MARCO FARINA
BREVI OSSERVAZIONI “ A CALDO” SULL’ATTESO (MA TUTTO SOMMATO, SOLO PARZIALE)
RESPONSO DELLE SEZIONI UNITE SUI LIMITI DELLE RILEVABILITÀ UFFICIOSA DELLA NULLITÀ DEL CONTRATTO (CASS.CIV.,SEZ.UN.,4 SETTEMBRE 2012, N.14828,EST.
D’ASCOLA)
1. E’ opportuno dar qui brevemente conto del recentissimo arresto delle Sezioni Unite chiamate a comporre il contrasto insorto in seno alle sezioni semplici con riferimento alla esatta individuazione dei limiti posti al potere di rilevazione officiosa della nullità del contratto di cui all’art. 1421 c.c..
Come noto, con ordinanza interlocutoria n. 25151 del 18 novembre 2011 (divenuta oggetto di un fecondo ed assai stimolante dialogo “preventivo” in occasione di una recente giornata di studi romana), la sez. I aveva ritenuto opportuno investire le SS.UU. della questione relativa al “se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di esatta adempimento, ma anche allorché sia stata domandata la risoluzione, l’annullamento o la rescissione [….] del contratto stesso”.
I termini del contrasto e del correlativo dibattito dottrinale al fondo di detta questione sono ben noti e non mette conto di darne analitica e ragionata illustrazione nell’ambito di queste brevissime osservazioni “a caldo” caratterizzate, più che altro, da finalità di “pubblicità- notizia”.
Ciò che rileva, al contrario, evidenziare è, per un verso, la certa ed assoluta condivisibilità del responso alfine pervenuto dal supremo consesso della S.C. con riferimento ai rapporti tra potere di rilevazione ufficiosa della nullità del contratto di cui all’art. 1421 c.c. ed azioni di risoluzione (quantomeno per inadempimento) del contratto stesso (ricostruiti in termini di reciproca esclusione stando all’orientamento “tradizionale” ed oggi, invece, correttamente inquadrati dalle Sezioni Unite nei termini di una sicura e perfetta
“compatibilità”, ossia l’essere il primo validamente esercitabile anche allorché la domanda
proposta sia di risoluzione del contratto); per altro verso, invece, la inappagante limitazione impressa alla soluzione della questione oggetto dell’ordinanza di rimessione.
A tale ultimo proposito, in effetti, la recente sentenza delle Sezioni Unite dichiaratamente rinvia ad altra occasione la verifica in ordine alla possibilità di operare o meno una equiparazione tra le varie azioni di impugnativa negoziale (risoluzione, annullamento e rescissione) ai fini di un loro eguale “trattamento” allorché, nell’ambito di ciascuna di esse, si ponga, appunto, la questione afferente ad eventuali limitazioni poste al potere di rilevazione ufficiosa della nullità del contratto.
Nel contesto di un dibattito giurisprudenziale seccamente orientato a polarizzare i termini del contrasto in una duplice e netta alternativa – ammettere il rilievo ufficioso della nullità solo nei casi in cui sia domandato l’adempimento, ovvero ammetterlo anche nei casi in cui sia chiesta la risoluzione, l’ annullamento o la rescissione – la pronuncia in esame (ad onta di una ampiezza del “quesito” posto dall’ordinanza di rimessione giustificata, come visto, dal tenore dei due orientamenti contrastanti) si limita a “preannunciare” la necessità di operare qualche dovuta ed opportuna distinzione tra le azioni volte a “demolire” il vincolo contrattuale sino ad ora, invece, tra di loro accomunate (per vero, talvolta in modo acriticamente generalizzante) con riferimento alla possibilità per il giudice di procedere durante il loro corso al rilievo della nullità.
Ma una volta che si sia sostanzialmente mostrato di dubitare della correttezza di una estensione anche all’azione di annullamento della medesima soluzione fornita in relazione all’azione di risoluzione, ci si sarebbe potuti anche aspettare che detto dubbio venisse, alfine, chiaramente sciolto e che, quindi, quelle meramente preannunciate distinzioni a cui nella motivazione della pronuncia si accenna venissero, allora, a costituire oggetto di un più ampio e disteso dictum finalmente e definitivamente risolutivo della (ampia) questione oggetto del contrasto da comporre.
Al fondo del “timido” approccio così mostrato dalle Sezioni Unite nella recente pronuncia qui segnalata sembrerebbe, allora, potersi intravedere il timore di un non consentito (o meglio, non rilevante) ampliamento del decisum rispetto a quanto doveva essere fatto
oggetto di risposta ai motivi di ricorso infine esaminati ed accolti; quasi che, insomma, ragionate e distese distinctiones in punto di rilevabilità ufficiosa della nullità nei (diversi) casi di risoluzione e annullamento del contratto potessero essere apprezzati alla stregua di sommessi obiter dicta e, per questo, fatalmente inidonei ad orientare in modo definitivo i giudici di merito (e financo lo stesso giudice di legittimità) allorché la questione venisse poi a concretamente porsi innanzi a loro.
Ma al di là di qualsiasi considerazione relativa al valore comunque da riconoscere ad una
“ragionata” presa di posizione pur non perfettamente e concretamente coerente con “i fatti di causa” – soprattutto allorchè essa provenga dalle sezioni unite – ciò che mette conto di rilevare è che, a ben vedere, neppure la peculiare fattispecie oggetto dei pregressi gradi di merito parrebbe trovare piena corrispondenza con il principio infine enunciato dalle sezioni unite.
Ed infatti, seppure le parti dedicate allo “svolgimento del processo” nella ordinanza di rimessione e nella sentenza delle sezioni unite contengano non lievi asimmetrie, nel giudizio di merito non sembra che fosse stata proposta alcuna domanda di risoluzione (per inadempimento o per una delle altre cause previste dal codice civile) del contratto quanto, diversamente, il (mero) diritto della parte in bonis ad ottenere, all’esito di un ordinario giudizio di cognizione e “sul presupposto dell’avvenuto scioglimento del contratto” ai sensi dell’art. 72, comma 4, L.F. (nella formulazione olim vigente), la restituzione del bene consegnato in esecuzione di quel medesimo preliminare di permuta.
Pretesa restitutoria, invero, apparentemente rigettata nei pregressi gradi di giudizio non tanto per ragioni di merito, quanto diversamente in virtù della negata possibilità di ottenerne soddisfazione al di fuori del concorso ed al di là delle speciali e tipiche forme a ciò apprestate (insinuazione al passivo).
Senza qui potersi addentrare funditus su eventuali differenze in ordine al trattamento (concorsuale o meno) da riservare a siffatta pretesa restitutoria allorché essa sia determinata (sempre, peraltro, avendo sullo sfondo l’istituto della ripetizione dell’indebito oggettivo, venendo in entrambi i casi meno la “causa adquirendi”) dallo scioglimento del contratto ex
art. 72 L.F. ovvero dalla sua nullità (pur incidentalmente ed ufficiosamente rilevata; v.
infatti quanto rilevato dalla stessa pronuncia delle sezioni unite nella sua parte finale), la particolarità della complessiva vicenda posta all’attenzione dei supremi giudici sta in ciò:
che, ad onta del giusto rilievo per cui nei casi di (vera e propria) azione di risoluzione (per inadempimento) il rilievo d’ufficio della nullità possiede sempre quella funzione oppositiva volta a far rigettare la domanda (di risoluzione), nel caso concreto la nullità del contratto tale funzione (meramente) difensiva ed oppositiva verrebbe fatalmente a perdere perché, invece, funzionale ad un accoglimento (o, comunque, ad un più favorevole trattamento) della domanda di restituzione originariamente proposta (come ben testimoniato dal fatto che detta nullità è stata “fatta valere” dallo stesso attore in appello, ciò dimostrando, pena in caso contrario la evidente mancanza di un interesse alla impugnazione, il vantaggio e/o l’utilità che da essa lo stesso aspirava a ritrarre).
2. Per vero, la distonia che ci pare di poter scorgere con riferimento alla applicazione del principio espresso dalle sezioni unite al caso concreto (distonia che, si badi, è colta facendo riferimento ai pochi e, come detto, anche contraddittori elementi “di fatto” che risultano dal testo dell’ordinanza di rimessione e della sentenza delle sezioni unite) parrebbe coerente con ulteriore passaggio della decisione in rassegna e su cui, invece, vi dovrà essere modo (in altra sede) di riflettere un po’ più a fondo.
Si vuol qui far riferimento al passo della motivazione in cui (nel contesto di una pur condivisibile ricostruzione delle novità schiuse dalla attuale formulazione degli artt. 101, secondo comma, e 153 c.p.c.) si da conto della possibilità per l’attore che abbia agito per ottenere la risoluzione del contratto di “convertire” tale sua domanda in (e/o “cumularla”
con) una vera e propria “azione di nullità”.
Il tema relativo alle attività consequenziali al rilievo officioso della nullità del contratto posto a fondamento dell’azione (di adempimento, ovvero di risoluzione; oggi, finalmente, questa distinzione non ha più rilievo e di ciò va dato meritoriamente atto alla pronuncia) originariamente proposta dall’attore è noto, così come sono altrettanto note le problematiche delimitazioni dell’ambito oggettivo del giudicato allorché in detti giudizi la questione (indubbiamente pregiudiziale) attinente la nullità del contratto stesso venga a
costituire il “motivo portante” del rigetto della domanda (di adempimento, come di risoluzione).
Le sezioni unite si soffermano (invero fugacemente) su tali “ponderosi” snodi sistematici nei paragrafi 4.1 e 4.2. della motivazione, e lo fanno, però, con incedere argomentativo che lascia spazio a talune non lievi incertezze.
Ed invero, se è ben chiaro che in caso di rigetto della domanda di risoluzione in ragione della ufficiosamente e (solo) incidentalmente rilevata nullità del contratto – che, come tale, non permette di poter dare giuridica rilevanza alla mancata conformazione di uno dei contraenti ad programma negoziale a cui, invero, fa difetto ogni vincolatività e vigenza proprio in ragione del radicale vizio genetico che colpisce l’accordo – non potrà formarsi al riguardo alcun giudicato “a tutti gli effetti”, oscuri e comunque meno facilmente comprensibili e condivisibili si appalesano, al contrario, i rilievi svolti dalle sezioni unite con riferimento, da un canto, (i) alla richiamata possibilità per lo stesso attore di
“proporre”, a seguito della indicazione fornita dal giudice in ordine alla “rilevabilità” della relativa “questione” (che parrebbe, però, cosa diversa dal vero e proprio rilievo della nullità del contratto che si darà, invero, allorchè essa sia concretamente posta a fondamento della decisione), una vera e propria “azione di nullità” (in essa convertendo la sua originaria domanda di risoluzione, ovvero con essa stessa cumulandola; ma in tale ultimo caso, allora, sorge il dubbio di come poter qualificare siffatto “cumulo” perché, invero, di condizionamento per subordinazione parrebbe arduo discorrere atteso il carattere pregiudiziale della questione); e dall’altro (ii) alla eventuale remissione in termini dell’appellante per il caso “in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità” ed al tema del giudicato implicito sulla “validità” del contratto “tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito”.
3. Seppure, come già detto, il tema necessiterà di un più approfondito esame e di una certamente più distesa illustrazione, a noi sembra che ammettendo l’attore che abbia agito per la risoluzione a proporre una vera e propria azione di nullità (addirittura ipotizzando di confinare “ad ipotesi residuali la insistenza esclusivamente sulla iniziale domanda di risoluzione”) si incorra in un equivoco.
E’ vero che, a fronte della prospettazione da parte del giudice della rilevabilità della questione attinente alla nullità del contratto, l’attore che abbia agito per l’adempimento del contratto stesso o per la sua risoluzione potrà avere certamente interesse a trasformare detta questione (pregiudiziale) nell’oggetto di una statuizione avente efficacia di giudicato, e ciò per scongiurare quei “pratici” inconvenienti, già da tempo indagati e segnalati da autorevole dottrina, che potrebbero conseguire ad un rigetto della domanda di adempimento e/o di risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive venuto a fondarsi sul rilievo meramente incidentale, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., della sua nullità [C. Consolo, Nullità del contratto, suo rilievo totale parziale e poteri del giudice, in La disponibilità della tutela giurisdizionale (cinquant’anni dopo), supplemento al fascicolo 1/2011 della Riv. Trim. Dir. Proc., 7 e ss.]; non ci sembra, tuttavia, che sia corretto discorrere di vera e propria “azione di nullità” proponibile dall’attore quale conseguenza del rilievo officioso.
Ben differenti, in effetti, erano le indicazioni che provenivano da quella medesima dottrina a cui si è fatto sopra cenno con riferimento alla possibilità per l’attore di proporre una domanda di accertamento incidentale negativo ex art. 34 c.p.c. sulla questione pregiudiziale afferente la nullità del contratto rilevata d’ufficio dal giudice (o, il che è lo stesso, eccepita dal convenuto).
Solo ragionando in questi termini, in effetti, il potere-dovere di cui all’art. 1421 c.c.
continua a mantenere la sua propria funzione oppositiva anche nei giudizi aventi ad oggetto la risoluzione del contratto; non vi è dubbio, in effetti, che se la (dovuta) segnalazione alle parti della rilevabilità della questione attinente alla nullità del contratto dovesse permettere all’attore che ne abbia chiesto la risoluzione di poter, ora, (anche solo esclusivamente) aspirare all’accoglimento di una vera e propria azione volta a far positivamente accertare e dichiarare la nullità, allora le cautele che da sempre circondano il potere di cui all’art. 1421 c.c., qualora posto in relazione al principio della domanda ed alla terzietà del giudice, verrebbero, crediamo, fatalmente ad incrinarsi.
4. Con riferimento, da ultimo, a quanto statuito dalle sezioni unite per il caso in cui sia omesso in primo grado il rilievo officioso della nullità e tale omissione venga fatta valere in sede di appello, crediamo che ci sia bisogno di una puntualizzazione.
E’ evidente, infatti, che se il riferimento alla omissione del rilievo officioso della nullità voleva essere rivolto al diverso profilo della mancata attivazione del contraddittorio ex art.
101, secondo comma, c.c. sulla questione pregiudiziale (di nullità del contratto) poi, invece, effettivamente posta a fondamento della decisione di rigetto della domanda di risoluzione, allora nulla quaestio; qui in effetti dovrà essere concesso all’attore che si è visto rigettare la sua domanda di gravare la sentenza proponendo nel contempo, come avrebbe potuto fare (anche valorizzando il novellato disposto di cui all’art. 153 c.p.c.) in primo grado qualora il giudice avesse fatto corretta applicazione del secondo comma dell’art. 101 c.p.c., domanda di accertamento incidentale negativo della nullità ufficiosamente rilevata ma non debitamente “segnalata”.
Qualora, al contrario, ci si sia voluti riferire al caso (ovviamente ben diverso) in cui sia del tutto mancato qualsiasi rilievo della questione (che questo sia ciò a cui volevano riferirsi le sezioni unite parrebbe, invero, trarre conferma sia dalla formulazione letterale del passo sopra riportato – certo non perspicua – sia, come visto, da quanto era venuto accadendo nei pregressi gradi di merito ove, infatti, l’attore aveva impugnato la sentenza censurandola proprio in ragione del fatto che il giudice di primo grado aveva mancato di rilevare ufficiosamente la nullità così asseritamente negandogli un più favorevole trattamento da riservare alla domanda restitutoria; v. supra), non crediamo servano molte parole per evidenziare la non perfetta tenuta del ragionamento.
5. Neppure particolarmente perspicua, ed anzi molto probabilmente “incoerente” con il restante impianto motivazionale della sentenza, è quanto poi da ultimo affermato dalle sezioni unite con riferimento al possibile formarsi di un giudicato “implicito” sulla non nullità del contratto (vale a dire sulla sua validità “a tutti gli effetti”) qualora la domanda di risoluzione sia stata decisa nel merito.
Ed invero, non pare pienamente condivisibile e coerente ritenere, ad un tempo, che in caso di rilevazione e trattazione della questione pregiudiziale di nullità del contratto su di essa non si formi mai un giudicato “a tutti gli effetti” se non quando sia stata all’uopo proposta espressa domanda di parte (di accertamento incidentale ex art. 34 c.p.c.) e, allo stesso tempo, ritenere che, ad es., in caso di rigetto della domanda di risoluzione cagionata dall’accertamento in ordine alla insussistenza dell’inadempimento o della sua gravità ciò precluda irrimediabilmente successive azioni volte a far dichiarare la nullità di quel medesimo contratto.
Immaginando, per esemplificare, il caso di un contratto di durata, infatti, non sembrerebbe potersi escludere che proposta nuova domanda di risoluzione fondata, ovviamente, su altro e diverso fatto di inadempimento la stessa domanda possa essere rigettata in ragione della nullità del contratto; per arrivare a tale conclusione, infatti, si dovrebbe allora credere o (i) che la questione della (non) nullità del contratto costituisca sempre e comunque – vale a dire in ogni caso in cui sia proposta domanda fondata sul contratto stesso – una questione pregiudiziale in senso meramente logico come tale sottratta al meccanismo di cui all’art. 34 c.p.c., ovvero (ii) che detta medesima questione pregiudiziale rientri tra quelle da decidersi con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. per volontà di legge.
Ma poiché entrambe le ricostruzioni sono ripudiate allorché si sostiene, giustamente, la necessità di espressa domanda di parte (di accertamento con efficacia di giudicato ex art.
34 c.p.c. della questione pregiudiziale ufficiosamente rilevata) affinché, appunto, possa dirsi formato un giudicato valido “a tutti gli effetti”, non si comprende allora come poter, poi, sostenere la possibilità di un giudicato implicito su di una questione fatalmente ricondotta, come visto, ad un ben individuato modo di operare dell’art. 34 c.p.c. (vale a dire quello richiede la domanda di parte per un accertamento con efficacia di giudicato e non meramente incidentale della questione pregiudiziale).
Non sfuggirà, peraltro, che i precedenti riportati a sostegno della conclusioni qui velocemente segnalata si riferiscono a questione pregiudiziali di rito (giurisdizione e proponibilità della domanda) e non, invece, a questioni pregiudiziali di merito a cui è destinato ad applicarsi, come visto, il meccanismo di cui all’art. 34 c.p.c.