­ ganizzazionidirappresentanza, di istanze prove­

nienti dal basso,che chiedevano maggiori tutele e un generaleallargamento del sistema di protezione sociale.

Nonostante le fortiaspettative di cambiamento eil livelloavanzato delle questioni dibattute,i muta­ menti furono inferiori alleattese.Nel primo dopo­ guerra, ilsostanziale fallimento delle riformepro­ mossedaigoverni liberali si tradusse in una sorta di transizione incompiuta da uno Statosociale “libera­

le(ispirato alla Germania bismarckiana) a quello

“liberal-democratico”anglosassone,che,nelsecon­ do dopoguerra,avrebbe datovita al welfare State.

Altrettanto limitate e contraddittorie furono le rifor­

me del 1968-1969. Rispetto al primo dopoguerra, tuttavia, questafasenon rappresentò del tutto una

occasione mancata” di modernizzazione del siste­ ma diwelfare, poiché moltedelle riforme discusse e mai approvate trovarono una loro attuazione,sia pure con moltecontraddizioni,nel corso dei primi anni settanta.

The two periodsin question mark significant passa- ges in thè development of thè modernisation pro- cesses and welfare policies ofthe ItaliansocialSta­ te,since bothbrought to a head approaches and de- mands ofa new kind. Inthè first case,thè cruciai is- sue was thè transitionfrom a Systembasedon com- pulsory insurance andprovided only far certain ca- tegories oflabour, towarda larger social coverage, extended also to thè worker ’sfamily, or even toward generalisedforms ofState insurance; whereas at thè endofthe Sixties, appealing to thè concept of“so­

cial security" andto Keynesian policies,thèdi- scussion wascentred onasharpturn toward uni- versalism within a social State stili largelyin debt with thè Fascistlegacy.In a context ofmajor eco­ nomie,social and politicaichanges,characterised by thè emergence ofnew “needs”, both cases show an internaicrisis oftheruling class and thè repre- sentative bodies, confronted by a thrust comingfrom belowfor better labour protection and a generaiex- pansionof social security.

In spiteofthe great hopes and thè advancedlevel of thè debate, changes fell well shortof thè expecta- tions. In thèfirst postwar era, thè substantialfailure ofthereforms promoted bythèliberalcabinets re- sulted in a sort of unaccomplishedtransition froma

liberal" socialState ofBismarckian inspiration to thè liberal-democratic" System of Anglo-Saxon brand,that is thè one thatwouldlead to thè welfare state after thè Second World War. Equallylimited and contradictorywere thè 1968-1969 reforms,even though they cannot justbeconsideredasamissed opportunity", since a good number ofthethen dis- cussed and never passed billsfound lateranalthough partial and confused enaetment bythèmid-Seven- ties.

‘Italia contemporanea”, settembre 2004, n. 236

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410 Gianni Silei

Nell’ambito del processo evolutivo dello Stato sociale italiano, i bienni 1919-1920 e 1968-1969 rappresentano importanti momenti di passaggio.

L’indagine storica, poco applicata alle tematiche del welfare, può rivelarsi utile a cogliere elementi comuni e discontinuità e dunque a meglio preci­

sare e comprendere il contesto caratterizzante queste due rilevanti stagioni, a individuarne i principi ispiratori e gli attori principali.

Un elemento di fondo certamente accomu­

nante risiede nelle forti aspettative di riforma del sistema di protezione sociale, determinate dall’affermarsi di un nuovo approccio alle que­

stioni sociali. Nel biennio 1919-1920 queste aspettative ruotavano attorno al nodo centrale

— comune alle altre realtà avanzate europee del periodo — del passaggio da uno Stato so­

ciale imperniato in prevalenza sulle “assicura­

zione dei lavoratori”, edificatosi tra la fine del- l’Ottocento e l’inizio del Novecento, sull’in­

fluenza del modello bismarckiano, a un siste­

ma basato sulle “assicurazioni sociali”1. Anche se non si trattava di quelle assicurazioni stata­

li, a connotazione universalistica, già speri­

mentate in alcuni paesi europei (si pensi alla riforma pensionistica svedese del 1913 o, in parte, al National Insurance Act britannico del 1911), queste nuove forme di protezione so­

ciale tendevano a riconoscere e fornire una co­

pertura più estesa, rivolta cioè anche ai fami­

liari dei lavoratori, e ponevano il problema del trattamento da riservare a coloro che, per mo­

tivi vari, non avessero potuto finanziare, sotto forma di contributi, i principali schemi assicu­

rativi obbligatori.

1 Cfr. Gianni Silei,Dalleassicurazioni sociali alla Social Security. Politiche socialiin Europa enegli StatiUnitifra le due guerre(1919-1939),in Vera Zamagni (a cura di),Povertà e innovazioni istituzionali inItalia. Dal Medioevoad I oggi, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 751-773.

2 Sul concetto di social security nell’ambito delleriforme prospettatedaBeveridge cfr. Social Insurance andAllied | Services, Report by Sir William Beveridge, Presentedto Parliament byCommandofHis Majesty, November 1942, I London,HMSO, 1942, Cmd. 6404,p. 120. Peril dibattitoinItalia tra gli annicinquanta e la metàdegli anni sessanta | cfr. Giuseppe Petrilli, Lasicurezza sociale, Bologna,Cappelli, 1953 e Comitato di studioper la sicurezza sociale, Per E un sistema di sicurezza sociale in Italia, Bologna, Il Mulino, 1965.

Nel biennio 1968-1969, le aspettative di rifor­

ma e di estensione dello Stato sociale, frutto in parte dei nuovi bisogni sociali e politici deter­

minati dagli effetti del boom economico, si con­

cretizzarono nel passaggio da un sistema di pro­

tezione sociale ancora in larga parte eredità del­

la stagione liberale e soprattutto del periodo fa­

scista, a un sistema imperniato sui concetti del­

la “sicurezza sociale”. In pratica, si puntava al­

l’abbandono della logica occupazionale e a fa­

vorire una decisa accelerazione in senso uni­

versalistico del sistema di protezione sociale, sull’esempio di quel welfare State di stampo an­

glo-scandinavo riassumibile schematicamente nella formula Keynes (quindi politiche di inter­

vento dello Stato nell'economia) + Beveridge (sistema di protezione sociale imperniato sul concetto di tutela dal bisogno anziché di salva- guardia da specifici rischi)2.

In entrambi i casi, queste attese si tradusse­

ro, per effetto di alcune concause sulle quali ci soffermeremo più avanti, in una serie di prov­

vedimenti che sembrarono effettivamente pre­

ludere a una profonda trasformazione dello Sta­

to sociale italiano.

Dallo Stato sociale liberale a quello liberal- democratico: una transizione incompiuta

Nel primo dopoguerra parvero giungere a com­

pimento larga parte di quelle proposte elabora­

te in epoca giolittiana e ribadite, dopo lo scop­

pio del conflitto, dalla Commissione di studio sull’assicurazione obbligatoria contro le malat­

tie, o “Commissione Abbiate” (costituita nel 1917) e ancor più dalla Commissione Reale per il dopoguerra, in particolare, dalla Sottocom­

missione presieduta da Luigi Rava, preposta al­

la redazione di una serie di voti inerenti le rifor­

me sociali da introdurre a guerra finita.

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Lo Stato sociale in Italia 411

Precedute da alcuni provvedimenti di rilievo come quelli che introducevano l’obbligo assi­

curativo per tutti i lavoratori impiegati negli sta­

bilimenti per la produzione bellica3 e quelli re­

lativi al riconoscimento e al finanziamento sta­

tale degli Uffici di collocamento gestiti dai Co­

muni o dagli altri enti locali, dalle organizza­

zioni datoriali e da quelle dei lavoratori4, le rifor­

me interessarono in primo luogo proprio le que­

stioni del lavoro e del collocamento, per poi spo­

starsi sugli aspetti più direttamente attinenti le tematiche sociali, ovvero sulle normative in te­

ma di assicurazioni obbligatorie.

3Decreto luogotenenziale 29aprile 1917, n. 670 e successive integrazioni del24luglio eli novembre. Queste di­ sposizioni rappresentarono un momento di passaggioimportante sul pianoquantitativo (risultavano beneficiari del provvedimento oltre 800.000 lavoratori)masoprattuttoperché, per la primavolta, veniva realizzata una forma di as­ sicurazioneobbligatoriageneralizzataconun sistema di ritenute proporzionateallivello dei salari.

4 Decreto luogotenenziale 17 novembre 1918, n. 1911.

5 Antesignana dell’Inps, laCnasera retta da un Consiglio di amministrazione composto da rappresentanti deidatori di lavoro, degli assicuratiobbligatori e di quelli facoltativi, daespertiinmateria eda funzionari ministeriali. Appositi istitutiprovinciali diprevidenzasociale venivano inoltre approntatial precisoscopo di vigilare, amministrare e pro­ muovere l’adesioneaglischemi assicurativi. Alivellocentrale, pressoildicasterodell’industria, veniva poi creato un Ufficiotecnico attuariale, chesi occupava della vigilanza dell’applicazione delleleggi in materia e dell’operato degli istitutidi previdenza, oltre che incaricato di predisporre studi ericerche inmateria.

6 Oltrea erogare pensioni di invalidità evecchiaia, il decretoconcedeva un assegno temporaneo mensilealle vedove e agli orfani degli assicurati. Inoltre, veniva modificata anche la normativa sull’assicurazione facoltativa attraversomi­ sure che puntavano ad aumentare iversamenti volontaridi quelle categorie di lavoratoriautonomidella piccola bor­

ghesia tradizionalmente esclusi dalla legislazionein materia.

Generalmente, si è soliti far coincidere la bre­

ve ma importante stagione riformatrice dello Sta­

to sociale italiano del primo dopoguerra con la peculiare e travagliata esperienza del governo Nitti. In realtà, a conferma di una continuità di fondo con le precedenti fasi politiche, un primo pacchetto di interventi venne varato già dall’e­

secutivo presieduto da Vittorio Emanuele Or­

lando. Per esempio, il decreto luogotenenziale n.

603 del 21 aprile 1919 decretò l’obbligo del­

l’assicurazione contro i rischi di invalidità e vec­

chiaia per i lavoratori dipendenti di età compre­

sa tra i 15 e i 65 anni e modificò composizione e attribuzioni della vecchia Cassa nazionale di previdenza, rinominata Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (Cnas)5. Di fatto, e in que­

sto consisteva la portata realmente innovativa del provvedimento, si forniva una copertura a cate­

gorie precedentemente escluse dall’obbligo as­

sicurativo, come quelle dell’agricoltura, e in par­

ticolare ai mezzadri e agli affittuari6.

Quale significato attribuire a questo provve­

dimento? Si trattava semplicemente della natu­

rale conclusione di quel percorso riformatore av­

viato in età giolittiana interrottosi drammatica- mente con gli eventi bellici? Era il segnale di una particolare attenzione da parte della classe dirigente liberale verso le masse (in primis quel­

le contadine) e un indiretto riconoscimento del sacrificio da esse compiuto sui campi di batta­

glia del fronte? Oppure si trattava semplicemente di una concessione diretta, secondo il classico approccio del riformismo dall’alto di tipo bi- smarckiano, a scavalcare le rivendicazioni che sarebbero prevedibilmente scaturite una volta conclusa quella che la propaganda interna ave­

va definito “la guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre”?

Al di là di questo e al di là degli aspetti me­

ramente tecnico-amministrativi, il decreto rap­

presentò certamente un elemento di rottura con il passato, sul piano dei principi ma soprattutto per le modalità con le quali era stato elaborato e portato a compimento.

Con questa disposizione, infatti,

viene abbandonato il principio dellamutualità libera e lostato si fa regolatore di benesseresocialenonsolo promuovendo l’intervento legislativo ma anche attra­ verso un contributo diretto mediante ilqualesi attua un principiodi redistribuzionedellaricchezza. È un provvedimento,questo, che incide notevolmente sul­

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412 Gianni Silei

lidentità e la natura delloStato liberalee che[...] può essere percertiversiconsiderato estraneo e sottratto all’iniziativaparlamentare in quantoelaborato dalla Cassa nazionalediprevidenza eattuato attraverso de­

creto luogotenenziale7.

7 Enzo Bartocci, Le politichesociali nell’Italia liberale (1861-1919), Roma, Donzelli,1999, p.230.

8 Enrico Gustapane, Leoriginidel sistemaprevidenziale: la Cassa nazionalediprevidenzaper linvaliditàe la vec­

chiaia deglioperai(18 novembre 1897-28luglio 1919),in Novantanni di previdenza in Italia, supplementoa “Pre­ videnza sociale”, 1989,n. 1, p. 90.

9 Ciò avvenne moltopiù tardi, dopo ildecretolegge27 ottobre 1922, n. 1479, che di nuovo escludeva dall’obbligo as­

sicurativomezzadri, affittuari e coloni, e cioècon il Regio decreto 30 dicembre 1923,n.3184.

10 La Cassa depositi e prestitipoteva concedere finanziamenti agevolati alle amministrazionilocalipercreareapposi­ te strutture per lacura delle malattietubercolari, ulteriormente diffusesi traicetipiùdebolianche pergliaccresciuti disagiprovocati dal conflitto.

11 Alla gestionedelrinnovatoorganismo fuchiamato un Consigliodi ventisette membri.La presidenza andò al sena­ tore Cesare Ferrerò di Cambianomentre la direzione fu affidataal professorOrazio Paretti.

12 Erano viceversa esclusi coloro che avevano meno diquindici anni osuperatoi sessantacinque, i lavoratoria domi­ cilio, quelli addetti ai servizidomestici e i lavoratori alle dipendenze delloStato, delle province e dei comuni.

Il fatto che un provvedimento “che modificava notevolmente la fisionomia dello Stato liberale”

fosse adottato per decreto, scavalcando le prero­

gative parlamentari8, provocò la levata di scudi di molti ambienti liberali. L’avversione si tra­

mutò ben presto in aperta opposizione, con il ri­

sultato che il decreto non venne tradotto in leg­

ge9. Ciò ebbe ripercussioni sul piano dell’appli­

cazione della normativa in materia che fu larga­

mente disapplicata, a tutto danno dei lavoratori.

Il governo Nitti, costituitosi nel giugno del 1919, nasceva dunque proprio quando la ferita rappresentata dal decreto di riforma dell’assi­

curazione invalidità e vecchiaia era ancora aper­

ta e in un contesto sociale fortemente instabile

— si pensi allo sciopero degli insegnanti ele­

mentari, alla clamorosa agitazione dei preti ma soprattutto ai tumulti annonari e alle occupa­

zioni delle terre. Lo stesso primo ministro, che si era impegnato in prima persona per favorire la nascita della Cassa nazionale per le assicura­

zioni sociali, promosse una decisa accelerazio­

ne dell’azione riformatrice in campo sociale, azione che peraltro era ormai improcrastinabile per la gravità della situazione interna determi­

nata dagli effetti del conflitto sulle deboli strut­

ture economiche nazionali e dall’impatto sui ce­

ti medi e sulle classi popolari del rialzo dei prez­

zi e della disoccupazione.

Il programma del governo Nitti era impron­

tato a un’equidistanza nei conflitti tra capitale e lavoro e prometteva graduali riforme. Alla pro­

va dei fatti, il riformismo nittiano di ispirazione giolittiana, che prima della guerra avrebbe pro­

babilmente risposto alle necessità del paese, al­

la luce della situazione del dopoguerra mostrò tutti i suoi limiti. Oltretutto, il “giolittismo” di Nitti, più supposto che reale dal momento che questi, pur mantenendo buoni rapporti con Gio­

ii tti e ricercando l’appoggio dei deputati a lui fe­

deli, si sforzava di mantenere una linea di auto­

nomia, finì col rivelarsi più un peso che un van­

taggio nei suoi rapporti sia con i circoli conser­

vatori, sia con i settori rivoluzionari del Partito socialista.

A parte alcuni provvedimenti specifici, come la nuova legge sull’assistenza tubercolare vara­

ta alla fine di luglio10 o il cambio ai vertici del Consiglio d’amministrazione della Cnas11, il ve­

ro esordio del governo Nitti nel campo delle riforme sociali è rappresentato dal decreto n.

2214del 19ottobre 1919. Questo provvedimento introduceva, sull’esempio delle legislazioni eu­

ropee più avanzate, uno schema assicurativo ob­

bligatorio contro la disoccupazione. Risultava­

no coperti gli “operai di ambo i sessi, [...] oc­

cupati alle dipendenze altrui e [...] retribuiti a salario fisso, o a cottimo, e così pure [i] dipen­

denti non operai delle aziende private, [con] una retribuzione non superiore a quella stabilita co­

me limite massimo per l’obbligo di assicura­

zione contro l’invalidità e la vecchiaia”12. Altro elemento di novità, che confermava la scelta in

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Lo Stato sociale in Italia 413

direzione di un accresciuto ruolo dello Stato in questo ambito, la nuova legge costituiva un Uf­

ficio nazionale per il collocamento e la disoc­

cupazione (operando una fusione tra l’Ufficio centrale di collocamento e l’Ufficio temporaneo per i sussidi di disoccupazione), chiamato a ge­

stire un apposito Fondo nazionale per la disoc­

cupazione involontaria da finanziare attraverso contributi versati per metà dal lavoratore e per metà dal datore di lavoro.

Salutato come un’importante innovazione, il provvedimento mise subito in luce delle lacune.

In primo luogo emerse il problema dell’entità dei sussidi erogati, da subito palesemente trop­

po esigui. Sul piano organizzativo, poi, la scel­

ta di strutturare il nuovo collocamento sul pia­

no provinciale, che rispondeva all’esigenza di tenere quanto più possibile conto delle diverse realtà locali e quindi più efficace possibile la ri­

cerca del posto di lavoro, si rivelò sbagliata pro­

prio per via della scarsa presenza sul territorio degli Uffici di collocamento provinciali, comu­

nali e di zona o del loro cattivo funzionamento.

La serpeggiante avversione dei gruppi mo­

derati e conservatori nei riguardi degli accre­

sciuti poteri dello Stato anche in campo sociale

fu ulteriormente accresciuta dall’esito delle ele­

zioni politiche che seguirono di lì a poco. Pola­

rizzando il sistema politico attorno ai grandi par­

titi di massa dei cattolici e dei socialisti e inde­

bolendo la componente liberale, esse certamen­

te influirono anche sugli esiti del dibattito sui provvedimenti sociali attorno ai quali il gover­

no Nitti stava faticosamente cercando consensi più ampi.

Il 5 febbraio 1920, mentre proseguiva l’ope­

ra di riassetto della nuova Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, il governo presentò tre decreti riguardanti rispettivamente l’assicura­

zione contro la disoccupazione involontaria, l’invalidità e la vecchiaia e gli infortuni in agri­

coltura, tutti ispirati alle formulazioni della Commissione Rava. Inoltre, nonostante esistes­

sero già le proposte di legge della Commissio­

ne Abbiate13, Nitti cercò inutilmente di far pas­

sare un disegno di legge alternativo sulla que­

stione dell’assicurazione malattie14.

13 Nel corsodei suoi lavori (giugno-dicembre1919),la Commissione, non essendo stata ingrado ditrovare unaccor­

do maanche per un certo pragmatismo, aveva redatto due schemidi disegnodi legge, uno dai contenuti piùavanzati e unodi impronta più conservatrice. Elementi comuni aentrambi erano:obbligo assicurativo,indennità pecuniaria, sussidioper morte, assistenza sanitaria agli assicurati efamiliari, indennità permalattia che dura ‘finche sia acquisi­

to ildiritto a quella per l’invalidità, in modo che non rimanga un intervallo incui l’inabile al lavoro siasprovvistodi sussidio,rapporti con l’assistenza di maternità (sanitariaed economica), contributi in partiuguali dei datoridi lavo­

ro e dei lavoratori con il concorso degli Enti pubblici, organi dellassicurazione.Tra le differenze,“lo schemamini­ mo rispetta l’assicurazione specifica per gli infortuni sul lavoro, assorbendonella tutela dellemalattie solo l’indennità per inabilità temporanea,econserva lassistenza sanitaria a caricodelle Istituzioni assicuratori [...]. Il programma mas­

simo unifica l’assicurazione per rischi malattia, invalidità e morte [...] qualunquenesia la causa, e aggrega alleCas­

se di previdenza sociale i poveri non appartenentia famiglie diassicurati,in modo daunificarel’assistenza sanitaria, imponendoai Comuni un contributofisso per ognipersonaavente dirittoall’assistenza eliberandoli dall’onere gra­ voso specie per le spese di spedalità”(Arnaldo Cherubini, ItaloPiva, Dalla libertà all’obbligo.La previdenzasocia­

le fraGiolitti e Mussolini,Milano,Franco Angeli, 1998, pp. 261-262).

14II provvedimento decadde in quanto“non stampato entro i termini regolamentari” e la Camera si espresse perlacon­ vocazione di un altro organismo di studio al fine di stilareun testo omogeneo.Arnaldo Cherubini, Storia della previ­

denza sociale in Italia (1860-1960), Roma,EditoriRiuniti, 1977, p.242.

15 “Noi diciamo alle classi dirigenti: le assicurazionisociali sono una cosa eccellente.Lo Stato italiano viene in ritar­ do.Meglio tardiche mai. Maqueste forme di previdenza devono divenire attribuzioni del proletariato. Accettiamo il criterio delcontributopecuniariodaparte della classe operaia, ma in via transitoriae per agevolare il postulato della gestione diretta delle assicurazionida parte degliassicurati. Non vogliamosopraffazioni statali; nontolleriamoinge­

renzeburocratiche. I decreti legge che sarannoesaminati al Convegno confederalesonoescogitazioni d’un funziona- In questo contesto, il movimento sindacale, in occasione di un convegno organizzato a Ro­

ma pochi giorni dopo, confermava la contrap­

posizione con le istituzioni liberali e una so­

stanziale bocciatura dell’operato del governo15.

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414 Gianni Silei

Alle critiche sul piano dei principi seguivano poi considerazioni di merito molto più possibiliste da parte di Bruno Buozzi e Argentina Altobelli (infortuni industriali); Piazza e Lorenzini (infor­

tuni agricoli); Lanzoni, Gasparrini e Galli (in­

validità e vecchiaia); Pagliari e Baglioni (di­

soccupazione); Colombino e D’Aragona (assi­

curazioni malattie). Pur avanzando proposte ag­

giuntive rispetto a quelle contenute nei disegni di legge governativi, le relazioni non se ne di­

scostavano troppo. Unica eccezione significati­

va, la legge sulla disoccupazione, anch’essa cri­

ticata non tanto sul piano dei principi, quanto su quello dei contenuti. Al di là dei toni, dunque, il vertice sindacale, o almeno la sua componente riformista, si mostrava critico ma, come sempre, senza chiusure preconcette.

Su questo confronto pesava tuttavia il clima di incertezza e di scontro sociale in atto nel pae­

se. In attesa di sciogliere il nodo delle assicura­

zioni sociali, il governo ripropose l’ormai con­

solidato approccio liberale alle riforme sociali fatto di piccole riforme di carattere settoriale che, in questo caso, riguardarono la previdenza e l’as- sistenza del personale statale, il personale sani­

tario e l’entità dei sussidi di maternità.

Dati i fermenti politici e sociali in atto nel paese, tuttavia, ciò dette l’impressione che il go­

verno procedesse senza un indirizzo di fondo, rispondendo alle pressioni della piazza. In so­

stanza, che non avesse un programma definito.

E, in ogni caso, la strategia dei piccoli passi, ti­

pica del riformismo sociale dell’età giolittiana, rappresentò solo un momentaneo palliativo.

Le critiche di degenerazione burocratica, di eccessivo statalismo, già mosse nei riguardi del­

la politica economica, si estesero anche alla po­

litica sociale e agli organi di gestione delle as­

sicurazioni sociali. Significativo il fatto che

queste giungessero ormai non soltanto dagli ul­

traconservatori ma anche dagli ambienti mo­

derati del mondo liberale (si pensi, per esem­

pio, alle posizioni di Luigi Einaudi) e di quel­

lo cattolico.

Anche l’istituzione del ministero del Lavoro (3 giugno 1920) dopo un processo di risistema­

zione delle attribuzioni un tempo di pertinenza del dicastero di Agricoltura, Industria e Com­

mercio16, nonostante realizzasse gli auspici di larga parte dei fautori delle riforme, e in parti­

colare dei socialisti, non modificò il clima ormai di aperta sfiducia nei riguardi dell’esecutivo.

Nel corso dell’estate del 1920 il dibattito con­

tinuò a ruotare attorno ai decreti di riforma del­

le assicurazioni sociali presentati da Nitti a ini­

zio d’anno. Si era ormai fatta strada l’idea che fosse necessario un riassetto complessivo delle strutture dello Stato sociale, anche alla luce del­

le recenti modifiche introdotte e vista l’ormai crescente interdipendenza tra i vari schemi di protezione. Ma a rendere velleitario un simile, ambizioso obiettivo di razionalizzazione e mo­

dernizzazione del sistema contribuivano anco­

ra una volta le mille emergenze del momento.

Al fallimento della politica dei piccoli passi, delle leggi settoriali come premessa a riforme di portata più ampia, che aveva caratterizzato la le­

gislazione sociale prebellica, si aggiunse anche la perdita di importanza di quegli organismi con­

sultivi che, con un lavoro oscuro e inchieste, stu­

di, congressi e altre occasioni di confronto, ave­

vano creato, mattone dopo mattone, una base d’appoggio sulla quale poi, sempre in età gio­

littiana, si era tentato di edificare architetture più ardite. Organismi come il Consiglio del lavoro o il Consiglio superiore di previdenza, progres­

sivamente svuotati nelle attribuzioni sin dai pri­

mi anni di guerra in nome della razionalizza­

rismo soffocante eretrogradocheannullaanchelemigliori intenzionalità degli uominidigoverno. Il Convegnocon­

federale muoveràdecisamente allassalto contro la burocrazia che è una superpotenzadel nostro paese” (cit.in A.Che­

rubini,I. Piva, Dallalibertà all’obbligo, cit., pp. 306-307).

16 II 22giugno 1916, dopo un annoso dibattito,i servizidella previdenza e del lavoro, di pertinenzadel ministero del- l’Agricoltura, furono trasferitialministero dell’industria. Nell’aprile del 1919venne poicreatala Direzione generale del lavoroe della previdenza sociale, embrione del ministero del Lavoro, creato l’annosuccessivo.

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Lo Stato sociale in Italia 415

zione dell’apparato burocratico e, a conflitto concluso, in nome della lotta alle “bardature di guerra” condotta dagli assertori del libero mer­

cato, persero la loro funzione strategica.

Egualmente, il dopoguerra sanzionò la crisi di alcuni dei tradizionali punti di riferimento dell’a­

zione riformatrice dell’epoca giolittiana: le orga­

nizzazioni mutualistiche. Il loro declino, già evi­

dente in termini numerici e di peso politico negli anni che precedettero lo scoppio della grande guer­

ra, fu definitivamente sanzionato con l’introdu­

zione degli schemi assicurativi obbligatori17.

17 Cfr. GianniSilei,La Lega Nazionaledelle Cooperativeela Federazione Nazionale delle Società di Mutuo Soccor­

sodalle originialla GrandeGuerra,in Maurizio Degl’Innocenti, Angelo Varai,Renato Zangheri, Zeffiro Ciuffoletti, Gianni Silei, SilviaBianciardi, Solidarietà e mercato nella cooperazione italianatra Otto e Novecento, Manduria-Ba- ri-Roma, Lacaita, 2003,pp. 87-134.

18 Su questi aspetti cfr. Fulvio Conti, Gianni Silei, Breve storia delloStatosociale, Roma, Carocci (incorsodi pub­ blicazione), in particolareil capitolo3.

19 Cfr. Social Insurance and Allied Services, cit.

Anche questi furono segnali della definitiva conclusione di un’epoca che pesarono sugli esi­

ti del confronto in corso attorno alla riforma del­

lo Stato sociale.

Le emergenze interne e intemazionali e il ten­

tativo, andato fallito, di trovare attorno ai temi della protezione sociale un punto di convergen­

za tra le posizioni delle classi lavoratrici e dei ce­

ti piccolo-borghesi ebbero quindi l’effetto di in­

terrompere quella transizione dello Stato sociale liberale italiano a forme di assicurazione di tipo nazionale, quindi a connotazione più direttamen­

te universalistica, che venivano prefigurate nelle proposte delle Commissioni per il dopoguerra.

Al termine del biennio 1919-1920 il processo di modernizzazione delle giovani strutture dello Stato sociale italiano risultava incompiuto. Nei mesi che seguirono, e che precedettero l’avven­

to al potere di Mussolini, le residue energie di una classe politica sempre più impegnata nel fron­

teggiare la drammatica situazione interna furono destinate a discussioni ogni volta più sterili at­

torno alle grandi leggi di riforma, su tutte quella relativa all’assicurazione malattie, mentre prati­

camente si interruppe la presentazione di propo­

ste di legge in Parlamento.

Di fatto, a differenza di altre realtà europee, non giunse a compimento il passaggio da uno Stato sociale di impronta tipicamente liberale, quale quello sorto con i provvedimenti di fine Ottocento, a uno di tipo liberal-democratico18.

Esito del fallimento della “svolta universalisti­

ca” del primo dopoguerra fu dunque, anche se sui tempi lunghi, un nuovo tipo di Stato socia­

le: quello autoritario-totalitario fascista.

Il biennio 1968-1969: dallo Stato sociale al welfare State?

Il “secondo biennio rosso”coincise con una fa­

se caratterizzata dal progressivo abbandono del­

le cautele in campo riformatore che avevano ca­

ratterizzato la seconda parte della stagione po­

litica del centro-sinistra seguita alla crisi con­

giunturale del 1963 e incarnata dai governi gui­

dati da Aldo Moro.

A partire dall’immediato secondo dopoguer­

ra e fino ai primi anni sessanta si era assistito in tutta l’Europa occidentale a un vigoroso svilup­

po di politiche sociali dai contenuti fortemente avanzati. In alcuni casi, si era proceduto all’e­

dificazione e al consolidamento di un welfare State imperniato sui principi di sicurezza socia­

le elaborati in occasione delle politiche anticri­

si sperimentate negli Stati Uniti, ma anche nel­

la Svezia del dopo 1929, e poi rivisti sulla base delle proposte di William Beveridge sintetizza­

te nel suo rapporto sulla riforma del sistema di protezione sociale britannico pubblicato in pie­

no conflitto mondiale19.

Le riforme sociali in tutta Europa si costrui­

rono anche e soprattutto attraverso la stipula di una sorta di “patto sociale” tra quelle forze po­

(8)

416 Gianni Silei

litiche (in genere di ispirazione socialdemocra­

tica) portatrici di istanze di rinnovamento e di espansione del welfare, le organizzazioni di rap­

presentanza degli interessi datoriali e i sindaca­

ti operai.

In Italia, fallita l’ipotesi, ventilata dalla Com­

missione di riforma della previdenza sociale pre­

sieduta da Ludovico D’Aragona, di un passag­

gio immediato a un sistema di protezione sociale di impronta universalistica “alla Beveridge”, gli anni che avevano preceduto la creazione dei pri­

mi governi di centro-sinistra erano stati caratte­

rizzati da una lenta e spesso contraddittoria tra­

sformazione delle strutture portanti dello Stato sociale ereditato dal periodo fascista.

La formazione del governo Fanfani, di cen­

tro-sinistra, con il suo incisivo programma riformatore, aveva lasciato pensare a una svol­

ta anche in questo ambito. Dopo il brusco ridi­

mensionamento delle istanze riformatrici se­

guito alle elezioni e alla crisi del 1963, pur con lentezza e tra mille difficoltà, le forze che com­

ponevano la coalizione di governo avevano riavviato sin dalla metà degli anni sessanta un confronto proprio sulle parti inattuate del pro­

gramma, puntando a raggiungere un’intesa co­

mune sui principali aspetti delle politiche so­

ciali. Le condizioni parvero maturare proprio in concomitanza con gli avvenimenti che ca­

ratterizzarono la fine del decennio. Tuttavia, per una serie di motivi, le riforme che seguiro­

no ebbero un carattere diseguale, risultato di una sorta di alternarsi di chiusure su alcuni te­

mi (la previdenza) e di spinte verso il cambia­

mento su altri (diritti sindacali, lavoro, assi­

stenza sociale, sanità).

L’avvicinarsi della scadenza elettorale del 1968 determinò, in ossequio a una consuetudi­

ne ormai consolidata dello Stato sociale, una de­

cisa accelerazione della legislazione sociale. An­

cora una volta, tuttavia, i contenuti di questi provvedimenti furono di portata minore e spes­

so più “particolaristico-clientelari”, per usare la

ben nota espressione utilizzata da Paci e da al­

tri autori20, che sostanziali.

20 Cfr.Massimo Paci, Pubblico e privatoneimodernisistemi di welfare,Napoli,Liguori, 1989, pp. 75-78.

21 Ministero della Sanità, Mutualità alla svolta, Roma, 1967.

Uno dei nodi irrisolti riguardava la Sanità. In mancanza di un accordo tra le forze politiche sulle modalità con le quali realizzare il vigente sistema imperniato sulle mutue, i cui sprechi era­

no stati ribaditi nel 1967 in un Libro Bianco cu­

rato dal ministero della Sanità21, e dunque in at­

tesa dell'agognato Sistema sanitario nazionale, si trovò un’intesa sulla riforma ospedaliera. La

“Legge Mariotti” venne così approvata all’ini­

zio del febbraio 1968, con soddisfazione dei so­

cialisti, il via libera della Democrazia cristiana e persino di larghi settori di quel “fronte mu­

tualistico”, costituito in larga parte dagli ordini professionali dei medici, che a lungo si era op­

posto a un simile provvedimento. Trent’anni do­

po la “Legge Petregnani” suW Ordinamento ospedaliero generale, voluta dal fascismo per tentare di superare le arretratezze strutturali del sistema sanitario nazionale, e a dieci anni dalla contrastata creazione del ministero della Sanità, si tornava così a disciplinare un settore chiave in campo sociale e, soprattutto, si tornava a tra­

durre in pratica le disposizioni costituzionali.

Fu tuttavia attorno alla riforma delle pensio­

ni, voluta dal governo anche per evidenti fina­

lità elettoralistiche, che si palesarono le debo­

lezze e le contraddizioni della linea riformatri­

ce del centro-sinistra. Gli esiti sconcertanti del­

la riunione tra governo e organizzazioni sinda­

cali che si tenne a Palazzo Chigi il 26-27 feb­

braio, con la clamorosa retromarcia della Cgil a seguito delle pressioni della base, dopo che si era diffusa la notizia di un accordo tra sindaca­

ti ed esecutivo sul riassetto della previdenza so­

ciale, rappresentarono uno smacco per il centro­

sinistra, ma anche un segnale dell’evidente cri­

si di rappresentatività del sindacato di fronte al­

le istanze dal basso.

Intanto, sin dal mese di gennaio, era iniziato a Trento il fenomeno delle occupazioni delle se­

di universitarie. Gli scontri di Valle Giulia a Ro­

(9)

Lo Stato sociale in Italia 417

ma e di Milano tra il movimento studentesco e la polizia, che precedettero il voto contribuen­

do ad avvelenarne la vigilia, confermarono l’e­

sistenza anche in Italia di una “contestazione stu­

dentesca” che si ispirava a formule e modelli ideali comuni a quelli delle altre realtà occiden­

tali, a cui però si sommavano anche le istanze di modernizzazione del settore strategico dell’i­

struzione e dell’università. In questo ambito, do­

po la mancata approvazione di un disegno in te­

ma di riforma dell’ordinamento universitario, si era cercato di correre ai ripari presentando, con procedura d’urgenza, un nuovo progetto elabo­

rato da Codignola, La Malfa e Rosati. Ne era se­

guito un dibattito esteso anche al Partito comu­

nista che però stentava a tradursi in pratica. I tempi e le modalità di attuazione delle riforme stridevano ancora una volta con le aspettative dei movimenti che le promuovevano e che vi­

ceversa domandavano provvedimenti immedia­

ti e incisivi.

Un’altra questione che nel recente passato era stata difficile da risolvere era quella relativa al­

le materne statali. In questo ambito, le resisten­

ze della Democrazia cristiana, da sempre atten­

ta alla difesa dell’istruzione privata di carattere confessionale, erano state molto più forti. Que­

sta volta, le distanze fra cattolici e forze laiche all’interno del centro-sinistra furono finalmente appianate. Venne così approvata la legge 10 mar­

zo 1968, n. 444, istitutiva della scuola materna statale, provvedimento epocale sul piano dei prin­

cipi ma destinato a esiti tutt’altro che positivi22.

22Gli orientamenti perl’attività educativa e il regolamento di esecuzione che avrebberodovutocompletarla furono in­ fatti rimandati a causa della conclusione della legislatura. Alla ripresa delle attività parlamentari, la questione venne praticamente accantonata.Questi furono così approvati solonel settembre1969, mentreil regolamento di esecuzione di fatto non vide mailaluce.

23Lorenzo Gaeta,AntonioViscomi, L'Italia e lo Stato sociale, inGerhard A. Ritter, Storiadello Stato sociale, Roma- Bari, Laterza, 1996,p.272.

Nella stessa fase, si concluse con successo anche il processo di “negoziazione legislativa”

iniziato con l’accordo interconfederale del 1965 in tema di licenziamenti collettivi e venne va­

rata la legge n. 1115, che introduceva i cosid­

detti “ammortizzatori sociali” nell’ambito del­

le politiche sulla disoccupazione. Tra la metà di

marzo e la fine di aprile vennero quindi varate nuove disposizioni sul trattamento pensionisti- co dei lavoratori dipendenti (legge 18 marzo 1968, n. 238 e legge 27 aprile 1968, n. 488). Più che sull’entità degli adeguamenti concessi, il ve­

ro elemento di novità introdotto dalla nuova nor­

mativa in campo pensionistico riguardava la

“svolta retributiva” che questi stessi provvedi­

menti ponevano in essere. Elemento da non tra­

scurare, la legge aveva come figura di riferi­

mento quella di un lavoratore “con garanzia di continuità di rapporto e stabilità di impiego”23, che si sarebbe voluto tutelare attraverso lo Sta­

tuto dei lavoratori (altro caposaldo della politi­

ca sociale del centro-sinistra) ancora in elabo­

razione. Vi erano però dei nodi di fondo che non venivano sciolti del tutto. Non era, per esempio, abbastanza chiaro se queste nuove disposizioni abbracciassero definitivamente l’universali­

smo, come auspicato da alcuni, o se, invece, co­

me traspariva in più parti, permanesse il carat­

tere occupazionale del sistema previdenziale.

La nuova normativa scatenò la violenta oppo­

sizione del Partito comunista e della Cgil che la giudicavano penalizzante per i lavoratori di­

pendenti. Ne seguì un’ondata di scioperi che im­

pose un immediato confronto interno alle forze di governo, inducendole alla ricerca di interventi correttivi.

Come logica conseguenza, la campagna elet­

torale del 1968 risultò incentrata, forse come mai in passato, proprio attorno ai temi delle riforme sociali. Eppure, nonostante da più parti si soste­

nesse l’assoluta necessità di una profonda risi­

stemazione del sistema di protezione sociale, emergeva una netta distonia tra gli auspici e le prese di posizione di principio e gli atteggiamenti concreti delle varie forze politiche. Ciò era de­

terminato in larga misura dalla difficile indivi­

duazione di un terreno d’intesa comune, e suffi­

(10)

418 Gianni Silei

cientemente ampio, per la realizzazione di un si­

stema di protezione sociale di tipo welfarista. Su molti temi mancava insomma una visione co­

mune anche tra le forze politiche della maggio­

ranza di governo. A ciò si aggiungeva la man­

canza di collaborazione tra queste e una parte consistente del mondo sindacale, quella stessa collaborazione che in Gran Bretagna e nel Nord Europa aveva permesso l’avvio di politiche di concertazione e, soprattutto, la compartecipa­

zione all’edificazione e alla gestione della sicu­

rezza sociale. Il riavvicinamento in corso tra le varie sigle sindacali, pure in atto proprio in que­

sta fase, non era sufficiente, come testimoniava l’atteggiamento della Cgil (ma tutto sommato anche di Cisl e Uil) sulla riforma delle pensioni, a favorire una posizione comune su tali temi.

A queste difficoltà nei rapporti tra governo e organizzazioni di rappresentanza degli interes­

si si aggiungeva la diffidenza, se non l’aperta ostilità, che le stesse grandi organizzazioni sin­

dacali manifestavano — paradossalmente — proprio nei riguardi di una decisa svolta univer­

salistica del sistema previdenziale. Tutelare gli interessi di categorie di lavoratori in genere ben inseriti all’interno del sistema di protezione so­

ciale le induceva infatti a non stravolgere com­

pletamente gli equilibri dello Stato sociale ma a preferire, soprattutto in campo previdenziale, una via alle riforme caratterizzata da progressi­

vi aggiustamenti. D’altro canto, il fatto che i sin­

dacati riuscissero finalmente a diventare, come avvenne effettivamente a partire dal 1969, la componente maggioritaria all’interno dei Con­

sigli di amministrazione dei principali enti pre­

videnziali non poteva non indurli almeno a una certa cautela nel sostenere un ridimensiona­

mento o comunque una radicale riforma di que­

sti stessi enti.

In tale contesto si inserì la particolare situa­

zione sociale ed economica della fine degli an­

ni sessanta e il progressivo diffondersi, in Italia come nel resto dell’occidente (dagli Stati Uni­

ti alla Francia e al resto d’Europa), di un movi­

mento contestatario che interessava le forze po­

litiche tradizionali (comprese quelle della sini­

stra) e favoriva l’emergere dal basso di nuove istanze sociali e politiche. Nello specifico, que­

sta situazione, unita a alle aspettative di cam­

biamento andate fino a quel momento deluse, ebbe l’effetto di avocare al centro-sinistra, ma anche alle forze che ad esso si opponevano, buo­

na parte dei consensi delle giovani generazioni così come dei settori di quella “nuova classe ope­

raia” che si affacciava in molti casi per la prima volta al sistema di produzione di fabbrica e che non aveva ancora trovato adeguata tutela all’in­

terno dello Stato sociale.

Nonostante le pressioni e il clima interno, i temi delle riforme sociali furono ripresi sol­

tanto a partire dal gennaio 1969, con il gover­

no Rumor. Mentre in Consiglio dei ministri si riavviò la discussione attorno alle riforme-car­

dine delle pensioni, dell’attuazione dell’ordi­

namento regionale (presupposto imprescindi­

bile per la creazione di un Sistema sanitario na­

zionale) e dello Statuto dei lavoratori, in feb­

braio venne approntato un decreto legge di riforma degli esami di maturità. Concepito co­

me un provvedimento transitorio da inserire in un più ampio progetto di riassetto complessi­

vo dell’insegnamento, il nuovo esame di ma­

turità — com’è noto — rimase invece in vigo­

re per decenni, diventando una sorta di simbo­

lo della debolezza e delle contraddizioni della stagione del centro-sinistra. Quanto all’uni­

versità, il 21 aprile ci si limitò a varare nuove norme per l’attribuzione degli assegni di stu­

dio, che certo non potevano considerarsi anti­

cipatone di quei vasti provvedimenti riforma­

tori che venivano richiesti a gran voce nelle ma­

nifestazioni di piazza.

Le forze di governo, sebbene i rapporti tra di esse suggerissero il contrario, espressero a più riprese la convinzione che almeno alcune delle questioni irrisolte sarebbero presto giun­

te a positiva conclusione. Più che sulla base di accordi tra le forze politiche, ciò fu possibile grazie all’iniziativa personale di singoli espo­

nenti del governo, come il ministro del Lavo­

ro Giacomo Brodolini, che impegnò tutte le sue energie nel difficile tentativo di attuare final­

(11)

Lo Stato sociale in Italia 419

mente una svolta in senso welfarista dello Sta­

to sociale italiano. Pertanto, si riuscì ad otte­

nere il via libera dei sindacati ad una riforma delle pensioni.

La riforma che Brodolini aveva in mente era imperniata su un triplice schema di protezione composto da una pensione sociale di base, de­

stinata ai cittadini indigenti e finanziata dal pre­

lievo fiscale; da una pensione “di base”, ispira­

ta ai principi della sicurezza sociale, in parte con­

tributiva e in parte finanziata dallo Stato me­

diante le imposte, e da un “terzo pilastro”, co­

stituito da una pensione integrativa a importo variabile a seconda dell’anzianità contributiva e del livello di retribuzione raggiunto24. Il 30 apri­

le 1969, introdotti alcuni miglioramenti all’ac­

cordo dell’anno prima, veniva così approvata la legge n. 153. Oltre a un generale ritocco verso l’alto del livello delle pensioni, in ragione del­

l’aumento intervenuto nel costo della vita, la nuova legge cercava di compiere un ulteriore passo verso la trasformazione del sistema pre­

videnziale italiano in senso universalistico. In­

fatti, la normativa concedeva a tutti gli ultra- sessantacinquenni privi di reddito una “pensio­

ne sociale” non contributiva. Al di là degli au­

spici dei promotori, la riforma previdenziale del 1969, proprio per la sua lunga e travagliata ge­

stazione, costituì una soluzione compromisso­

ria tra la via universalistica, sostenuta dal Psi, e quella continuistica, prerogativa di ampi settori della De. Sul piano dei criteri di finanziamento, a completamento di quel lungo processo di tra­

sformazione intrapreso già nel corso degli anni cinquanta, il regime a ripartizione soppiantava definitivamente quello a capitalizzazione.

24Cfr. Elio Capodaglio, Trent’anni dopo: memoria eattualità di Giacomo Brodolini,in L’evoluzione del sistema di protezione sociale in Italia, Roma, EdizioniLavoro, 2000,p. 7.

25Fillea-Cgil, Filca-Cisl, Feneal-Uil, Documento unitarioperunanuova politica edilizia in Italia, Roma,sd. (ma esta­

te1969), cit. inAndrea Villani,Lapolitica dell’abitazione. Analisidelle alternative diinterventopubblico: il casoita­ liano, Milano, Franco Angeli, 1970, p. 286.

Un passo avanti in direzione dell’universali­

smo, dunque, ma non una svolta definitiva. Ben evidente infatti era ancora la difficoltà di trova­

re una linea di condotta univoca tra le varie com­

ponenti del centro-sinistra. Ciò fu ulteriormen­

te confermato dalle tiepide reazioni seguite alla presentazione, nell’aprile 1969, del cosiddetto Progetto ’80, con il quale si cercava di rilancia­

re la politica di programmazione economica. La notizia dell’ennesima frattura interna al centro­

sinistra, determinata dalla traumatica conclu­

sione della breve unificazione tra Psi e Psdi, fu il preludio a una nuova interruzione del dialogo attorno alle riforme. Risultò così vanificato il tentativo di Brodolini, in quello che sarebbe sta­

to il suo ultimo atto politico prima della prema­

tura scomparsa, di provocare una decisa accele­

razione verso il tanto vegheggiato Sistema sa­

nitario nazionale attraverso la presentazione, il 2 luglio 1969, di un progetto di riforma del si­

stema mutualistico. Punto d’avvio del tentativo di Brodolini era stata la constatazione, emersa in tutta la sua portata proprio in questa fase, del­

la crisi finanziaria degli enti mutualistici, in par­

ticolare dell’Enpas.

Tutto questo mentre le pressioni sui temi so­

ciali più sentiti da parte delle organizzazioni di rappresentanza sindacale proseguivano. Di fronte al riaffacciarsi, in molte realtà urbane so­

prattutto del triangolo industriale e in genere dei centri più popolosi, di un nuovo, consistente flusso migratorio, che mise nuovamente a nu­

do le carenze di alloggi e infrastrutture, Cgil, Cisl e Uil elaborarono un documento congiun­

to che auspicava una più incisiva politica edi­

lizia nell’ambito di un più vasto progetto di riforme25. Una parziale risposta del governo a queste sollecitazioni giunse il 12 settembre 1969 con l’adozione di misure che stabilivano una sorta di “blocco differenziato dei fitti”, va­

riabile cioè a seconda di una serie di parametri quali l’ampiezza delle città, la tipologia delle abitazioni, il reddito degli affittuari ecc. Sulla scia di questo confronto si cominciarono a di­

scutere provvedimenti aggiuntivi di controllo degli affitti. Si trattava della questione

(12)

420 Gianni Silei

dell’“equo canone”, che avrebbe lungamente impegnato forze politiche e sindacati.

La liberalizzazione degli accessi alle univer­

sità, stabilita per legge 1’ 11 dicembre 1969, av­

venne quindi in una nuova fase di stasi del cen­

tro-sinistra. Alle difficoltà di carattere politico, si erano poi aggiunti ulteriori elementi di insta­

bilità: l’emergere, attorno alla questione del rin­

novo del contratto dei metalmeccanici, del co­

siddetto “autunno caldo”, ma anche i primi se­

gnali, con la bomba di piazza Fontana a Mila­

no, della strategia della tensione e del fenome­

no dello stragismo.

Nonostante il carattere apparentemente di­

sorganico delle riforme, alla fine degli anni ses­

santa il sistema di protezione sociale italiano si era comunque significativamente trasformato.

Ciò emerge anche da un semplice raffronto tra le varie voci di spesa di carattere sociale. Esclu­

dendo le spese sanitarie, tra il 1960 e il 1970 si era assistito a un consistente ridimensionamen­

to degli assegni familiari e a una flessione del­

le erogazioni per la disoccupazione. Erano vi­

ceversa cresciute le percentuali di spesa per gli infortuni sul lavoro e per gli schemi malattia- maternità. Il 50 per cento dell’intera spesa so­

ciale, comunque, era destinato alle pensioni di anzianità. Il netto incremento percentuale, uni­

to alla tendenza manifestata a una ulteriore pro­

gressiva estensione dei beneficiari, determinata

dall ’ adozione di politiche ispirate ai principi del­

la sicurezza sociale, facevano dunque già intra­

vedere il successivo, eccessivo sbilanciamento del sistema di welfare italiano sulle pensioni di anzianità.

Sul piano strettamente politico, la creazione, nel- l’aprile 1970, di un nuovo governo di centro-si­

nistra guidato da Mariano Rumor non mise in luce alcuna novità di rilievo. Il logoramento del­

la formula di centro-sinistra era palese: lo di­

mostravano i dissidi tra la De e i partiti laici at­

torno alla questione del divorzio o le sempre più frequenti collaborazioni, in molte realtà locali, tra socialisti e comunisti. Sul piano delle politi­

che sociali, viceversa, i primi anni settanta fu­

rono contraddistinti da una ripresa delle rifor­

me, destinata ad avere indubbie ripercussioni nell’immediato futuro.

Furono dunque gli eventi del biennio 1968- 1969 a determinare questa inaspettata accelera­

zione delle politiche sociali? A rendere i primi anni settanta una stagione di nuove riforme so­

ciali, nonostante l’evidente esaurimento della formula di governo del centro-sinistra, contri­

buirono diversi elementi. Certamente rilevante fu il differente atteggiamento manifestato dal Partito comunista italiano. La fine degli anni ses­

santa aveva rappresentato anche per il Pei uno spartiacque importante. Gli effetti delle lotte del

Ripartizione delle spese sociali nel 1960 e nel 1970 (percentuale)

1960 1970

Malattia e maternità 24,3 31,3

Infortuni sul lavoro e malattie professionali 4,2 5,2

Vecchiaia 41,5 50,1

Disoccupazione 3,8 L7

Assegni familiari 26,2 11,7

Fonte:Ilo,TheCost of SocialSecurity 1978-1980, Geneva, 1985, in Gianni Silei, Lostato sociale in Italia.

Storiae documenti, voi. Il, Dalla caduta del fascismo ad oggi (1943-2004), Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2004.

(13)

Lo Stato sociale in Italia 421

1968-1969 e i segnali di scollamento tra la ba­

se, alcuni ambienti del mondo della fabbrica e del movimento studentesco avevano lasciato il segno. La maturazione, anche per effetto di av­

venimenti intemazionali come la Primavera di Praga, di un atteggiamento critico nei riguardi della “dottrina Breznev” e più in generale del modello sovietico, si aggiunse alla constatazio­

ne che, sul piano interno, era possibile recupe­

rare spazi di manovra sia a livello nazionale, sia, con la progressiva entrata in vigore del regio­

nalismo, in ambito locale. Il risultato fu un len­

to percorso di ridefinizione di programmi e li­

nea politica, destinato a culminare, nel 1973, nel famoso articolo di Berlinguer su “Rinascita” con il quale di lanciava la prospettiva del compro­

messo storico con la De.

Altrettanto evidente fu, dopo lo sbandamento seguito alle pressioni dal basso del biennio 1968- 1969, il molo svolto dal movimento sindacale che si avviava a superare decenni di divisioni. Pro­

prio la debolezza dei partiti fornì a Cgil, Cisl e Uil, che viceversa ricomponevano le proprie spac­

cature, un inaspettato ruolo politico. Più forti an­

che sul piano rivendicativo, per effetto del con­

temporaneo indebolimento di Confindustria, i sindacati poterono così meglio convogliare le pro­

prie istanze e ottenere anche sul piano delle po­

litiche sociali maggiori risultati.

Punto di approdo di questa stagione sul pia­

no delle politiche sociali fu il cosiddetto “patto previdenziale”, di cui furono i principali artefi­

ci i sindacati Cgil, Cisl e Uil. Avviato con le leg­

gi di riforma del 1968 e soprattutto del 1969 e ulteriormente definito con le disposizioni sus­

seguitesi fino alla metà degli anni settanta, il pat­

to realizzò innanzitutto un’accelerazione nel processo di trasformazione della filosofia di fon­

do e dei criteri di gestione del sistema previ­

denziale. Sul piano tecnico, si proseguì nell’e­

stensione della copertura a quelle categorie pre­

cedentemente non tutelate e si modificarono, in

senso migliorativo, i metodi di calcolo dei mec­

canismi di indicizzazione e dei requisiti neces­

sari per l’ottenimento della pensione. Infine, il rapporto tra contributi versati e prestazioni for­

nite fu rivisto con criteri estremamente favore­

voli per le categorie tutelate. Il risultato fu una estensione dei beneficiari dei meccanismi di tu­

tela del welfare e un progressivo incremento del livello delle prestazioni che nell’immediato ade­

guò il livello delle pensioni ma che, in futuro, non sottoposto ad adeguamenti, avrebbe pesan­

temente influito sugli equilibri del sistema stes­

so di protezione sociale.

I bienni a confronto: alcune considerazioni

Il risultato più tangibile delle pressioni eserci­

tate sulla classe dirigente in occasione di quelli che, anche se impropriamente, possiamo defi­

nire i due “bienni rossi” fu certamente un rifor­

mismo sociale più accentuato rispetto alle fasi che li precedettero. In entrambi i casi, un peso rilevante ebbe l’affermazione di un approccio tendenzialmente favorevole a un ampliamento delle sfere d’intervento dello Stato in campo so­

ciale.

Nel caso del biennio 1919-1920 furono gli eventi bellici ad avere un evidente effetto mol­

tiplicatore in questo senso. Analogamente a quanto si sarebbe verificato nel secondo con­

flitto mondiale, la grande guerra impose, in Ita­

lia come altrove, l’adozione di misure nuove e incisive26. Inizialmente volte a massimizzare lo sforzo bellico, a “guidare” la società in un così grave frangente sul fronte interno così come sui campi di battaglia, queste politiche proseguiro­

no anche nell’immediato dopoguerra, con il pre­

ciso obiettivo di gestire l’altrettanto delicata transizione verso un’economia di pace.

26 Cfr. Ronald S.Schaffer, America in thè Great War: thèRise oftheWelfare State, New York, Oxford UniversityPress, 1991 e Jytte Klausen, War andWelfare.Europeandthè United States, 1945 tothèPresent, London-Basingstoke, Mac­ millan, 1998.

Nel biennio 1968-1969 si rivelò decisiva la conversione di settori maggioritari della classe

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